«Il mio splendido viaggio da Abbado alla Tamaro»

Mara Vitali, la più grande comunicatrice culturale italiana, ha chiuso lo studio  che portava il suo nome e ha detto basta. «Poi vedremo», dice. Che sia la più grande non c’è dubbio. Ha lavorato per il Teatro alla Scala e Mondadori. Ha avuto a che fare con Paolo Grassi e Rudolf Nureyev, con Michael Connelly ed Enzo Biagi, con Ivano Fossati e Susanna Tamaro. Ha curato i primi anni del Salone del libro di Torino, ha gestito la promozione del Festivaletteratura di Mantova, ha dato nuova visibilità mediatica al Vittoriale diretto da Giordano Bruno Guerri.

«È stato un lungo viaggio!», ha scritto nel messaggio di congedo: qual era il sogno alla partenza?

Andarmene dalla periferia e rendermi indipendente. Lo feci il giorno in cui diventai maggiorenne. Per la mia insegnante di tedesco battevo a macchina le traduzioni per il  Piccolo Teatro. Quando mi telefonò dicendomi di correre alla Scala dove cercavano una segretaria per l’ufficio stampa, mi precipitai. Era dicembre 1972 ed ero terrorizzata.

Quale fu il primo impatto con La Scala?

Paolo Grassi che mi chiede: «Sprechen sie deutsch?», e io gli rispondo: «Sì, un po’». Inutile dire che la sua sola presenza m’incuteva rispetto reverenziale. I primi due anni non ho aperto bocca per evitare gaffe.

Però…

Furono anni meravigliosi. Direttore musicale era Claudio Abbado, Giorgio Strehler realizzò allestimenti superlativi, Grassi portò il teatro nelle fabbriche. Io lo vedevo tutte le mattine per sottoporgli la rassegna stampa e stenografare i suoi interventi da inviare ai giornali.

Un ricordo dell’epoca?

La tournée a Mosca in piena guerra fredda, io conoscevo un po’ il russo. I giornalisti non potevano incontrare gli artisti occidentali, così chiedemmo di fare una conferenza stampa al Bolshoi e ci misero a disposizione gli uffici con i telefoni. Ma scoprimmo che non li avevano collegati, erano muti.

Poi Grassi divenne presidente della Rai.

Mi propose di andare a Roma. Ma avevo una figlia neonata e mi stavo separando, mio marito era ballerino alla Scala. Non era il momento giusto. Poi Grassi tornò a Milano e mi portò all’Electa.

Allora era più facile cambiare posto di lavoro? 

Certo. Se fossi andata male avrei avuto altre opportunità. Sapevo tre lingue… Il lavoro doveva appassionarmi. La possibilità d’imparare mi aiuta a superare la fatica.

Ci vuole una certa umiltà. Quando ha pensato: ormai ce l’ho fatta?

Quando divenni capo ufficio stampa in Mondadori. Alla Scala avevo conosciuto i critici musicali e i capiredattori degli spettacoli, all’Electa i critici d’arte, da Giovanni Testori a Federico Zeri.

Come arrivò a Segrate?

Leonardo Mondadori, direttore dell’area libri, voleva aprire una sezione dedicata all’arte e cercava qualcuno che avesse esperienza. Così nel 1984 mi presentai al colloquio e, un anno dopo, quando Ilaria Fassati se ne andò, presi il suo posto. Iniziò il periodo più strepitoso della promozione editoriale.

Cosa accadeva?

Accadeva che Giancarlo Bonacina, editor della narrativa straniera, dicesse: «Settimana prossima andiamo a New York a pranzo con Tom Wolfe perché in America esce Il falò delle vanità. Il tempo di tradurlo e uscirà anche in Italia. Dobbiamo fargli capire che Mondadori crede nel suo libro». Così mi trovai con Bonacina a pranzo con Tom Wolfe, abbagliante nel suo bianco vestito.

Con gli autori italiani filava tutto liscio?

Non sempre. Quando Sergio Zavoli pubblicò un romanzo intitolato Romanza, gli procurammo un’intervista con l’Espresso. «Ma io voglio parlare solo del libro», sentenziò. Aveva lasciato la presidenza della Rai da poco. «Presidente», dissi, «come può immaginare che l’Espresso le faccia un’intervista tutta sul libro?». S’irritò e andò da Leonardo: «Quella la devi licenziare».

Invece?

Fu affidato all’ufficio di Roma e non avemmo più motivo d’incontrarci.

Qualche tempo dopo fu lei a lasciare la Mondadori.

Durante la famosa guerra di Segrate. Era iniziata la battaglia intestina tra le famiglie, arrivò Berlusconi, poi De Benedetti, poi tornò Berlusconi.

Acque agitate.

Pensavo già di andarmene. Provavo una certa frustrazione perché nei comitati editoriali non si capiva che c’erano libri meritevoli su cui investire e altri che si vendevano da soli. Anche Laura Grandi era a disagio. Tentammo una strada indipendente e fondammo la Grandi & Vitali per offrire il pacchetto completo: agente letterario e press agent. Ma era un’idea troppo avanti e nel 1995 ci separammo. Lei fa ancora l’agente, io ho fondato la Mara Vitali Comunicazione.

Nel sito si legge: «Non esistono mai soluzioni di repertorio». Qual è il segreto per lanciare uno scrittore?

