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«Questa società ha bisogno di uomini Lego»

Allora, Susanna Tamaro, contrariamente alla vulgata secondo la quale è un non luogo geografico, il Molise esiste davvero?

«Ricordo che all’esame di seconda elementare la commissione mi chiese di indicare sulla carta geografica dov’era il Molise. Si diceva sempre Abruzzo e Molise… Così, con una lunga bacchetta, puntai l’Italia centrale. Forse mi è rimasta da allora la passione per questi posti. Anche la protagonista di Va’ dove ti porta il cuore sposa un uomo dell’Aquila».

Quella di Il vento soffia dove vuole invece ne sposa uno di Capracotta (Isernia), esemplare degli uomini Lego. Messa così sembra la trama di un romanzo di fantascienza…

«Sembra».

Invece è un romanzo epistolare come Va’ dove ti porta il cuore, che però è del 1994. Chi scrive lettere nell’èra dei social e dei messaggi vocali?

«Più o meno nessuno. Però, secondo me, sta iniziando una controtendenza. Nella mia libreria a Orvieto c’è un reparto di belle carte da lettera, forse qualcuno le compra… Ci dimentichiamo che l’uomo è memoria e la memoria passa attraverso la scrittura. L’uomo smemorato è un futuro servo obbediente».

Susanna Tamaro è a Padova, ospite della Fiera delle parole, dove ha presentato in anteprima nazionale Il vento soffia dove vuole (Solferino), il nuovo libro che ha per protagonista una madre autrice di tre lettere alle sue due figlie e al marito, nelle quali succedono un sacco di cose che la scrittrice triestina narra con quel suo linguaggio semplice, frutto di una complessità risolta, affrontando temi come l’adozione, l’aborto, l’eredità genetica, la marginalizzazione del maschio.

Possiamo dire che si tratta di un romanzo antimoderno?

«In un certo senso sì, perché usa una forma di comunicazione che si può considerare antiquata ma, secondo me, da rivalutare. Ai tempi di Va’ dove ti porta il cuore ricevevo migliaia di lettere. Avendo risposto quasi a tutte ricordo le storie dei miei lettori… La schematizzazione virtuale delle emozioni e del pensiero non fa bene a nessuno».

La schematizzazione virtuale?

«I like, mi piace, non mi piace. Con i social viviamo in una perenne distrazione di massa, mentre scrivere fa articolare pensieri complessi».

Nel libro ricorre anche a espressioni che derivano dal mondo induista.

«Ho avuto una formazione particolare. Mio padre era un seguace di Krishnamurti, un importante mistico di origine indiana. Anch’io ho letto i suoi libri e sono state letture importanti. Ogni popolo ha una propria forma per esprimere la sete d’infinito. E ognuna di queste forme porta un tassello alla nostra vita e la arricchisce».

Usa anche la poesia, soprattutto Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Come mai Giacomo Leopardi, che nelle scuole insegnano come il campione del pessimismo?

«Leopardi è un grande della letteratura che ho detestato fino ai miei trent’anni. Quando mi sono immersa nello Zibaldone, ho trovato la sua poesia sempre nuova, ricca, mi ha regalato tanto. La poesia è un patrimonio che ci illumina e ci apre nuovi orizzonti. Primo Levi raccontò di essersi salvato nei campi di concentramento imparando alcune poesie a memoria».

Chi sono gli uomini Lego?

«Quelli che hanno la spinta a costruire relazioni che durano nel tempo. Sono quelli che sanno che ci vogliono le mani per potare un melo, per riparare un cancello… Vivo in campagna da 35 anni e vedo che in città queste conoscenze si perdono e si perde la dimensione della costruzione perché è tutto mentale. Abbiamo migliaia di anni alle spalle legati alla terra e all’evoluzione, ma pensiamo che gli ultimi trent’anni di iper-modernità siano tutta la nostra storia».

Le sembra che ci sia bisogno di questi uomini Lego?

«Sì, assolutamente. La mia visione della natura e del mondo materiale è segnata anche dal taosimo, una religione basata sulle polarità. Se uno dei due poli diventa debole, tutto si sbilancia. Oggi viviamo uno squilibrio nel rapporto tra maschile e femminile perché l’uomo ha perso il potere che aveva un tempo e non ne ha ancora costruito un altro. Per questo siamo in una fase di transizione».

La accuseranno di voler ripristinare il patriarcato.

«Ho parlato di transizione, non di ritorno al passato. La maggior parte delle mie amiche è sposata con uomini Lego e anch’io ho amici che sono persone sensibili. Invece nella narrativa prevalente l’uomo e descritto come qualcosa di torbido, portatore di negatività».

Questa mamma, da ragazza, ha abortito e porta nella psiche e nel corpo qualche conseguenza. L’aborto è un diritto conquistato in anni di lotta delle donne, ma si pensa che, una volta praticato, non abbia memoria?

«Appartengo alla generazione che ha vissuto in pieno l’arrivo della legge 194. Avevo e ho molte amiche attiviste e militanti radicali. È stata una battaglia epocale. Ma nonostante abbia vissuto in questo ambiente quegli anni ho sempre provato turbamento davanti a quello che considero un evento non indolore. Mi impressiona il fatto che venga trattato sempre come una questione ideologica e mai come una questione ontologica».

Cosa intende dire?

«Che l’aborto è un’azione che riguarda chi è, cos’è la persona. Come si forma. Di questi tempi mi colpisce il disprezzo generalizzato per la vita. A nessuno capita mai di pensare che se la propria madre avesse deciso di abortire lui non sarebbe nato, non avrebbe fatto parte dell’avventura difficile e complicata della vita».

Invece prevale l’ideologia…

«Che cancella la sofferenza delle donne. Può capitare nella vita di fare come la mia protagonista, si pensa di risolvere un problema… Ma è un’azione importante che non si può archiviare in modo disinvolto perché le sue tracce segnano la fisiologia e restano a lungo nel corpo delle donne. Penso che le donne debbano ascoltare il loro dolore profondo ed essere orgogliose dei loro diritti».

Questa madre poi adotta e mentre sono in corso le procedure per l’adozione rimane incinta e sta per ricredersi: è un eccesso di sincerità raccontarlo alla figlia adottiva?

«So di casi analoghi: la maternità adottiva sblocca anche la fecondità naturale. È molto umano provare uno smarrimento in quella situazione perché aspetti un figlio sconosciuto e ne hai un altro naturale in pancia. Quando si scrive bisogna avere il coraggio di mettere a nudo anche le proprie fragilità. La madre evidentemente pensa che la figlia sia in grado di comprendere il suo travaglio».

Nel parapiglia tra spermatozoi e ovuli che s’incontrano la protagonista intravede il destino.

«Il destino è la grande realtà che abbiamo rimosso perché viviamo in un mondo immolato al caso. Invece, proprio per la fragilità che ci abita e per l’imprevedibilità degli eventi, appartiene alla cultura umana l’idea che le nostre vite siano governate da un destino invisibile».

Lei si sofferma sulla differenza tra la figlia adottata e quella naturale: parlare dell’importanza della genetica nella nascita e nella formazione delle persone vuol dire essere razzisti?

«Vuol dire essere realisti. Oggi, nonostante ci si proclami super scientifici e super razionali, dimentichiamo la complessità dell’ereditarietà e della memoria della discendenza. Il mondo attuale cancella le genealogie, ma gli studi sul Dna ci stanno svelando cose straordinarie sull’ereditarietà genetica. I talenti, per esempio, sono ereditari. Nel karma indiano quando si studia la complessità delle famiglie si vede che in ogni generazione si ripropone un problema relazionale o affettivo non risolto da quelle precedenti».

Come colmare il fossato che la realtà virtuale così invadente oggi ha scavato tra le generazioni adulte e gli adolescenti?

«Con una grande consapevolezza e un grande lavoro. Già negli anni Novanta il grande psichiatra Giovanni Bollea voleva sensibilizzare il mondo della politica sui danni neurologici e psichiatrici della realtà virtuale, allo scopo di insegnare alle famiglie e alla scuola un uso consapevole di questi mezzi, per altro meravigliosi. Io non sono contro la modernità digitale. Dalla medicina all’agricoltura ha permesso passi avanti straordinari, ma forse dovrebbe essere meno invadente nella nostra vita quotidiana perché altrimenti rischiamo di trasformarci da homo sapiens in homo demens. Nella progredita Svezia hanno tolto l’uso delle tecnologie digitali dalle scuole e sono tornati a carta e penna perché si sono accorti del danno cognitivo ingenerato nei bambini».

Ha seguito il dibattito sullo spot di Esselunga?

«Mi è sembrato tanto rumore per nulla. Così come mi sembra umanamente ovvio che un bambino desideri che i propri genitori si vogliano bene. Sono la sua origine, il senso del suo esistere».

Nell’esortazione Laudate Deum promulgata per il Sinodo il Papa invita a cambiare comportamenti per sconfiggere il cambiamento climatico. È il tipo di messaggio che l’umanità si aspetta dalla Chiesa?

«Questo messaggio è già promosso da tutti i media, dai governi e dagli organismi internazionali. Forse sarebbe bello che la Chiesa tornasse a parlare dell’esistenza dell’anima. Forse è questa la cosa di cui abbiamo più bisogno: sapere che non siamo pura materia, sapere che in noi abita la complessità su cui si staglia l’ombra del Mistero».

Qualcuno vede nella cultura woke una sorta di nebbia che allontana l’essere dalle sue radici e una forma di conformismo. Come bucare questa nebbia?

«Questa cultura provoca un grande disordine e quando viene provocato un disordine con tanta caparbietà bisogna chiedersi a chi giova».

Cosa indica la viriditas che alla fine del libro propone di rivalutare?

«È un termine coniato dalla grande mistica benedettina Ildegarda di Bingen vissuta nel XII secolo che Benedetto XVI ha proclamato dottore della Chiesa. Nella sua visione profetica elogiava la presenza di una forza vitale, generativa, legata al verde come il colore delle piante e alla base della natura. Una parola contenente anche il termine vir, che indica la virilità dell’uomo. Non il maschilismo tossico, beninteso. Ma quella dote che appartiene a ogni essere umano, indifferentemente dal sesso, capace di vivere all’altezza delle domande dell’anima».

