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Amadeus, Insinna e quelle integrazioni difficili

Il primo verdetto è arrivato: più che elevare lui il Nove a tv generalista è la rete ad aver normalizzato Amadeus. Almeno, stando alla sospensione anticipata di Chissà chi è il prossimo 21 dicembre. Onore al realismo dell’ex direttore artistico di Sanremo: inutile incaponirsi, aveva ammesso un mese fa intervistato da Rtl 102,5. Come si era ipotizzato, il format dei Soliti ignoti si è appiattito sui livelli di Cash or trash che, infatti, lo rimpiazzerà con le sue repliche. Si è assestata, invece, tra il 6 e il 7% (attorno al milione di telespettatori), La Corrida, nella serata affollata del mercoledì. Per la primavera Amadeus prepara uno show e un programma per l’access primetime. Che riflessione trarre dalla battuta d’arresto del suo primo tentativo? «Non sono un pifferaio magico», aveva concesso lui sempre in quell’intervista, e l’ ammissione illumina altre situazioni. Perché, tranne poche eccezioni, nessun conduttore lo è. Le eccezioni, come già detto, sono Maurizio Crozza e Fabio Fazio, conduttori orientati, che si rivolgono a una community consolidata che si identifica nella loro tv. Per il resto, i diversi pubblici, o target, vanno rispettati. Cambiare rete per un conduttore è un po’ come cambiare testata per un giornalista: assai improbabile che chi ti leggeva su un quotidiano continui a farlo in un altro, tanto più se di orientamento diverso. A conferma ci sono i dati modestissimi di Famiglie d’Italia, il preserale di Flavio Insinna su La7. Doveva fare da traino al tg, invece è lui quello da rivitalizzare. Il pubblico del canale di proprietà di Urbano Cairo, una rete all talk show schierati, come può recepire il più mammone dei conduttori di varietà? Altre controprove: la fatica ad avvicinare il 5% di share di Massimo Giletti su Rai 3. E, riavvolgendo un po’ il nastro, la difficile tenuta di Bianca Berlinguer su Rete 4. Pochi cambi di rete riescono col buco. Perché, anche in tv, certe integrazioni forzate stentano. E fanno pensare ai rimpatri.

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Scintille tra Marco e Lilli. Gustoso scambio di battute a Otto e mezzo tra Marco Travaglio e Dietlinde Gruber sul patriarcato: «Anche tu sei nella lista con Cacciari e Bocchino», lo ha stigmatizzato la padrona di casa. «In quale lista mi avete messo stavolta? Mi pare che si fa una certa confusione tra paternalismo, patriarcato e maschilismo», ha replicato Travaglio. Lilli: «La differenza è molto chiara». Marco: «Comunque, saremo ancora liberi di dire quello che pensiamo, siamo invitati qua per questo». Lilli: «Perché, vi sembra di non essere liberi?». Marco: «Ho sentito parlare di liste…».

 

La Verità, 22 novembre 2024

«Più combattiamo la Russia, più le somigliamo»

