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«La filosofia del suca funziona anche con Fiore»

Lavorando da molti anni con il più talentuoso showman in circolazione che risponde al nome di Rosario Fiorello, per la proprietà transitiva Francesco Bozzi è il più importante autore di spettacolo di casa nostra. Palermitano che ha sposato una donna svizzera, e già questo ne fa intuire il tasso d’irregolarità, 57enne, un passato come dirigente di una fabbrica di vetro, ha appena pubblicato La filosofia del suca (Solferino). In questi giorni bivacca con il gruppo di Fiore in via Asiago per realizzare con ascolti da capogiro il dopofestival, spin off di Viva Raidue! intitolato Viva Sanremo.

Settimana di fuoco…

«Peggio di un’eruzione dell’Etna. Ci manca il sonno, non riposare uccide. Iniziamo al mattino e finiamo alle tre di notte».

Vi aiutate con la noce moscata, gli integratori come Cospito o altri additivi?

«Siamo persone semplici, un bicchiere di vino e un pezzo di formaggio ci bastano per tirare avanti. Questa è la nostra noce moscata. Stiamo tutto il giorno chiusi in via Asiago».

Di Fiorello si sa che non dorme, lei?

«Io sarei uno che dorme, ma per lavorare con lui devo seguire i suoi ritmi di veglia e sonno».

Cosa vuol dire?

«Sveglia alle 4,45».

Questo durante la programmazione di Viva Raidue.

«Esatto».

Facendo l’alba per Viva Sanremo recuperate al pomeriggio?

«No, perché scriviamo per la puntata del giorno dopo. Stacchiamo un momento all’ora di pranzo e io ne approfitto per giocare a tennis o, se piove, per un pasto più tranquillo».

Come lavorate?

«Questa settimana la mattina stiamo a casa per selezionare le notizie e farci venire qualche idea. Al pomeriggio ci troviamo in Rai e andiamo avanti fino alle tre di notte con Pierluigi Montebelli e Federico Taddia che, però in questi giorni è a Sanremo con Gianni Morandi. Poi ci sono quelli che fanno i video, l’ex Iena ora a Rds, Mauro Casciari, e i Cinci, come abbiamo soprannominato Enrico Nocera e Edoardo Scognamiglio, esperti di educazione cinica. Si parla, si cercano le battute per imbastire il programma serale con il deus ex-machina Fiorello. A Sanremo invece hanno l’Amadeus ex-machina».

Stavolta un po’ troppo ex-machina?

«Non conosco le dinamiche, ma i risultati gli danno ragione. Stanno facendo ascolti da finale dei Mondiali».

Per avere Mattarella ha esautorato altri organismi di comando della Rai?

«Per raggiungere un obiettivo può capitare. Secondo noi è stato uno scherzo di Mattarella che ha fatto il burlone per sorprendere tutti. Se poi il Quirinale ti chiede di tenere tutto segreto devi obbedire».

Solidarietà sicula?

«Con Mattarella dice? Ci può stare».

Da quanti anni lavora con Fiorello?

«Ventitré».

Un episodio bello e uno brutto di questa collaborazione.

«Quelli belli sono tantissimi. Il momento migliore, irripetibile, è stato quando abbiamo fatto Viva Radiodue. Momenti brutti non me ne vengono. Ci penso… Anche umanamente, non ricordo nulla. I programmi funzionano. Lavoriamo, ci divertiamo e ci pagano pure».

Non mi dica che non avete mai litigato.

«Qualche scazzo per cose professionali, magari una battuta scartata, ma litigare proprio mai. Con mia moglie capita, con Rosario no».

Come avvenne l’arruolamento?

«Tramite Giampiero Solari che era direttore artistico della Ballandi entertainment. Io ero direttore di produzione di una fabbrica di vetro. Lo facevo ridere in spiaggia a Pesaro. Una volta entrato nella Ballandi, Solari mi ha detto: “Tu sei siciliano e vai con lui”. E Rosario non mi ha mollato più».