 

La Verità, 7 ottobre 2023

«Sul Covid obblighi, danni e silenzi: ora capiamo»

Una scrittrice polimorfa, in grado di esprimersi in varie forme letterarie». Così monsignor Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla, e suo amico di lunga data, ha definito qualche giorno fa Susanna Tamaro. Si era a Caorle, alla festa organizzata da Tempi per riflettere sul tema «Chiamare le cose con il loro nome», e l’autrice di Va’ dove di porta il cuore e di un’altra quarantina di libri, tra romanzi, saggi e favole per bambini, era stata invitata per ritirare il premio intitolato a Luigi Amicone, fondatore e storico direttore della rivista. Un premio assegnato dalla giuria presieduta da Giuliano Ferrara all’ultimo libro, Tornare umani, edito da Solferino, riflessione critica ad ampio raggio sugli anni vissuti nello scacco della pandemia da Covid-19. Ma anche un premio a tutta l’opera della scrittrice triestina che vive in Umbria, cuore geografico d’Italia, «dove anch’io ho una casa», ha raccontato monsignor Camisasca, «e così ci siamo frequentati nella terra di Francesco e di Benedetto, dove si è snodata tre quarti della storia del cristianesimo mondiale». E dove Tamaro ha scelto di stare «per dedicarmi a pensare anche per chi non vuole o non può farlo, assorbito dalle incombenze quotidiane o sommerso dal rumore che avvolge a tutti i livelli la società contemporanea». È lì, nella collina vicino Orvieto, che è maturata nella scrittrice quella che potremmo chiamare dimensione sapienziale, uno sguardo lucido e profondo sulle vicende del nostro tempo. Uno sguardo anche sanamente distaccato, in forza del quale le capita di assumere posizioni di denuncia, come in questa intervista.

Susanna Tamaro, come ha accolto il premio a Tornare umani, un libro forse un po’ divisivo?

«Con grande gioia perché mi è costato molta fatica per la delicatezza dell’argomento».

Che accoglienza ha avuto al momento della pubblicazione?

«Un’accoglienza ottima da parte dei lettori dai quali continua a essere apprezzato perché è un libro esente da qualsiasi forma di fanatismo. E che si pone domande importanti su quello che abbiamo vissuto in questi anni».

Invece i grandi giornali e i media in generale come l’hanno trattato?

«Non ha avuto un’accoglienza particolarmente benevola, forse perché non è un grande romanzo o per l’argomento trattato che allora era abbastanza esplosivo: la gestione della pandemia».

Eppure è stato pubblicato da Solferino, marchio di proprietà di Urbano Cairo, editore anche del Corriere della Sera.

«E questo è un bel segno perché vuol dire che c’è un editore che crede in un autore e investe su di lui».

Perché secondo lei è un libro importante?

«Perché abbiamo passato due anni di follia totale, soggiogati da due fanatismi contrapposti. Ma le persone normali, che non parteggiavano per nessuna delle due parti, a un certo punto hanno cominciato a farsi delle domande e a cercare delle risposte. Che, però, dalla narrazione ufficiale non arrivavano e non sono arrivate».

In particolare?

«Tutte le questioni relative all’obbligo vaccinale e ai danni del vaccino. Una cosa impensabile in un Paese democratico. E poi la sproporzione dell’allarme mediatico. Si è creato terrore in modo irresponsabile per due o tre anni».

Però la gente moriva.

«Innanzitutto, va detto che per malattia si muore. E si muore anche se non si è curati o si è curati male. È chiaro che una malattia virale importante come il Covid non si può lasciarla agire nel corpo, stando a vedere che cosa succede. La vigile attesa è una tecnica che viene usata soprattutto per monitorare forme tumorali in persone anziane, per capire il rischio o il beneficio di un’eventuale operazione. Come si può applicare questo principio a una malattia che è virulenta? È chiaro che se si lascia un virus agire, poi quando si interviene è molto più difficile debellarlo».

Questo libro ha anticipato alcuni dei dibattiti seguiti nei mesi successivi?

«In qualche modo quando leggevo le cronache delle indagini di Bergamo ci ritrovavo le stesse cose che avevo scritto semplicemente osservando la realtà».

Secondo lei si stenta a parlare in modo trasparente di ciò che è accaduto nella fase acuta della pandemia?

«In Italia abbiamo vissuto una guerra civile che, invece di aprire un dialogo, avviando un tentativo di guarire la memoria dalle ferite ancora aperte, ci invita a fingere che tutto sia andato nel migliore dei modi».

Una forma di censura dolce?

«C’è una volontà di non affrontare l’argomento. Negli altri Paesi europei non è così. La situazione è diversa».

Lei ha evidenze concrete che richiederebbero una maggiore disponibilità ad affrontare questi temi? Situazioni, casi e vicende problematiche?

«Certo. Dato che vivo in un paese vedo la realtà concreta e non quella raccontata dai numeri dei telegiornali. Allora posso dire che vivo con otto persone che conosco da decine di anni. Bene, tre di loro sono state vittime di eventi avversi molto importanti. Non solo, questi eventi non sono stati segnalati anche per la scarsa sensibilità mostrata di fronte alle persone colpite. Persone la cui vita è drammaticamente cambiata».

Secondo lei, con la motivazione della pandemia e da allora in poi, si tende a espandere il controllo sulla vita quotidiana dei cittadini?

«Assolutamente sì. Un fatto che mi irrita profondamente è la legge sulla privacy. I bambini non possono più fare le foto di fine anno scolastico per la privacy, ma questo sistema di controllo conosce anche il colore delle calze che indossiamo la mattina».

Le vittime di questi eventi avversi sono invisibili per la comunicazione mainstream?

«Non solo. Siccome questi danni da vaccino sono situazioni nuove, il sistema sanitario non è in possesso degli strumenti per capire di che cosa si tratta. In Germania, per esempio, già da diversi mesi sono state create équipe mediche che lavorano per capire come curare questi effetti avversi. Pericarditi, miocarditi, infarti fulminanti, paralisi e anche danni cerebrali, compresi certi casi di demenza improvvisa esplosi dopo quattro dosi vaccinali. Situazioni con cui sono personalmente venuta a contatto e che hanno colpito anche persone con cui vivo».

Delle conseguenze negative della vaccinazione massiccia si parlava poco anche prima della morte di Silvio Berlusconi che ha monopolizzato i media negli ultimi giorni.

«Adesso lo si fa ancora meno».

Ha pensato di scrivere sull’argomento? C’è qualcosa che l’ha disturbata e qualcos’altro che invece le è piaciuto nei giorni scorsi?

«No. Dall’esplosione dell’epidemia ho smesso di leggere i giornali e anche di guardare la televisione».

Una scelta molto radicale.

«Quando è troppo è troppo. Dalla guerra in Ucraina ho chiuso tutto. Il male è male, la morte è morte. È tutto una follia».

Il suo rapporto con i giornali e i giornalisti è divenuto più diffidente dopo l’intervista che ha concesso in occasione del Salone del Libro di Torino a proposito della letteratura nelle scuole?

«Già da trent’anni anni diffido dei mass media. Tutta la vita sono stata vittima di giornalisti che si approfittano della mia ingenuità e del mio parlare libero. Mi hanno fatto dire tutto e il contrario di tutto secondo ciò che faceva comodo a loro. Anche in quell’occasione c’è stata una manipolazione del titolo del giornale. La parola odio non l’ho mai usata. Posso aver detto che la scuola fa odiare la letteratura ai ragazzi. Ma è la verità e dobbiamo capire perché».

Basta poco per cadere in qualche trappola?

«Purtroppo il punto d’arrivo finale di questa situazione è che le persone più sensibili sceglieranno il silenzio».

Se fosse una professoressa di lettere delle scuole superiori come, in poche parole, proverebbe ad attrarre gli studenti alla lettura?

«Facendo capire che la letteratura è qualcosa che riguarda profondamente il cuore dell’uomo e la sua capacità di comprendersi e comprendere».

A proposito di persone sensibili che scelgono il silenzio, conosceva i romanzi di Cormac McCarthy?

«Ho letto La strada e visto i film tratti dalle sue opere».

Sta lavorando a qualcosa, un nuovo saggio o romanzo?

« Dopo la fatica di Tornare umani, sto finendo di lavorare a un romanzo che uscirà in autunno».

Nessuna anticipazione?

«Non voglio spoilerare niente. Sarà una grande sorpresa».

 

La Verità, 20 giugno 2023

«Con la neolingua viviamo già in un paramondo»

Ciao Tipo Verità». Ciao. «L’ultima volta che ci siamo parlati ho registrato il tuo numero in memoria, ma siccome mi era sfuggito il nome ti ho soprannominato: “Tipo Verità”».

A proposito di pseudonimi, Aldo Nove (foto di Dino Ignani) lo è di Antonio Centanin. Poeta, scrittore, traduttore, ex «cannibale» nato a Viggiù nel 1967, autore prolifico e irregolarissimo, l’ultima sua raccolta in versi pubblicata da Einaudi si intitola Sonetti del giorno di quarzo. Nel giugno scorso il governo Draghi gli ha concesso il vitalizio della legge Bacchelli, in passato accordato a «cittadini illustri» in stato di necessità come Alda Merini, Guido Ceronetti, Giorgio Perlasca. Lo pseudonimo deriva da «Aldo dice 26 x 1», il testo del telegramma diffuso dal Clnai (Comitato nazionale liberazione alta Italia) nell’aprile del 1945 per iniziare il giorno 26 all’una di notte l’insurrezione contro l’occupazione  nazista di Torino. Aldo è il nome contenuto nel messaggio e Nove è la somma di 2 + 6 + 1.

Stai ancora provando a cambiarlo?

«Sì, è un modo simbolico per liberarsi di sé stessi. Aldo Nove mi ha stufato. Ma la casa editrice con cui lavoro, al punto primo del nuovo contratto ha scritto che l’autore si firmerà Aldo Nove. Magari farò come Bhagwan Shree Rajneesh che, dopo morto, è diventato Osho».

Ti interessi di meditazione orientale?

«Anche occidentale, settentrionale e meridionale. Più che di meditazione, parlerei di mistica e spiritualità».

È difficile liberarsi di uno pseudonimo affermato.

«Basta “disaffermarlo”. Potrei chiamarmi Roberto D’Agostino 2».

Perché?

«Mi piace Roberto D’Agostino… La sua barba bianca, il look tra il dandy e il trasandato. Poi mi piace Dagospia perché è pieno di tette. Ah… tette si può dire nel 2023 o è maschilista? Però anche gli uomini le hanno…».

Vuoi dire che c’è una tendenza alla censura?

