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Le Belve da salotto sono virali, ma graffiano meno

Anche per essere Belve da salotto bisogna saper fare le domande. Tutto bene, quindi, con Francesca Fagnani e il format Fremantle al costo di 320.000 euro a puntata? Fino a un certo punto, nonostante il boom di ascolti: Rai 2, martedì, ore 21,35, share del 12,6%, 2,2 milioni di telespettatori. Perché in questa edizione più che nelle precedenti affiora il quesito se prevalga la ciccia o il contorno. Intanto, si comincia il giorno prima della messa in onda, con le famose anticipazioni. Strano scopo per una belva quello di andare sui giornali, averne il plauso, diventare virali. E non a caso, ieri, un secondo dopo i dati Auditel, gli account della claque erano già in estasi. Il riconoscimento mediatico è ricercato scientemente con le affettuosità e le frequenti citazioni delle testate giuste. Tale apparato captante, vera «bestia» promozionale, era già attivissimo nelle scorse stagioni. Nella nuova, però, il salotto si è espanso con gli innesti delle Eterobasiche, un duo comico femminile, e un ulteriore momento espressivo di «libera arte». Contorno, appunto. Che serve ad allungare il brodo e spingere all’inizio del giorno seguente il programma successivo. E chissà come esulta Alessandro Cattelan. È la bulimia del format. L’ambizione a trasformarsi in varietà, in rotocalco, in newsmagazine. Del resto, il modello conclamato è Vanity Fair, interviste con outing incorporato in confezione patinata, scintillante, più glamour che si può.
La lunghezza della premessa la dice su quanto ci sia da scartare prima di giungere al contenuto del pacco vero e proprio. Il regalo. Che, per chi ama le vite segrete(?) dei vip e il retrobottega dello showbiz, spesso c’è. Ordunque. Martedì sera l’intervista più attesa era quella a Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, la prima dopo la rottura con Chiara Ferragni. Minoleggiando, la conduttrice non gli ha risparmiato gli argomenti scomodi. «Posso chiederle quando è davvero finito il vostro amore?». «Si parla di tradimenti». L’esposizione dei figli sui social eccetera. Fedez ha risposto, cazzeggiato, pianto, spesso accusando il sistema mediatico. Lui che, insieme alla moglie, ha fatto della comunicazione il suo asset e la sua filosofia. In fondo, è questa la formula del successo: la curiosità di chi fa le domande sposa la bramosia di parlar di sé ed essere al centro degli ospiti. Fagnani non si è risparmiata, pur senza graffiare troppo ed evitando qualche territorio accidentato. Tipo la travagliata esperienza sanremese della coppia. Sarebbe stato carino conoscere la versione del 50% dei Ferragnez. Lampeggiando gli occhioni e le chilometriche ciglia, la belva da salotto gli avrebbe di sicuro carpito qualcosa.

 

La Verità, 11 aprile 2024

I Ferragnez sono la nuova fiera delle vanità

Il 2020 è stato per tutta la popolazione mondiale un anno difficile». Sembra l’incipit di un intervento del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, di una meditazione di papa Francesco o dell’ultimo discorso di fine anno di Sergio Mattarella. Invece è Chiara Ferragni che, spalancando gli occhioni, declina una spiega motivazionale dell’Ambrogino d’oro ricevuto con Fedez nel dicembre scorso. Un attimo prima l’avevamo vista sul sedile posteriore del Suv con autista nel quale aveva sistemato mezza dozzina di trolley contenenti lo stretto necessario per la vacanza in una villa di lusso sul lago di Como. Benvenuti su The Ferragnez, la docuserie di Prime Video, visibili 5 episodi su 8, di cui già si sospira in attesa della seconda stagione. Il titolo in inglese rilancia il marchio globale della coppia a evidente traino femminile (e smalti maschili) come piace alla nuova columnist dell’Osservatore romano Michela Murgia. Mescolando realtà e finzione, la docuserie risulta perfetta nell’universo di Instagram dove la merce in vendita è il gusto dell’influencer. Come ha scritto Paolo Landi sul Foglio il lavoro di Chiara Ferragni «coincide con la sua vita». Però c’è un problema che si potrebbe definire di natura esistenziale. Già. Quanto lei è soave e appagata dall’adorazione del codazzo di sorelle, cognati e assistenti, tanto Federico Leonardo Lucia è insicuro, conflittuale e desideroso di maggior privacy. Così il dislivello da Buccinasco al Bosco verticale richiede buone bombole di ossigeno e adeguate pause di compensazione. Come quelle che la coppia si prende, insieme o separati, nelle sedute dallo psicoterapeuta che fungono da traccia orizzontale della storia. Peccato che l’analista non riesca a mimetizzare il tifo per lei e il paternalismo per lui. Ma colmare il divario e pareggiare il glamour non è cosa facile…