È il clan dei siciliani?

«Diciamo di sì, anche il povero Montebelli che è umbro comincia a capire le battute in siciliano».

Un clan siciliano della comicità?

«L’altra sera a Sanremo si è esibito Angelo Duro, secondo me il più bravo di tutti dopo Rosario. Mentre altri stand up comedian imitano quelli americani, lui ha uno stile personale che mi fa ridere».

All’Ariston però non è andato benissimo.

«Lui dice di no, ma secondo me era emozionato. A me è piaciuto, sono di parte. Ha dovuto fare un pezzo un po’ edulcorato, il suo spettacolo è ancora più duro, in tutti i sensi».

L’Ariston non è la sua tazza di te?

«Forse non è la sua confort zone. Come diceva Bibi Ballandi, ad andare a Sanremo ci s’infarina come al mulino».

Altri siciliani del gruppo?

«Ficarra e Picone, bravissimi. Li adoro anche come persone. Nell’ultimo film di Roberto Andò La stranezza sono andati alla grande».

Siete un enclave della risata?

«Non direi. Enclave è un’entità chiusa in un posto. Credo che Fiorello, Ficarra e Picone e Angelo Duro abbiano preso tutta l’Italia».

Nel suo libro La filosofia del suca scrive che i siciliani diffidano del cambiamento: tutti figli di Giuseppe Tomasi di Lampedusa?

«Un po’ sì. Ha raccontato in maniera sublime la Sicilia. Noi siamo nati per lamentarci. Se le cose cambiano di cosa ci lamentiamo? Il cambiamento ci toglie il terreno sotto i piedi».

Meglio la tradizione mediocre più rassicurante della novità ambiziosa?

«Assolutamente».

Lei però, se non sbaglio, si è trasferito in Svizzera.

«Proprio trasferito no. Ho una moglie svizzera con due figli, faccio la spola tra Roma e Zurigo. Già avere una moglie è un problema, averla svizzera immagini cosa può essere. Sono un emigrante al contrario: vivo in Svizzera e pago le tasse in Italia. Uno scemo fatto e finito».

Come si trova un palermitano a Zurigo?

«Spiazzato. Siamo due universi paralleli che mai s’incontreranno. La prima volta che ho buttato l’immondizia ho avuto uno choc».

Racconti.

«Buttare il vetro è un lavoro. Non c’è la rassicurante campana. Bisogna separare il vetro bianco, il vetro verde, il vetro marrone e le bottiglie che i viticoltori locali riutilizzano. Poi il metallo, il ferro da una parte l’alluminio da un’altra. Ci vuole la laurea. È più facile montare un mobile dell’Ikea che buttare l’immondizia in Svizzera».

Però si vive bene?

«Sì, certo. Ma io vivrei tutta la vita a Terrasini dove ho preso residenza».

In pochissime parole: che cos’è il suca?

«È una filosofia di vita, un modo di affrontare i problemi. Siamo stati dominati da tutti, romani, greci, bizantini, arabi, svedesi, spagnoli… Ma noi siamo sempre rimasti fermi grazie a questa filosofia. Arrivano arabi o greci, ti aggrappi al suca e superi tutte le avversità».

Che scuole ha frequentato?

«Il liceo classico. Uso la maieutica socratica e i dialoghi di Platone per spiegare questa filosofia. Avevo già consegnato all’editore una versione ridanciana, quasi fiorellesca del testo. Poi si è giocata a Palermo la partita Italia Macedonia per le qualificazioni ai Mondiali. Nei nostri stadi c’è l’usanza di accompagnare il rinvio del portiere con l’esclamazione “ooohh suca!”. Ma i cronisti della Rai stigmatizzavano il nostro tifo. Allora ho pensato che quel modo di dire andava spiegato. Anche se il suca è come il tempo per Sant’Agostino».

Addirittura.