«Delle parole minimamente sensibili. Magari fra dieci anni “tette” sarà vietata. Ho letto che un grande editore americano ha ritirato le copie di Biancaneve e i sette nani per correggerlo in Biancaneve e i sette piccoli amici. Sembra il titolo di un porno».

Anche sul principe è caduta la riprovazione perché il bacio a Biancaneve non è consensuale.

«Sono forme di delirio che m’interessano come espressione di patologie sociali».

Siamo alla neolingua?

«George Orwell prendeva da Aldous Huxley. Siamo nella Fabian society: più che essere profetici, dicevano il programma in corso di attuazione».

La sinistra senza marxismo è diventata neopuritana?

«Anche il liberalismo lo ha fatto, come cantava Giorgio Gaber qualche decennio fa. Senza marxismo, sembra che la sinistra parlamentare si occupi solo di obbedire».

A chi e a che cosa?

«A chi sta sopra di noi. Corrado Malanga dice che sopra un certo livello non si sa chi c’è davvero. Forse gli alieni».

Chi è Corrado Malanga?

«Un ex docente della Normale di Pisa che s’interessa di ufologia. Un ricercatore che sposa il pensiero etico con la fisica quantistica».

Stento a seguirti.

«Di recente il governo degli Stati Uniti ha abbattuto nei cieli entità che non si conoscevano… Non ha senso chiedere se si crede o no agli Ufo. Non è una religione».

Perché sei andato a vivere a Palmi?

«Venni a presentarci un libro… Da tempo non sopportavo la metropoli e sentivo il bisogno di trovare un posto pacifico, con bella gente. Amo profondamente il sud e penso che il futuro del mondo possa sorgere dalla grande cultura mediterranea e della Magna Grecia».

Che cosa pensi della tragedia di Cutro che si è consumata lì vicino e delle polemiche successive?

«Le polemiche non le sento. Sento la vicinanza con chi ha vissuto quella tragedia. Si vedrà se ci sono delle responsabilità. Ciò che resta purtroppo è il fatto accaduto. Mi tocca molto la terribile sacralità della cosa. La materialità dei fatti sono persone morte».

Cito un verso da Poemetti della sera (Einaudi): giochi «a nascondino con Dio»?

«Da Eraclito in poi e fino al concetto di anima, il mondo è gioco di bambino. Anzi, l’anima è una bambina che gioca. La purezza del femminile, quando è tale, è assolutamente altra rispetto alla pesantezza del potere».

Come impieghi il tempo a Palmi?

«Passeggio, studio, scrivo. Studiare vuol dire amare. Mi consolo con i grandi del passato, me ne alimento».

In questo momento cosa stai scrivendo?

«Un romanzo nuovo. E sto curando per Il Saggiatore le edizioni italiane delle ultime conferenze di Sri Nisargadatta Maharaj. L’ultimo grande mistico indiano che, siccome era analfabeta, non ha mai scritto niente, ma le sue parole sono tradotte in tutto il mondo».

Cito un’altra poesia: «L’accelerazione che tutto oggi domina non concerne il Creato, ne è la parodia in forma grottesca di mercato».

«La poesia s’intitola Rivolta contro il mondo contemporaneo e cita a sua volta un’opera di Julius Evola, un autore oggi innominabile».

Palmi è una presa di distanza dal paramondo?

«È più cose, una critica alla smaterializzazione. Qui è più lenta la perdita di rapporto con la “cosalità”, le cose. Non con i servizi che vengono erogati e che sono ciò su cui si regge quest’idea di nuovo mondo, quello che Klaus Schawb chiama Quarta rivoluzione industriale».

Un tuo post rilanciato da MowMag e Dagospia contestava la comunità Lgbtq.

«Esiste davvero? I miei amici omossessuali non si riconoscono in queste etichette».

Scrivevi che le battaglie per i diritti civili sono fuffa.

«Anche Arcilesbica le contesta. Conosco molti omosessuali infastiditi dall’ideologia fluida. Con chi trombi sono cavoli tuoi senza bisogno di rivendicarlo in piazza. Zygmunt Baumann parlava di società liquida e di amore liquido, ma quell’aggettivo era il perno di una critica. Ora è diventato positivo perché è funzionale alla cancellazione dell’identità effettiva».

Riguarda le sessualità non binarie.

«Invito a tornare alla concretezza della materia, non si può sublimare tutto nel virtuale. Il fatto che si abbia un pene o una vagina è un fatto. Poi ognuno ne fa ciò che vuole. Questo differenzia l’uomo dalla macchina, la quale non ha sesso e non è binaria».

Con Elly Schlein guida del Pd i diritti civili saranno prioritari?

«Spazzatura ne vedo già molta. Se qualcuno vuole aggiungerne faccia pure. Personalmente tengo alla mia ecologia mentale».

Molti esultano perché Schlein dice cose di sinistra.

«La sinistra sono i diritti Lgbtq? Un tempo c’entrava con i diritti dei lavoratori, cose concrete. Si dovrebbe occupare di chi oggi si fa il culo 15 ore al giorno a 3 euro all’ora in condizioni di schiavitù, invece… È esistita fino al crollo del Muro di Berlino e al conseguente scioglimento dell’Urss. C’erano il pensiero liberale e il pensiero socialista. Tutto questo è entrato in un tritacarne di valori… Devo pensare che la questione ambientale sia un’idea di sinistra? Cioè: quelli di destra fanno i buchi nell’ozono e quelli di sinistra li chiudono? Non mi ritrovo in una sinistra che ha sostituito Carlo Marx con Greta Thunberg».

Cosa non ti piace della predicazione ecologista?

«Che sia una religione. L’ecologismo trasformato in culto estremo».

È il primo dogma dell’Unione europea.

«Chi ha i soldi si compra le macchine elettriche e chi non li ha è di destra perché usa la macchina a benzina? Un paradiscorso raccapricciante».

Non è giusto che a sinistra si esulti perché con Schlein la gradazione ideologica è aumentata?

«Per come la vedo io il Pd non è sinistra, ma potere».

Il vero potere è la grande finanza?

«Soprattutto. Quando un’agenzia di rating determina le sorti del mercato siamo in pieno neoliberismo. Un sistema nel quale i mercati sono un’astrazione. Per questo vorrei che si tornasse alle cose, alla materialità. A me sembra di vivere respirando, mangiando. Voglio dire: si parla del Metaverso, ma poi tutti i giorni ho a che fare con un patrimonio organico e biologico concretissimo».

Un paio d’anni fa dicevi che Meloni «ha un’ottima dialettica, ma voglio vederla al potere, sotto le pressioni della Bce». Come sta andando?

«Fa quello che può, non è data altra possibilità. La cosiddetta coalizione di centrodestra aveva molte ambizioni… Poi quando arrivi al potere molli, se no ti tolgono. Berlusconi ci aveva provato, ma è arrivato l’uomo forte Mario Monti».

Berlusconi è irrequieto?

«È il più stravagante. Anche le sue ultime dichiarazioni hanno creato imbarazzo alla Meloni. Ogni tanto gli scappano delle verità politicamente scorrette. Credo sia più un fatto caratteriale che politico».

Per perseguire percorsi alternativi servono molta visione e molto carisma.

«Serve che si alzi il livello di consapevolezza del popolo».

Non facile né rapido.

«Non ho idea delle tempistiche, possono esserci anche elementi di imprevedibilità. Se si stabilisce una narrazione in cui, ad esempio, si decide che una guerra sia nata nel 2022 mentre c’è dal 2014 è difficile contrapporsi. Una guerra tragica e spaventosa non può essere argomento da tifoserie calcistiche. Alzare la consapevolezza del popolo vorrebbe dire prendere atto che non si può arrivare alla pace continuando a mandare armi a una parte, ma sedendosi a parlare».

Partendo dal cessate il fuoco.

«Appunto, lo stop alle armi dev’essere la primissima cosa. Da lì inizia un processo di pace».

Perché sul suo profilo WhatsApp ci sono i dorsi dei libri di San Bernardo?

«È dove mi colloco io spiritualmente in questo momento, nel Medioevo».

L’età dell’oscurantismo?

«La si definisce così a causa del capovolgimento diabolico instaurato dall’illuminismo».

Prediligi i grandi mistici e i padri della Chiesa, non segui nessuno dei contemporanei?

«Joseph Ratzinger è contemporaneo. Ho divorato il suo Escatologia».

C’è del buono anche oggi. Susanna Tamaro cosa ti suscita?

«Le voglio bene, mi piace molto il suo spirito libero».

Giovanni Lindo Ferretti?

«Amore».

Ferdinando Camon?

«Cosa mi ricordi… Ho amato molto alcuni suoi vecchi lavori come Liberare l’animale, poi l’ho perso di vista. Allora era veramente rivoluzionario. Ho trovato in rete una primissima edizione di Fuori storia edito da Neri Pozza. Potrei recitare a memoria alcune sue poesie».

Carlo Freccero?

«Affinità centrata. Mi piace anche Diego Fusaro, dice cose interessanti in un linguaggio desueto, un pregio».

Parlando di Maurizio Costanzo, Freccero ha detto che ha anticipato i social e il privato che diventa mercato.

«In pratica, Chiara Ferragni. Molto lucida e cinica nello sfruttare questa evoluzione. Un grande talento. Orrido sul piano morale, gradevole sul piano fisico. Ho visto sue foto in cui leccava Il capitale di Marx, ammiccava con Vogliamo tutto di Nanni Balestrini e La società dello spettacolo di Guy Debord. Perversamente abile».

 

La Verità, 4 marzo 2023

L’allarme di Tamaro per il totalitarismo scientista

È un’esortazione tutt’altro che buonista e consolatoria quella che Susanna Tamaro rivolge a chi leggerà Tornare umani, il saggio che manda oggi nelle librerie per l’editrice Solferino. Un testo che aiuta a impossessarci con sguardo critico di questi due anni e mezzo di Coronavirus. Un monito forte, scritto con linguaggio pacato e accessibile, ma sostenuto da un giudizio senza sconti sulla politica, le case farmaceutiche, i media. Si parla del Covid-19, dei confinamenti, dell’Italia regolamentata dai semafori in base al numero dei contagi, delle quarantene indiscriminate dalle Alpi a Capo Passero, dell’idolatria dei vaccini. Ma se ne parla nella cornice della storia della medicina, con lo sguardo al cuore dell’uomo e al suo bisogno di essere salvato.

