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Perché il successo dei Maneskin sa di déjà vu

Ancora due parole per l’archiviazione del settantunesimo Festival di Sanremo. Un’archiviazione controcorrente perché, purtroppo, il verdetto finale l’ha consegnato a una sensazione di vecchio e già visto. La vittoria dei Maneskin, infatti, non è niente di nuovo. È la vittoria di X Factor, del talent show più di tendenza dell’ultimo decennio. Lo conferma il duetto con il loro coach, Manuel Agnelli, nella serata delle cover. E lo conferma il secondo posto finale conquistato da Francesca Michielin e Fedez. È la vittoria della community del talent di Sky. È la conferma della vampirizzazione della tv generalista da parte delle piattaforme (notata l’invasione dei marchi dello streaming nei break pubblicitari?). Tutto già visto, magari in modo più semplice e meno sofisticato. Ricordate quando nel 2009 vinse Marco Carta? Un quotidiano titolò: Amici vince il Festival di Sanremo. L’anno dopo ci fu il bis con Valerio Scanu. Anche allora pesò l’influenza dei televotanti, determinanti nelle giurie come stavolta: quella demoscopica, quella della sala stampa e, appunto, quella del pubblico che vota via sms. Non a caso, come si è ripetutamente vantato il direttore di Rai 1 Stefano Coletta, nell’audience di questo Festival è cresciuto il pubblico giovane. Mentre è calato quello più stagionato. Niente di nuovo, dunque. La prova del nove è data da Zitti e buoni, un brano esplicitamente rock, un genere musicale straniero all’Ariston nazionalpopolare. E il successo dei Maneskin è proprio questo: la consacrazione nazionalpopolare, la legittimazione mainstream, della generazione dell’asterisco. Né maschi né femmine. La fluidità al potere. A ben guardare roba vecchia, roba omologata anche questa. Sono passati quasi cinquant’anni da quando David Bowie, Alice Cooper e poi Renato Zero scuotevano il perbenismo dominante. Era un’altra èra: internet e i cellulari appartenevano alla fantascienza. Già Marilyn Manson un paio di decenni dopo è stato un fenomeno di riporto, un rimbalzo plastificato. Figuriamoci Achille Lauro, santificato a furor di social network, il posto dove si coagulato il verdetto di questo festival. La differenza è che quella di cinquant’anni fa era vera trasgressione e rivolta dei costumi. Oggi la generazione asterisco è fashion, mainstream, politicamente corretto, conformismo puro. Tutto déjà vu.

Incerto Amadeus se accettare l’invito del direttore generale Rai Fabrizio Salini a triplicare, sul 2022 si staglia la sagoma di Alessandro Cattelan, per anni conduttore di X Factor e neo acquisto di Viale Mazzini. Il cerchio si chiude.

«Sto lontana dai reality: la vita privata è privata»

Buongiorno Luisa Corna. Da qualche tempo la rivediamo in televisione con più assiduità: le manca un po’ di visibilità o le piacerebbe tornare a condurre un programma?

«Ma no. Ho fatto giusto un paio di interviste in Rai. E sono stata ospite quest’estate di Barbara D’Urso a Domenica live».

In che occasione?

«Avevo inciso un singolo in omaggio a Mia Martini in collaborazione con l’Associazione Minuetto onlus Mimì sarà. Sua sorella Leda mi aveva fatto conoscere Col tempo imparerò, un brano struggente registrato da Mia, proponendomi di cantarlo. Ho accettato con molta umiltà, per affetto verso di lei e tutte le donne che non si arrendono davanti alle difficoltà della vita».

Tornando alla televisione?

«Non mi manca. Mi mancherebbe se non avessi la possibilità dei concerti e del contatto con il pubblico che che per me è la cosa più importante. Ai live vedo che l’affetto dei fan c’è sempre. Poi oggi ci sono anche i social…».

Perché a un certo punto l’abbiamo persa di vista?

«Nel 2011 ho scelto di dedicarmi alla musica. In questi anni la televisione ha cominciato a privilegiare un tipo di programmi nei quali non mi ritrovo. Varietà se ne fanno sempre meno, tutto gira intorno ai reality show. Me ne hanno proposti alcuni, ma ho preferito rimanerne fuori. Non per snobismo, ma perché non mi sentirei a mio agio».

Però li guarda?

«Capita».

Che cosa in particolare non la convince?

«Vorrei andare in televisione per esprimere ciò che so fare. Non voglio sembrare presuntuosa, ma mi sembra che nei reality devi metterti in gioco con tutta te stessa. Penso che la vita privata debba restare tale, mentre nei reality è la parte principale. Non do giudizi, semplicemente non fa per me».

Com’è sbocciato il suo amore per la musica a Palazzolo sull’Oglio?