«Dice che quando non ne parla sa cos’è il tempo, ma quando deve spiegarlo non lo sa più. Così è per me il suca. Così ho chiamato l’editore chiedendo di fermare la stampa e ho cambiato tutto. Nel libro lo spiego a me stesso e spero di farlo capire agli altri».

La gente comune sbaglia ad averne un’idea molto volgare?

«Solo l’uso inappropriato del suca può risultare volgare, altrimenti non lo è perché porta buon umore. Alle presentazioni del libro, mostro prima una foto di Mario Draghi normale e non ride nessuno, poi con il suca e la gente ride. Idem con la foto di Albert Einstein e la formula dell’equivalenza massa-energia. Invece con Luigi Di Maio la gente ride subito senza bisogno del suca. È la dimostrazione che il pubblico capisce e il suca funziona…».

Insomma è un antidoto, una forma di disincanto.

«Anche, ma non solo».

Un modo per mettere a tacere i problemi.

«È molto liberatorio».

Dopo un suca non ci sono repliche?

«È definitivo, inappellabile, la cassazione».

Ha dovuto dirne tanti a Zurigo?

«Qualcuno. Perché, diciamo così, da quelle parti non sono molto elastici».

Però è una cosa un po’ sessista, come si dice oggi, perché le donne non possono dirla…

«Ha un potere quasi magico, ma detto da una donna lo perde. Lo spiegherò nel prossimo spettacolo che sto scrivendo, nel quale la donna sarà ampiamente riscattata».

Però nel suca la donna non ci sta?

«Ci sta, ma non può dirlo».

Chiudiamo sul Festival, che cosa le è piaciuto di meno e cosa di più?

«Ho 57 anni e i tre big Al Bano, Ranieri e Morandi mi hanno commosso. Con loro ho provato le emozioni più forti».

Canzoni preferite?

«Quella di Marco Mengoni e quella di Lazza».

Chiara Ferragni?

«Non mi ha entusiasmato. Diciamo che la tv non è il suo posto. Anche la voce non l’aiuta. La tv ha un altro linguaggio, lei è bravissima a fare altre cose».

Francesca Fagnani?

«Lei la tv la sa fare e si vede. Mi è piaciuta».

Paola Egonu?

«Mi è sembrata brava, non è facile stare su quel palco. L’ho trovata più disinvolta della Ferragni».

Le polemiche?

«Un Sanremo senza polemiche è come un matrimonio senza confetti. Ogni giorno ce n’è una. Zelensky, Blanco, Angelo Duro, Fedez, Salvini, Rosa Chemical con la deputata di Fratelli d’Italia, le foibe.

Le polemiche sono parte integrante della natura del Festival. Amadeus è bravissimo a gestirle».

Lei ritiene opportuno che siano ricordate le foibe?

«Sì, soprattutto in questo momento. Sarebbe un messaggio contro tutte le guerre e tutte le atrocità che questa follia si porta dietro».

I suoi progetti futuri?

«Sto preparando uno spettacolo con Pietrangelo Buttafuoco che ha due o tre personaggi che devo studiare. E poi un altro con mio fratello e Cesare Inzerillo, già scenografo di Ciprì e Maresco, uno scultore pazzesco. In mezzo a tutto questo c’è Fiorello che mi occupa tutta la giornata…».

Mi anticipa qualcosa di questi spettacoli?

«Il mio è sul tema dell’ultimo libro. L’altro riguarda sempre la nostra amata Sicilia».

È favorevole al Ponte sullo stretto?

«A bruciapelo direi sì, favorevole. Però non si può fare solo il ponte. Tutte le infrastrutture intorno devono essere aggiornate e ammodernate perché sarebbe criminale fare il ponte e lasciare che per da Ragusa a Trapani un treno impieghi 13 ore».

Il ponte potrebbe essere il volano del rilancio?

«Sarebbe il big bang delle infrastrutture siciliane e calabresi».

Quindi, in questo caso, da siciliano, è favorevole al cambiamento?

«Sì, mi ha fregato».