The Ferragnez is the new vanity fair. Le giornate sono farcite di fitting da Donatella Versace, baby shower per la seconda figlia in arrivo, shooting fotografici, meeting con il numerologo per saggiarne le previsioni di successo dell’esibizione sanremese. E simulazioni per gli uomini dei dolori del parto sopportato dalle compagne. Qui il termine inglese non c’è, forse perché su questo The Ferragnez sono fin troppo in anticipo. Comunque, sono le preoccupazioni e le occupazioni della coppia che smuove le borse e catalizza i media, il modello vincente dell’Occidente contemporaneo. Un’imprenditrice digitale innovativa e un rapper con ambizioni da guru. Tutto vero, scintillante e fiabesco. Ma se si scava dietro l’apparenza striscia una vena di malessere. Sinceri auguri alla coppia e ai suoi followers.

 

La Verità, 12 dicembre 2021

 

«L’industria dell’eros ha ucciso la passione»

Lunga vita a Barbara Alberti. Scrittrice, sceneggiatrice, regista, titolare della posta del cuore, commentatrice di fatti di costume. Soprattutto, demolitrice di luoghi comuni. Ribelle al politicamente corretto. Anticonformista senza codici. Anarchica a tutto campo. Basta leggere i suoi interventi su Vanity Fair, bibbia del conformismo glam nella quale, fortunatamente, resiste qualche isola trasgressiva (la rubrica di Roberto D’Agostino). Nell’ultimo articolo, in una sorta di dialogo con l’aldilà, Alberti ha scritto che l’eros «è morto in un portone, dimenticato. Non era più il putto con la faretra, ma un vecchio clochard avvolto in un cappottone pieno di buchi».

Chi l’ha lasciato morire?

«Non posso che risponderle con le parole pronunciate dallo stesso Eros in quell’articolo: “Siete stati voi. Ero il dio del mistero, avete fatto di me un articolo di mercato. L’industria del sesso è tutta contro di me. Sono riusciti a vincere la mia immortalità. Hanno reso finito l’infinito. C’è una congiura mondiale per abbattermi”».

Quand’è iniziata e perché quest’agonia?

«È iniziata quando l’eros è diventato un affare pubblico, un blasone, uno status, qualcosa da sbandierare, un’infinita chiacchiera, un “bavardage sur le sexe”, parafrasando Roland Barthes. Ma le pare sensato che se in una coppia muore il desiderio, invece di fare i conti col proprio rapporto, si ricorra a un estraneo, un sessuologo, e si aspetti da lui la soluzione? Una ragazza molto schietta anzi ruspante, non più desiderata dal marito, dopo anni di castità forzata, quando lui le propose di andare insieme dal sessuologo, esasperata rispose: “E che può fare per noi? Giusto se mi scopa!”. C’è della verità in questa rozzezza. Tra parentesi: in caso di disturbi funzionali, farsi curare è ottima cosa».

Nei giornali, nelle riviste, nella pubblicità, nei social non si parla d’altro: l’industria erotica smorza la passione?

«Che bella parola fuori moda: passione. Evoca incontri clandestini, relazioni pericolose, struggimento, attesa, desiderio… Riguarda un tempo perduto. Non questo in cui siamo telecomandati, e da uomini ci siamo trasformati in consumatori bulimici e annoiati, spesso virtuali».

Denuncia che si è persa la sacralità del sesso: da una femminista non me l’aspettavo.

«Chiariamoci sulla femminista: difendo con passione i diritti delle donne, calpestati ogni giorno. I maschi ci ammazzano con la complicità di un’intera società, e contano sulle pene spesso irrisorie. L’abolizione della legge sul delitto d’onore è una finzione. Ma non faccio parte del femminismo ufficiale, spesso ideologico e formalista. E inetto: perché non scendiamo in piazza quando riducono la pena di un assassino che ha ucciso con 27 coltellate la sua donna? Perché non facciamo sciopero? Siamo in tante. Fermeremmo il Paese. Spesso è un femminismo da copertina, o da sfilate ai premi. Sono una femminista indipendente. Sì, il sesso è sacro. È lo scambio più vero e profondo fra due esseri. Il sesso è – sempre – una piccola trascendenza».