«Da bambina. All’oratorio, padre Lino suonava il pianoforte e io stavo sempre ad ascoltarlo. Dopo un po’ m’inserirono nel Coro della Rocchetta di Palazzolo. Quando mi chiedevano cosa avrei voluto fare da grande rispondevo sempre allo stesso modo. Da piccoli si è determinati e a volte i sogni si avverano. A 16-17 anni ho iniziato a frequentare a Milano il Centro professione musica di Franco Mussida della Premiata Forneria Marconi. Poi anche il Centro teatro attivo, per togliermi l’accento bresciano e imparare a intrattenere. Vedevo Mina che sapeva cantare e condurre, vedevo i musical nei quali bisognava saper fare tutto…».

Chi erano i suoi insegnanti?

«Daniela Ghiglione, Lella Costa…».

Poi cosa accadde?

«Iniziai a esibirmi nei locali con un gruppo che si chiamava Te chì la band, in dialetto milanese, con chiara allusione al liquore messicano».

Con che musica è cresciuta?

«Con il blues e il soul, con Stevie Wonder e gli standard jazz. Poi Mina, Lucio Battisti, Fabrizio De André».

Il primo concerto?

«Paolo Conte e poi Giorgio Gaber».

Il primo disco?

«Uno di Mina, poi Celentano che ascoltavano anche i miei».

Come presero la sua volontà di fare la cantante?

«Mio padre aveva un’azienda e io stessa avevo studiato ragioneria nella prospettiva di lavorare in famiglia. Quando si accorse che mi piaceva cantare, pur con un filo di perplessità – perché insomma, il lavoro è un’altra cosa – mi disse: “Se vuoi, provaci. Però qui il posto ce l’hai sempre”».

Ma le cose andarono bene…

«Entrai nel coro di Miguel Bosè. Poi m’iscrissi al Festival di Castrocaro, presentandomi da sola… Conducevano Gigi Sabani e Rosita Celentano. Ogni settimana ti richiamavano se superavi le selezioni in base al gradimento del pubblico».

E?

«Arrivai seconda. Anzi, prima mi avevano detto che avevo vinto, poi si corressero, in diretta».

Poi però tradì la musica per la moda…

«Mi avvicinarono nei locali dove cantavo: “Perché non provi qualche servizio fotografico?”. Ci pensai un po’, non avevo vent’anni, ma poteva essere un modo per mantenermi. Entrai nella Fashion, una delle agenzie più importanti. A una delle prime sedute c’era anche Fabrizio Ferri… Ho girato il mondo, sono stata più volte a New York, in Australia, l’Europa l’ho vista tutta. È stato un periodo intenso, ho imparato tanto».

Quando tornava a Palazzolo pativa lo sbalzo dal mondo glam alla vita del paese?

«Ho una famiglia unita, torno volentieri a casa. Dicono che quelli del Sagittario siano persone curiose, che amano viaggiare, ma che allo stesso tempo tengono i piedi per terra. Quella della modella è una professione faticosa, ci si alza presto. A me non interessava la vita notturna. Finito di sfilare me ne stavo in albergo, spesso sola o con qualche collega. Perciò quando tornavo a casa ero felice di riabbracciare i miei e le amiche che sono tuttora quelle della scuola».

La seconda deviazione dalla musica è stata la televisione.

«Seppi che Michele Guardì e Fabrizio Frizzi cercavano cantanti per Domenica in. Non avevo nemmeno l’agente, ma ci provai. Cantai accompagnandomi al pianoforte e andò bene. Alla fine di quell’anno mi contattò Corrado Mantoni per propormi di affiancare Giampiero Ingrassia nell’edizione estiva di Tira e molla su Canale 5. Dopo l’estate mi proposero di partecipare a Controcampo di Sandro Piccinini. Stavo fra il pubblico e facevo qualche domanda. Poi a un certo punto decisero che potevo affiancare il conduttore».

Arrivò anche il cinema.

«Mi chiamò Panariello per interpretare una fotoreporter della quale si innamorava lui stesso che faceva il giornalista. Quando, per promuoverlo, andai ospite di Taratatà di Vincenzo Mollica, Fausto Leali mi propose di partecipare in coppia alla selezione per Sanremo».

Arrivaste quarti.

«Il brano s’intitolava Ho bisogno di te».

Cantate ancora insieme, i timbri vocali si completano.

«Fausto è un amico, ed è bresciano, parliamo in dialetto».

Coltiva altre collaborazioni?

«Nel 2007 con Tony Hadley degli Spandau Ballet abbiamo inciso un brano per la colonna sonora del film Russian Beauty e, di recente, Sananda Maitreya, più conosciuto come Terence Trent D’Arby, mi ha coinvolto nell’album Prometheus e Pandora, inciso per il trentennale della sua attività artistica. Siamo stati in tournée».

Canta il blues, il soul, la musica napoletana. Chi apprezza tra gli artisti attuali?

«Tiziano Ferro, Elisa, anche i Maneskin mi sembrano centrati nel loro stile».

E il rap?