Marco Travaglio, difendi Povia e attacchi Matteo Renzi, cosa ti è successo?
«Sono sempre lo stesso. Renzi, vabbè… Riguardo a Povia, non capisco perché uno non possa cantare se è no-vax. Io ho fatto tutti i vaccini, anche se sono contrario agli obblighi perché il dogma dell’Immacolata Vaccinazione non mi risulta. In ogni caso, esiste anche il diritto di dire fesserie. Se inviti Povia e poi lo cacci perché ha idee diverse dalle tue, è censura bella e buona».
Che cosa non ti convince di Elly Schlein che abbraccia Renzi e del suo ritorno alla Festa dell’Unità?
«Non partecipando alla vita politica, non me ne importa nulla. Da osservatore, constato che chiunque si è fidato di Renzi è rimasto fregato. Calenda si è definito l’ultimo pirla ad averlo fatto. Ma in Italia i pirla sono sempre penultimi».
Pd e Italia viva si sono accordati anche in Liguria, il campo largo è spianato?
«Mai capito cosa sia. Le alleanze si devono fare tra forze politiche che hanno qualcosa in comune. Se uno vuole battere la destra non si allea con uno che vota quasi sempre e governa spesso con la destra. Sennò tanto vale prendersi direttamente la Meloni, che ha più voti».
Il sindaco di Nichelino che ha stracciato il contratto di Povia ha detto che non è per una questione politica.
«Invece, è “la” questione politica. I princìpi e i diritti si difendono anzitutto per chi non la pensa come te».
Cosa pensi dell’arresto dell’ad di Telegram, Pavel Durov?
«Ne so poco. Magari scopriremo che è il nuovo Barbablù e che l’arresto è legittimo. Al momento non vedo perché arrestare il padrone di Telegram e non anche Mark Zuckerberg e gli altri boss dei social, che fanno tutti più o meno le stesse cose».
Rivelando di aver censurato contenuti sgraditi all’amministrazione Biden, l’ad di Meta ha messo le mani avanti o si è riposizionato in vista del 5 novembre?
«Non saprei. Ma eticamente, rispetto a Durov, è molto più grave quel che ha fatto Zuckerberg censurando notizie. Con quale credibilità nominerà i famosi garanti contro le fake news visto che ne è un produttore industriale?».
Sorpreso che i grandi giornali italiani hanno glissato sull’argomento?
«Mi sarei stupito del contrario. Per loro la libertà di stampa e di social è tifare per i salotti buoni e democratici».
Il commissario Ue Thierry Breton ha inviato una lettera di avvertimento a Elon Musk colpevole di intervistare Donald Trump.
«Se avesse intervistato Kamala Harris riservandole un po’ della bava che le riserva la grande stampa internazionale, avrebbe avuto una lettera di encomio. Se non sbaglio, nelle democrazie occidentali l’unico leader escluso dai social è stato Trump».
Il caso Durov, Zuckerberg, la lettera a Musk, l’allarme di Gentiloni e i freni al free speech in Inghilterra evidenziano un problema di democrazia nell’Occidente democratico?
«Più combattiamo la Russia e più le assomigliamo».
Però la democrazia la esportiamo.
«E ora in casa scarseggia. In realtà, spesso esportiamo terrorismo, vedi Iraq, Afghanistan, Libia e Gaza». 
La situazione è seria o grave?
«Molto grave: siamo sull’orlo di una guerra mondiale e facciamo finta di niente».
Altro spin off dalla Francia: dopo aver trafficato con le desistenze per neutralizzare Marine Le Pen ora Macron rifiuta l’incarico a Lucie Castets, candidata del Nfp che ha vinto le elezioni?
«Sembra risorto Giorgio Napolitano».
In che senso?
«L’idea che, se uno vince le elezioni, dev’essere neutralizzato con giochi di palazzo è di Napolitano. Nel 2011, dopo le dimissioni di Silvio Berlusconi, escluse le urne per timore che vincessero i 5Stelle e apparecchiò l’inciucione con Mario Monti. Poi, nel 2013, i 5Stelle vinsero lo stesso e fece l’ammucchiata dei perdenti con Enrico Letta: Pd, Forza Italia e montiani. Rimasero fuori M5S, Lega e Fratelli d’Italia: i tre partiti che poi stravinsero le elezioni del 2018, 2019 e 2022. Credo che la stessa cosa succederà a Macron, che sta preparando l’Eliseo per Jean-Luc Mélenchon o per Marine Le Pen. Un altro genio».
Parliamo di cose serie: hai preso una cotta estiva per Giorgia Meloni?
«Ho raccontato mille volte che l’ho conosciuta 15 anni fa in treno quand’era ministro della Gioventù del governo Berlusconi. La trovai simpatica, anche se non condivido quasi nessuna delle sue idee, e rimanemmo in contatto. Non era difficile capire che era l’unico personaggio in ascesa del centrodestra e sarebbe arrivata dov’è ora. Quindi non capisco lo stupore per aver scritto che è una tipa sveglia e dunque mi stupivano le cavolate che diceva su complotti ai suoi danni».
Ha sciolto la riserva sull’invito alla Festa del Fatto quotidiano?
«Sì, non riesce a venire per altri impegni. Ma avremo comunque un rappresentante del governo».
Quanto questo governo è indigesto all’establishment?
«Poco o nulla perché con l’establishment internazionale e nazionale si è messo d’accordo, anche con eccessi di zelo che nascono proprio dal fatto che la Meloni è vista come un’intrusa».
Involuto come ragionamento.
«Per accreditarsi ha dovuto dare prove d’amore esagerate. Infatti, ogni volta che accenna a deragliare dalla retta via – voto sulla Von der Leyen, mancata ratifica del Mes, annuncio della tassa sugli extraprofitti bancari, critiche di Crosetto all’incursione ucraina in Russia – i salotti buoni le ricordano che è lì in prova».
Non votare per la Von der Leyen è stato un segno di discontinuità?
«Certo. Me ne aspettavo ben altri, da una come lei. Oltre al fardello del neo e postfascismo, la destra meloniana aveva tre pregi: era legalitaria, sociale e multilaterale in politica estera. Tutti sacrificati sull’altare del “primum vivere”».
Dall’Europa ci chiedono di allinearci sulla legge del conflitto d’interessi, come se a Bruxelles non ne avessero.
«In Italia conflitti d’interessi li hanno tutti o quasi: ecco perché la legge non l’ha fatta nessuno. Il Consiglio d’Europa ci chiede ancora di provvedere. Dopodiché l’Ue ne è piena. Da quello folcloristico della presidente del Parlamento, Roberta Metsola, che nomina il cognato di gabinetto – un “euro-Lollobrigida” che però non fa scandalo – a quelli ben più seri sui contratti della Von der Leyen per i vaccini, fino alle multinazionali delle armi che pilotano la politica bellicistica dell’Ue».
Il trattamento livoroso che riservano al governo i grandi quotidiani e i talk di La7 dove sei di casa dicono che la vittoria della destra non è ancora stata metabolizzata?
«La stessa cosa accadde quando vinsero i 5Stelle. C’è un establishment politico-mediatico che ritiene valide le elezioni solo se le vince il Pd. I 5Stelle, da Conte alla Raggi, furono trattati anche peggio della Meloni. Io sono contrario al suo governo non perché è di destra, ma per le cose che fa e non fa».
Norme per la natalità, taglio del cuneo fiscale e abolizione del Rdc non vanno bene?
«Ovviamente sono favorevole alle politiche per la natalità, che non è né di destra né di sinistra. Il taglio del cuneo fiscale è un’eredità dei governi precedenti. Mentre sono nettamente contrario all’abolizione del Rdc».
Gli indicatori economici sono positivi.
«Ma uno dei miei primi titoli sul governo fu “Buona la prima”, per il carcere duro ai boss. Non vedo l’ora di titolare “Buona la seconda” e la terza, ma non ne ho avuto l’occasione. I giornalisti non devono avere pregiudizi: solo post-giudizi».
L’ostilità del sistema mediatico è un sogno prodotto dal vittimismo delle Meloni sisters?
«Vedo una buona dose di vittimismo, ma soprattutto una sindrome di accerchiamento».
Ore di trasmissioni, paginate d’inchieste sul fascismo incombente e su TeleMeloni sono giustificate?
«Per me tutte le inchieste, se dicono la verità,  sono giustificate. E in tv tra Rai e Mediaset stravince il partito pro-governo. Altra cosa è quanto sia produttivo per l’opposizione insistere sul ritorno del fascismo. La gente non ci crede e chi vuole un’alternativa farebbe bene a combattere il governo sulle cose che fa, non sul ritorno di Mussolini. Che, malgrado siano riapparsi un sacco di fascisti, fa ridere i polli».
Alessandro Sallusti si è sognato tutto o, viste certe accuse ad Arianna Meloni di tirare le fila di nani e burattini, l’ipotesi di un’indagine della magistratura ha qualche plausibilità?
«Tutte le indagini che non esistono hanno la stessa plausibilità. Se poi verrà fuori qualcosa, valuteremo gli elementi. Sallusti è un ex cronista giudiziario e dovrebbe sapere cos’è il traffico di influenze: non fare le nomine, ma prendere soldi per segnalare qualcuno».
Che cosa pensi della variabile fratelli Berlusconi nella politica italiana?
«Il conflitto d’interessi berlusconiano è sopravvissuto al Cavaliere. Il fatto che la famiglia resti l’azionista di maggioranza di Forza Italia e che Mediaset abbia una bella quota del sistema tv sono due fattori in grado di condizionare il centrodestra e quindi il governo».
Hanno modificato il posizionamento di Forza Italia?
«Vedo che si agitano molto, anche dipingendo il padre come un paladino dei diritti civili. Ma il decreto per lasciare attaccata alle macchine Eluana Englaro, la legge contro la procreazione assistita e i Family day, al netto dei bunga bunga, chi li ha fatti?».
Salvo i bunga bunga, idee condivisibili.
«Eh, ma allora non mi dipingano Berlusconi come un precursore di Marco Cappato».
I grandi quotidiani intervistano a giorni alterni Renzi e Tajani perché tifano per l’ammucchiata progressista?
«Giocano a Risiko con la politica. Adesso vogliono far eleggere Kamala Harris, come se gli italiani votassero in America. E in Italia, sognano che Tajani, spinto dai Berlusconi, molli la Meloni e vada col Pd. E accreditano Renzi per spostare al centro la coalizione, facendo fuori i 5Stelle e la sinistra. Vediamo se gli elettori ci cascano».
Beppe Grillo sta invecchiando male?
«Temo di sì. E mi dispiace perché è un genio che, sia come artista che in politica, ha fatto cose inimmaginabili. Però gli manca la capacità di accompagnare la maturazione della sua creatura con la magnanimità e la generosità del padre nobile. Dovrebbe imparare da Prodi e da Bersani».
Qualche quiz finale da palla di vetro: Pier Silvio scenderà in campo?
«Penso che gli sia più comodo controllare il partito da fuori».
Francesca Pascale si candiderà nel Pd?
«Ne abbiamo viste tante, potremmo vedere anche questa».
Veltroni diventerà direttore del Corriere della Sera?
«Bisognerebbe essere nella testa di Urbano Cairo e nel fegato degli altri pretendenti, per saperlo».
Renzi continuerà a fare politica?
«Ma non si era ritirato nel 2016?».