 

La Verità, 11 febbraio 2023

 

 

Una storia d’amore nella quale ci ritroviamo tutti

Si legge d’un fiato senza perdere una parola perché parla di noi. Una grande storia d’amore di Susanna Tamaro (Solferino) è un romanzo schietto, solido, struggente. Che appiccica alla pagina con una scrittura scorrevole come un sorso d’acqua fresca. O come il sangue nelle nostre vene. Niente di più vitale. Eppure niente di più gratuito e, allo stesso tempo, di considerato ovvio, scontato, dovuto. Se per l’autrice questo libro è un ritorno alle origini di Va’ dove ti porta il cuore, al flusso del racconto che ha per protagoniste due persone che si mettono reciprocamente in gioco di fronte al destino, per il lettore è un ritorno a casa, alle domande fondamentali, il bisogno d’amore, la ricerca della felicità. Un posto dell’anima nel quale ci si riconosce, si ritrova la bussola delle cose che contano, lontano dalle mode, dalla fatuità, dalla superficie. Niente nuove ideologie, niente nuovi diritti, teorie gender o integralismi ambientalisti. Solo una storia d’amore tra un uomo e una donna: sembra poco, ma di questi tempi, a suo modo, è tanto.

Come in tutta la letteratura di Tamaro, anche qui il mistero da sondare sono le persone.

Edith – che significa «Colei che cerca la felicità» – e Andrea – «Fin da bambino sentivo l’esigenza di raggiungere il cuore vero delle cose» – si incontrano un giorno d’estate su un traghetto che da Venezia fa rotta sul Pireo. Lei, trasgressiva e sarcastica, è diretta in Grecia per festeggiare la maturità appena raggiunta. Lui, ligio e disciplinato, di dieci anni più vecchio, è il capitano della nave. Anche se il primo incontro è uno sfregare di spigoli – o forse proprio per questo – è destinato a lasciare nei pensieri di entrambi tracce che riaffioreranno nelle successive coincidenze. Ma in Una grande storia d’amore, nessuno di questi incontri, di questi «imbattimenti», è casuale. Pur nella palese differenza di temperamento e oltre l’attrazione reciproca, la ricerca di un di più, il non accontentarsi dell’effimero li porta a riconoscersi e a intrecciare i loro passi. Ora, molti anni dopo, mentre non sappiamo dove sia Edith e se ci sia ancora, troviamo Andrea nella grande casa su un’isola del Tirreno, «roccaforte di ricordi». Il suo racconto è un’altalena di prendersi e lasciarsi, di partire e tornare, da soli o accompagnati. Perché le inquietudini, il non appagamento, le perdite, i lutti, le resistenze all’amore, i malintesi e l’ambizione di farsi da sé portano strappi, fughe, sbagli. Come una figlia inattesa da una storia che prometteva e che invece era un bluff. O come la deriva nella quale annegare il dolore di un’assenza incolmabile.

