«La casta dei chierici che negano Dio»

Un filosofo al telefono. Un filosofo che vola alto, ma si rende accessibile. Il colloquio con Sergio Givone, docente di Estetica all’Università degli Studi di Firenze, è la metafora di qualcosa o qualcuno, lontano, che azzera le distanze e si fa prossimo. 74 anni, cattolico, studioso del nichilismo e di Fëdor Dostoevskij, allievo di Luigi Pareyson e scrittore, Givone ha appena pubblicato da Solferino Quant’è vero Dio (sottotitolo: Perché non possiamo fare a meno della religione), un saggio nel quale sostiene che la religione è necessaria e che, poco alla volta, il mondo contemporaneo, intellettuali a parte, se ne sta accorgendo. Il titolo del libro un po’ inganna perché, pur tratto da un’espressione comune, nasconde riflessioni elevate.

Fin troppo, professore?

«È altissimo l’argomento: parliamo di Dio, dell’essenza della religione. Ma spero che sia anche basso, nel senso che ci riguarda tutti perché riguarda la vita dell’uomo. Se le altezze restano astratte sono inutili».

Da qualche parte ho letto che avrebbe voluto diventare scrittore: com’è finito a fare il filosofo?

«Qualche romanzo l’ho scritto… Sono arrivato alla filosofia passando dalla letteratura, greca in particolare. Al liceo di Vercelli ebbi la fortuna di avere come professore Dario Del Corno, poi tra i maggiori grecisti del secondo Novecento. Fu lui a mostrarmi come i grandi problemi della filosofia fossero immersi nella grande letteratura. Fare lo scrittore doveva servire ad affrontare i temi della vita. Sono diventato filosofo non per occuparmi di dispute astratte, ma delle problematiche dell’esistenza».

Oggi gli scrittori sono star della comunicazione.

«In qualche caso. Personalmente, non cercavo una via più gratificante per incontrare il pubblico, ma le risposte alla domanda su “che senso ha ciò che ci sta capitando?”. Ero convinto che questo senso si potesse rintracciare nelle storie vissute e narrate. Così, mi sono lasciato guidare dalla letteratura come luogo altamente problematico».

Com’era quella di Dostoevskij?

«È sempre stato qualcuno con cui dialogare. Dostoevskij ripeteva di non essere filosofo, ma tutta la filosofia russa successiva prende le mosse dal suo pensiero».

A cominciare dalla sua Leggenda dell’Inquisitore e poi dal Racconto dell’Anticristo di Vladimir Solov’ëv, con quel dialogo tra l’imperatore e lo starets.

«E non solo quello. Tutta l’opera di Nikolaj Berdjaev e di Solov’ëv deriva da Dostoevskij».

Il titolo del suo ultimo libro, Quant’è vero Dio, cita un’espressione che si usava come rafforzativo di un’affermazione o di una minaccia di una sanzione verso un figlio disobbediente.

«I nostri genitori volevano responsabilizzare il nostro agire. Ma quell’espressione significa anche che Dio o è in rapporto stretto con la verità oppure non è. Se non è tutt’uno con la verità, Dio è un fantasma, un’invenzione per placare l’angoscia della morte. Se invece è tutt’uno con la verità, la vita diventa seria».

Proprio Dostoevskij però diceva che tra Gesù Cristo e la verità avrebbe scelto Gesù Cristo.

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