Che fine ha fatto il gusto della trasgressione?

«È diventato una regola. Manette, fruste, sesso sadico telematico… che mancanza di fantasia. Che noia. Ormai la trasgressione esiste solo nella sua forma più bestiale, la violenza. Già 30 anni fa il geniale Carlo Verdone aveva intercettato il ridicolo trash del “Famolo strano” di due piccolo borghesi alla moda».

Perché se il sesso non è mai stato così facile i sessuologi si arricchiscono?

«Siamo regrediti a una minorità perenne, abbiamo paura del libero arbitrio, e vogliamo che ci istruiscano su tutto, da soli non ci sappiamo nemmeno più soffiare il naso. C’è anche il sexual coach, un professionista che ti insegna cosa e come devi desiderare. Meglio farsi monaci».

Scrive che il detonatore della passione era il pudore, ma il suo senso non è più tanto comune.

«Lo si ritrova nella grazia istintiva dell’amore. Ci ammonisce Apuleio, nella favola di Amore e Psiche: finché Amore è segreto, al buio, i due amanti sono felici. Ma appena Psiche si confida con le sorelle vengono separati, con guai a non finire».

La spinta al sesso in età avanzata è figlia di una società iper-competitiva?

«Più ancora sulla rimozione della morte. Beati i miei nonni, quando la parola vecchio non era stata eliminata dal linguaggio come fosse un insulto, mentre è il nome di una stagione. L’ultima. La più avvincente, un’adolescenza senza futuro: come ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman giochi a carte con la morte, e ogni giorno in più è una vittoria. I miei nonni avevano ancora il diritto di essere vecchi, senza sconciarsi con le plastiche per fare i finti giovani, non dovevano essere produttivi, smart e sexy fino all’ultimo respiro. La pubblicità ci vuole consumatori fino alla fine, non sappiamo più stare né davanti alla vita né davanti alla morte».

Ha preso le difese degli uomini perché sempre sotto esame: anche questo da una femminista non me l’aspettavo.

«Sì, poveretti. Ho molta comprensione per loro perché hanno quella disgrazia, l’erezione. Alle donne è stata risparmiata la prova di un sesso così evidente e infido. L’invidia del pene l’hanno inventata i maschi, per mascherare un complesso d’inferiorità, non immotivato. In teoria sarebbe invidiabile: l’asta, lo scettro… se obbedisse per davvero. Ma non è così. Io, da quando ho capito come funzionava li ho sempre trattati bene, in considerazione della loro sventura. Che incubo, dipendere tutta la vita da un servo infido che ti lascia magari quando più ci tieni. Non dà retta nemmeno all’amore, quello. Un nemico in casa, che espone al giudizio. Il Viagra è solo l’esorcismo di un’eterna paura. Meno male che sono nata senza. Orgogliosa come sono, dopo il primo fiasco me lo sarei tagliato – si dice, ma poi chissà. Per questo la donna vive più a lungo, per il bene della sua sessualità segreta. Per questo invecchia meglio. Una vecchia fa le torte, balla coi nipoti. Ma l’uomo, condannato a quella prova eterna, non si consola».

Perché ha criticato il body positive, la nuova tendenza a valorizzare l’imperfezione del corpo?

«Per l’aggressività con cui la libertà di aspetto viene proclamata, come se fosse un nuovo vangelo, o un canone obbligatorio. Odio gli schemi.  La bellezza va rispettata, come il suo contrario. Trovo giustissimo che la si smetta di sfottere le persone per il loro sembiante. Ma crederò di più in questo movimento quando vedrò fra le attiviste del body positive delle brutte vere. Quelle che vanno a parlarne in tv sono tutte belle, solo un po’ sovrappeso. E le meno avvenenti dove le mettono? Le nascondono in cantina? Che siano loro le prime a macchiarsi di body shaming?».

Ha visto che nel nuovo 007 James Bond si defila e la nuova protagonista sarà un’eroina di colore?

«Il fatto che sia una notizia, è la misura di quanto sia forte il razzismo. Guardi l’America: com’è possibile che dopo centinaia d’anni di convivenza esistano ancora bianchi e neri? Non si sono mai mischiati veramente. I bianchi non hanno mai perdonato i neri di essere la prova del loro colonialismo feroce e invece di riscattarsi, continuano a cercare di opprimerli. Donald Trump, più simile al Joker di Batman che a un uomo politico, davanti alla polizia che trucidava a freddo gli afroamericani, ha osato dire che quando un poliziotto uccide un nero è come quando un battitore di baseball sbaglia il tiro, elevando l’uccisione di un cittadino di colore a sport nazionale».