Romanzo di pochissime persone come la maggior parte di quelli di Tamaro, appena i genitori e i figli dei due protagonisti, Una grande storia d’amore è ugualmente un libro di ampio respiro, che include la natura, le api di Edith, i cetacei di Andrea, la prospettiva del tempo. Una storia disseminata di perle sapienti, mimetizzate nel flusso di memoria di Andrea. A proposito del rapporto tra genitori e figli, paragonato a quello della metà del Novecento, quando la ribellione alla strada tracciata era una sfida seria e «si doveva essere davvero sicuri della nuova scelta per compiere un gesto di rottura», perché «i genitori avevano ancora il potere di ripudiarti per una decisione di vita non gradita». Oppure riguardo al dogma della natura che si autogestisce e che produce spontaneamente armonia. Bastava guardare il giardino incolto per accorgersi che «l’idea della saggezza autogenerante della terra poteva imporsi soltanto in un tempo in cui la maggior parte delle persone viveva in ambienti artificiali», non certo quando l’uomo doveva lottare per il cibo e la sopravvivenza. Son pagine in cui ricorre il verbo «domare», utile anche di fronte al disordine o agli istinti e alla rabbia distruttiva. Non c’è ideologia in tutto questo, ma quel buon senso che deriva dall’ascolto del cuore profondo, esercizio ben noto all’autrice. Come quando, a causa di una di quelle sviste nelle quali si può cadere per bisogno d’amore, Edith si trova con «un problema in più» nella pancia. E allora può bastare il suggerimento discreto di una madre – «di solito la vita porta con sé altra vita» – a evitare altri traumi e a credere nel futuro. Un romanzo che riflette sul senso del perdono, sulla possibilità di ricominciare dopo che si è subìto un torto, una slealtà, una ferita che ancora sanguina. Su come riabbracciare un figlio che se n’è andato, trafitto dal dolore. Un romanzo che contiene l’idea che la vita non è una passeggiata tra fiori e cristalli, ma una sfida continua, una provocazione quotidiana a chi siamo e a chi vogliamo essere. Senza alibi o pretese da scaricare all’esterno, sulla società, sui diritti da rivendicare, su ideologie vecchie e nuove. Un romanzo che dice semplicemente che è «difficile esistere quando non ci si rispecchia nello sguardo dell’altro». Perché, come scriveva il filosofo Romano Guardini, «nell’esperienza di un grande amore, tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito».

 

La Verità, 6 ottobre 2020

«Questa politica urlata non piacerebbe a Belzebù»

Un altro Giulio Andreotti. Un altro, rispetto al ritratto che ci ha lasciato la vulgata giustizialista di gran parte dei media. Un politico in rapporto con Licio Gelli e Cosa nostra. Un Belzebù che trama nell’ombra. Il Divo Giulio dei salotti e delle terrazze. Dai Diari segreti di Andreotti emerge un tessitore di relazioni, un instancabile mediatore, un interlocutore di Papi, un amico di madre Teresa di Calcutta, uno statista. «Ai miei occhi è così, ma io sono di parte», si giustifica Stefano Andreotti, 68 anni, ex dirigente Siemens, sposato, con un figlio, che, insieme alla sorella Serena, ha curato la pubblicazione per l’editrice Solferino di un decennio (1979-1989) di appunti, lettere, minute, ritagli di giornali, per fortuna raccolti in cartelline con la dicitura «Diario».

Un volume gigantesco di scritti.

«Pensi che è solo una piccola parte. Mio padre ha raccolto una montagna di documenti, già donati all’archivio della Fondazione Sturzo».

Che cosa emerge da questi Diari?

«La quantità di relazioni che coltivava in Italia e nel mondo. Dal 1979, dopo il governo di solidarietà nazionale, al 1989 quando tornò a Palazzo Chigi succedendo a Ciriaco De Mita, Andreotti fu per quattro anni presidente della commissione Esteri della Camera e per sei ministro degli Esteri. Non c’è nazione in cui non avesse rapporti. In ogni situazione nella quale emergeva il bisogno di mediazione lui c’era. Dalle crisi nell’area del Mediterraneo fino ai primi passi nella distensione con l’Urss».

Nella nota dei curatori scrive che I Diari possono aiutare a comprendere meglio la sua figura «depurandola da alcuni luoghi comuni»: quali?

«Diceva che dalle Guerre puniche in poi tutti i mali italiani gli venivano addebitati».

La gobba di Andreotti era la scatola nera della Repubblica.

«Ancor più dopo che è morto. Ora molti giovani non sanno chi è stato, altre persone l’hanno conosciuto in modo diverso. Con mia sorella Serena abbiamo deciso di documentare perché crediamo che leggendo questi Diari senza essere prevenuti si possa vedere come viveva giorno per giorno. Inoltre, per chi la ama, possono essere un buon ripasso di storia».

Quante ore dormiva?

«Quattro, al massimo cinque. Però di pomeriggio si concedeva un quarto d’ora di pennichella».