Tornare umani è una raccolta di idee per la ripresa e resilienza degli uomini di questo decennio di crisi e smarrimenti. Una summa per ricominciare dopo due anni di pandemia. E di infodemia. Che sono il punto di arrivo di un percorso che viene da lontano e che ci ha progressivamente ridotti a una dimensione. «Com’era la nostra società quando è arrivato il virus?», si chiede Tamaro. «All’apparenza, tutto andava nel migliore dei modi ma, per chi era capace di osservare la realtà con un po’ più di attenzione, era abbastanza chiaro che stavamo vivendo gli ultimi giorni di un carnevale protratto troppo a lungo». Le epidemie susseguitesi dalla fine del Novecento erano nient’altro che avvisaglie. E la Sars-Cov-2 è solo l’ultima delle infezioni annunciate, il modo in cui il pianeta Terra si ribella alle umiliazioni che le imponiamo. Altre ne seguiranno. Il paradosso della società carnascialesca è che siamo piegati da una quantità di malattie psicosomatiche, declinazioni di una tristezza abissale. «L’insonnia, l’irritazione, il mangiare smodatamente o il non mangiare affatto: problemi per i quali ci veniva sempre consigliata una pillola. Non dormi? Pillola. Sei triste? Pillola. Mangi troppo? Pillola». La causa è il disconoscimento delle domande fondamentali dell’uomo. «Con un lavoro astutamente tenuto sottotraccia, piano piano, al mondo contemporaneo è stata sottratta l’anima; al suo posto è stato regalato l’intrattenimento, il frenetico succedersi di risposte elargite dai media che non hanno altro scopo se non quello di evitare che le persone comincino a interrogarsi. Eppure, l’uomo che cos’altro è se non un’unica grande domanda?». E quando le medicine vengono usate per soffocare l’inquietudine che cosa sono se non «un mezzo per mantenere il controllo sociale?».

Il punto di vista di Tamaro è la persona, irriducibile a organismo biochimico. È la collina umbra, non equiparabile per decreto alle province lombarde. È una vita immersa nella natura, a contatto con le specie animali e i loro cicli vitali, le galline, le mucche, le rondini. In pochi mesi il virus ha reso la nostra società gaudente un cumulo di rovine. E siccome «l’economia ha abbandonato l’etica e si è trasformata in finanza», ora la finanza è il regno degli squali, predatori e voracissimi. Di fronte al dilagare del panico l’arte medica è stata sostituita dal protocollo: qualsiasi altra ipotesi rispetto a «Tachipirina e vigile attesa» viene scartata e demonizzata. «Non sono mai riuscita a vedere le case farmaceutiche come benefiche fatine. L’era dello squalene è la loro epoca», ammette Tamaro. Quando finalmente arrivano i vaccini, malgrado non siano stati testati a sufficienza, vengono idolatrati. «Nel culto del vaccino non era più presente neppure la più lontana parvenza di scienza, perché la scienza è davvero tale soltanto quando ammette il dubbio e la possibilità dell’errore». Invece, se «eretta a verità assoluta non è altro che il volto postmoderno del totalitarismo». Nonostante questo, o forse proprio per questo, quando si scopre che «il vaccino non possiede l’onnipotenza che avevamo sognato», si rammarica la scrittrice, vaccinata a sua volta, scatta la teoria del capro espiatorio: «Il no vax da figura folkloristica si è trasformato nel nemico mortale della nazione» perché non si è inchinato ai protocolli, ai decreti, alle statistiche.

Il punto di vista di Tamaro sono gli studi di scienze naturali e biologia, da Charles Darwin a Konrad Lorenz. Sembra che non abbia fatto altro nella vita. E in questi giorni in cui si cercano uomini e donne per guidare i dicasteri del prossimo governo, un illuminato ministro dell’Ambiente o della Salute potrebbe attingere alla sua idea di «medicina come arte» che utilizza le varie discipline e si relaziona all’unicità della persona. Al contrario, la scienza moderna porta a relazionarsi con l’umanità nell’«universo dell’indistinto. In cosa si manifesta l’universo indistinto? Nella cancellazione della memoria individuale (…); nell’annullamento dell’identità dei popoli ormai amalgamati nel megastore consumistico; nell’annacquamento di ogni pensiero etico – il bene e il male prêt- à-porter: il bene è ciò che per me è bene, il male ciò che per me è male –; nella ridicolizzazione della realtà genitoriale, con la conseguente deriva educativa che priva i bambini della loro dignità e della capacità di lottare, trasformandoli in insetti obbedienti; (…) nella promessa prometeica di vincere l’ultima battaglia, ovvero l’eliminazione della morte».

Sostenuta dalla sapienza orientale, il punto di vista di Tamaro è, come sempre, dove ci porta il cuore. «Ci porta all’umiltà, a inginocchiarci sulla terra e onorarla con lacrime di pentimento perché ci siamo raccontati che era una madre (…) mentre avrebbe dovuto essere una figlia». Ci porta a chiedere perdono alla creazione e alle creature: «Non sarà certo il buco dell’ozono o il riscaldamento climatico a porre fine ai nostri giorni bensì», conclude la scrittrice, «quello, molto più devastante, della cancellazione della nostra anima».

 

La Verità, 18 ottobre 2022

 

«Il mio splendido viaggio da Abbado alla Tamaro»

Mara Vitali, la più grande comunicatrice culturale italiana, ha chiuso lo studio  che portava il suo nome e ha detto basta. «Poi vedremo», dice. Che sia la più grande non c’è dubbio. Ha lavorato per il Teatro alla Scala e Mondadori. Ha avuto a che fare con Paolo Grassi e Rudolf Nureyev, con Michael Connelly ed Enzo Biagi, con Ivano Fossati e Susanna Tamaro. Ha curato i primi anni del Salone del libro di Torino, ha gestito la promozione del Festivaletteratura di Mantova, ha dato nuova visibilità mediatica al Vittoriale diretto da Giordano Bruno Guerri.

«È stato un lungo viaggio!», ha scritto nel messaggio di congedo: qual era il sogno alla partenza?

Andarmene dalla periferia e rendermi indipendente. Lo feci il giorno in cui diventai maggiorenne. Per la mia insegnante di tedesco battevo a macchina le traduzioni per il  Piccolo Teatro. Quando mi telefonò dicendomi di correre alla Scala dove cercavano una segretaria per l’ufficio stampa, mi precipitai. Era dicembre 1972 ed ero terrorizzata.

Quale fu il primo impatto con La Scala?

Paolo Grassi che mi chiede: «Sprechen sie deutsch?», e io gli rispondo: «Sì, un po’». Inutile dire che la sua sola presenza m’incuteva rispetto reverenziale. I primi due anni non ho aperto bocca per evitare gaffe.

Però…

Furono anni meravigliosi. Direttore musicale era Claudio Abbado, Giorgio Strehler realizzò allestimenti superlativi, Grassi portò il teatro nelle fabbriche. Io lo vedevo tutte le mattine per sottoporgli la rassegna stampa e stenografare i suoi interventi da inviare ai giornali.

Un ricordo dell’epoca?

La tournée a Mosca in piena guerra fredda, io conoscevo un po’ il russo. I giornalisti non potevano incontrare gli artisti occidentali, così chiedemmo di fare una conferenza stampa al Bolshoi e ci misero a disposizione gli uffici con i telefoni. Ma scoprimmo che non li avevano collegati, erano muti.

Poi Grassi divenne presidente della Rai.

Mi propose di andare a Roma. Ma avevo una figlia neonata e mi stavo separando, mio marito era ballerino alla Scala. Non era il momento giusto. Poi Grassi tornò a Milano e mi portò all’Electa.

Allora era più facile cambiare posto di lavoro? 

Certo. Se fossi andata male avrei avuto altre opportunità. Sapevo tre lingue… Il lavoro doveva appassionarmi. La possibilità d’imparare mi aiuta a superare la fatica.

Ci vuole una certa umiltà. Quando ha pensato: ormai ce l’ho fatta?

Quando divenni capo ufficio stampa in Mondadori. Alla Scala avevo conosciuto i critici musicali e i capiredattori degli spettacoli, all’Electa i critici d’arte, da Giovanni Testori a Federico Zeri.

Come arrivò a Segrate?

Leonardo Mondadori, direttore dell’area libri, voleva aprire una sezione dedicata all’arte e cercava qualcuno che avesse esperienza. Così nel 1984 mi presentai al colloquio e, un anno dopo, quando Ilaria Fassati se ne andò, presi il suo posto. Iniziò il periodo più strepitoso della promozione editoriale.

Cosa accadeva?

Accadeva che Giancarlo Bonacina, editor della narrativa straniera, dicesse: «Settimana prossima andiamo a New York a pranzo con Tom Wolfe perché in America esce Il falò delle vanità. Il tempo di tradurlo e uscirà anche in Italia. Dobbiamo fargli capire che Mondadori crede nel suo libro». Così mi trovai con Bonacina a pranzo con Tom Wolfe, abbagliante nel suo bianco vestito.

Con gli autori italiani filava tutto liscio?

Non sempre. Quando Sergio Zavoli pubblicò un romanzo intitolato Romanza, gli procurammo un’intervista con l’Espresso. «Ma io voglio parlare solo del libro», sentenziò. Aveva lasciato la presidenza della Rai da poco. «Presidente», dissi, «come può immaginare che l’Espresso le faccia un’intervista tutta sul libro?». S’irritò e andò da Leonardo: «Quella la devi licenziare».

Invece?

Fu affidato all’ufficio di Roma e non avemmo più motivo d’incontrarci.

Qualche tempo dopo fu lei a lasciare la Mondadori.

Durante la famosa guerra di Segrate. Era iniziata la battaglia intestina tra le famiglie, arrivò Berlusconi, poi De Benedetti, poi tornò Berlusconi.

Acque agitate.

Pensavo già di andarmene. Provavo una certa frustrazione perché nei comitati editoriali non si capiva che c’erano libri meritevoli su cui investire e altri che si vendevano da soli. Anche Laura Grandi era a disagio. Tentammo una strada indipendente e fondammo la Grandi & Vitali per offrire il pacchetto completo: agente letterario e press agent. Ma era un’idea troppo avanti e nel 1995 ci separammo. Lei fa ancora l’agente, io ho fondato la Mara Vitali Comunicazione.

Nel sito si legge: «Non esistono mai soluzioni di repertorio». Qual è il segreto per lanciare uno scrittore?