 

La Verit, 31 agosto 2024

Fazio, Annunziata e la favola fasulla di TeleMeloni

Ci sarà stato anche un certo «livore», dovuto a vecchie ruggini geopolitiche (Salerno, il Manifesto e Servire il popolo) nell’esternazione di Michele Santoro a DiMartedì rivolta a Lucia Annunziata, presidente Rai in èra berlusconiana, e a Fabio Fazio… e va bene, ci sarà stato. Spiace, però, che abbia prodotto «tristezza» in Aldo Grasso e, in seconda battuta, la reprimenda sulla prima del Corrierone di Massimo Gramellini, già spalla di EffeEffe a Che tempo che fa e ora in procinto di migrare a La7 (sempre gruppo Cairo). Livore e tristezza… Oltre gli stati d’animo, sono fatti concreti quelli espressi da fior di professionisti su ciò che si muove nella Rai orfana di Fazio e Annunziata: «Due signori professionisti che, per ragioni personali se ne sono andati», ha osservato ieri Giovanni Minoli, intervistato dal Corriere della Sera. «Il primo aveva una trattativa in corso da mesi. La seconda va via perché non è d’accordo con questo governo: ma se è stata direttore di rete con qualsiasi governo e presidente Rai con Berlusconi premier!». Uno a zero e palla al centro.

Per la verità, ormai siamo alla goleada anti-martiri della presunta TeleMeloni. In questi giorni, sulle grandi testate è in voga un nuovo gioco: le migliori firme offrono l’assist dell’indignazione per l’incombente dittatura e la cacciata dei migliori, ma finiscono per infilare l’autogol. Prima di Antonella Baccaro con Minoli, due giorni fa ecco Andrea Malaguti intervistare Piero Chiambretti: «La Rai si sta impoverendo?», gli ha chiesto il vicedirettore vicario della Stampa. Risposta: «Tutto può essere. Ma, da quello che leggo, chi se n’è andato lo ha fatto per scelta. Non è stato cacciato nessuno. E nessuno è rimasto disoccupato. Mi sembra difficile parlare di censure». Chi sa come gira il fumo nella Telerepubblica vede oltre le narrazioni di comodo. Ospite di Giovanni Floris, anche Marco Travaglio ha strappato il sipario: «Bisognerebbe almeno seguire la consecutio temporum. Uno per farsi cacciare dagli attuali vertici della Rai messi lì dalla Meloni avrebbe dovuto almeno aspettare che si insediassero e vedere se lo cacciavano o no. Ma se te ne vai prima, come fai a dire che ti hanno cacciato… Infatti, Fazio è stato onesto… (salvo continuare a lagnarsi in tutte le sedi…). E l’Annunziata? Il suo programma era stato confermato…», nonostante lei non condivida «niente di questo governo». «Allora dovevi rimanere per lottare dall’interno. Se te ne vai, te ne sei andata», ha scandito Fiorello nel suo imperdibile Viva Radio 2 prima di chiudere, sibillino: «Che poi tutto questo andare via, bisogna capire da dove arriva». Oltre gli stati d’animo c’è di più.

 