«Ci sono dei rapper che trovo interessanti per i testi oltre che per la loro comunicativa. Tra questi, J-Ax che ha scritto un brano meraviglioso dedicato a suo figlio. Al tempo stesso il genere rap ha prodotto il trap, i cui interpreti oggi stanno avendo grande successo soprattutto grazie a internet dove affrontano temi importanti di disagio sociale con una certa esaltazione e leggerezza. Poiché questo particolare genere musicale è destinato a un pubblico adolescenziale facilmente influenzabile, credo sia importantissima una maggiore vigilanza e diffondere messaggi dai contenuti non negativi».

Segue i talent show musicali?

«Trovo che siano un fatto positivo. Oggi i giovani non sanno più come entrare nel mondo della musica. Certo, lì è già un po’ tutto pronto. Ci sono i coach e il pubblico che ti ascolta in condizioni di favore. Ai ragazzi che mi chiedono consiglio su cosa fare suggerisco di tentare i provini dei talent, perché fuori c’è il deserto. Mettendoli però in guardia sul fatto che un conto è avere una bella voce e saper cantare qualche cover, un altro è diventare un artista che sa stare sul palco».

Che rapporto ha con la politica?

«Quello di un cittadino normale. Seguo i telegiornali, m’informo».

Come vede il cambiamento verificatosi alle ultime elezioni?

«Sono piuttosto confusa. Fatico a farmi un’idea definitiva. Mi sembra che non si faccia abbastanza per far crescere il Paese. Appena si muove qualcosa, la burocrazia e la pressione amministrativa finiscono per soffocare tutto».

Che cosa pensa del movimento Me too?

«Penso che, con tutti i suoi limiti, possa servire a difendere le donne che per tanto tempo sono state viste come oggetto del desiderio. Ai tempi di mia madre e di mia nonna le condizioni erano peggiori. Ma ancora oggi, nel mondo del lavoro, spesso non c’è parità e a volte le donne vengono viste come facile preda».

Ha mai subito molestie?

«Mai».

Nessuna invadenza che l’ha costretta a mollare qualche ceffone?

«Appena mi accorgevo di qualche insistenza eccessiva evitavo persone e circostanze».

Si divide tra Palazzolo e Brindisi dove c’è il suo compagno.

«Per fortuna ci sono due aeroporti comodi e funzionanti».

Come si vive vicino a un ufficiale dell’arma dei Carabinieri?

«Imparando il senso del dovere e la responsabilità di dedicarsi con generosità al benessere degli altri».

Che trasmissione vorrebbe per tornare in televisione?

«Oggi sembra obsoleto parlare di varietà. È un genere che va rinnovato e aggiornato».

Le è piaciuto Stasera a casa Mika?

«Molto. Mika ha un’eleganza e una grazia naturali. Anche la scenografia era innovativa».

Altri?

«Renzo Arbore che se ne sta defilato e ogni tanto spunta con la sua leggerezza sapiente. E poi Fiorello, anche lui quando esce dalle retrovie…».

Come ha trascorso il Natale?

«Avendo viaggiato spesso per motivi di lavoro, il Natale per me e la mia famiglia è sempre stato un momento speciale per ritrovarsi tutti insieme. Credo che oltre al business della festività, questo sia un periodo giusto per rallentare e fare spazio ai valori più autentici e agli affetti più cari, ai famigliari, ai parenti e agli amici che non si ha avuto modo di abbracciare da tempo».

 

La Verità, 31 dicembre 2018

 

 

«Premi letterari? Truccati come certi talent»

Questione di «aspettative irrealistiche». Nell’ultimo romanzo Una di Luna (La nave di Teseo), Andrea De Carlo dice tutto in due parole. Pensiamoci un secondo, la faccenda è tutta qui. Quando riponiamo attese eccessive su qualcosa o qualcuno; quando ci aspettiamo soluzioni magiche, risposte gratificanti, corrispondenza totale ai nostri desideri. Quando crediamo finalmente di svoltare se si verifica un determinato evento. Le «aspettative irrealistiche» confinano con l’illusione e sono il contrario della speranza. Che è aperta, non pretenziosa, pronta a raccogliere quello che viene. Musicista, fotografo e giramondo, ma soprattutto scrittore, De Carlo – 66 anni, capelli nerissimi come la camicia con colletto coreano – è allergico alle giurie, ai premi letterari e ai talent show sebbene vi abbia partecipato, anzi, proprio per avervi partecipato. Si definisce uno «scrittore scrittore» per distinguersi dagli «scrittori letterati». Appare poco e vive tra Camogli e Milano.

Margherita, la protagonista del suo romanzo, è apprensiva per un padre che l’ha «tiranneggiata tutta la vita»: una rarità. Oggi i figli ci mandano a quel paese molto prima, o no?

«È così, i ragazzi di oggi non hanno la pazienza della mia protagonista. Lei è apprensiva verso il padre perché sa che, in fondo, dietro la scorza dura, è un uomo fragile, perennemente sull’orlo di un crollo, di uno schianto».

La figlia è la voce narrante, come ha fatto a immedesimarsi nella psicologia femminile?