Dava appuntamenti all’alba, il tempo del diario era la notte?

«La giornata iniziava alle 4 e mezza, 5 del mattino. Alle 6,30 assisteva alla messa e alle 7,30 era nello studio privato. Tutti i giorni, sabato e domenica compresi».

E il diario?

«Scriveva sempre, non c’era un momento topico. Anche le poche sere in cui rimaneva a casa, davanti alla tv scriveva, annotava, chiosava».

La goccia che vi ha fatto decidere per la pubblicazione è stata la ricostruzione circolata della storia delle fotografie di papa Wojtyla in piscina?

«Secondo la versione riportata nella biografia scritta da Massimo Franco mio padre avrebbe ricevuto quelle foto da Gelli con l’invito a non farle pubblicare».

Invece come andò?

«Abbiamo trovato una ricostruzione molto differente. Agosto 1980, mentre era in vacanza a Merano ricevette una telefonata urgente dal segretario di Stato Agostino Casaroli che lo avvisava del fatto che in Germania si parlava di fotografie di Giovanni Paolo II in costume da bagno a Castel Gandolfo. In Italia il settimanale Gente aveva già pubblicato due scatti della piscina, senza il Papa. Era una situazione strana… bisogna ricordare il clima di quegli anni. C’erano le prime proteste dei sindacati a Danzica. La Polonia era sottomessa all’Urss, un Papa straniero che fa il bagno poteva dare scandalo. Mio padre contattò Bruno Tassan Din, direttore generale del gruppo Rizzoli, e il cavalier Edilio Rusconi, proprietario di Gente, per sincerarsi che se fossero entrati in possesso delle fotografie non le avrebbero pubblicate».

E Gelli?

«Non ce n’è traccia. Allora però la Rizzoli era chiacchierata, non si può escludere che Gelli si sia vantato con qualcuno».

Andreotti aveva sempre avuto un filo diretto con la Santa Sede.

«Con Giovanni Battista Montini, che diverrà Paolo VI, avevano condiviso la formazione nella Fuci, di cui mio padre sarà presidente dopo Aldo Moro. Ma i rapporti erano buoni anche prima con Pio XII e Giovanni XXIII. E poi con Giovanni Paolo I».

Proseguendo con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, mentre morì poco dopo l’elezione di Bergoglio.

«Che conosceva già. Al sabato pomeriggio andava spesso alla messa a san Lorenzo in Verano dove incontrava il cardinal Bergoglio in trasferta a Roma».

Avrebbe amato la spiccata intonazione sociale di Francesco?

«Credo di sì. Non dimentichiamo che l’interclassismo della Dc proviene dalla dottrina sociale. Mio padre era attento al Terzo mondo, s’interessava alla cooperazione. Affiancava le imprese missionarie. Forse non avrebbe sposato appieno la rivoluzione ora in corso nella curia romana, perché è sempre stato uomo di cambiamenti graduali».

Cosa vuol dire che nei dieci anni in cui non è stato primo ministro ha potuto lavorare per la pace «a ogni costo»?

«Veniva da una guerra e la ricordava come una sciagura da evitare in tutti i modi per l’Europa. Non gli interessava il potere in quanto tale. Tant’è vero che rifiutò quando Giovanni Spadolini e Arnaldo Forlani gli offrirono il ministero del Tesoro».

Non è un paradosso il fatto che mentre il mondo era diviso in blocchi la politica fosse soprattutto trattativa?

«Era la caratteristica dell’epoca. Basta vedere anche come è caduto l’Impero sovietico, goccia dopo goccia, con l’apertura realizzata da Gorbaciov. La vicenda dei missili e dello scudo spaziale fu sempre affrontata nell’ottica della distensione».

Proseguendo nel paradosso, oggi che l’ideologia è in crisi la politica è fatta di scontri.