La Verità, 2 giugno 2023

L’afflizione democratica per la Rai di Lilli e Corrado

C’è molta preoccupazione a La7 per la libertà della Rai. Le nuove nomine e gli abbandoni di Fabio Fazio e Lucia Annunziata hanno gettato i volti noti della tv di Urbano Cairo nell’afflizione più profonda. È un’afflizione democratica, ovviamente, per le privazioni di cui saranno vittime i telespettatori che pagano il canone. Non una preoccupazione editoriale perché, di solito, quando un concorrente s’indebolisce, ci si frega le mani. No: dalle parti di Otto e mezzo e Piazzapulita è tutto un interrogarsi e macerarsi per il degrado della democrazia perpetrato dalle nomine appena licenziate dal Cda Rai. Venendo al sodo, giovedì è andata in onda la maratona dell’indignazione per l’avvento di Tele-Meloni. Fresca di trasferta in quel posticino simbolo di trasparenza e pluralismo che è il meeting di Bilderberg, Lilli Gruber ha dispensato il suo verbo democratico intervistando Giovanna Vitale di Repubblica e l’ex presidente della Rai Roberto Zaccaria, angosciati per l’incombere della dittatura. Sì, è vero, la lottizzazione c’è sempre stata, ma quando la faceva lui, Zaccaria, il lupo abitava con l’agnello e il leopardo giaceva col capretto. Ci è voluto il solito Marco Travaglio per evidenziare l’ipocrisia delle lamentazioni. Soprattutto quelle di fonte dem perché, a conti fatti, con le nuove nomine Fratelli d’Italia ottiene cinque caselle, la Lega sette, il M5s tre, mentre il Pd ne mantiene nove (Mario Orfeo al Tg3, Stefano Coletta ai palinsesti, Simona Sala a Radio 2, Silvia Calandrelli a Rai Cultura, Elena Capparelli a RaiPlay, Paolo Del Brocco a Rai Cinema, Andrea Vianello a San Marino tv, Maria Pia Ammirati a Rai Fiction e Luca Milano a Rai Kids). Eppure la consigliera Francesca Bria, issata in Cda dall’ex ministro Andrea Orlando, ha votato contro alzando alti lai di protesta. Insomma, quello che si dice avere la botte piena e la moglie ubriaca. Un gioco di prestigio che, quando si tratta della tv di Stato, al Pd riesce sempre facile. Come ha confermato di lì a poco la segretaria del partito Elly Schlein parlando di «occupazione a spallate della Rai» una volta che il testimone della maratona è passato nelle mani di Corrado Formigli. Il quale, in lutto per Lucia Annunziata costretta alle dimissioni perché processata a causa di una parolaccia, ha sorvolato sul fatto che il suo Mezz’ora in più era già stato rinnovato per la prossima stagione. È così: un certo giornalismo stenta a metabolizzare il nuovo scenario fornendo versioni scomposte, tinte di preoccupazione democratica. Magari perdendo la memoria sui fatti di casa propria. Quando un aggiornamento su Massimo Giletti?

 

La Verità, 27 maggio 2023

Con Marco e Selvaggia il quiz può dare alla testa

Sarà stato il caldo, la voglia di fuggire dalla bolla politica o, più volgarmente, i danè, come si dice in milanese, forse scopriremo alla fine la causa di questo nuovo e nefasto cimento televisivo di Marco Travaglio, accoppiato a Selvaggia Lucarelli. Al di là della motivazione, meteorologica, psico-professionale o economica – scarterei realisticamente la terza – da venerdì possiamo deliziarci con Cartacanta – Il quiz, programmino di una quarantina di minuti nella seconda serata di Nove, per ora depositario del trascurabile share del 2,5% (250.000 telespettatori). Dire a quale genere appartenga suddetto, scanzonato, programmino è compito arduo essendo lo stesso un frullato di linguaggi, fiction, varietà, informazione… Cominciando dal primo, la finzione è palese nel fatto che i due giornalisti si danno del lei, malcelando la familiarità insita nella lunga colleganza al Fatto quotidiano e tracimante nelle frequenti allusioni private durante le quali scappa puntualmente il «tu». I due si dividono i compiti di presentatore, Travaglio in piedi dietro un leggio, e di «notaia», Lucarelli seduta a una monumentale scrivania. Il quiz ammannito ai due malcapitati concorrenti, bersaglio del sarcasmo del conduttore, si compone di nove quesiti sull’attualità che richiedono risposte da individuare tra quelle proposte dagli autori. Un giochino enigmistico senza pretese, ma con il prevedibile compito di schizzare un po’ di veleno contro la casta e sbertucciare tra il serio e il faceto qualche presunto avversario del travaglismo. Quando gli argomenti latitano, si colma la lacuna con domande sulle fulgide biografie di Marco e Selvaggia. Davvero.

Ritto e legnosissimo, Travaglio mikebongiorneggia volutamente alzando il braccio destro mentre allunga le vocali («Cartacantaaaa», «Risposta sbagliataaaa», «Ahiahi, mi è caduto sul…»), legge flemmaticamente le domande e altrettanto flemmaticamente si muove nello studio vintage, dispensando il suo narcisismo dal turibolo dell’ego. La prima e l’ultima a restarne inebriata è la «notaia», a sua volta complice e destinataria degli ammiccamenti a sfondo erotico del compare e forse coinvolta proprio per stimolarne i lambiccamenti.

Chi l’abbia fatto fare ai due rimane comunque l’unica domanda irrisolvibile del prescindibilissimo quiz. Esclusa la motivazione economica, si può ipotizzarne la causa nel bisogno di una vacanza dai talk dell’estate post-draghiana. O, più probabilmente, nel caldo. Che, com’è noto, quand’è eccessivo, può dare alla testa.

 

La Verità, 24 luglio 2022

L’autismo dei migliori avvelena ogni dialogo

Siamo diventati un Paese autistico. Cioè, lo siamo da tempo, ma è come se la pandemia da Covid-19 avesse radicalizzato e accelerato una tendenza in atto. Forse era inevitabile. Era inevitabile che l’avvento di un fatto inedito come un’epidemia planetaria portasse a esasperare le differenze, a divaricare le weltanschauung, le diverse visioni del mondo. Da una parte c’è infatti l’ideologia con i suoi derivati, il primo dei quali è il complesso di superiorità strisciante nell’area progressista. Dall’altra c’è il pragmatismo, magari un po’ qualunquista del buon senso. Le conseguenze delle due concezioni sono uno spettacolo quotidiano sotto gli occhi di tutti. Parlando della pandemia, nel primo caso si pontifica a reti e giornali pressoché unificati, sicuri di essere dalla parte giusta della storia. Nel secondo si rischia di amplificare posizioni poco credibili e spesso molto rudimentali. Tuttavia, considerando il fatto che, come si è soliti dire, la scienza procede per approssimazioni e giunge a regole definitive solo dopo infinite prove sul campo, forse sarebbe il caso di non distribuire certezze e imporre comportamenti come fossero dogmi assoluti e incontrovertibili. Lo dico da vaccinato fino alla terza dose.