Il segreto che non è un segreto è prima di tutto leggere il libro, poi conoscere l’autore per capire le sue idiosincrasie. Infine, trovare chi nei giornali può essere interessato a quel tipo di scrittura, e seguire tutto nei dettagli.

La più grande soddisfazione della carriera?

Susanna Tamaro, per forza. Curando la promozione di Baldini e Castoldi ho seguito Va’ dove ti porta il cuore dall’inizio. La prima volta che ho visto Susanna…

Che impressione ha avuto?

Quando l’ho vista tutta accartocciata, atterrita, ho pensato che dovevo inventarmi qualcosa. Lei non voleva fare interviste, parlare con nessuno. Se il libro fosse andato dritto in mano ai critici l’avrebbero stroncato e la storia sarebbe finita. Non ho meriti, ma credo di averle fatto vendere le prime 20.000 copie. Convinsi Susanna a farsi intervistare dai femminili. È innegabile che siano state le donne a decretare il successo di Va’ dove ti porta il cuore. La soddisfazione è stata che dopo anni è tornata da me e siamo tuttora amiche.

Insuccessi?

In genere, ho sempre lavorato per libri nei quali credevo. Ricordo alcuni flop di editori che hanno creduto in potenziali che non c’erano. Per esempio il seguito di Via col vento. O il seguito di uno 007 in cui l’editore inglese obbligò a un’uscita internazionale a Londra con scena dal film sul Tamigi.

Morale?

È prosaica perché sta nel budget. Raramente si è pagati abbastanza per dedicare all’autore il tempo necessario. È andata meglio con i cantanti, Claudio Baglioni per esempio, perché la Sony investiva. Per loro Claudio era fondamentale, ma veniva da anni un po’ così. Bisognava studiare qualcosa che lo riposizionasse senza offendere la stampa musicale. Il budget era adeguato. Leggevo anche le micro-citazioni e annotavo quelle positive. Claudio fu veloce, collaborativo, intelligente.

La svolta per riqualificarlo?

Proposi a Roberto Cotroneo, capo della cultura dell’Espresso che aveva fatto il conservatorio ed era interessato alla musica un’intervista a Baglioni, senza parlare dell’album. Accettò, Claudio era sdoganato e presto vennero a galla le preferenze per le sue canzoni di tanti giornalisti che fino a quel momento non si erano esposti. La collaborazione durò 5 anni, due album e tre tour con in mezzo Anima mia in tv.

Dopo Baglioni?

Il grande Ivano Fossati e Riccardo Cocciante.

Un episodio per entrambi.

Cocciante veniva dalla Francia con Notre dame de Paris. Fu una tournée evento.

Che lo rilanciò completamente.

Tutto merito suo. Componeva le musiche, seguiva il casting delle voci. Riccardo è di una timidezza da non crederci. Con tutti i successi che ha mietuto, davanti a una domanda inattesa o a un complimento ancora arrossisce.

Fossati?

A parte l’intelligenza e le canzoni, mi ha conquistato il distacco con cui viveva la promozione. All’improvviso era introvabile: «Ivano, ormai sono al piccione viaggiatore», lo imploravo. Alla fine mi rispondeva: «Niente è più urgente di una giornata al mare». Ci scriviamo ancora adesso.

L’ultima creatura che ha svezzato è il Festivaletteratura di Mantova.

Avevo imparato molto nei primi anni Novanta al Salone del Libro di Torino. Faticoso, ma divertente. Avevo visto in faccia giornalisti che conoscevo solo al telefono. In questo mondo si mette un mattone sopra l’altro. Mantova è stata l’esperienza più totalizzante e soddisfacente perché sono stata coinvolta dalla fondazione.

La condensiamo in un episodio?

Il primo anno, 1997, venne Salman Rushdie. Era scortato dalla Digos per la fatwa dei musulmani. Un giorno, metà pomeriggio, lo vedo sfrecciare e infilarsi alla presentazione di Hanif Kureishi, con gli agenti che lo rincorrono. Mi precipitai nel tendone in tempo per assistere al litigio tra Rushdie e la capitana della Digos che minacciava di portarlo fuori di peso. Voleva solo salutare Kureishi, ma il tendone non aveva uscite di sicurezza. La troupe della Rai riprese tutto. Si arrivò a un compromesso, il questore convocò una conferenza stampa e noi rimanemmo in questura fino a notte fonda.

L’obiettivo del festival era far diventare la letteratura un fenomeno di massa?

No, era avvicinare gli scrittori ai lettori.

In Italia si pubblicano troppi libri?

Troppi di scarsa qualità. Ma sappiamo perché: gli editori devono fare fatturato e siccome si vende poco si aumentano i titoli.

Erano più grandi gli scrittori di 30-40 anni fa o lo sono quelli di oggi?

Oltre alla qualità della scrittura, bisogna rapportare i libri ai tempi in cui vengono pubblicati. Quando nel 1985 Aldo Busi scandalizzò con Vita standard di un venditore provvisorio di collant, mi divertii parecchio. Ora, leggendo Febbre di Jonhatan Bazzi, mi è tornato in mente Busi. Ma è un’altra storia.

Cosa direbbe a una ragazza che inizia ora a fare promozione culturale?

Di dedicarsi totalmente ai nuovi media.

 

Panorama, 6 gennaio 2021

Una storia d’amore nella quale ci ritroviamo tutti

Si legge d’un fiato senza perdere una parola perché parla di noi. Una grande storia d’amore di Susanna Tamaro (Solferino) è un romanzo schietto, solido, struggente. Che appiccica alla pagina con una scrittura scorrevole come un sorso d’acqua fresca. O come il sangue nelle nostre vene. Niente di più vitale. Eppure niente di più gratuito e, allo stesso tempo, di considerato ovvio, scontato, dovuto. Se per l’autrice questo libro è un ritorno alle origini di Va’ dove ti porta il cuore, al flusso del racconto che ha per protagoniste due persone che si mettono reciprocamente in gioco di fronte al destino, per il lettore è un ritorno a casa, alle domande fondamentali, il bisogno d’amore, la ricerca della felicità. Un posto dell’anima nel quale ci si riconosce, si ritrova la bussola delle cose che contano, lontano dalle mode, dalla fatuità, dalla superficie. Niente nuove ideologie, niente nuovi diritti, teorie gender o integralismi ambientalisti. Solo una storia d’amore tra un uomo e una donna: sembra poco, ma di questi tempi, a suo modo, è tanto.

Come in tutta la letteratura di Tamaro, anche qui il mistero da sondare sono le persone.

Edith – che significa «Colei che cerca la felicità» – e Andrea – «Fin da bambino sentivo l’esigenza di raggiungere il cuore vero delle cose» – si incontrano un giorno d’estate su un traghetto che da Venezia fa rotta sul Pireo. Lei, trasgressiva e sarcastica, è diretta in Grecia per festeggiare la maturità appena raggiunta. Lui, ligio e disciplinato, di dieci anni più vecchio, è il capitano della nave. Anche se il primo incontro è uno sfregare di spigoli – o forse proprio per questo – è destinato a lasciare nei pensieri di entrambi tracce che riaffioreranno nelle successive coincidenze. Ma in Una grande storia d’amore, nessuno di questi incontri, di questi «imbattimenti», è casuale. Pur nella palese differenza di temperamento e oltre l’attrazione reciproca, la ricerca di un di più, il non accontentarsi dell’effimero li porta a riconoscersi e a intrecciare i loro passi. Ora, molti anni dopo, mentre non sappiamo dove sia Edith e se ci sia ancora, troviamo Andrea nella grande casa su un’isola del Tirreno, «roccaforte di ricordi». Il suo racconto è un’altalena di prendersi e lasciarsi, di partire e tornare, da soli o accompagnati. Perché le inquietudini, il non appagamento, le perdite, i lutti, le resistenze all’amore, i malintesi e l’ambizione di farsi da sé portano strappi, fughe, sbagli. Come una figlia inattesa da una storia che prometteva e che invece era un bluff. O come la deriva nella quale annegare il dolore di un’assenza incolmabile.

Romanzo di pochissime persone come la maggior parte di quelli di Tamaro, appena i genitori e i figli dei due protagonisti, Una grande storia d’amore è ugualmente un libro di ampio respiro, che include la natura, le api di Edith, i cetacei di Andrea, la prospettiva del tempo. Una storia disseminata di perle sapienti, mimetizzate nel flusso di memoria di Andrea. A proposito del rapporto tra genitori e figli, paragonato a quello della metà del Novecento, quando la ribellione alla strada tracciata era una sfida seria e «si doveva essere davvero sicuri della nuova scelta per compiere un gesto di rottura», perché «i genitori avevano ancora il potere di ripudiarti per una decisione di vita non gradita». Oppure riguardo al dogma della natura che si autogestisce e che produce spontaneamente armonia. Bastava guardare il giardino incolto per accorgersi che «l’idea della saggezza autogenerante della terra poteva imporsi soltanto in un tempo in cui la maggior parte delle persone viveva in ambienti artificiali», non certo quando l’uomo doveva lottare per il cibo e la sopravvivenza. Son pagine in cui ricorre il verbo «domare», utile anche di fronte al disordine o agli istinti e alla rabbia distruttiva. Non c’è ideologia in tutto questo, ma quel buon senso che deriva dall’ascolto del cuore profondo, esercizio ben noto all’autrice. Come quando, a causa di una di quelle sviste nelle quali si può cadere per bisogno d’amore, Edith si trova con «un problema in più» nella pancia. E allora può bastare il suggerimento discreto di una madre – «di solito la vita porta con sé altra vita» – a evitare altri traumi e a credere nel futuro. Un romanzo che riflette sul senso del perdono, sulla possibilità di ricominciare dopo che si è subìto un torto, una slealtà, una ferita che ancora sanguina. Su come riabbracciare un figlio che se n’è andato, trafitto dal dolore. Un romanzo che contiene l’idea che la vita non è una passeggiata tra fiori e cristalli, ma una sfida continua, una provocazione quotidiana a chi siamo e a chi vogliamo essere. Senza alibi o pretese da scaricare all’esterno, sulla società, sui diritti da rivendicare, su ideologie vecchie e nuove. Un romanzo che dice semplicemente che è «difficile esistere quando non ci si rispecchia nello sguardo dell’altro». Perché, come scriveva il filosofo Romano Guardini, «nell’esperienza di un grande amore, tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito».

