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Sinner, ragazzo speciale, è il Master del 2024

Ormai è chiaro, Jannik Sinner ha qualcosa di diverso. Più precisamente, è qualcosa di diverso. Una persona speciale. Non solo un atleta speciale, che fa cose straordinarie sul campo da tennis. Ieri sera il numero 1 del mondo si è aggiudicato il primo Master della sua carriera dominando Taylor Fritz per 6-4 6-4 con una gragnola di ace e bissando il risultato della partita di round robin. Un torneo vinto senza perdere un set, non accadeva da 40 anni. Anche ieri sera come sabato, al termine del match vittorioso contro Casper Rudd, numero 6 del ranking, il pubblico non la smetteva di applaudire, di tributargli cori: olè olè olè Sinner, Sinner… Stento a ricordare un’immedesimazione così piena degli sportivi nel proprio idolo. Il fatto è che, oltre ai miglioramenti apportati nel gioco, con un talento più vicino a quello di Novak Djokovic che a quello di Roger Federer, di cui ancora non conosciamo i limiti, il campione altoatesino sta cambiando il concetto di fuoriclasse in tutto ciò che fa quotidianamente.

Per descrivere la sua diversità, il vocabolario cosmico è quello cui più ricorrono i commentatori: «Ci ha portato sulla luna», ha detto Paolo Bertolucci. Un campione di un altro pianeta. Un alieno. Un marziano. Un superuomo. Forse solo un ragazzo toccato dalla grazia. O, se preferite, una persona nella quale la natura si esprime in modo particolarmente felice. Detto dei miglioramenti tecnici nel gioco, dal servizio alla volée, dalla tenuta fisica al giocare meglio i punti decisivi come dimostra il 75% dei tie break vinti quest’anno, 14 degli ultimi 15, Sinner è super anche sul piano mediatico. Ieri, a conclusione delle Atp Finals disputate a Torino, dove rimarranno altri cinque anni, il sindaco Stefano Lo Russo ha annunciato di volergli dare la cittadinanza onoraria perché «è veicolo di buon tennis ma anche dell’immagine della città».

Guardiamo il pubblico. Non ho ricordi di un campione che abbia influenzato i tifosi fino a farli agghindare con parrucche e outfit intonati al color carota dei suoi capelli. Sono felici di identificarsi in lui non solo perché ha un rovescio al fulmicotone. Ma per la spontaneità che trasmette in tanti gesti. La stessa che gli fa dare il cinque a un raccattapalle. Che gli fa tenere l’ombrello al posto della hostess in una pausa di gioco. Che lo fa portare acqua, ghiaccio e asciugamani a una spettatrice in difficoltà per un colpo di calore. Che lo fa giocare a tennis con un atleta in sedia a rotelle. Gesti semplici e inusuali nel circuito milionario del tennis. «Non sto salvando l’umanità», li ha ridimensionati lui. Al di là dell’empatia e dell’umiltà tipiche di un ragazzo nato a un passo dal confine con l’Austria, il numero 1 del mondo è a suo modo innovatore anche nel rapporto con i media. Giovedì scorso il suo match contro Daniil Medvedev, disputato a passaggio del turno già praticamente acquisito, ha conteso un po’ di audience alla partita della Nazionale di calcio contro il Belgio per la Nations League programmata allo stesso orario. È finita 6,8 milioni di spettatori per l’Italia a 2,8 per Sinner (sommando gli ascolti di Rai 2 e Sky Sport). Ma quello che conta è che si sia fatto il raffronto, che ci sia stata partita tra uno sport ultrapopolare e un altro ancora un filo elitario. Merito di questo extraterrestre entrato nelle preferenze degli italiani e non solo. Persino gli spot pubblicitari quando c’è lui strappano un sorriso grazie alla sua autoironia. Come quello di un importante marchio di caffè ambientato sul set dello spot stesso che, a causa del suo perfezionismo, gli fa chiedere ulteriori prove che esasperano gli operatori. O quello di un marchio bancario in cui fa ingresso roteando la racchetta sul campo da tennis al fianco di un bimbo titubante e che, rinfrancato, si accinge a battere per dare inizio alla partita di doppio.

Certo, non bisogna esagerare con gli elogi, rischiando di nuocergli. Ma si possono riconoscere i pregi di un campione nel quale ci riconosciamo e del quale possiamo andiamo fieri nella sua interezza.

