«Kamala ha già vinto? Kalma, film già visto»

Enciclopedico. Anarchico. Infallibile. Mauro della Porta Raffo, soprannominato Gran pignolo per la tendenza a correggere in punta di conoscenza gli errori della pubblicistica, è autore, appunto, di una Nuova enciclopedia americana (su Thescienceofwheremagazine.it), sorta di diario in preparazione alla rubrica sulle Elezioni Usa che tiene quotidianamente nel sito della Fondazione Italia-Usa di cui è presidente onorario.
In cosa consiste questa enciclopedia?
«Mandavo due o tre post al giorno, oltre 1500 in totale, sulla storia americana, i presidenti, i leader politici, gli uomini di spettacolo, i grandi attori, gli scacchisti… Lei sa che io so tutto, vero?».
Cosa vuol dire?
«Che posso spiegare, per esempio, perché la capitale amministrativa della Bolivia si chiama Sucre. Non perché significa zucchero, ma perché il condottiero degli indipendentisti che sconfisse gli spagnoli in territorio americano nella battaglia di Ayacucho del 9 dicembre 1824 si chiamava Antonio José de Sucre».
Da dove viene questa conoscenza?
«Dei miei 80 anni ne ho impiegati 78 a studiare perché ho imparato presto a leggere. E, siccome ricordo tutto quello che leggo, vedo e scrivo…».
Parliamo delle elezioni americane: Kamala Harris ha già vinto?
«Questo è ciò che dicono i sondaggi che non prevedono ciò che succederà il giorno delle elezioni, ma ciò che farebbero gli elettori nel giorno in cui vengono interrogati».
Danno vincente Kamala Harris anche Cnn, New York Times e Washington Post.
«I cui giornalisti sono come degli iscritti al partito democratico. Anzi, come dei sostenitori accaniti. Gli stessi che, fino a tre mesi fa, ne parlavano malissimo».
Attratti da New York e Los Angeles, rischiano di sottovalutare ancora una volta l’America profonda?
«È così. Non a caso gli Stati intermedi, con l’eccezione di Chicago e dell’Illinois, sono definiti fly over States, Stati sorvolati per andare da una costa all’altra. Gli europei vanno a New York e poi direttamente in California. Poi, quando gli Stati intermedi votano repubblicano, tutti rimangono sorpresi. Non basta documentarsi sul pensiero degli intellettuali nuovaiorchesi e delle star hollywoodiane».
Già nel 2016 sondaggisti e opinionisti ebbero questa svista.
«L’hanno sempre avuta. Il Partito democratico ha in mano i gangli del potere mediatico. L’inviato del New York Times e del Washington Post o della Cnn è un democratico. E, invece di informare, fa propaganda».
Però ci sono anche Fox News e Wall Street Journal.
«Che sono minoritari. Nessuno ascolta le radio conservatrici dell’Oklahoma o del Wyoming che sono molto seguite dalle persone in auto, sui pick-up… Indro Montanelli ripeteva che bisognava sintonizzarsi sull’opinione del lattaio dell’Ohio».
Uno degli stati decisivi.
«Io aggiungo che bisogna ascoltare la casalinga di Boise, capitale dell’Idaho, la quale, con ogni probabilità, è basca».
Perché è importante?
«L’Idaho è uno Stato completamente diverso dallo Stato di New York e dalla California. Dire che la casalinga di Boise è basca è uno sfizio, ma lì c’è una comunità di baschi molto numerosa».
Va bene, ma numericamente…
«Questa è la parola magica. Vincere a New York e in California porta molti voti. Ma non basta. Nel 2016 Donald Trump vinse prevalendo in Ohio, Pennsylvania, Wisconsin e Michigan, cioè nella Rust belt, la “cintura della ruggine”, dove la crisi industriale del 2008 era stata pesantissima e i bianchi della classe media avevano perso il lavoro. Le aziende avevano chiuso e i macchinari erano rimasti fermi nei capannoni a fare la ruggine. Nel 2020, tre di questi Stati, tranne l’Ohio, votarono per Biden».
È vero che Harris è in vantaggio negli swing States, gli Stati in bilico?
«Sono praticamente alla pari perché stiamo guardando a una situazione drogata dal fatto che Harris è una novità e le novità hanno sempre grande seguito. Quindi, calma».
Come è riuscita a ribaltare l’immagine di pessima vicepresidente che l’accompagnava?
«Non ha ribaltato nulla. Mi dica un’azione concreta che abbia fatto dopo essere apparsa come una star. Non poteva nemmeno, fare qualcosa. Le decisioni continua a prenderle Joe Biden».
Tuttavia, si parla d’inversione di tendenza.
«Nella propaganda di coloro che prima rappresentavano Harris al peggio. La narrazione prende il sopravvento sulla realtà, ma non significa che sia la verità».
Alla convention di Chicago, Barak Obama ha cucito il suo slogan del 2008 su Kamala: «Yes, she can», mentre Michelle ha detto che «è tornata la speranza» suscitando grande entusiasmo.
«Cos’altro avrebbero potuto dire? Se si guardano i dati reali e non la propaganda, quando Obama diviene presidente nel 2008, il Partito democratico è al massimo e ha i governatori di tutti i maggiori Stati. Nel 2012 perde voti e nel 2016 il partito è distrutto, con la metà dei governatori del 2008».
All’inizio erano tiepidi sulla candidatura di Harris, cosa li ha fatti cambiare idea?