Questa lunga premessa serve solo per sottolineare che le guerre di religione hanno fatto il loro tempo. Purtroppo, però, spesso accade che l’autismo dei buoni avveleni i pozzi del dibattito, riducendo drasticamente gli spazi del dialogo fin quasi a renderlo impossibile. L’abbiamo visto in modo esemplare l’altra sera quando, mentre stava tentando d’illustrare dei dati, l’ex presidente di Pubblicità Progresso e consigliere Rai, Alberto Contri, è stato costretto ad abbandonare #cartabianca per non sottostare alla gragnuola d’insulti scagliati dal giornalista saltafila Andrea Scanzi. Il tutto con l’approvazione degli altri ospiti (tranne uno) e nonostante il tentativo di Bianca Berlinguer di sedare gli animi. È un copione che si rifrange all’infinito, come l’immagine tra due specchi, nelle strisce d’informazione quotidiana di La7, di cui Otto e mezzo è l’esempio più plastico. La conduttrice, infatti, con i suoi cortigiani abituali, è la campionessa assoluta di questo autismo dei migliori. Quello che mal tollera le voci dissenzienti, le depotenzia nella loro capacità espressiva. Il catalogo è ricco. Nonostante la giornalista-scrittrice si spertichi negli inviti pubblici ad abbassare il grado di testosterone in politica per dare finalmente spazio all’empatia femminile, appena si appropinquano alla sua cattedra Giorgia Meloni o Maria Elena Boschi subiscono un trattamento da posto di polizia venezuelano. Al di là dell’appartenenza di genere, la discriminazione riguarda diffusamente le posizioni di tipo conservatore e si applica ai temi etici, alla giustizia, alla gestione dei flussi migratori oltre che, ovviamente, al Covid. Il problema è che la conduttrice di Otto e mezzo prolifera dentro e fuori la rete di appartenenza dove, non a caso, la tentazione di promuovere «un’informazione meno democratica» è di casa.

Secondo Ernesto Galli della Loggia il peccato è già ampiamente commesso: «Nell’arena pubblica specie radiotelevisiva», ha scritto restando voce solitaria sul Corriere della Sera, «capita quasi sempre, infatti, che il punto di vista culturalmente conservatore sia implicitamente spogliato di qualunque contenuto e dignità ideali, e quindi preliminarmente stigmatizzato come indegno di vera considerazione». Nel dibattito televisivo «la modernità diviene un feticcio da adorare» e a illustrarne le meraviglie, ha proseguito lo storico, viene regolarmente «chiamato il noto scrittore X o il brillante filosofo Y, a obiettare ad esse, invece, un qualche maldestro parlamentare della Lega o di Fdi, al massimo il giornalista di qualche foglio di destra». Regolarmente maltrattato.

Il trampolino di lancio è sempre quello, l’autismo dei buoni. Cioè l’incapacità di mettersi in discussione e di ascoltare visioni diverse. Come definire per esempio il comportamento del Fatto quotidiano in materia di giustizia? La sequela di smentite alle sue tesi giunte dalle sentenze sulla mega tangente Eni o sulla trattativa Stato-mafia sono per caso servite a ridurre il digrignar di denti che attraversa le pagine del quotidiano diretto da Marco Travaglio? Ancor più testardi dei fatti, si prosegue monoliticamente nella medesima direzione.

Dubbi non sono ammessi. Dopo esser stato contestato da larga parte dei movimenti femministi e fermato in Parlamento, ora il disegno di legge Zan contro l’omotransfobia viene riesumato dalla rete Re.a.dy (Rete nazionale delle pubbliche amministrazioni anti discriminazioni) che unisce regioni ed enti locali a guida progressista attraverso «azioni informative e formative» rivolte «a tutta la popolazione» per promuovere iniziative di sostegno dell’agenda Lgbt. In pratica, Re.a.dy opera per affermare un ddl Zan strisciante e mascherato in appoggio alle giornate del Gay Pride, nell’ambito del quale l’associazione stessa è nata. Siccome si è dalla parte del giusto, si procede imperterriti. Lo stesso si può dire per le campagne per la legalizzazione della cannabis e il suicidio assistito promosse in pieno stato d’emergenza. Il quale, evidentemente, ha importanza intermittente. Come ha ben reso il tweet di Gavino Sanna (presidente dell’Associazione consumatori del Piemonte): «Maestà, il popolo ha fame. Dategli bagni inclusivi e linguaggio gender neutral». Ma forse l’esempio più involontariamente comico di autismo dei buoni è la recente intervista concessa da Carmen Consoli al Corriere della Sera. Dopo aver spiegato di aver scelto il padre di suo figlio in un catalogo per la fecondazione assistita praticata in una clinica specializzata a Londra, rispondendo a Walter Veltroni che le chiedeva quale fosse oggi «la virtù che sta sparendo più pericolosamente», la cantante siciliana ha detto: «Empatia. Una notevole diminuzione di empatia, una grande rimonta del narcisismo. Crea sterilità. È tutto usa e getta. Le persone si trattano come se fossero un telefonino». Testuale. L’autismo è inscalfibile e impedisce di pensare a sé stessi in modo critico. Nel caso non ha aiutato a farlo nemmeno l’intervistatore, autore a sua volta anche del pamphlet Odiare l’odio, il cui titolo postula da solo che c’è un odio buono e uno cattivo. E, ovviamente, quello buono è il suo.

Recita il vocabolario Treccani alla voce autismo: «In psichiatria, la perdita del contatto con la realtà e la costruzione di una vita interiore propria, che alla realtà viene anteposta, come condizione propria della schizofrenia e di alcune manifestazioni psiconevrotiche».

Post scriptum Per fortuna esistono piccole, ma significative eccezioni. Esempi di rottura dell’impermeabilità nei confronti del reale e di chi la pensa in modo diverso. Li enumero sinteticamente. La convention di Atreju, dove sono sfilati i leader di tutti i partiti. La decisione di Repubblica di arruolare Luca Ricolfi tra i suoi editorialisti. La revisione dei toni critici di Antonio Socci su papa Francesco. Non è detto che dietro questi esempi ci siano intenzioni romantiche. Di sicuro non ci sono complessi di superiorità.

 

La Verità, 16 dicembre 2021

 

Rocco e i suoi fratelli, la ritirata degli ultra di Conte

Che fine ha fatto Rocco Casalino? E Gianrico Carofiglio? Non che ci sia da preoccuparsi, parliamo di emuli di Ercolino sempre in piedi, ricordate? Però, così, «le domande sorgono spontanee». Su Andrea Scanzi, invece, dopo il vaccino con salto della fila incorporato, le domande scarseggiano. Ora che è stato elegantemente bannato dalle signore di Rai 3 e La7, Bianca Berlinguer e Dietlinde Gruber detta Lilli, gli è rimasto Accordi & Disaccordi, sulla Nove, la tribuna dalla quale i virologi più rigoristi dispensano i niet rimasti ancora in canna. Da quando a palazzo Chigi c’è un nuovo inquilino, il «contismo senza limitismo» (copy Dagospia) batte in ritirata, non senza disseminare il campo di battaglia di mine insidiose e accuse di complotti ai danni dell’ex avvocato del popolo.