«Una modalità che non approverebbe. Con l’eccezione del periodo della solidarietà nazionale, il Pci era sempre rimasto all’opposizione. Eppure la scelta atlantica fu condivisa da tutti. C’era rispetto umano anche per gli esponenti del Pci e del Psi. Lo si vede in tutti i Diari, aldilà della partita a scopone in aereo quando mio padre, D’Alema, Berlinguer e Pertini andarono ai funerali di Jurij Andropov. Questo non impediva che si facessero sgambetti anche nella Dc, per esempio con Amintore Fanfani, Carlo Donat-Cattin e De Mita…».

L’emergenza sanitaria fa tornare di moda la formula della solidarietà nazionale: la classe politica di oggi è paragonabile a quella di allora?

«No, è molto diverso. Comunque, al di là della qualità dei singoli esponenti, alla base c’era il fatto che le grandi decisioni erano sempre concordate».

Nell’introduzione accenna a «una relazione del tutto particolare con Comunione e liberazione».

«Aveva un grande rapporto con don Luigi Giussani e, finché ce l’ha fatta, il Meeting di Rimini è stato un appuntamento fisso al quale contribuiva anche suggerendo personalità da invitare… Era poi molto amico di don Giacomo Tantardini, il sacerdote responsabile del movimento a Roma al quale rimase sempre grato per l’offerta della direzione di 30Giorni, il periodico punto di riferimento del pensiero e della presenza della Chiesa nel mondo. Mio padre amava il giornalismo. Sull’Europeo teneva la rubrica Blocnotes, ma quando finì sotto processo quella collaborazione fu carinamente interrotta. Così accettò volentieri l’offerta di don Tantardini, buttandosi con passione nel rapporto con i giovani giornalisti di 30Giorni che diresse fino alla fine».

Come reagì quando fu accusato di collusioni con Cosa nostra?

«I primi due anni furono terribili, non riusciva a dormire nemmeno poche ore. Non usciva di casa, si imbottiva di psicofarmaci… Poi finalmente reagì, ritrovando serenità. Cosciente di aver avuto in altre occasioni della vita magari comportamenti da farsi perdonare, ma non certamente nei casi degli addebiti per associazione mafiosa e per la morte del giornalista Mino Pecorelli».

Che giudizio dava della magistratura?

«Essendo uomo delle istituzioni ne ha sempre avuto grande rispetto. In qualche caso si è ricreduto, perché una certa politicizzazione non gli piaceva».

E dei giornalisti? Ogni tanto dissentiva da Indro Montanelli?

«I giornalisti non se li è mai arruffianati, come diciamo a Roma. Con Montanelli c’era un buon rapporto, si vedevano d’estate a Cortina. In un’intervista sul caso Sindona gli aveva suggerito di reagire e precisare. Mio padre acconsentì, ma poi non lo fece, convinto che tutto si sarebbe sistemato. Più complesso era il dialogo con Scalfari».

Doveva correggere certe sue interpretazioni?

«Sì, ma mai in modo brusco».

Come giudicherebbe la politica muscolare di Matteo Salvini?

«Non credo si troverebbe bene in questo clima di assalto tutti contro tutti. Avrebbe disapprovato la tendenza ad attaccare l’avversario piuttosto che a proporre soluzioni».

E i Cinque stelle al governo?

«Non accetterebbe l’improvvisazione. Mio padre aveva il culto della preparazione, non andava da nessuna parte senza prima informarsi, studiare su enciclopedie e annuari…».

Che ironia gli susciterebbe il trasformismo di Conte che in un pomeriggio passa dal guidare un governo di centrodestra a un altro con quattro formazioni di sinistra?

«Nella Prima repubblica ci sono sempre state evoluzioni. Lui stesso nella Dc all’inizio era visto come un esponente della destra, poi del centro, infine dialogante con il Pci. Non credo avrebbe approvato un cambiamento così repentino dalla sera alla mattina come quello visto un anno fa».

Gli sarebbe piaciuta la moda politicamente corretta?