 

La Verità, 18 novembre 2024

«In università posizioni totalitarie e anti ebraiche»

Rispetto della realtà in tutti i suoi fattori. È la dote principale in cui ci si imbatte dialogando con Luciano Violante, ex magistrato, già presidente della Camera e attualmente a capo della Fondazione Leonardo – Civiltà delle macchine. Confrontarsi con lui sui fatti che agitano le università italiane, cominciando da quella di Torino, la città dove risiede quando non è a Roma, vuol dire avvicinarsi alla dimensione dell’oggettività.
Vorrei cominciare dalla fotografia della riunione del Senato accademico di Torino. Mentre i docenti sono concentrati sui loro dispositivi, alle loro spalle studenti con bandiere palestinesi e striscioni chiedono lo stop all’apartheid e di sospendere gli accordi con le università israeliane. Qual è il suo commento?
«È un commento negativo. Da quella foto emerge una sorta di dimissione del Senato accademico dalle sue proprie funzioni. Un abbandono delle proprie responsabilità che suscita imbarazzo e fa male all’università».
Secondo lei il ricorso a parole come genocidio e apartheid nelle manifestazioni studentesche è frutto di superficialità o di eccesso di ideologia?
«Mi permetta un passo indietro. Le ragazze e i ragazzi protagonisti di queste contestazioni sono appena usciti dell’adolescenza e hanno bisogno di impegno ideale, di mobilitarsi per un’idea; ma hanno scelto un’idea e un impegno sbagliati».
Che cosa intende?
«Tutte le giovani generazioni hanno, ed è bene lo abbiano, un obiettivo ideale che ordina il loro impegno civile. Può essere l’ambiente, la pace, il miglior funzionamento dell’insegnamento scolastico. I giovani che vediamo in questi mesi però hanno sbagliato sia nel merito che nel metodo. Nel merito, perché quelli che contestavano erano accordi che riguardavano le università, non il governo Netanyahu. Nel metodo, perché da un approccio filo palestinese sono scivolati all’intolleranza anti ebraica. Il popolo israeliano non è il governo israeliano».
Al termine della riunione, il Senato accademico ha votato, dice in autonomia, la mozione che interrompe le collaborazioni proposte dal ministero degli Esteri.
«Se l’avessero fatto in autonomia l’avrebbero deciso prima. Le istituzioni, il Senato accademico è un’istituzione, non devono mai agire condizionate dalla pressione aggressiva di un avversario. Soprattutto se si è professori universitari e si devono trasmettere dei valori civili».
Dall’osservatorio di presidente della Fondazione Leonardo condivide la volontà dei docenti della Normale di Pisa di selezionare le ricerche cosiddette dual use, interrompendo quelle a fine bellico?
«Ci sono tre questioni distinte. Innanzitutto, la dual use può essere o accidentale o programmata. Accidentale è l’automobile costruita per trasporto di persone e cose, usata invece come autobomba. Programmata è la fabbricazione di un elicottero che, può salvare vite in mare, e con alcuni accorgimenti  può invece compiere azioni di guerra. La seconda questione riguarda le ricerche oggetto dell’accordo che riguardavano l’agricoltura di precisione, l’utilizzo e il governo delle acque, l’elettronica quantistica; nessuna fornitura diretta o indiretta di armi».
E la terza questione?
«L’ho già accennata. L’azione dei ragazzi che voleva essere filo palestinese, in realtà è scivolata nell’anti ebraismo. “Fuori Israele dall’università” lo dicevano i fascisti delle leggi razziali. Premesso questo, credo che l’università dovrebbe indicare obiettivi accettabili, seri e raggiungibili per fare progredire il Paese nel quale opera piuttosto che limitarsi a rispondere sì o no a degli appelli».
Nelle prese di posizione di alcuni atenei, da Torino a Pisa, dalla Bicocca di Milano alla Sapienza di Roma, vede un corpo docente cedevole nei confronti degli studenti o troppo partigiano nell’interpretazione della crisi mediorientale?
«Vedo atteggiamenti diversi. Giovanna Iannantuoni, rettrice della Bicocca, e Antonella Polimeni, rettrice della Sapienza, hanno adottato comportamenti di grande rigore».
A Torino, all’inizio, l’unica a opporsi al boicottaggio è stata la preside di Matematica.
«La professoressa Susanna Terracini».
Invece Francesco Ramella, preside di Scienze politiche, ha respinto l’accusa di arrendevolezza agli studenti precisando che il confronto con loro è utile, dimenticando però di dire qual è stato l’esito di quel confronto.
«Perché non c’è stato confronto, ma un’imposizione».
Sul Corriere della Sera Angelo Panebianco
, che in passato ha subito forti contestazioni da parte di gruppi studenteschi, ha messo in guardia dal pericolo che le nostre università siano guidate da dei Don Abbondio.
«La maggior parte delle università si è comportata seriamente. Coloro che hanno temuto di scontentare gli studenti hanno tradito il proprio ruolo professionale. Angelo Panebianco è uno studioso di particolare autorevolezza».
Altri sottolineano che già a fine ottobre un appello che parlava di genocidio del popolo palestinese ha raccolto 4000 firme di docenti.