Completato il giro delle sette chiese della telepolitica, il portavoce dell’ex premier è sparito dai radar. Anche se la solita Gruber insisteva a indicargli la via del Parlamento, l’abbiamo lasciato destinatario di «numerose proposte di lavoro, nell’ambito della televisione e del giornalismo», Casalino dixit. Niente e nessuno gli può impedire, magari all’inizio della prossima stagione, di rispuntare in veste di titolare di qualche postazione di prima serata. Da un mese a questa parte, invece, lo scrittore ex magistrato, fra i più tetragoni ideologi giallorossi, ha diradato le apparizioni. Dopo essersi vaccinato da volontario a favor di telecamera, si è dedicato alla stesura di Della gentilezza e del coraggio – Breviario di politica e altre cose. «Il breviario laico di Gianrico Carofiglio, per un nuovo modello di società civile», annuncia l’editrice Solferino. Brividi.

«Comunicheremo solo le cose che abbiamo fatto»: con una sola frase, pronunciata dopo l’insediamento, Mario Draghi ha mandato in soffitta il caravanserraglio delle dirette Facebook, delle interviste fluviali, delle conferenze stampa nell’atrio del Palazzo. Scompaiono i testimonial del contismo, si disperdono gli esponenti del «Conte Illimani», come li ha ribattezzati su Twitter Guido Vitiello. Non proprio tutti, però. Marco Travaglio e Antonio Padellaro resistono, forti dei loro record di presenze a Otto e mezzo e Piazzapulita e non si vede chi li possa spodestare. Qualcuno invoca una «Norimberga giornalistica» per i fiancheggiatori dell’infodemia. Servirà invece la nemesi della storia. Che però richiede tempo. Intanto, si cominciano a notare i vuoti, ma saranno presto riempiti con nuovi testimonial. Tanto più se la triangolazione La7 – Fatto quotidianoCorriere della sera continuerà a funzionare.

 

La Verità, 16 aprile 2021

L’all in su Conte di Travaglio&Co. su La7 e La9

Molti più accordi che disaccordi. Anzi, di disaccordi veri non c’è traccia. Del resto, siamo tra noi, siamo in famiglia, non c’è motivo di litigare e nemmeno di dissentire. Era molto rilassata l’atmosfera l’altra sera sul Nove, il canale dove il Fatto quotidiano, la testata televisivamente più sovrarappresentata, ha piantato le tende con i suoi presidi informativi, a cominciare da Accordi & disaccordi (venerdì, ore 22,55, share del 3%, 571.000 telespettatori). In fondo la Nove è solo La7 più due e, con la striscia di Sono le venti di Peter Gomez all’ora dei tg e la serata del venerdì aperta da Fratelli di Crozza, la linea filogovernativa che le firme del Fatto assicurano con la loro assiduità alla rete di Urbano Cairo, fa svelta a rimbalzare di un paio di tasti sul telecomando. Prodotto per Discovery da Loft, il canale tv del Fatto, Accordi & disaccordi, con la & commerciale, lo conducono Luca Sommi e Andrea Scanzi che solitamente intervistano un ospite politico. Alla fine della serata, però, escusso come un oracolo, la guest star è sempre Marco Travaglio. L’altra sera, con un Gad Lerner fresco di trasloco nel quotidiano più filogovernativo del bigoncio, la sensazione di familiarità avvolgeva come un profumo d’intesa. L’atmosfera informalissima come le mise dei giornalisti, era incrinata solo da Sommi, l’unico in studio e in giacca e cravatta, che tentava di salvare le apparenze porgendo domande, pur sempre con una robustissima spalmata di garbo: Gad, tu che hai avuto una grande carriera di giornalista e hai fatto la storia della televisione, come mai sei andato a Pontida a gettare benzina sul fuoco? Non l’avesse detto. Forse sei vagamente poco informato, ha risposto, piccato, Gad. Che, si sa, è più abituato a farle che a subirle le domande e, forse, i disaccordi non li ama nemmeno in epoca di distanziamento sociale. Per recuperare, Scanzi gli ha subito chiesto di spiegare perché, lasciando Repubblica, si è accasato proprio a casa loro. Ma il giorno stesso delle dimissioni, Marco lo ha chiamato e dunque… Dopo la puntuale citazione di Gomez per completare la sfilata delle firme, a suggello si è collegato in sahariana verde dallo studio di casa un Travaglio sguarnito del cipiglio da talk con contraddittorio che inalbera quand’è ospite a giorni alterni di La7, chez Lilli Gruber o Giovanni Floris. Negli altri giorni, infatti, tocca allo stesso Scanzi e ad Antonio Padellaro, quest’ultimo habitué pure di Piazza pulita. Non prendiamoli sottogamba, quella dei colleghi del Fatto è una strategia seria. Sia mai che il sostegno al governo Conte patisca dei vuoti d’aria.

 