«In passato avevo già scritto romanzi con una parte maschile e una femminile. Ho sempre ascoltato molto le donne, sono una fonte inesauribile, un universo che continua a incuriosirmi e che cerco di capire. Mi aiutano l’osservazione e la conversazione. Scriverne è un modo di entrare ancora di più in questa comprensione».

Il padre del romanzo è un uomo anziano, un fascista scontroso, un cuoco inflessibile per il quale finisce per simpatizzare anche lei?

«Volevo presentarlo come un uomo insopportabile, antipatico e in guerra con il mondo. Però poi, strada facendo, ha rivelato dei tratti che suscitano simpatia. Per esempio, quando si ribella agli autori del talent show che vogliono piegarlo al loro gioco non si può non parteggiare per lui. La sua intransigenza anche nella preparazione di una ricetta suscita simpatia. È una sorta di guerriero, un uomo di principi, nostalgico di un mondo ordinato e un po’ utopistico».

Quando s’incontrano la fatuità della tv e il rigore di un vecchietto tutto d’un pezzo esplode il conflitto generazionale, di culture e antropologie.

«Ho immaginato certi autori televisivi alla ricerca di tipi umani come fossero ingredienti, pezzi di verdura da infilare nel minestrone. Achille resiste a questa guerra cinica sperando nella grande occasione di riscatto. Ma è un sogno che va in frantumi e la sua partecipazione viene tragicamente manipolata».

È un racconto che deriva dall’esperienza di giurato nel talent letterario Masterpiece?

«Avevo accettato di far parte della giuria nella speranza di parlare di letteratura, di riflettere su come si scrive un romanzo e di partecipare a una piccola comunità letteraria. Era un’aspettativa irrealistica perché un talent è solo un gioco tra diversi concorrenti. Spesso ciò che noi giurati ritenevamo interessante veniva tagliato al montaggio perché tutto era finalizzato alla gara. È stata un’esperienza frustrante. Probabilmente in un programma dal vivo è diverso».

Mai più?

«Certo, mai più. Avevo esitato, ma alla fine mi ero convinto perché, ragionavo, se non si prova non si può valutare. La produzione puntava a due/tre milioni di telespettatori. Invece ci assestammo sul mezzo milione, più o meno l’audience di tutti i programmi di libri. Comunque, anche quell’esperienza è tornata utile».

Nel libro il talent s’intitola Chef Test: come la prenderanno a Sky?

«Non credo possano contestare. Quello che racconto riguarda il meccanismo di quei programmi, non tanto uno specifico».

Perché li chiama chefstar?

«Sono i nuovi maître à penser. Gli chef fanno di tutto, sono ovunque. Dispensano ricette di comportamento anche lontano dalle cucine».

Che sono diventate glamour.

«Una volta erano un posto infernale. Quando a vent’anni ho fatto il cameriere a Los Angeles, in cucina si sentiva urlare continuamente, c’era puzza d’olio bruciato, era sporco. Adesso è tutto patinato».

E si scopre che gli chef sono persone insoddisfatte se non infelici, sull’orlo dell’autodistruzione come rockstar.

«Il cuoco era un lavoro umile, quasi da nascondere: un uomo che lavora in cucina? Oggi i grandi chef sono quasi tutti uomini. Forse perché sono più maniacali. O più bravi a promuoversi, a gestire i meccanismi delle critiche e delle stelle».

Nel backstage del talent si assiste al conflitto tra due filosofie: quella dell’artigiano e quella globalizzata della tv.

«È anche un fatto logistico. Lo studio televisivo è in un capannone, un non luogo dell’hinterland milanese. Mentre il vecchio cuoco arriva da Venezia, un luogo stratificato da mille vicende, pieno di storia».

Che lei conosce bene…

«Ci ho vissuto da bambino, mio padre insegnava lì. Poi ci sono tornato parecchie volte».

Tornando al confronto generazionale, i nostri padri avevano solidità e uno spessore che noi ci sogniamo?

«Erano molto più solidi. La loro è stata una generazione forgiata da difficoltà enormi, compresa la guerra. La cultura dell’epoca imponeva ruoli definiti e inscalfibili. L’uomo era la roccia della famiglia, non piangeva mai, a volte era un tiranno. La comunicazione affettiva con i figli era quasi inesistente. Oggi siamo caduti nell’estremo opposto: padri bamboccioni, che piangono alla minima difficoltà e fanno gli amiconi».

Le aspettative irrealistiche sono la causa principale delle nostre depressioni?

«Sì, per le delusioni che provocano. Le aspettative irrealistiche diventano surrettiziamente una pretesa. Tendiamo a configurare troppo ciò che attendiamo. Per esempio, vai in un ristorante stellato e sei sicuro di uscirne un uomo trasformato. Invece, magari esci solo più povero e ancora affamato. Il vecchio cuoco del romanzo pretende il suo risarcimento pubblico dall’ospitata a un talent. Margherita spera che a 87 anni un padre super egocentrico diventi chissà perché attento ai suoi sentimenti. Quello che attendiamo con troppa precisione non è mai come ce lo immaginiamo».