«Purtroppo non è un abuso anche se non è ancora una verità. Un cospicuo numero di giuristi inglesi sostiene pubblicamente in questi giorni che si tratti di genocidio. Anche il Tribunale internazionale dell’Aia sta riflettendo sul caso. È un abbattimento di massa di persone, case, scuole, ospedali. Con errori gravi che hanno colpito innocenti e migliaia di bambini. La situazione è insostenibile. Anche il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha chiesto nuove elezioni e il presidente americano, Joe Biden, ha chiesto di ripristinare gli aiuti umanitari a Gaza».
Boicottando le collaborazioni con le università si penalizza il governo Netanyahu o si danneggiano gli israeliani?
«Si danneggiano le università, quindi i cittadini. Si danneggiano gli israeliani coetanei dei manifestanti italiani».
Come considerare il fatto che nelle nostre università ci sono dipartimenti e studiosi che collaborano con colleghi della Cina, della Russia, della Corea del Nord e dell’Iran?
«Se dovessimo adottare il criterio della mozione approvata a Torino dovremmo interrompere le collaborazioni con un terzo del mondo».
Questi spazi di confronto in nome dell’indipendenza della scienza possono favorire forme di diplomazia anche in altri campi?
«Assolutamente sì. Parlare con l’avversario è indispensabile per  il progresso civile. Non farlo o impedire di farlo è una forma di primitivismo politico. Come quella che abbiamo visto quando furono vietate le lezioni di Paolo Nori su Fëdor Dostoevskij alla Bicocca di Milano».
La causa del clima attuale è l’antisemitismo, l’orientamento filopalestinese della sinistra radicale o la contestazione della politica estera del governo?
«Soprattutto c’è la distruzione di una parte del popolo palestinese, contestata persino da Biden. Allo stesso modo, un fatto che stupisce è che dopo il 7 ottobre non si sono tenute manifestazioni significative a favore di Israele. Le donne sono state rapite, violentate, fatte oggetto di una serie di abusi inaccettabili. Com’è avvenuto anche per i prigionieri. Ci si aspettava una reazione che non c’è stata».
Alla Giornata della donna indetta da Non una di meno, l’una di meno, letteralmente, è stata una donna respinta perché voleva che il corteo ricordasse anche le donne uccise e violentate dai terroristi di Hamas?
«Non conosco l’episodio specifico, ma se è avvenuto è la riprova che si parte dall’essere filo palestinesi e si arriva a essere anti ebraici».
Come definirebbe l’impedimento a parlare nelle università ai giornalisti David Parenzo di La7 e Maurizio Molinari, direttore di Repubblica?
«Sono fatti inaccettabili, che fanno parte di scenari che non vorremmo mai più vedere. Impedire a una persona di parlare, in primis a un avversario politico, è uno degli aspetti caratteristici del totalitarismo».
È curioso che questo divieto sia imposto da gruppi come Cambiare rotta che si professano paladini della democrazia?
«Queste posizioni sono, inconsapevolmente spero,  totalitarie. Personalmente, pur pensandola diversamente da lui, in questo guazzabuglio ho apprezzato l’iniziativa del professor Tomaso Montanari, rettore dell’università per stranieri di Siena, che ha deciso di chiudere i corsi sia per il giorno di fine Ramadan quanto, in memoria delle vittime del 7 ottobre, per lo Yom Kippur».
In tema di circolazione delle idee c’è affinità, come qualcuno osserva, fra l’intolleranza attuale e il clima del Sessantotto?
«Non vedo questo parallelismo. Certe forme di intolleranza possono ricordarlo, ma il Sessantotto contestava le strutture delle società e dei poteri pubblici all’interno di una teoria politica. generale, mentre la protesta attuale è più limitata».
O c’è affinità con il clima degli Anni di piombo? Allora si parlava di pochi cattivi maestri, oggi appelli per interrompere le collaborazioni con le università israeliane vengono sottoscritti da migliaia di docenti.
«Gli Anni di piombo hanno visto i morti per strada, più di 500.  Con tutto il rispetto, credo che quei docenti sbagliano perché non penalizzano il governo Netanyahu, ma le università israeliane e gli studenti israeliani».
Questo clima è un prodotto interno dei nostri atenei o lo importiamo dall’estero?
«Si sta manifestando anche nei college e nelle università americane. Ma torno al punto di partenza: questa generazione appena post adolescenziale ha bisogno di obiettivi sani. E siamo noi adulti a doverli suggerire, altrimenti scelgono quelli sbagliati».
Quindi anche lei vede forti responsabilità del corpo insegnante?
«Io parlo di responsabilità della nostra generazione».
L’intolleranza è frutto di indottrinamento?
«Vedo piuttosto autodidatti dilettanti che rimasticano vecchi luoghi comuni dell’intolleranza e che proprio per questo possono essere pericolosi, loro malgrado».
Un tempo le università erano laboratorio critico del sistema, oggi i college americani sono il posto dove si forgia il politicamente corretto, quasi una nuova forma di maccartismo?
«Negli Stati Uniti non sembra esserci una élite capace di proporre obiettivi validi. L’America attraversa una fase di declino: cultura woke e cancel culture sono frutto di ignoranza. E l’ignoranza è terribile, come documenta, per esempio, la sospensione di quella professoressa che aveva mostrato il David di Donatello in una scuola americana».
Che reazione le ha suscitato l’università di Trento che ha scelto di declinare i documenti amministrativi con il femminile sovraesteso?
«Suvvia, lasciamo perdere».