La Verità, 7 giugno 2020

A Otto e mezzo i punti di domanda sono per gioco

C’era il punto interrogativo nel titolo – Conte, il miglior comandante possibile? – ma poi appena qualcuno ha fatto balenare dei dubbi, apriti cielo. Gli ospiti erano Marco Travaglio, direttore del Fatto quotidiano, il più filogovernativo del villaggio, Patrizia Laurenti, direttore dell’unità operativa complessa dell’ospedale Gemelli di Roma, Gianrico Carofiglio, scrittore, e Alessandro De Angelis, vicedirettore dell’Huffington post. Il programma era Otto e mezzo, condotto da Lilli Gruber, e la puntata seguiva di poco l’ultima conferenza stampa nella quale il premier Giuseppe Conte ha in parte smentito che le norme restrittive dureranno fino al 31 luglio (La7, martedì, ore 20,40, share del 8,05%, 2,5 milioni di telespettatori). In realtà, la conferenza stampa era una novità da quando è esplosa l’epidemia, di sicuro la prima dopo le critiche per le comunicazioni istituzionali notturne tramite Facebook. Un cambio di rotta? Macché, ha assicurato il direttore del Fatto quotidiano. Le decisioni sono complesse perché bisogna mettere tutti d’accordo, sindacati, ministri e persino quei trogloditi dei governatori del nord. E poi non è stata concessa alcuna esclusiva a piattaforme private, tutti potevano collegarsi al sito del governo. Quindi, va tutto a gonfie vele, madama la marchesa. Il vicedirettore dell’Huffington post si permetteva di eccepire, osservando che si possono rappresentare critiche senza dover passare per sciacalli. Proprio a Otto e mezzo del 27 gennaio il premier aveva annunciato che il governo era «prontissimo» ad affrontare l’emergenza, salvo prendere i primi provvedimenti 25 giorni dopo e annunciare confusamente il lockdown solo l’8 marzo. Per consolidare il ragionamento, De Angelis ha proposto un parallelo con le accuse di sciacallaggio rivolte ad Anno zero con Michele Santoro e lo stesso Travaglio, per una puntata critica con il governo Berlusconi sul terremoto dell’Aquila. Smaniante, la conduttrice ha tagliato corto – «non voglio parlare di Berlusconi» – chiamando in causa Carofiglio. Il quale, già segnato dai recenti infortuni comunicativi, si è tenuto su una linea morbida, abbozzando appena – senza entrare nel merito, «ma se volete ci entro…» – un’esigenza di puntualità della comunicazione del premier, per evitare che una certa fiducia possa esserne inficiata. Ma anche questo accenno è bastato a esporlo agli sguardi di riprovazione della conduttrice e al sarcasmo di Travaglio, intollerante alla lesa maestà di Giuseppi. Domanda: il punto interrogativo del titolo della puntata era reale o messo lì per gioco?

 

La Verità, 26 marzo 2020

«Mi dimisi per dignità, ma i soloni non si scusano»

Buongiorno Maurizio Lupi, come sta?

«Sto bene perché non ho nessun rimpianto e nessuna recriminazione. Quando mi sono dimesso da ministro l’ho fatto per difendere un’idea di politica e di governo, ma soprattutto la mia storia e la mia famiglia. Non potevo, né volevo, dimettermi da padre. E nemmeno modificare il giudizio sui miei collaboratori. Con quel gesto ho voluto riaffermare le ragioni per cui un giorno ho deciso di entrare in politica».

E come si sta, pubblicamente riabilitati?

«Sono stato fortunato a non essere mai indagato, a non dover spendere denaro per avvocati, a poter continuare a fare politica in un altro ruolo. Al contempo, provo grande dispiacere pensando a coloro che hanno ingiustamente pagato con il carcere e processi continui, da innocenti».

Il 15 marzo 2015, senza essere indagato, Maurizio Lupi si dimise da ministro delle Infrastrutture in seguito all’inchiesta Grandi opere secondo la quale l’imprenditore Stefano Perotti e il superdirigente del ministero, Ercole Incalza, si sarebbero interessati all’assunzione del figlio Luca. Al quale, in occasione della laurea, Perotti, amico di vecchia data del ministro, regalò un orologio Rolex. L’archiviazione dell’indagine è di aprile, ma la notizia è stata divulgata solo il 6 novembre. Nel 2018 Lupi è stato rieletto deputato nelle file di Noi con l’Italia, confluito nel Gruppo misto della Camera.

Sono passati 4 anni e mezzo dalle sue dimissioni da ministro del governo Renzi, dopo quello Letta: che anni sono stati?

«Di continuo cambiamento. La prima certezza saltata è stata il ruolo di ministro. Poi è cambiato il partito di riferimento, da Forza Italia e dall’Ncd, con un gruppo di amici abbiamo dato vita a Noi con l’Italia. Infine, è evoluta anche l’idea di centrodestra. L’unica certezza che si è consolidata è che bisogna essere sempre pronti a mettersi in gioco».

Perché si dimise nonostante non fosse indagato?

«A volte, più di tante parole valgono i gesti. Siamo uomini pubblici. Quasi tutti mi avevano sconsigliato di farlo e tanti non l’hanno fatto. Io ho preferito lasciare che qualcun altro proseguisse il lavoro iniziato. Quando ho visto che si dipingeva una cupola di corruzione ho voluto dare un segnale di assoluta libertà».

Perché la richiesta di archiviazione presentata ad aprile è divenuta pubblica solo pochi giorni fa?

«Bisognerebbe chiederlo a loro. Ringrazio il giornalista del Corriere della sera che ha dato la notizia. Era la seconda archiviazione in un anno e mezzo. Nel nostro Paese il sostegno a un’indagine su un reato, prima che sia comprovato, comincia già sui giornali. Per altro, dopo la divulgazione della notizia entrano in funzione i soloni del tribunale etico».

Anche i funzionari e imprenditori più coinvolti di lei saranno riabilitati?

«Questo è il dolore maggiore. Quando si agitano le manette bisognerebbe ricordare che la presunzione di innocenza, oltre a essere scritta nella Costituzione, serve a tutelare la vita delle persone. È giusto che chi commette degli errori ne risponda. Ma ora chi ripagherà un’impresa con 100 dipendenti tra le migliori d’Europa nel suo campo che ha dovuto chiudere? E chi risarcirà un alto dirigente statale che ha fatto 70 giorni di carcere ed è stato assolto 17 volte su 17? Infine, chi risponderà del danno per il clima inquisitorio instaurato che rende sempre più faticoso il processo decisionale nelle istituzioni?».

Quell’indagine era partita da alcune intercettazioni male interpretate.

«I magistrati di Milano hanno detto che la Procura di Firenze ha male interpretato un dialogo nel quale in realtà si stava ribadendo una norma di legge. Cioè, l’hanno interpretato al contrario, come espressione di un intento affaristico. Se decontestualizzi le conversazioni puoi prendere grandi abbagli. Da anni si attende la definizione della normativa sull’uso delle intercettazioni, ma finché ciò non avviene ognuno le usa liberamente».

La riforma del ministro Alfonso Bonafede la fa ben sperare?