Il segreto che non è un segreto è prima di tutto leggere il libro, poi conoscere l’autore per capire le sue idiosincrasie. Infine, trovare chi nei giornali può essere interessato a quel tipo di scrittura, e seguire tutto nei dettagli.

La più grande soddisfazione della carriera?

Susanna Tamaro, per forza. Curando la promozione di Baldini e Castoldi ho seguito Va’ dove ti porta il cuore dall’inizio. La prima volta che ho visto Susanna…

Che impressione ha avuto?

Quando l’ho vista tutta accartocciata, atterrita, ho pensato che dovevo inventarmi qualcosa. Lei non voleva fare interviste, parlare con nessuno. Se il libro fosse andato dritto in mano ai critici l’avrebbero stroncato e la storia sarebbe finita. Non ho meriti, ma credo di averle fatto vendere le prime 20.000 copie. Convinsi Susanna a farsi intervistare dai femminili. È innegabile che siano state le donne a decretare il successo di Va’ dove ti porta il cuore. La soddisfazione è stata che dopo anni è tornata da me e siamo tuttora amiche.

Insuccessi?

In genere, ho sempre lavorato per libri nei quali credevo. Ricordo alcuni flop di editori che hanno creduto in potenziali che non c’erano. Per esempio il seguito di Via col vento. O il seguito di uno 007 in cui l’editore inglese obbligò a un’uscita internazionale a Londra con scena dal film sul Tamigi.

Morale?

È prosaica perché sta nel budget. Raramente si è pagati abbastanza per dedicare all’autore il tempo necessario. È andata meglio con i cantanti, Claudio Baglioni per esempio, perché la Sony investiva. Per loro Claudio era fondamentale, ma veniva da anni un po’ così. Bisognava studiare qualcosa che lo riposizionasse senza offendere la stampa musicale. Il budget era adeguato. Leggevo anche le micro-citazioni e annotavo quelle positive. Claudio fu veloce, collaborativo, intelligente.

La svolta per riqualificarlo?

Proposi a Roberto Cotroneo, capo della cultura dell’Espresso che aveva fatto il conservatorio ed era interessato alla musica un’intervista a Baglioni, senza parlare dell’album. Accettò, Claudio era sdoganato e presto vennero a galla le preferenze per le sue canzoni di tanti giornalisti che fino a quel momento non si erano esposti. La collaborazione durò 5 anni, due album e tre tour con in mezzo Anima mia in tv.

Dopo Baglioni?

Il grande Ivano Fossati e Riccardo Cocciante.

Un episodio per entrambi.

Cocciante veniva dalla Francia con Notre dame de Paris. Fu una tournée evento.

Che lo rilanciò completamente.

Tutto merito suo. Componeva le musiche, seguiva il casting delle voci. Riccardo è di una timidezza da non crederci. Con tutti i successi che ha mietuto, davanti a una domanda inattesa o a un complimento ancora arrossisce.

Fossati?

A parte l’intelligenza e le canzoni, mi ha conquistato il distacco con cui viveva la promozione. All’improvviso era introvabile: «Ivano, ormai sono al piccione viaggiatore», lo imploravo. Alla fine mi rispondeva: «Niente è più urgente di una giornata al mare». Ci scriviamo ancora adesso.

L’ultima creatura che ha svezzato è il Festivaletteratura di Mantova.

Avevo imparato molto nei primi anni Novanta al Salone del Libro di Torino. Faticoso, ma divertente. Avevo visto in faccia giornalisti che conoscevo solo al telefono. In questo mondo si mette un mattone sopra l’altro. Mantova è stata l’esperienza più totalizzante e soddisfacente perché sono stata coinvolta dalla fondazione.

La condensiamo in un episodio?

Il primo anno, 1997, venne Salman Rushdie. Era scortato dalla Digos per la fatwa dei musulmani. Un giorno, metà pomeriggio, lo vedo sfrecciare e infilarsi alla presentazione di Hanif Kureishi, con gli agenti che lo rincorrono. Mi precipitai nel tendone in tempo per assistere al litigio tra Rushdie e la capitana della Digos che minacciava di portarlo fuori di peso. Voleva solo salutare Kureishi, ma il tendone non aveva uscite di sicurezza. La troupe della Rai riprese tutto. Si arrivò a un compromesso, il questore convocò una conferenza stampa e noi rimanemmo in questura fino a notte fonda.

L’obiettivo del festival era far diventare la letteratura un fenomeno di massa?

No, era avvicinare gli scrittori ai lettori.

In Italia si pubblicano troppi libri?

Troppi di scarsa qualità. Ma sappiamo perché: gli editori devono fare fatturato e siccome si vende poco si aumentano i titoli.

Erano più grandi gli scrittori di 30-40 anni fa o lo sono quelli di oggi?

Oltre alla qualità della scrittura, bisogna rapportare i libri ai tempi in cui vengono pubblicati. Quando nel 1985 Aldo Busi scandalizzò con Vita standard di un venditore provvisorio di collant, mi divertii parecchio. Ora, leggendo Febbre di Jonhatan Bazzi, mi è tornato in mente Busi. Ma è un’altra storia.

Cosa direbbe a una ragazza che inizia ora a fare promozione culturale?

Di dedicarsi totalmente ai nuovi media.

 

Panorama, 6 gennaio 2021