 

La Verità, 6 aprile 2024

«Non amo questo calcio, insegno lealtà ai bambini»

Dopo aver squillato lungamente a vuoto, finalmente al cellulare di Paolo Pulici risponde la moglie: «Paolo è a pesca, non so quando tornerà… Ah, lei è un giornalista? Di solito scappa… Però, se vuol riprovare…». Se già è difficile avvicinarlo a Trezzo sull’Adda dove insegna calcio ai bambini della Tritium, figurarsi ora che è in vacanza. A differenza di Ciccio Graziani che è spesso in tv con le sue giacche sgargianti, l’ex gemello del gol non è mai stato un grande estroverso. Già ai tempi in cui gonfiava le reti evitava la vetrina e ai giornalisti rispondeva a monosillabi. Eppure era uno dei leader dello spogliatoio, incarnazione dell’orgoglio granata che alla vigilia di un derby gli fece dire: «Noi siamo il Toro e loro no».  Nel 1976, insieme con Luciano Castellini, Eraldo Pecci, Renato Zaccarelli, Claudio e Patrizio Sala, conquistò lo scudetto proprio davanti alla Juve. Puliciclone, lo chiamavano. Un bomber d’altri tempi: quelli di Gigi Riva, Roberto Boninsegna, Roberto Bettega, Pierino Prati e Giorgione Chinaglia. E un calcio d’altri tempi: quelli delle partite alla radio, in attesa di un tempo di una in tv, differita alle 19. Preistoria. Smessi gli scarpini, Puliciclone iniziò ad allenare al Piacenza, ma si ritirò presto per dedicarsi ai pulcini. Tutti gli anni in giugno si trasferisce con sua moglie all’Elba. «Sono 40 anni che veniamo vicino a Porto Azzurro. Ce ne stiamo tranquilli, mi stacco quasi completamente dal pallone e ritrovo i miei amici».

Lombardi o locali?

«In prevalenza elbani. Andiamo a pescare, ma non sempre nello stesso posto, perché non è che i pesci stiano lì ad aspettarci. Poi la sera mangiamo il pesce in compagnia».

Pesca d’altura?

«A volte. Qualche tonnetto, qualche pesce spadino… oppure con la pesca a traina, dentici, spigole, orate».