Non dobbiamo illuderci. Perché l’unico uomo che corrisponde alle attese di Margherita è un illusionista?

«Perché c’è differenza tra illusione e speranza. La speranza è aperta, non prestabilisce come deve andare. L’uomo che corrisponde alle aspettative di Margherita è un illusionista disincantato».

Anche lui un artigiano, come i cuochi di una volta?

«E come lo scrittore. Ispirazione a parte, la ricerca quotidiana delle parole è un’umile attività artigianale».

Che differenza c’è tra gli scrittori letterati e gli scrittori scrittori?

«Lo scrittore letterato è colui che si sente testimone della società e interviene sui temi più disparati nei salotti televisivi. Gli scrittori scrittori sono quelli che si limitano a raccontare le storie che sentono e vedono intorno a loro stessi. Io appartengo a questa seconda categoria. Recitare la parte dello scrittore non m’interessa per niente. Scrivere, invece, molto».

Facciamo qualche esempio delle due categorie?

«Meglio di no, guardandosi intorno si riconoscono. Comunque, oggi il ruolo sociale dello scrittore è ridimensionato».

Sicuro? Quest’estate c’erano quelli che volevano salire sulle navi dei migranti.

«Vero, ma ormai si ha la percezione che gli scrittori militanti finiscono per svilire la loro arte. Fanno i maître à penser, come i cuochi filosofi. Ciò detto, anch’io esprimo la mia visione del mondo, ma lo faccio nei romanzi».

Perché non partecipa ai premi letterari?

«Sono stato diversi anni nella giuria del Premio Strega e ho assistito ai traffici degli editori per far vincere questo o quello. Ho visto i meccanismi della manipolazione che assomigliano a quelli del montaggio dei talent show. Alla fine mi sono dimesso e ora sarebbe incoerente concorrere ai premi. Per di più non sono convinto che una giuria possa decidere se un libro è meglio di un altro».

E dei festival cosa pensa?

«Qualche volta ci vado. Si incontrano i lettori… Sono stato a Mantova, a Pordenone. Ma non lo faccio in modo seriale. Anche lo scrittore da festival che allestisce il suo show non mi convince».

A proposito di aspettative irrealistiche, che rapporto ha con la politica?

«Non mi sono mai identificato in nessuna ideologia e tanto meno in qualche partito. Ho un atteggiamento critico verso chiunque sia al potere. E adesso anche con chi è all’opposizione. Sono un anarchico insofferente».

Ha mai votato?

«Una volta sola. Mi sembra di esser costretto a scegliere tra cose che non mi piacciono».

Ha cambiato tante città, è stato in America e in Australia. Vivere a Camogli è una scelta estetica?

«La Liguria mi è piaciuta fin da bambino. Camogli è un luogo di luce e colori che mi corrisponde».

Come si divide tra le attività di musicista, fotografo e scrittore?

«La fotografia è il gusto della curiosità, niente più che un hobby. Amo la musica e suono tutti i giorni. Ma la mia attività vera è la scrittura, dove so di riuscire a fare quello che voglio. Gli altri linguaggi possono arricchirla».

Che cosa le dà speranza?

«Soprattutto le piccole cose quotidiane. Suonare con gli amici. Stare con qualcuno che non vedevo da tanto tempo…».

 

La Verità, 16 settembre 2018

Talent giudici. Profonda riflessione in corso

Qualche nota sull’undicesima edizione di X Factor che si conclude con la finale di stasera e che, per varie ragioni, si è rivelata la più faticosa da quando, nel 2011, il talent show è passato a Sky Italia. Stiamo sempre parlando del miglior show musicale in circolazione, ma qualche crepa comincia ad aprirsi sulla superficie levigata del plexiglass. Direttore artistico (il ripetutamente ringraziato Luca Tommassini) regia, autori, scenografi e coreografi fanno sempre alla grande il loro sporco lavoro e, salvo qualche rimediabilissimo incidente, la macchina continua a girare oliata e l’innovazione estetica e tecnologica rimane apprezzabile. La conduzione di Alessandro Cattelan è una garanzia al punto che, considerata la padronanza, se un rischio può esserci è quello del pilota automatico innestato su una velocità di crociera meno elettrizzante di altre annate. Tuttavia, avercene. Anche i concorrenti si mantengono di ottimo livello. Quest’anno, ridimensionata la presenza del rap che ormai era come la rucola negli anni Novanta, la varietà dei generi è stata ancora più ampia. In finale sono arrivati il tenore pop di prospettiva, la voce soul che sparge particelle di sofferenza, la band punk sfacciatamente provocatoria, il cantautore di personalità: tutti con un «percorso» e un «carattere» ben definiti. Per inciso, bookmakers e fan soprattutto femminili tifano spudoratamente per i Maneskin. Dove tutto l’ingranaggio si è inceppato è dietro il bancone dei giudici tra i quali la chimica è stata pari a zero. Una ruota quadrata. Fin dal primo live è emersa la conflittualità tra Manuel Agnelli e Mara Maionchi e tra Levante e Fedez. Liti e contestazioni ribadite sulle assegnazioni e sulla gestione dei singoli cantanti hanno evidenziato una diversa concezione del talent. Mara e Levante erano contestate per il frequente ricorso a cover, mentre Manuel e Fedez insistevano a frequentare l’underground. Insomma, da una parte poca ricerca, dall’altra troppa ricercatezza. La ruota si fermava a ogni spigolo. Quello più grosso è stato il caso Rita Bellanza, talento di grandi ambizioni più per il vissuto che per l’estensione vocale. A rendere ancora più gelido il clima dalle parti della giuria è arrivato lo scontro tra Manuel e Fedez sull’ennesimo salvataggio di Rita ai danni di Gabriele Esposito. Si è andati avanti senza più interagire per non rischiare di farsi troppo male. La riflessione dovrà essere profonda. Basterà cambiare i giudici, tutti o quasi, per rivitalizzare il format?