«Dalla legge “Spazzacorrotti” in poi s’interviene solo con l’inasprimento delle pene o con l’introduzione di nuove figure e mezzi investigativi. Se si prescinde dalla proporzionalità della pena al reato alla lunga non ci resterà che la pena di morte».

Quanta soddisfazione le dà il fatto che è stata proprio la Procura di Firenze a chiedere l’archiviazione?

«C’è un giudice buono a Berlino. Si può sbagliare, ma riconoscere l’errore può far intraprendere una strada nuova».

Perché l’archiviazione dell’indagine ha avuto così scarso rilievo sui giornali?

«Perché non fa notizia dire, a distanza di anni, che era un’inchiesta infondata. Tutto brucia rapidamente. Fortunatamente c’è la Rete che permette una pur minima pubblicità delle notizie positive. Se dovessimo stare a gran parte dei giornali…».

Francesco Merlo su Repubblica ha distinto tra assoluzione penale e decenza politica.

«Certi opinionisti indossano i panni del grande inquisitore: sì, non c’era niente, ma ha sbagliato comunque. Anche Marco Travaglio ha ribadito che dovevo dimettermi, tirando in ballo la questione etica. Ma se non c’era reato, non c’era corruzione, non c’era alcuna richiesta di favori, non ero indagato allora e non sono stato condannato dopo e c’era trasparenza assoluta, dov’è la questione etica?».

Ha meno fiducia nei giornalisti che nei magistrati?

«Tra i commentatori non ho visto ammissioni di errori. Per qualcuno dovevo dimettermi anche da padre. Mio figlio, laureato in ingegneria con 110 e lode, aveva trovato un lavoro. Mi chiamò in lacrime da New York dicendomi che sotto il suo ufficio c’erano decine di giornalisti e chiedendomi quale fosse la colpa di aver ricevuto un regalo di laurea da una persona che conosceva da anni. Quando ci si accorge di aver sbagliato ci si può scusare, invece i Torquemada continuano per la loro strada. A loro vorrei regalare Pensieri improvvisi, un libriccino di Andrej Sinjavskij: “Quando ti becchi una malattia venerea, solo allora ti accorgi che tutti gli uomini sono puliti”».

Perché chi opera negli appalti delle infrastrutture è sempre in odore di corruzione?

«È una fama giustificata, ci sono precise responsabilità della politica. L’errore è generalizzare buttando il bambino con l’acqua sporca. Alla fine degli anni Ottanta fu promulgata una legge che bloccò fino al 2001 la realizzazione delle grandi opere per sconfiggere la corruzione. È il motivo per cui in questo campo l’Italia è un paese arretrato. Serve un patto trasversale per le infrastrutture materiali e immateriali. Poi chi governa deciderà come farle».

Che cosa pensa del crollo del ponte Morandi?

«Aldilà delle responsabilità accertate, penso che se avessimo costruito la Gronda quella tragedia non si sarebbe verificata. Le opere non realizzate spesso si trasformano in tragedie».

Rinnoverebbe la concessione ad Atlantia della famiglia Benetton per la gestione di Autostrade per l’Italia?

«In uno Stato di diritto si ritirano le concessioni solo nel momento in cui è accertato il mancato rispetto del contratto. Una volta documentate le responsabilità, chi ha sbagliato paga e ricostruisce. La tragedia del ponte Morandi era l’occasione per ridefinire le regole del rapporto concessionario. Ora si pensa al ritorno dello Stato padrone come fosse immune da errori, ma la storia ha già mostrato che non è così».

Il Mose e l’alluvione di Venezia?

«I ritardi nell’ultimazione del Mose sono l’evidenza di come si è tradita Venezia e quindi l’Italia. Nella primavera del 2014 era realizzato all’87%. Avrebbe dovuto essere pronto nel giugno 2016 e attivo, dopo i collaudi, nel gennaio 218. Lo scandalo delle tangenti ha fatto bloccare i lavori ed è iniziato lo scaricabarile tra le autorità. Invece, mentre la giustizia avrebbe dovuto fare il suo percorso pretendendo i rimborsi dai responsabili, si sarebbero dovuti accelerare i lavori di completamento dell’opera».

Ex Ilva, Tav, Mose, ponte Morandi, aree terremotate: come può esserci unità d’intenti se nello stesso governo ci sono il partito del Pil e quello della decrescita?

«Anche un movimento di moralizzatori potrebbe capire che la sfida della politica non è la campagna elettorale, ma governare il Paese. Se il reddito di cittadinanza si rivela un provvedimento assistenzialista e con quei soldi si può tagliare il cuneo fiscale, bisogna avere la forza di cambiarlo e di convincere il proprio elettorato».

Non è facile come dirlo.

«Bisogna provarci. Se hai il ministero dello Sviluppo economico, prima con Luigi Di Maio e ora con Stefano Patuanelli, e fai chiudere la più grande acciaieria d’Europa qualche domanda te la devi fare».

Noi per l’Italia aderirà alla coalizione degli italiani con Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni?

«Noi con l’Italia è a pieno titolo nel centrodestra. Senza esser presuntuosi vogliamo far tornare rilevante la proposta politica del centro, senza il quale il centrodestra si chiamerebbe destra».

Che spazio vede per i cattolici in politica?

«Uno spazio enorme. Oggi il partito dei cattolici sarebbe antistorico. Ma in uno scenario in continua e rapida evoluzione, i cattolici, come tanti altri, possono testimoniare un impegno al servizio del bene comune per ricostruire una società che nasca dalla persona e dalla libertà».

Cosa pensa della disponibilità al dialogo verso Salvini manifestata dal cardinal Ruini?

«Non si può non dialogare con chi rappresenta un terzo degli italiani. Trovando, nelle differenze, punti in comune su cui lavorare insieme. Salvini non è il diavolo, così come i comunisti non mangiavano i bambini».

Che cosa direbbe oggi al suo amico Roberto Formigoni?

«Quello che gli dico quando vado a trovarlo: che il suo operato ha cambiato la Lombardia ed è stato un modello per l’Italia di attuazione del principio di sussidiarietà con al centro la persona. Gli dico anche che non è solo».

E sulla sua vicenda giudiziaria?

«Le sentenze si rispettano e Roberto lo sta facendo. Ma, per conto mio, quella che lo riguarda non racconta ciò che è stata l’azione politica e di governo di Roberto Formigoni».

 

La Verità, 17 novembre 2019