Il pesce è ciò che ama di più del mare?

«Mi piace anche il silenzio, il sole. Quando si è in barca l’unico rumore è quello del vento. Nessuno parla o chiacchiera per niente. In un mondo in cui tutti urlano, ci godiamo il silenzio in mezzo al mare».

Che cosa fa quando non va a pesca?

«Lunghe passeggiate con mia moglie. Abbiamo la fortuna di stare dove si vedono i delfini o qualche balenottera, uno spettacolo che appaga».

Paolo Pulici quand'era Puliciclone e oggi

Paolo Pulici quand’era chiamato Puliciclone e oggi

Amava il silenzio anche quando era Puliciclone?

«Ho sempre preferito il silenzio dentro di me al caos dello stadio. Cercavo la concentrazione, mi isolavo. L’urlo dei tifosi però mi faceva sentire la vicinanza della porta».

Sta seguendo i Mondiali?

«Poco. Preferisco starmene fuori con gli amici. Al massimo vediamo la partita della sera, giusto per mantenerci informati».

Li ha seguiti poco perché manca l’Italia?

«No. Non è una cosa che mi attira più di tanto».

Il resto del calcio le piace?

«Non molto. Oggi è tutto impostato sulla stella, sui giocatori che si credono fenomeni. Io l’ho sempre vissuto come un gioco di squadra. Il gol era la finalizzazione del lavoro di tutti. Se ho in mente di fare il mio lavoro, non mi rotolo per terra e appena l’arbitro fischia mi alzo e corro più di prima. Mi sembra che oggi si faccia tutto per i soldi, non per far contenti i compagni e i tifosi. Contano molto i diritti televisivi, così ci sono partite tutti i giorni e a tutte le ore».

Anche Arrigo Sacchi dice che ci siamo dimenticati che il calcio è uno sport di squadra.

«Nel calcio è già stato inventato tutto: basta imparare da quelli che l’hanno fatto prima e metterlo in pratica nel miglior modo possibile».

I diritti televisivi però consentono alle squadre di vivere.

«Le squadre vivono perché i tifosi comprano le partite, non solo per gli sponsor. Noi giocatori senza tifosi siamo nessuno. Più tifosi abbiamo più vuol dire che siamo bravi. I diritti tv dovrebbero essere distribuiti in modo paritario, non in base alla posizione di classifica. Una partita tra la prima è l’ultima è fatta sempre da due squadre. Se ne manca una non c’è la partita».

Guarda i programmi di calcio in tv?

«Quasi niente. Ho smesso anche di partecipare perché non era facile riuscire a dire ciò che pensavo. C’erano troppe diplomazie. Così ho fatto questa scelta. Quando guardo le partite tolgo il volume per pensare quello che vedo io».

Bruno Pizzul dice che a volte preferisce seguirle alla radio.

«In tv vedi quello che ti vogliono far vedere, alla radio il commento segue la palla. Vengono nominati i calciatori che la toccano. È una cronaca con meno fronzoli, più vicina al calcio vecchia maniera».

Il suo gemello Ciccio Graziani è una presenza assidua nei talk show.

«Ognuno è libro di fare ciò che vuole, si vede che è a suo agio. Ormai lo sanno tutti che ho fatto un’altra scelta e non provano più a invitarmi».

Che rapporti ha mantenuto con gli ex compagni?

«Ottimi con tutti, ci stimiamo e rispettiamo. Anche se non ci si frequenta molto, quando ci rivediamo per le iniziative dei tifosi è come se fossimo stati insieme fino a ieri. Se vado a Torino trovo Zaccarelli, Sala e Roberto Salvadori, a Riccione c’è Pecci. Castellini vive sopra Como e lo vedo di più».

Perché la maglia del Toro è così importante?

«È stata la prima squadra vera che ho avuto dopo il Legnano, quando ancora lavoravo… Se giochi 15 anni nella stessa squadra hai un attaccamento diverso. Riva non ha mai voluto cambiare squadra. Io ho finito la carriera nella Fiorentina perché qualcuno non mi voleva più. Poi il Toro è la squadra di Torino, in città ci sono più torinisti che juventini. Nei derby ce la mettevamo tutta per far contenta la città».

Anche Gigi Riva aveva cominciato nel Legnano.