 

La Verità, 9 dicembre 2017

Tommassini: «Il segreto di X Factor? La nostra follia»

D’accordo, i giudici; Arisa che sclera e Manuel Agnelli che spacca il capello in quattro; Fedez che gioca con i calembour e l’empatia di Soler. Ok anche la musica e le canzoni, il meglio del pop soprattutto (rock pochino). Bene anche Alessandro Cattelan, con la sua conduzione smart, agile nel risolvere le situazioni più impreviste. E poi i social, la viralità, i fan, la buona stampa e tutto il resto. Ottimi anche gli ascolti (1.340.000 telespettatori nella semifinale di giovedì scorso, più 36 per cento rispetto al 2015). Ma lo show, lo spettacolo vero, internazionale e contemporaneo, dove lo mettiamo? E, soprattutto, dove andiamo a cercarlo?

I giudici di «X Factor 10». Probabilmente nella nuova edizione Arisa non ci sarà

I giudici di «X Factor 10». Probabilmente nella nuova edizione Arisa non ci sarà

 

Di Luca Tommassini, direttore artistico di X Factor, si parla troppo poco. Per compensare questa lacuna, i quattro coach si sono inventati il gioco di chi, nella serata, chiama per primo l’applauso del pubblico per lui. Un piccolo tormentone che è un riconoscimento. Perché una delle differenze principali tra il talent di Sky Italia e gli altri in giro per i palinsesti (altre edizioni di X Factor comprese) la fa la sua direzione artistica. La sua «breve biografia», come l’ha presentata l’ufficio stampa, è un curriculum lungo così. Dite un nome nel mondo del pop e lui ce l’ha: Madonna, Prince, Michael Jackson, Diana Ross, Robin Williams, Whitney Houston, Kilye Minogue, Alicia Keys, Gwen Stefani, Phil Collins, Jamiroquai, Katy Perry, Beyoncé eccetera. Dite un nome di cantante e artista italiano di primissimo piano, idem. E poi nel mondo della moda e della tv. Vi risparmio le liste altrimenti finisco lo spazio. Per la finale di giovedì 15 dicembre, da lunedì sera tutto il gruppo è al Palaforum di Assago: «Essere pronti in tre giorni per un live in un palco e una scenografia nuovi spaventa chiunque. Ma noi siamo tutti malati di mente e di passione».

Chi è Luca Tommassini?

«Un sognatore cui la musica ha dato tanto che cerca di restituire quanto ha ricevuto».

Missione impegnativa.

«Ma anche un piacere. La mattina quando mi sveglio se ho un’idea divento contagioso e cerco di trasmetterla ai miei collaboratori. Siamo una squadra fenomenale. Siamo arrivati su Sky Uno che non era accesa. Il nostro è puro artigianato italiano, facciamo tutto insieme a Sky e Fremantle Media, scenografie, coreografie, grafiche tutto fatto in casa».

Qual è il segreto di X Factor che ogni anno, siamo al decimo, incrementa gli ascolti?

«È la formula, che attinge da tutte queste figure fondamentali, Gigi Maresca che ora firma la scenografia, la costumista Claudia Tortora, il giovane regista Luigi Antonini. Tutta gente di altissima qualità».

Un momento dell'esibizione dei Soul System durante la semifinale

Un momento dell’esibizione dei Soul System durante la semifinale

 

E tu sei il capitano…

«Ho la responsabilità creatività del live. Spingo tutti verso la follia, anche con orari disumani… Conosco tutti, compresi quelli di “attrezzismo violento”, come si sono ribattezzati gli artigiani e i falegnami che costruiscono tutto qui, con Alessandro Voltolin, il direttore di palco».

Sempre tutto perfetto? Mai incorsi in qualche incidente?

«Nell’ultima puntata, la più vista della storia di Sky, le opere di Marco Lodola fatte con la luce si dovevano accendere in diretta. La cosa mi teneva in ansia. Infatti, alla prima esibizione di Gaia, la luce non si è accesa, e abbiamo illuminato tutto da fuori, al volo…».

Il pubblico non s’è accorto di niente?