Replicando alle critiche, l’attrice si è detta grata per aver potuto sfidare gli stereotipi di razza e di genere perché «ci stiamo allontanando dalla mascolinità tossica». Cosa ne pensa?

«Magari fosse vero che ci stiamo allontanando. Lashana Lynch è bella da levare il fiato, è brava, ha carisma, porterà comunque qualcosa di audace e di nuovo».

C’è un modo antagonista di vivere l’appartenenza di genere?

«Non lo conosco. Io scelgo le persone, il sesso viene dopo».

Appunto: l’espressione «mascolinità tossica» mostra che siamo in piena guerra dei sessi?

«È un’espressione su cui preferisco non pronunciarmi».

Un certo femminismo estremo è responsabile di questo antagonismo?

«Perché, esiste un femminismo estremo? Magari. La situazione delle donne in Italia sarebbe molto migliore. Vedo solo tante signore che sfilano in passerella».

Che cos’è per lei il sessismo?

«Razzismo allo stato puro. Non ti considero una persona, ma solo secondo i miei pregiudizi sul tuo sesso. Non sarà facile uscire da questa follia millenaria».

Non è un’accusa di cui si abusa?

«Mai quanto si abusa delle donne. Finché questa forma di razzismo è così viva non è mai inutile reagire. Ma all’ideologia preferisco il gesto rivoluzionario – l’utopia, il sogno, l’umorismo. La mia femminista preferita resta Sabina Guzzanti, una dea della trasfigurazione attraverso la comicità».

Carlo Verdone ha detto che il politicamente corretto impedisce agli sceneggiatori di scrivere e che di questo passo i comici non faranno più ridere.

«Soprattutto diventeremo sempre più stupidi. Bisogna guardarsi dalla censura sul linguaggio. Possibile che non si riesca a reagire alla prepotenza se non facendone un’altra, ugualmente autoritaria?».

Cosa pensa del dibattito suscitato dall’editore Alessandro Laterza per aver detto che all’orizzonte non intravvede nuove Elsa Morante?

«Per il parere di Laterza ci si può offendere come scrittrici, ma non come donne. Non ha mica detto che le donne sono negate per la scrittura, ha detto di preferire la Morante alle contemporanee, sarà padrone di dirlo? Penso invece che oggi ci sia una letteratura femminile senza precedenti: Chiara Barzini, Isabella Santacroce, Elisa Fuksas, Michela Murgia, Chiara Valerio, Federica De Paolis, Tiziana Gazzini, ma potrei fare una lista lunghissima. Io, per esempio, preferisco Chiara Barzini a Elsa Morante. Sui gusti letterari non si discute. Mi piace la battaglia, non il vittimismo aggressivo e gratuito, che nuoce alla causa. La censura libertaria è un ossimoro».

Come vive questo tempo di restrizioni?

«Come nella canzone di Franco Battiato Fisiognomica: “E se ti senti male, raccomandati al Signore”».

Apocalittica o minimizzatrice?

«Spaventata e ottimista. Spero di vivere, anche se noi vecchi siamo in prima linea».

Chi è il suo virologo di fiducia?

«Nessuno. Tutti soubrette. Ognuno è il capo di una religione che considera l’unica valida. Parlano tanto di vaccini, e non si trova nemmeno quello antinfluenzale».

Che cosa le manca di più?

«La libertà. Un bacio a mia nipote. Non temere gli altri e me stessa come untori. Il rito collettivo del cinema, la grande affabulazione in una sala buia, questo antico sogno».

 

La Verità, 28 novembre 2020

 