«Ho esordito in prima squadra contro il suo Cagliari. Trovarsi avversario uno come lui è stato uno stimolo per cominciare bene la carriera».

Come mai ha deciso d’insegnare il calcio ai bambini?

«Ho fatto quello che hanno fatto con me. Quello che mi avevano insegnato volevo metterlo a disposizione degli altri. Poi c’è chi impara e chi no, dipende dai bimbi. Quando finiamo l’allenamento e vedo che sono contenti per me è una grande soddisfazione».

L’idea di stare con i bambini quando le venne?

«Devo ringraziare Titta Rota che voleva farmi giocare ancora nel Piacenza, in C2. Ma non mi sembrava giusto prendere lo stipendio per il nome. Così ho lasciato spazio ai più giovani e ho cominciato a dargli una mano, cercando d’imparare a fare l’allenatore. Ci sono rimasto quattro anni. Poi, dopo un episodio spiacevole, un litigio con i genitori di un giocatore per una questione di soldi, ho scelto di dedicarmi ai bambini».

Qual è la cosa più importante che vuole trasmettere loro?

«La lealtà e il rispetto dei compagni e degli avversari. E poi l’abc del calcio. In prima elementare non posso chiedere di scrivere un tema. Prima devo insegnare le lettere dell’alfabeto e i pensierini. Oggi nel calcio non si insegnano più lo stop, il controllo della palla, il passaggio di piatto, il passaggio rasoterra, il colpo di testa tenendo gli occhi aperti… Si parla solo di diagonali, sovrapposizioni, raddoppi di marcatura, cose che vengono dopo…».

Bruno Pizzul dice che imbottiamo i bambini di tattica e giri di campo, così ci sono le scuole calcio ma non i campioni, perché i ragazzini si stancano presto.

«I giri di campo però servono. Oberdan Ussello, un allenatore cui devo molto, diceva: “Ricordati che il pallone non suda, ma tu per prenderlo sì”. È stato lui a insegnarmi a usare tutt’e due i piedi. Madre natura ce ne ha dati due e quello d’appoggio è più forte e potente perché regge il peso del corpo quando tiri e quando salti per colpire di testa. Io sono nato destro, ma tanti credevano fossi mancino».

Cosa pensa dei genitori che assistono alle partite dei figli?

«È il problema maggiore. Molti pensano che loro figlio debba per forza essere un fenomeno, per guadagnare e diventare famoso. Questa smania li porta a litigare a bordo campo, a insultare gli arbitri o l’allenatore perché fa giocare troppo poco il loro ragazzo. In realtà, a certi livelli, tutti dovrebbero giocare più o meno lo stesso tempo. Quando sono piccoli, il primo obiettivo dev’essere il divertimento. I miei, se per caso piove e dico che quel giorno non si fa allenamento, mi picchiano».

C’è qualcuno dei bambini della Tritium che è arrivato in serie A?

«Negli anni, tra Atalanta, Milan e Inter, una ventina, ma preferisco non dirlo. Per me è un traguardo vederli nella nostra prima squadra, in eccellenza. Poi, se qualcuno diventa professionista è perché è stato bravo lui ed è uno stimolo per tutti. Io non prometto a nessuno di arrivare in serie A, ma di diventare un buon calciatore. Li incoraggio e se fanno un bel gol dico: “Hai segnato come Gigi Riva o come Ronaldo”. Come dicevano a me, indicandomi Valentino Mazzola o Julio Libonatti».

Che calcio guarda in tv?

«Seguo un po’ il Toro, anche perché i tifosi sono malati e chiedono sempre le mie opinioni. Poi guardo il calcio inglese e tedesco dove ci sono meno sceneggiate. È un calcio più schietto, che punta allo scopo, fare gol e vincere. Una volta il tiki taka si chiamava melina. Ora si parla continuamente di possesso palla, si cerca il fallo per far trascorrere il tempo e appena ti toccano ci si butta a terra con le mani sulla faccia. Un pessimo esempio per i bambini».

Qualche modello positivo c’è?

«Diciamo che tendo a non parlare troppo, ma a mostrare come si fa. Con l’esempio imparano prima ed è una doppia soddisfazione. Le parole le usiamo tra noi adulti».

Le hanno mai chiesto di tornare ad allenare a livelli più alti?

«Sì, ma ho sempre rifiutato».

 

La Verità, 9 luglio 2018