 

La Verità, 6 ottobre 2020

Tamaro: «Perché la scuola di oggi è da bocciare»

L’appello di Susanna Tamaro parte da un grido d’allarme: la scuola italiana è agonizzante, ha perso per strada l’ambizione di formare i giovani e di creare la classe dirigente del futuro. E un Paese che non si occupa dell’educazione dei ragazzi è un Paese perdente. Nel pamphlet Alzare lo sguardo – Il diritto di crescere, il dovere di educare appena pubblicato da Solferino l’autrice di Va’ dove ti porta il cuore scrive a una professoressa 52 anni dopo la «lettera» di don Lorenzo Milani, denunciando le storture di un sistema arrivato a fine corsa. E propone di costruire un patto tra generazioni per capire di quale sapere abbiamo bisogno nel Terzo millennio e come tornare a comunicare ai bambini l’amore per le domande e per la ricerca delle risposte che contano.

Che cosa l’ha spinta a scrivere un pamphlet sulla scuola?

Vedere il degrado che negli ultimi decenni ha invaso tutti gli ambiti dell’insegnamento. E vedere i ragazzi che escono dalle superiori senza una preparazione adeguata. Dopo cinque anni vengono congedati con un diploma che ha scarsissimo potere contrattuale nel mondo del lavoro.

«Alzare lo sguardo» da che cosa, da dove?

Da un’idea d’istruzione che ha dimenticato il concetto di educare. Un concetto complesso, com’è complesso l’essere umano. Che non è una somma matematica di elementi, ma un’entità in possesso di un’anima che si interroga sui perché della vita.

Il corpo insegnante è la categoria più mortificata della nostra società?

Assolutamente. È una categoria di martiri ed eroi. Conosco insegnanti straordinari che continuano ad amare la loro professione. Ma sono costretti a lottare contro una burocrazia allucinante, contro l’invadenza dei genitori e dei gruppi di mamme su WhatsApp, contro il disprezzo sociale ed economico derivato da regole d’ingaggio folli. Professori che cambiano continuamente sedi, mansioni, metodi d’insegnamento. Gli effetti di questa situazione sono l’ignoranza dei nostri ragazzi, vere vittime di questo fallimento.

Per questo ha scritto una «lettera a una professoressa» 52 anni dopo quella di don Milani?

A suo tempo mi aveva colpito e dopo averla riletta, insieme ad alcune cose interessanti, ne ho trovate altre più discutibili. Perciò ho pensato di proporre un aggiornamento, sfruttando lo spunto di una professoressa che mi ha scritto raccontandomi che all’inizio di ogni anno scolastico regala a tutti i suoi alunni una copia di Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke. Questi sono gli esempi positivi su cui si regge la scuola oggi. Ma la generosità alla lunga non può bastare.

Una delle regole della scuola di Barbiana era non bocciare.

Poteva avere un senso negli anni Sessanta. Oggi la soluzione non è bocciare, ma far sì che le superiori diventino un corso di studi vero anziché un parcheggio a tempo determinato. Negli anni si è creata una divisione per cui solo i licei sono scuole di serie A. Invece chi frequenta gli istituti tecnici o professionali non ha meno dignità. Conseguire il diploma in modo automatico, senza doversi impegnare è fuorviante. Non abitua i ragazzi a raggiungere il risultato attraverso il lavoro e la dedizione. In un paese come la Germania gli istituti tecnici perseguono l’eccellenza nel loro settore, da noi si fatica a trovare chi svolga lavori tecnico-manuali.

Danneggia maggiormente gli studenti la demotivazione dei professori o la struttura scolastica oppressiva?

Una struttura malata che umilia gli insegnanti. Molti professori si spengono nel tentativo di sopravvivere in un mondo che li priva della forza di fare il loro lavoro. Li vedo vagare con zainetti pieni di carte. Nella scuola di oggi il vecchio nozionismo si accompagna a un eccesso di democrazia nel rapporto con gli studenti. È una miscela micidiale, a causa della quale oggi chi esce dal liceo o dall’università spesso parla un italiano povero, non sa far di conto, non ama la letteratura…

Perché la scuola-azienda è meno efficiente di quando era solo un posto dove si imparava?

Questo è il grande paradosso. La burocrazia soffoca il rapporto educativo. Gli studenti sono clienti da accontentare e convincere a colpi di open day. Perciò non si può bocciare, altrimenti le iscrizioni calano e, alla lunga, ogni singolo istituto, in competizione con altri più permissivi, rischia la chiusura. Si sente ripetere che dobbiamo «migliorare l’offerta formativa». Così c’è chi propone una settimana di tedesco al pomeriggio – come se si potesse imparare il tedesco in una settimana –  chi il corso di cha cha cha degli anni Sessanta… Tutto fumo negli occhi delle famiglie.

Eppure ogni nuovo governo promette una nuova riforma.

Perché ogni ministro vuole distinguersi. Invece di aggiungerli, l’ultimo governo ha tagliato 4 miliardi. Una delle ultime riforme è stata la riduzione del corso di laurea a tre anni. Con il risultato che poi bisogna fare il master e che fino a trent’anni non si entra nel mondo del lavoro. L’alternativa è andare all’estero.

Accennava all’invadenza dei genitori e ai gruppi di whatsapp: perché l’alleanza tra famiglia e scuola si è dissolta?

Tutto è iniziato negli anni Settanta con i decreti delegati che hanno dato più potere alle famiglie. Anziché fare squadra con gli insegnanti, i genitori proteggono i figli dalla scuola: guai se incontrano qualche difficoltà, qualche ostacolo da superare. I papà-spazzaneve spianano la strada davanti ai loro bambini perché abbiano la discesa facile. È l’anticamera del nichilismo, che alleva senza educare.

Questo accade perché il bambino è un essere intoccabile che non ha bisogno di essere indirizzato?

Questa concezione deriva dall’Emilio, il testo sull’educazione nel quale Jean Jacques Rousseau sosteneva che l’uomo è naturalmente buono e portato al bene. Un testo che ha fatto danni tremendi. Per questa cultura ogni accenno di disciplina va eliminato e la stessa idea di ordine è considerata deleteria. Il bambino non è un essere in fieri che ha bisogno di sostegno come avviene per i cuccioli in tutte le specie animali, ma è un essere puro e già sapiente.

L’abolizione della maestra unica ha dimenticato che nell’infanzia il processo di apprendimento ha una componente affettiva?

Quello è stato il primo disastro. L’introduzione delle tre maestre ha favorito il passaggio dall’educazione all’istruzione a un’età troppo precoce. Troppi referenti danneggiano l’apprendimento che invece si giova di un rapporto stabile e continuativo. Il frazionamento delle figure educative genera insicurezza.

Dopo la scuola-azienda con le tre i – inglese, impresa, informatica – è arrivata «la buona scuola».

L’alternanza scuola-lavoro che è stata introdotta è un’esperienza positiva perché mette alla prova su ciò che si vuole fare. Gli stage permettono di capire se il lavoro che si ha in mente piace e se si è adatti a svolgerlo. In Germania si è sempre fatto.

Soluzioni?

Basterebbe cominciare a mettere i professori nelle condizioni d’insegnare con passione la propria materia, senza costringerli a disperdere energie in mille corsi di aggiornamento, contro il bullismo…

Qualcuno pensa che la soluzione siano i tablet e gli smartphone.

O la lavagna interattiva. Non scherziamo. Una riverniciata digitale e tutto va a posto? Il nostro cervello risponde a precisi processi di conoscenza. Si studia sulla carta, si sottolinea, si fanno delle piccole note sul libro. Il tablet porta a una smaterializzazione del sapere che non aiuta, soprattutto nei primi anni di vita.

Se avesse carta bianca quali sarebbero i suoi primi tre interventi?

Rimetterei la maestra unica al centro della scuola elementare, estrometterei i genitori e riporterei l’università a quattro anni, abolendo corsi e master post laurea. Le pare possibile che una maestra di scuola materna debba avere la laurea magistrale quinquennale?

Una delle cause di questa situazione è l’eliminazione del principio di autorità?

Certo. È il frutto di un’ideologia nichilista e della società liquida e liquefatta. Anzi, gassosa. Dare ai bambini il potere decisionale è un errore grave perché trasmette loro un’idea distorta della realtà e non li prepara alla vita.

 

Panorama, 11 settembre 2019

 

Sulla strada per Jesolo una visione per il futuro

La strada del mare. Per andare a Jesolo, cinquant’anni fa meta di giochi e tuffi. Oggi porto franco di notti brave, di sballi selvaggi, qualche volta fatali. L’ho rifatta qualche giorno fa, quella strada, e mi ha preso lo sconforto. Allora sognante, un’euforia trattenuta per tanti chilometri. Adesso malinconica, rassegnata.

Questo è un appello sentimentale, ma anche un’esortazione dai risvolti economici. Non si può lasciar cadere così un posto tanto evocativo. Le case coloniche, dove la mezzadria ha rivitalizzato intere campagne, sono disabitate e cadenti. Le terre della bonifica lasciate andare. Dopo vari passaggi di mano, oggi quelle fattorie sono di proprietà di un’azienda agricola (Le Tresse) che riesce a garantire la conservazione del territorio nello stato attuale. Dove sono gli imprenditori illuminati? I politici lungimiranti? Gli assessori al territorio, all’ambiente, alla cultura? Il governatore Luca Zaia?

Me la ricordo, la strada del mare da Portegrandi a Caposile. Spaccava in due la laguna e la campagna mentre io me ne stavo accovacciato sul sedile posteriore della Millecento. Mio padre guidava, mia madre al suo fianco, io dietro, tra mio fratello e mia sorella più grandi. A un certo punto, dopo una curva, il paesaggio cambiava repentinamente. Non c’erano più alberi a ombreggiare il percorso ma, dopo una piccola salita, la strada si spalancava in un panorama nuovo e arioso, prendendo a bordeggiare un fiume, oltre il quale si vedevano canneti, acqua e terre a perdita d’occhio. Una visione placida e misteriosa, presagio di quel mare che avrei trovato più tardi, al termine di un viaggio che allora mi sembrava lunghissimo. A renderlo ancor più meravigliosamente noioso c’era il fatto che quel nastro d’asfalto filava dritto e tutto uguale per parecchi chilometri, al fianco dell’acqua del Sile dalla quale si staccavano vari tipi di uccelli, anatre e gabbiani.

Io, però, ricordo che nel primo tratto volgevo lo sguardo sul lato sinistro della strada che correva tra le propaggini nord della laguna di Venezia e i campi che si estendevano fino alle montagne.