«Non credo. Il fatto che non ci siano mai stati grandi incidenti è un mio orgoglio personale. Quando abbiamo coinvolto un’orchestra di 39 elementi e 40 tra figuranti e ballerini, sul palco c’erano quasi cento persone oltre a 12 sfere e una X gigante. Abbiamo fatto il cambio scena in 2 minuti e 40 secondi».

C’è qualcosa della tua esperienza che ti sta aiutando di più a X Factor?

«Madonna è stata la mia più grande insegnante. Dico spesso che, dopo Dio, lei è la più grande creatrice artistica del mondo. Non è una cantante o una ballerina eccelsa, eppure lo show è inarrivabile. Da lei ho imparato che lavorando dietro le quinte si può andare molto lontano».

Luca Tommassini con Madonna: «Dopo Dio è la più grande creatrice artistica del mondo»

Luca Tommassini con Madonna: «Dopo Dio è la più grande creatrice artistica del mondo»

Hai scritto un libro intitolato Fattore T – L’inafferrabile scintilla del talento: perché secondo te è inafferrabile?

«La scintilla è inafferrabile e inaffidabile. Va coltivata per trasformarla in un fuoco vero. Se ti metti in questo cammino, a lavorare, puoi averne luce, vita, energia. Ma per questo devi dare tutto, come si fa con un bambino per farlo diventare grande».

Ma il talento è un dono?

«Tutti ne abbiamo qualcuno, bisogna cercare di capire quale. E poi dobbiamo capire che farne. Sono dell’idea che da solo non basti: serve metà talento e metà lavoro, metà genio e metà impegno».

Che cosa ti fa scattare l’idea per una coreografia di una canzone?

«L’idea non è mai un problema. Sembra banale: ascolto la canzone a occhi chiusi e lascio andare la fantasia. A volte non arrivo nemmeno alla fine del brano. Conoscendo il cantante o l’attore entro in un mondo e inizio a sognare. Poi però mi do la sveglia per iniziare a lavorare».

Da mercoledì sarai anche giudice nel talent di Dance dance dance di FoxLife. La danza è il tuo grande amore: ricambiato?

«Lo è stato quand’ero bambino. A 18 anni, nel 1988, ho vinto lo Star Search International, il primo talent a livello mondiale. Grazie al ballo ho superato la depressione che mi venne appena smisi. Riprendendo, mi è passata. Ora faccio anche pubblicità per le auto, regie teatrali, ho recitato al cinema. Tornare a discutere di ballo mi attira. Ho già fatto il giudice in grandi programmi in Gran Bretagna, in Italia invece è la prima volta».

Non sono troppi i talent show?

«Assolutamente no».

Non affermano un’idea prefabbricata del talento?

«Penso di no. Per esempio, X Factor è l’occasione per mettere in scena quelli più pronti. Scegliamo 12 ragazzi che hanno già individuato le loro doti. Vengono dalla strada o dal laboratorio. Non serve una scuola, ma mettere a fuoco le loro potenzialità e portarli a un livello professionale».

Stai coltivando qualche nuovo progetto?

«Ho già lavorato nel cinema come coreografo. Ora mi piacerebbe raccontare una storia mia come regista. Magari anche nel mondo dell’opera».

 

La Verità, 13 dicembre 2016

 

Dove nasce il magnetismo di Manuel Agnelli

A un certo punto, l’altra sera, si presenta sul palco di X Factor Marco. Vestito di nero, mingherlino, agghindato, capigliatura improbabile, visibilmente omosessuale: «Porto Sex machine di James Brown». «Acciderboli! E perché questa scelta?», gli chiede Manuel Agnelli. «Perché sono un ballerino e questa canzone mi permette di mostrare alcuni movimenti…». Tra gli sguardi perplessi dei giudici parte il riff di uno dei capolavori della musica funky. Alla fine Arisa apprezza, Álvaro Soler pure. Agnelli lo guarda dritto e spara: «Io penso che in questo momento James Brown si stia rivoltando nella tomba. Hai sbagliato canzone, Sex machine è un pezzo di una violenza e di un’animalità che tu non hai. Voto prima io, perché il mio voto è sicuro. Per me è no». Politicamente corretto abolito, zero buonismi, parole chiare senza smancerie, sentimentalismi e concessioni al gossip, alla seconda puntata di audizioni (record di ascolti su Sky Uno con il 4,84 per cento e 1,5 milioni di telespettatori) Manuel Agnelli è la nuova star di X Factor.