Inganni delle casalinghe milionarie stile Vanity Fair

Non c’è aria di crisi economica nelle ville fronte oceano di Monterey, California. Le casalinghe patinate non hanno bisogno di lavorare e tra un drink e una cena di beneficenza si occupano ossessivamente della loro viziatissima prole da educare alle regole della buona società. Ma si sa come sono i bambini, perfidi e impulsivi, o desiderosi di attirare ancora più attenzioni. Così al primo giorno di orientamento scolastico la mocciosa di Renata Klein (Laura Dern) lamenta di essere stata vittima di violenza da parte del bimbo di Jane Chapman, ultima new entry della comunità. Sarà davvero lui il colpevole? Tutto fa pensare che nell’indagine sul sopruso infantile risiedano anche i segreti dell’omicidio con cui si apre il primo dei sette episodi di Big Little Lies, miniserie prodotta da Hbo e trasmessa da mercoledì su Sky Atlantic. Tratta dall’omonimo fortunato romanzo di Liane Moriarty, pubblicato in Italia da Mondadori, ideata da David E. Kelley (Ally McBeal) e diretta da Jean-Marc Vallée (Dallas Buyers Club), la serie vanta un cast di prestigio che annovera tra le altre Nicole Kidman e Reese Witherspoon, anche produttrici. Ci troviamo, dunque, in una piccola e modernissima cittadina in riva al Pacifico, dominata da madri e mogli premurose, archetipi ideali delle lettrici di Vanity Fair. Maddy Mackenzie (Witherspoon) ha già un matrimonio alle spalle e due figlie su cui riversare attivismo e nevrosi, senza peraltro avvedersi della gelosia dell’adolescente nei confronti della piccolina. Celeste Wright (Kidman) invece ha chiuso lo studio legale per dedicarsi ai due gemellini e alle scabrose esigenze erotiche del più giovane marito. Infine, c’è Jane Chapman (Shailene Woodley), sola e senza lavoro, arrivata da chissà dove e chissà perché proprio qui: inevitabilmente distonica rispetto al rango delle altre.

Non c’è aria di crisi economica tra le casalinghe annoiate di Monterey. Ma ci sono segnali di squilibri affettivi e sentimentali, celati dietro la perfezione delle vetrate e delle terrazze hi tech della upper-middle-class. Dopo i primi due episodi («Schieramenti» e «Forte istinto materno»), in cui le deposizioni di insegnanti e testimoni e le dichiarazioni degli investigatori si alternano alle vicende private delle tre protagoniste, non si è ancora vista la scena del crimine né si è scoperta l’identità della vittima. Il giallo è fitto, i dialoghi sono taglienti e improntati a un chirurgico cinismo, la trama e le ambientazioni scolpite. Cosicché regia e sceneggiatori possono prendersi anche il lusso di eloquenti silenzi in cui far parlare le espressioni delle loro ottime attrici.

La Verità, 17 marzo 2017

Con Bignardi e Romagnoli, una Rai radical chic

La lista di nomi che il direttore generale Antonio Campo Dall’Orto proporrà domani al Consiglio d’amministrazione della Rai contiene qualche sorpresa e non mancherà di suscitare polemiche. Nel segno della continuità la scelta per Raiuno di Andrea Fabiano, già vicedirettore di Giancarlo Leone (che passa al Coordinamento delle reti, lasciato libero da Antonio Marano candidato al timone di Rai Pubblicità). A lungo annunciata la nomina di Raidue, dove s’insedierà Ilaria Dallatana, cresciuta in Mediaset e fondatrice, con Giorgio Gori, di Magnolia (l’attuale direttore Angelo Teodoli passa a Rai4). Poco prevedibile, invece, e sicura fonte di critiche, la scelta di Daria Bignardi come candidata alla direzione di Raitre, dov’era dato in prima fila Andrea Salerno. A Raisport sarà chiamato Gabriele Romagnoli, giornalista e scrittore, firma di Repubblica, Vanity Fair oltre che direttore di GQ.

Aldilà delle proteste dell’Usigrai, che ha parlato di “schiaffo” contro i lavoratori della Rai e di “sonora sfiducia e delegittimazione”, colpisce la scelta di Bignardi, moglie di Luca Sofri, direttore de Il Post, nata televisivamente a Milano, Italia, cresciuta in Mediaset, dove ha tenuto a battesimo Il Grande Fratello (Gori direttore di Canale 5), poi approdata a La7 con Le Invasioni barbariche (una parentesi a Raidue con L’Era glaciale), talk show che vantava un numero di polemiche inversamente proporzionale agli ascolti. Un curriculum che non sembrava legittimare candidature a direzioni di rete. Ancor più se si pensa che Le Invasioni barbariche era il programma più frequentato da Renzi, fin da quando era sindaco di Firenze. Cliccatissimo sul web il video in cui, al termine di un’intervista del gennaio 2014, Sofri incrocia dietro le quinte dello studio l’allora sindaco e segretario Pd salutandolo con un “Ciao capo, ottima ottima…”.

Bignardi, come Romagnoli, è una firma di Vanity Fair, espressione dei salotti milanesi più modaioli. Ma la sua nomina servirà a rendere ancora più aspre le accuse al premier di voler addomesticare la tv pubblica. A cominciare proprio da quella Raitre che i renziani più intransigenti considerano troppo aperta a grillini e minoranza Pd.