«È ciò che ho detto finora: Kamala non è la stella nascente che viene rappresentata».
La sua è una candidatura veramente democratica?
«Una specie di successione dinastica. Come se il Partito democratico fosse una monarchia assoluta, nella quale Biden designa il successore».
Il collante dell’unità dei democratici è l’antitrumpismo?
«Ed è grave per un partito di questo livello. Nella convention di Chicago si doveva discutere la platform. Non basta dire: dobbiamo evitare che Trump diventi presidente, ma cosa si vuol fare una volta al governo».
Trump stenta a rimodulare la sua azione sulla nuova antagonista?
«Stenta perché è cambiato tutto. Stava affrontando un uomo in declino fisico e psichico invece ora c’è una donna; una persona di due etnie diverse, mentre Biden era bianco; un avversario più giovane. Infine, Biden era un cattolico sia pure a suo modo, e Kamala è di un’altra confessione».
È importante?
«In Europa siamo a-religiosi, mentre in America, soprattutto in certi Stati, la religione conta. Kamala Harris è protestante, con venature ancestrali indù. Queste componenti entrano nelle urne, soprattutto negli Stati con una forte presenza di evangelici».
I toni offensivi di Trump sono dovuti a questo spiazzamento e al nervosismo conseguente o sono le sue modalità abituali?
«Era gentile con Hillary Clinton nel 2016? È il suo modo di essere. Molti osservatori che seguono i comizi di Trump si scandalizzano, ma in campagna elettorale un candidato punta a consolidare i propri elettori e a tentare di convincere gli indipendenti. Non perde tempo a fare le fusa alla controparte. Anziché scandalizzarsi, l’inviato democratico del New York Times dovrebbe capire se lo slogan di Trump, che gli fa ribrezzo, è efficace a convincere il lattaio dell’Ohio».
Che peso ha la scelta dei vicepresidenti, JD Vance da una parte e Tim Walz dall’altra?
«Vance è un personaggio notevole, autore di Elegia americana secondo la titolazione italiana, ma “Elegia degli zoticoni”, da cui Ron Howard ha tratto un film, sarebbe stato più aderente all’originale. Insomma, Vance rappresenta i deplorables di Hillary Clinton, quei bianchi impoveriti della “cintura della ruggine”».
E Walz?
«È il suo contraltare, la rappresentazione del sogno americano come lo vogliono vedere. Proviene da una famiglia modesta, ha seguito la strada ideale del progressismo e del politicamente corretto diventando governatore del Minnesota. Naturalmente, nessuno dei due ha carisma presidenziale».
Parlando del programma di Harris, sono punti di forza reali la decisione di introdurre un tetto ai prezzi e di battersi per il diritto all’aborto?
«Tenere fermi i prezzi è un’ovvietà. Chi direbbe: voglio aumentare i prezzi? Invece, la questione dell’aborto è molto divisiva. Trump ha indicato che siano i vari Stati a decidere. C’è una scelta più democratica di questa? Le camere dei singoli Stati sono state elette dal popolo. È questo il senso anche della sentenza della Corte suprema del giugno del 2022 che confermò l’indicazione di Trump».
Che nella Corte suprema aveva nominato giudici conservatori.
«Durante la sua presidenza, il democratico Frank Delano Roosevelt ne nominò ben nove».
L’idea di detassare le pensioni di Trump è praticabile?
«Ci sono idee che hanno valenza elettorale e idee di efficacia governativa. Un grande politico sa gestire al meglio questa differenza, ma qui, in entrambi gli schieramenti non vedo grandi politici. La detassazione delle pensioni è un’ottima idea che gli economisti ritengono impraticabile. Se qualcuno trova una previsione degli economisti che si avvera me la segnali. Perciò, quando li sento dire che un’idea è impraticabile, per me diventa auspicabile».
Come può influire nel voto la questione dell’immigrazione alla luce dell’amministrazione Biden?
«Una dimostrazione della cattiveria di Biden è proprio la delega del dossier immigrazione a Kamala Harris. Il problema dell’immigrazione dal Messico esiste dagli anni Cinquanta, ai tempi di Eisenhower e in 70 anni non si è cavato un ragno dal buco. Ricordiamoci che l’America è nata dall’immigrazione. I repubblicani sono più severi riguardo all’immigrazione clandestina, direi giustamente. I democratici più liberali. Come influiranno questi orientamenti lo scopriremo il 5 novembre».
Altra variabile: lo schieramento sulle guerre in Ucraina e in Israele.
«Trump può dire che con lui alla Casa Bianca non c’è mai stata una guerra senza temere smentite. Ha cercato di dialogare persino con il bravo ragazzo che governa la Corea del Nord. I presidenti democratici non possono dire altrettanto, basta guardare la storia del Novecento e oltre. Eppure vengono presentati come pacifisti. Credo che questo argomento peserà perché molti elettori vedono che ingenti fondi sono impegnati su queste due guerre proprio mentre situazioni interne drammatiche non vengono affrontate per carenza di denaro».
Quanto potrebbe favorire Trump il ritiro di Robert Kennedy jr.?
«Robert Kennedy jr. si ritira ora che ha esaurito le scorte di denaro e il suo consenso è sceso ai minimi. Credo possa incidere pochissimo, quasi niente».
Quanto possono influire Taylor Swift ed Elon Musk?
«Anche loro molto poco. Nel 1964, John Wayne era all’apice del successo e si schierò apertamente con Barry Goldwater, il candidato repubblicano che sfidava Lindon Johnson. John Wayne era il re di Hollywood, ma Goldwater subì una delle sconfitte più sonore della storia delle presidenziali americane».

 

La Verità, 24 agosto 2024