La giuria della decima edizione di X Factor: da sinistra, Manuel Agnelli, Arisa, Álvaro Soler e Fedez

La giuria della decima edizione di X Factor: da sinistra, Manuel Agnelli, Arisa, Álvaro Soler e Fedez

Cinquant’anni, milanese, sposato e padre di Emma, leader degli Afterhours, gruppo di alternative rock, è sempre stato sideralmente lontano dal mainstream televisivo se si eccettua l’isolata partecipazione a Sanremo 2009, ultimo classificato con la sua band. Già l’anno scorso quelli di Sky lo volevano in giuria, ma lui non se l’era sentita: «Paura». Per il grande pubblico, digiuno di festival indipendenti e concerti nei centri sociali, Agnelli è un inedito assoluto. Qualcuno che non si era ancora visto. Ma non è solo la novità a provocare un misto di curiosità e diffidenza. Già archiviati gli idoli delle ultime annate, Mika e Morgan, in una giuria dominata dal pop e dal rap, Agnelli porta le svisate del rock e del punk. Una differenza espressa in ottimo italiano che per imporsi non ha bisogno di smorfie o caricature facciali. L’aria maledetta e vagamente sinistra, il capello lungo da rocker anni ’70 e la somiglianza con Severus Piton di Harry Potter gli conferiscono quel magnetismo e quell’imprevedibilità vagamente inquietante che tengono allerta il pubblico: chissà che cosa spara adesso… Alle prime audizioni a un ragazzo che sfoggiava un taglio da marine e al quale Fedez aveva chiesto se era un militare ha detto: «È un peccato che tu non lo sia perché con il coraggio che dimostri a cantare saresti una garanzia per la difesa della nostra patria». Un’altra candidata che strillava troppo è stata congedata così: «Il problema è che la comunità europea ha sancito un limite di decibel». Una coppia di ragazzi che ha allestito un teatrino con maschere piangenti per denunciare «il disastro della società in cui vivamo» si è sentita dire: «È il vostro conformismo da anticonformisti che non sopporto». E poi altre sentenze da Cassazione: «Non hai talento», «Sei antica, queste cose si vedevano al Festivalbar degli anni ’80». Però, sarebbe sbagliato pensare che Agnelli trinci giudizi in fotocopia, premiando solo i candidati più vicini al suo genere. Alla prima puntata Les enfants, quattro amici boy scout, jeans e camicie, hanno presentato Che fantastica storia è la vita di Antonello Venditti. Dopo l’ultima nota Agnelli li ha chiamati avanti sul palco: «Lo confesso, per un preconcetto non vedevo l’ora di massacrarvi. I boy scout, il modo in cui siete vestiti, la scelta della canzone eccetera: avevo davvero il colpo in canna. Ma invece siete bravi». Della sua partecipazione a X Factor dice che «tutto ha un ruolo. Il moscerino ha un ruolo, la blatta ha un ruolo, io ho questo». Ovvero: quello di non indulgere, di non commuoversi, di trasmettere ai concorrenti la necessità di perseguire l’obiettivo tenendo la schiena dritta. Quanto a se stesso dice: «Non vado a X Factor per cambiare il programma, ma per portare la mia visione della musica laddove non è rappresentata. Più che la rivoluzione, voglio portare informazioni nuove. E la tv, se usata bene, può dare grandi risultati». Un amico che lo conosce e s’intende di musica mi ha detto: «Agnelli a X Factor è come Madonna in un hotel a 2 stelle». E, in effetti, la sua partecipazione al talent show ha provocato una mezza rivolta negli ambienti della musica indie. Contestazione dei fan, attacchi sul web: «Manuel si è venduto». E qui si capisce che i giudizi secchi non sono una posa per le telecamere: «Mettiamola così», ha risposto a Vanity Fair, «prima di tradirlo, io sono stato tradito dal mio mondo e dall’ideale alternative… Quell’ambiente è cambiato radicalmente, è diventato conformista, di più: fascista… L’idea della riserva indiana, di difendere i confini, non produce niente… Non accetto un tribunale che decide cosa è giusto e cosa sbagliato». Insomma, una ribellione in piena regola al suo mondo di riferimento. Sinistra radical chic compresa: «Sono incazzato a morte con l’intellighenzia, quelli che “Io in televisione non ci andrei mai”», ha raccontato a Mucchio selvaggio. «Gli intellettuali, i designer, gli architetti, tutti quelli che ti dicono che non ci vanno per difendere la cultura. Certo, la televisione è molto volgare: chi lo nega? Ma questi sono in cattiva fede, difendono la cultura solo e unicamente perché vogliono controllarla… Cosa fa la sinistra da molti anni a questa parte? Questa non è cultura, è un club, è una gabbia».

La rivolta di Agnelli contro i rivoltosi per mestiere probabilmente deriva dalla recente morte del padre. Una figura importante per Manuel: commercialista, attivo in politica, musicista per hobby tanto da avergli insegnato a suonare le tastiere. Era in cura da tempo per un tumore e a 77 anni è morto per un’infezione al sangue contratta durante la chemioterapia. L’ultimo cd appena pubblicato dagli Afterhours s’intitola Folfiri o Folfox, che sono i nomi di due tipi di chemioterapie. Ma non è un disco di morte «fatto per portare avanti il dolore, ma per liberarmi di esso… Dopo la morte di mio padre mi sono sentito spaventato e abbandonato, un po’ perché ora ho bisogni elementari: voglio solo stare bene. Voglio essere felice e non me ne frega niente se è la cosa più banale del mondo». Benvenuto, Manuel.