Poi c’erano le case. Case in mattoni, a due piani, isolate davanti ai campi, con le imposte distanziate in modo regolare. Anche tra loro, erano distanziate in modo regolare. Erano squadrate e alte abbastanza da filare parallele alla mia vista dall’argine sopraelevato.

Andavamo a Jesolo, una specie di terra promessa innocente, fresca del boom economico e non ancora divertimentificio selvaggio, la «Rimini veneta» di oggi, con le sue trasgressioni e le baby gang che imperversano, terminale di vite dissolute e in un attimo dissolte da autisti fuori controllo.

Quando la Millecento faceva quella svolta salendo sull’argine e iniziava a correre tra terra acqua e cielo senza altri ostacoli, cominciava davvero la gita, il giorno speciale della festa. I miei genitori chiacchieravano tra loro e tutti si aspettava di arrivare finalmente alla meta. A quel punto, però, quasi a fartela desiderare ulteriormente, il tempo rallentava ancora rendendoci più impazienti, tanto più se, come spesso accadeva, si procedeva incolonnati. Non restava che immergersi nella contemplazione delle case che, chissà perché, erano delle Ca’. Attraevano lo sguardo più della sconfinata laguna che si stendeva sull’altro lato della strada. Tra le imposte, bene in centro sul frontale, campeggiava la scritta che dava il nome ai casolari: Ca’ Romagna, Ca’ Sile, Ca’ Imperia, Ca’ Rinascita, Ca’ Speranza, Ca’ Favorita… Vicino a quei nomi fascinosi e misteriosi spiccava un piccolo stemma del Leone di San Marco. Le case si presentavano. Dicevano chi erano e chi erano i mezzadri che le abitavano, lavorando la terra che le circondava. Famiglie numerose, bambini che giocavano attorno a una fontana, donne che davano i ritmi alle giornate. Erano case coloniche costruite all’inizio del Novecento per la bonifica di quel territorio paludoso, infestato dalla malaria, tra le terre d’Altino e il mare.

L’argine fendeva il paesaggio. A destra una visione dolce ma sfuggente e invalicabile, con i suoi acquitrini e lembi verdi, dominata dalla vegetazione e dalla fauna d’acqua. Un territorio fiabesco, che alimentava la fantasia. A sinistra, un quadro ordinato, geometrico, coltivato dall’uomo, riparato dalla strada più alta dal pericolo di inondazioni. A ogni gita, l’appello delle fattorie diventava una sorta di gioco enigmistico, alleggerendo per qualche chilometro il percorso fino a quando la sequenza delle Ca’ s’interrompeva e lo sguardo poteva dedicarsi al canneto e al fiume, volgendosi verso destra. Come avrebbe fatto poco dopo la Millecento, imboccando decisa la direzione del mare.

Qualche giorno fa, mezzo secolo dopo quei viaggi sul sedile posteriore, ho ripercorso la sp47 in scooter, ancora oggi via obbligata per arrivare a Jesolo. A destra, il paesaggio è rimasto identico, la laguna solcata da qualche barchino e le biciclette sulla pista aldilà del Sile. A sinistra ci sono ancora le case coloniche: Ca’ Fertile, Ca’ Feconda, Ca’ Florida, Ca’ Risorta, Ca’ Redenta… Ma non sono identiche a cinquant’anni fa. Sono disabitate, diroccate, coperte da chiome invadenti. Ca’ Florida non lo è per niente. Ca’ Risorta ha il tetto squarciato, le travi tronche, i muri sbrecciati, le finestre con il vuoto dentro. Sono una contraddizione conclamata fra i nomi e lo stato delle cose. In quei nomi però c’era il ciclo della vita fecondata dal cristianesimo. Qualcuno li aveva scelti appositamente perché fossero letti di seguito, correndo sulla strada. Una toponomastica consapevole. Un progetto di civiltà. Un’idea di comunicazione, anche, e piuttosto raffinata.

Mezzo secolo è passato. Quando me ne stavo assorto sul sedile posteriore della Millecento non conoscevo il significato di quelle parole. Ora sì, ma la realtà che indicano oggi resiste solo nella memoria. Questo è un appello sentimentale. L’appello per un recupero intelligente. Per una rinascita di storia e cultura. Sarebbe un grave errore lasciare alla nostalgia un patrimonio così carico di storia e di cultura. Quelle terre vanno riportate nel presente, testimonianza di una storia che si mette al passo con la modernità.

Qualche giorno fa sul Corriere della Sera Susanna Tamaro e Andrea Segrè hanno proposto l’idea d’istituire il «reddito di contadinanza». Non l’ennesima trovata assistenzialista, ma «un modo per coniugare l’ecologia con l’economia, riconoscendo che la radice dei due termini è la stessa: casa». Un modo intelligente per favorire il ritorno alla terra di tanti giovani che aspettano solo un’imbeccata, un piccolo scivolo per superare l’impaccio dell’inizio, per fare formazione e sostenere le start up agricole. Aiutando così la ripresa dell’occupazione giovanile e il rilancio dell’agricoltura. Ecco. Le case della ex bonifica delle terre d’Altino possono essere un perfetto banco di prova di questa proposta. Servono visione, energie, professionalità. E la strada del mare, con quelle Ca’ dai nomi evocativi, molto più che un gioco enigmistico e nostalgico, diventerebbe una testimonianza di creatività e lungimiranza.

La Verità, 2 agosto 2019

Il (primo) regalo postumo di Nino Sgarbi

Poteva succedere solo nella famiglia Cavallini Sgarbi la rivelazione a 93 anni del miglior talento letterario della casa. Ma le vie della grazia sono infinite. Perciò, dobbiamo essere grati a quella dinastia di farmacisti, in realtà artisti, critici ed editori, per l’imminente pubblicazione (l’8 febbraio) di Il canale dei cuori di Giuseppe «Nino» Sgarbi, morto novantasettenne pochi giorni fa. Roberta Mazzoni e Susanna Tamaro, che mi segnalarono il precedente Lei mi parla ancora, sostengono che questi libri andrebbero letti nelle scuole «per far capire ai ragazzi chi sono le persone sagge». Hanno ragione. Dovrebbero esser letti e studiati anche per la qualità letteraria, oltre che per la loro singolare gestazione. Quando, cedendo alle insistenze della figlia Elisabetta, papà Nino decise di provarci, essendo debole di vista, si rese necessario l’aiuto di qualcuno che mettesse sulla pagina scritta i ricordi. Dobbiamo dunque esser grati anche a Giuseppe Cesaro che ha saputo trasferire quelle narrazioni nei preziosi memoir pubblicati da Skira. Dopo Lungo l’argine del tempo, Non chiedere cosa sarà il futuro e Lei mi parla ancora nel quale si rivolgeva alla moglie Rina, in Il canale dei cuori, Nino Sgarbi dialoga con il fratello di lei, Bruno Cavallini, compagno di pesca sul Po e il Livenza, professore di liceo, maestro di lettere e arti di Vittorio, soprattutto amico con cui ha condiviso l’amore per la poesia e il sentimento del vivere. «C’è una strada certa per la solitudine, Bruno: essere intelligenti, intellettualmente onesti e liberi. E tu eri tutte e tre le cose insieme… A un certo punto la solitudine ti aveva teso la mano e tu l’avevi presa: sapevi che avreste camminato l’uno di fianco all’altra per tutta la vita. E così ho capito di non esserti mai stato davvero vicino. Non nel modo del quale avresti avuto bisogno tu, comunque. Ed è questo il mio cruccio. Insieme al fatto di sapere che ormai non ho più modo di rimediare. Forse per questo ho deciso di dedicarti queste pagine, anche se mi rendo conto che arrivano tardi e sono più utili a me che a te. Perdonami».

La copertina di «Il canale dei cuori», in uscita l'8 febbraio da Skira

«Il canale dei cuori»usicrà l’8 febbraio da Skira

La memoria di Sgarbi riporta in vita un mondo terso e rarefatto con tocco mite, capace di rendere attuali sentimenti rimossi. Così la scrittura diventa balsamo e consolazione che lenisce la mancanza di persone care, conforto che aiuta a rimettere ordine negli affetti e nelle vicende di un secolo: il padre cacciatore e gran seduttore, il mulino di Stienta, la Seconda guerra mondiale, la campagna di Grecia, l’alluvione del 1951, la morte del migliore amico, l’incontro all’università di Ferrara con «la spaccatutto», futura moglie, il matrimonio in intimità, i figli Vittorio ed Elisabetta, la farmacia nella casa di Ro, ritrovo di artisti e scrittori che per lunghi anni Nino ha ascoltato, avendo sempre preferito il silenzio alla parola, per lasciare alla Rina e Vittorio i ruoli da protagonisti.

Finché… «Se ho aspettato così tanto a pubblicare è solo perché credo che la condizione ideale per raccontare sia stare fermi. E non solo perché, da fermo, si vedono molte più cose di quante non se ne riescano a vedere quando ci si muove. E si vedono molto meglio, tra l’altro. Ma anche perché mi sono accorto che, appena ti fermi, succede un fenomeno strano: all’improvviso ti rendi conto che, al contrario di quello che hai sempre creduto, la realtà non ti corre dietro, non ti insegue, non ti viene a cercare. Era tutta un’illusione ottica. Lei non si muove, non si muove affatto: siamo noi a farlo. Ed è il nostro muoverci a muovere lei. È come quando, da bambino guardavo partire la littorina del binario accanto, e avevo l’impressione che fosse lei a muoversi. Con la realtà è la stessa cosa: se corriamo, corre, se rallentiamo, rallenta, se ci fermiamo, si ferma. E quando si ferma, finalmente s’invertono i ruoli: da prede diventiamo cacciatori». E siccome, alla scuola del padre, anche Nino è stato cacciatore, le sue nuove prede – da cercare, rincorrere, acciuffare e immortalare per condividerle – sono diventate le parole, incise in una prosa tenue come certi acquerelli che restano impressi per le loro tinte insolite e personalissime.