«La mentalità radical chic lo infastidiva molto. La sua natura romana confliggerebbe con le ipocrisie cui assistiamo».

Che cosa vuol dire essere figlio di Giulio Andreotti?

«Noi quattro fratelli abbiamo condotto una vita normalissima, con una madre più presente e un padre affettuoso, attento alla qualità dei rapporti. Essere figlio di un ministro è stato normale perché ci siamo nati. Oggi sono orgoglioso di dare il mio contributo per far conoscere chi è stato davvero Giulio Andreotti. Una persona che è morta nel suo letto con la coscienza a posto».

 

La Verità, 12 settembre 2020

 

«La casta dei chierici che negano Dio»

Un filosofo al telefono. Un filosofo che vola alto, ma si rende accessibile. Il colloquio con Sergio Givone, docente di Estetica all’Università degli Studi di Firenze, è la metafora di qualcosa o qualcuno, lontano, che azzera le distanze e si fa prossimo. 74 anni, cattolico, studioso del nichilismo e di Fëdor Dostoevskij, allievo di Luigi Pareyson e scrittore, Givone ha appena pubblicato da Solferino Quant’è vero Dio (sottotitolo: Perché non possiamo fare a meno della religione), un saggio nel quale sostiene che la religione è necessaria e che, poco alla volta, il mondo contemporaneo, intellettuali a parte, se ne sta accorgendo. Il titolo del libro un po’ inganna perché, pur tratto da un’espressione comune, nasconde riflessioni elevate.

Fin troppo, professore?

«È altissimo l’argomento: parliamo di Dio, dell’essenza della religione. Ma spero che sia anche basso, nel senso che ci riguarda tutti perché riguarda la vita dell’uomo. Se le altezze restano astratte sono inutili».

Da qualche parte ho letto che avrebbe voluto diventare scrittore: com’è finito a fare il filosofo?

«Qualche romanzo l’ho scritto… Sono arrivato alla filosofia passando dalla letteratura, greca in particolare. Al liceo di Vercelli ebbi la fortuna di avere come professore Dario Del Corno, poi tra i maggiori grecisti del secondo Novecento. Fu lui a mostrarmi come i grandi problemi della filosofia fossero immersi nella grande letteratura. Fare lo scrittore doveva servire ad affrontare i temi della vita. Sono diventato filosofo non per occuparmi di dispute astratte, ma delle problematiche dell’esistenza».

Oggi gli scrittori sono star della comunicazione.

«In qualche caso. Personalmente, non cercavo una via più gratificante per incontrare il pubblico, ma le risposte alla domanda su “che senso ha ciò che ci sta capitando?”. Ero convinto che questo senso si potesse rintracciare nelle storie vissute e narrate. Così, mi sono lasciato guidare dalla letteratura come luogo altamente problematico».

Com’era quella di Dostoevskij?

«È sempre stato qualcuno con cui dialogare. Dostoevskij ripeteva di non essere filosofo, ma tutta la filosofia russa successiva prende le mosse dal suo pensiero».

A cominciare dalla sua Leggenda dell’Inquisitore e poi dal Racconto dell’Anticristo di Vladimir Solov’ëv, con quel dialogo tra l’imperatore e lo starets.

«E non solo quello. Tutta l’opera di Nikolaj Berdjaev e di Solov’ëv deriva da Dostoevskij».

Il titolo del suo ultimo libro, Quant’è vero Dio, cita un’espressione che si usava come rafforzativo di un’affermazione o di una minaccia di una sanzione verso un figlio disobbediente.

«I nostri genitori volevano responsabilizzare il nostro agire. Ma quell’espressione significa anche che Dio o è in rapporto stretto con la verità oppure non è. Se non è tutt’uno con la verità, Dio è un fantasma, un’invenzione per placare l’angoscia della morte. Se invece è tutt’uno con la verità, la vita diventa seria».

Proprio Dostoevskij però diceva che tra Gesù Cristo e la verità avrebbe scelto Gesù Cristo.

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