Una breve poesia fa da incipit a ogni capitolo, sciogliendo il gomitolo dei ricordi che scorrono come le acque del Po, testimoni di tanti avvenimenti. Come la morte in un incidente stradale dell’amico Pierino Roveroni che gli fece conoscere la tristezza, «primogenita del dolore», diversa dalla depressione, all’epoca ignota. «Per soffrire il mal di vivere, bisognava aver conosciuto il bene di vivere», che in campagna, prima della guerra, era piuttosto raro. Nino e la tristezza siedono dunque sull’argine di quella fatale curva a gomito, nel silenzio che «odorava d’infelicità» e che favorisce l’insolito dialogo. «Che senso ha?», urla, la morte di un amico? «Per lui nessuno, per te invece…», risponde la tristezza; «assurdo non significa inutile… Sai cosa direbbe il tuo amico se fosse qui?… Sii i miei occhi, Nino. Occhi, mani, voce, gambe: tutto! E vivi la vita che non avrò. Questo direbbe». «Rientrammo a casa in bici», ricorda Sgarbi, «che l’alba cominciava a restituire i colori alla pianura. Io pedalavo, la tristezza sedeva sulla canna, il fiume ci correva accanto. Nessuno fiatava. Né le ruote, né i cipressi, né il canneto… “Pensaci” sussurrò, prima di congedarsi, “credi che il tuo Leopardi avrebbe scritto tutto quello che ha scritto, se non mi avesse conosciuta?”; “Preferivo Pierino”, dissi. “E lui, Silvia, credimi”, replicò. Non dissi più nulla».

È la gratitudine il sentimento dominante nel lettore di questi racconti. Una gratitudine lieta. Tanto più se, come ha anticipato Vittorio durante la cerimonia di congedo, il futuro ci riserverà altri due libri postumi.

La Verità, 2 febbraio 2017

Tamaro: «Perché ho rinunciato a entrare in politica»

Una fiaba ai tempi di Instagram. Una grande allegoria con riferimenti religiosi nell’èra dei social network e della connessione h 24. S’intitola La tigre e l’acrobata (La Nave di Teseo, pagine 184, euro 16) il ventitreesimo libro di Susanna Tamaro. Una chiacchierata con lei, sul libro e non solo, aiuta a rimettere in ordine le gerarchie. Soprattutto, a rimettere al centro la persona, con le sue domande.

Perché una favola? C’è bisogno di trovare nuovi modi per comunicare attraversando il frastuono dei media?

«Sì, certo. Amo il linguaggio della fiaba fin da ragazza. È il linguaggio dei bambini e i racconti fiabeschi sono le scarpe con cui ho camminato a lungo. Oggi sento il bisogno di provare a riempire le parole vuote delle tante narrazioni da cui siamo circondati. Anche le fiction rischiano di impoverire le parole della letteratura. La fiaba è un genere classico, che usa gli archetipi dell’inconscio e permette di andare oltre la narrazione mondana».

È soddisfatta del risultato?

«Molto. È stato il libro più difficile da scrivere. Un libro complicato, che mi ha richiesto due anni di lavoro. In ventitrè libri questa è stata l’unica volta in cui mi sono interrotta non per qualche giorno. Per nove mesi sono stata senza scrivere, col libro aperto. Finché l’ho ripreso… Spero si legga d’un fiato».

Assolutamente, è una favola per adulti.

«Dai 14 ai 100 anni. Ha tanti lettori preadolescenti e anche più stagionati perché ha molti livelli di comprensione: ognuno percepisce il proprio».

La tigre è Susanna Tamaro?

«Lo ammetto, c’è molta autobiografia. Due anni fa quando tenevo una rubrica di aneddoti e racconti su Avvenire mi veniva spesso in mente l’immagine di una tigre. Finché ho deciso di metterla da parte, pensando che avrebbe potuto scaturirne qualcosa di nuovo. È un animale pregnante. C’è anche una poesia di Thomas Stearns Eliot – Gerontion – che parla di Cristo come tigre».

C’è anche un film di Benigni intitolato La tigre e la neve.

«È vero, me n’ero dimenticata. Anche quella è una specie di favola… Di recente avevo letto un libro di John Vaillant intitolato proprio La tigre (Einaudi), un reportage in Siberia».

I sentimenti dominanti nella prima parte della storia sono l’innocenza e un senso di estraneità al mondo. Anche qui molta autobiografia?

«Certo, la tigre vive un’incapacità a essere tigre fino in fondo. Fin da bambina mi sono sempre sentita estranea a ciò che avevo intorno. Guardavo le cose da fuori, m’interrogavo sul senso delle azioni. Come tante persone sensibili, massimamente gli artisti, mi ponevo le domande fondanti sull’esistenza. Questo atteggiamento può creare una distanza da ciò che ti circonda».

È un’estraneità anche nei confronti della società contemporanea?

«Mi sento molto fuori da questo tempo. Non riesco a capire, a seguire, c’è una velocità che rende difficili le cose. Credo che gran parte della mia generazione provi questa sensazione. Siamo nati quando non c’era ancora la tv nelle case. Ora è tutto veloce, anche un po’ fuori controllo».

Che rapporto ha con la tecnologia? È tutto oro quello che si connette?

«La tecnologia porta un mare di vantaggi in tutti i campi, chi può negarlo. Però ci vuole molta consapevolezza. Io non sono appassionata di elettronica, ma il tablet è una bacchetta magica moderna. A me piacciono gli animali: con il tablet la camera si riempie di giraffe, cammelli… Una tentazione e una distrazione irrefrenabili. Però la sera cominci a navigare e vai a letto nervosa, con un senso di vuoto perché ti sembra di non aver fatto niente. Serve un’autodisciplina, di tempo e di scopo. Usare la tecnologia per obiettivi precisi. Per i bambini il discorso è ancora più delicato».

Sono più indifesi.

«I bambini vanno protetti perché il cervello umano è una cosa plastica, che procede per fasi. Ogni funzione ha un tempo di apprendimento. C’è un’età in cui il bambino impara a parlare, poi a camminare, a leggere… Se lo riempi di nozioni e atti non necessari in quel momento, puoi ritardare l’apprendimento della funzione per cui è predisposto. Se gli insegni che con un click risolve il problema, azzeri il suo cervello, non lo alleni, non favorisci la creatività ».

Anche la frase «tra la libertà e il potere ho scelto la libertà» sembra aver a che fare con lei.

«È il motto della mia vita. Negli anni del grande successo avrei potuto fare qualsiasi cosa. Una volta una giornalista mi disse: “Finalmente ha raggiunto quello che tutti desiderano”. “Cioè?”, chiesi io. “Andare a cena con tutti i politici”. Giuro che non mi è mai venuto in mente nemmeno come desiderio; semmai come incubo».

Una scelta di potere quale sarebbe stata?

«Varie cose, oltre alla politica. Accettare contratti editoriali con molti zeri, programmi televisivi, entrare nel giro dei premi e dei circoli letterari».

Se n’è tenuta a debita distanza scegliendo di vivere in Umbria. Anche la tigre del libro non vede l’ora di evadere dal circo.

«Nel circo le tigri anziane le dicono: alla lunga ti adatterai, ti piacerà stare qui, ti piacerà il successo. Il circo è la metafora di un mondo con il quale ognuno deve fare i conti. Per lavoro, per sopravvivere, per convivenza civile. Situazioni nelle quali prevalgono quasi sempre logiche di potere. La vita mondana non fa per me. Uno scrittore deve lavorare molto, stare in solitudine, studiare. Ha tempi lenti che confliggono con quelli della modernità».

Anche la metropoli non fa per lei?

«A proposito di fiabe, c’è quella famosa di Esopo. Quando vado a Roma, mi sento come il topo di campagna che va in città e si trova sempre in affanno. Non ho più i riflessi adatti… E poi la campagna è una miniera per la scrittura che ha bisogno di immagini e metafore».

Lei è pessimista a riguardo della natura umana? Nel libro gli uomini non fanno una bella figura.

«Mediamente non la fanno. La natura umana è sempre stata terrificante. Adesso vediamo e ascoltiamo di più, ma questo ci fa sentire ancora più terrificanti. La post modernità ha demolito le basi della natura umana».

In che senso?

«Nel senso che si ritiene che solo il nostro desiderio ci crei e ci definisca».

Si riferisce alla teoria gender, in base alla quale la persona può stabilire il proprio genere di appartenenza?

«È un esempio. Si crede che tutto dipenda dalla cultura e poco o niente dalla natura. Penso che dobbiamo imparare a riconoscere ciò che siamo. Ciò che viene prima di noi. In una torta la cultura è come la glassa di cioccolata. Mentre la natura è tutto il resto, che sorregge la guarnizione. Oggi si tende a disconoscere anziché a riconoscere. Chi trascorre gran parte della vita dentro gli uffici nelle metropoli non è facilitato, perché perdendo il contatto con la natura dimentica quanto ne siamo parte, quanto ne siamo espressione. La distruzione della natura, la scomparsa della distinzione tra bene e male, l’arbitrio assoluto portano confusione nelle nostre vite».

Poi ci sono eventi come il terremoto. Lì in Umbria l’avrà sentito…

«Per fortuna ho Ia casa antisismica, ha oscillato parecchio ma è ben ingabbiata. Vivevo in Friuli e rimasi molto scioccata dal sisma del ’77. Quando mi sono costruita la casa qui la prima cosa a cui ho pensato è stata di farla antisismica. La terra che trema è interiormente destabilizzante perché dà la percezione della nostra precarietà. Siamo scossi dentro e, per tornare al discorso di prima, sperimentiamo in modo tragico che la natura è molto più potente della cultura».

Però continuiamo a rifiutare l’idea che l’uomo è un essere fragile, che dipende.

«Una certa cultura ha perversamente predicato il diritto alla felicità. Pensare che la vita sia una passeggiata è una falsità. La cultura contadina di qualche decennio fa ci insegnava che è fatta di scogli da affrontare e superare. Se ci si riesce».

Nel libro l’acrobata ridà la libertà alla tigre. Vede qualche acrobata nel nostro presente?

«L’acrobata rappresenta l’innocenza della grazia che libera dalle catene. Oggi non ne vedo molti in giro. Però c’è grande esigenza di trovarne. Qualche tempo fa ho letto un articolo che parlava dei nuovi eremiti delle montagne e della gente che ci va a parlare. Il frastuono generale rende impossibile far giungere parole liberatorie. Ma c’è enorme bisogno di parlare di cose fondanti, anche fuori dalle istituzioni preposte».

A un certo punto la tigre si convince che «bisogna essere in due per cambiare le cose».

«È la relazione che porta la salvezza. L’individuo da solo riproduce la propria ambiguità. Ricade schiavo del potere e della propria ambizione smisurata».

 

La Verità, 4 novembre 2016