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Verdone nel vortice dei folli senza centro di gravità

La terza stagione di Vita da Carlo, da qualche giorno disponibile su Paramount+, radicalizza le scelte migliori delle due precedenti. Stavolta, dopo aver rinunciato a fare il sindaco di Roma e a dirigere finalmente un film d’autore, Carlo Verdone accetta di dirigere e condurre il Festival di Sanremo. Idea che paga lo scotto alla prevedibilità e all’overdose di promozione dell’evento reale cosicché ci vogliono un paio di episodi per superare l’iniziale scetticismo. I tentativi di Roberto D’Agostino e del super manager Thomas (Giovanni Esposito) di dissuadere Carlo dall’accettare una sfida tanto impervia s’infrangono con la sua voglia di mettersi in gioco e soprattuto con la sua incapacità a dire di no. Anche in famiglia sono perplessi, ma sebbene tutti gli vogliano bene, un po’ se n’approfittano, come si dice. E allora il nostro eroe antieroe, il motore immobile della giostra, il centro del frullatore, assediato da improbabili richieste, precipita nel vortice delle fissazioni della varia umanità che lo circonda.

La genialità della sitcom è mettere in scena le perversioni quotidiane del nostro tempo, la ludopatia, il complottismo, la mercificazione del sesso, la militanza ambientalista, il politicamente corretto: circostanze che assolutizzano un particolare dimenticando il tutto, rappresentate da un campionario di sciroccati privo di centro di gravità nel quale c’è posto anche per la presa in giro degli autori e dei giornalisti tv. Ma lo fa con mano leggera e sguardo privo di moralismi, volto a evidenziare la vera vittima della situazione, quel buon senso che, a fatica e senza risparmiare in generosità, Carlo tenta di ripristinare, non sempre riuscendoci. Perché, alla fine, insieme al buon senso, la vera vittima è lui stesso, prigioniero della sua bonarietà. La trama è così ben definita che, nei dieci episodi di venti minuti l’uno, c’è spazio anche per il racconto per sole immagini o per dialoghi efficaci grazie alla scrittura e alle molte partecipazioni di star nel ruolo di loro stessi, da Maccio Capatonda a Ema Stokholma, da Gianna Nannini a Gianni Morandi a Zucchero. In fondo, «la vita, per buona parte, è tutta una commedia».

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Sarà pure uno spot di due ore, un santino o una grande operazione di marketing cinematografico, ma intanto domenica scorsa Ennio Doris – C’è anche domani tratto dall’autobiografia del banchiere fondatore di Mediolanum che nel 2011 rimborsò di tasca propria 11.000 risparmiatori che avevano investito in titoli Lehman Brothers, ha conquistato il 14% di share con 2,4 milioni di telespettatori vincendo la gara degli ascolti.

 

La Verità, 29 novembre 2024

Il malincomico Verdone sulla terrazza della vita

Carlo Verdone è un buono non buonista, un autore brillante e poetico, un interprete malincomico. Che la seconda stagione di Vita da Carlo, passata da Prime Video a Paramount+, sia ancora più bella della prima l’hanno già scritto tutti e lo scrivo anch’io. Stavolta, anziché alle prese con un’impossibile candidatura a sindaco di Roma, Carlo è intenzionato a trarre un film d’autore da «Maria F.», la vicenda personale raccontata in La carezza della memoria (Bompiani), diario traboccante di ricordi segreti e aneddoti da coatto dello spettacolo. «Maria F.», il più struggente di quei ricordi, è la storia dell’amore breve e impossibile tra il giovane Carlo e una prostituta. Ora Verdone vuole raccontarlo in un film da lui diretto, ma nonostante giuri di voler fare «solo quello che mi va di fare», la sua bontà d’animo lo mette nelle situazioni più improbabili delle quali finisce immancabile vittima. Salvo poi, lungi da ogni buonismo, uscirne alla sua maniera. Così il tracotante produttore (Stefano Ambrogi simil Aurelio De Laurentiis) gli impone il riluttante Sangiovanni nel ruolo di lui stesso ragazzo, protagonista del film. L’eccentrica scrittrice di libri per bambini (Stefania Rocca) lo costringe a un’anacronistica trasferta in campeggio con i suoi lettori. Il petulante amico attore Max Tortora lo tormenta con le sue fisime e la costante ricerca del ruolo che lo consacri. La nevrotica ex moglie (Monica Guerritore) ancora gelosa lo incastra con consigli sballati. Fabio Traversa, attore frustrato a causa del ruolo recitato in Compagni di scuola, lo ricatta in tutti i modi per ottenere una parte nel nuovo film.

Circondato da simile compagnia, Verdone non può che finire nel frullatore mentre il famoso film d’autore, discreta ironia sulle ambizioni cinefile sue e di tutto l’ambiente, non decolla. Anche perché nel frattempo la figlia Maddalena (Caterina De Angelis) ha un bimbo in pancia, non si sa bene se figlio di Chicco (Antonio Bannò), lo spiantato quasi fidanzato, o di qualcun altro. Ma mentre gli adulti sono tutti più o meno svalvolati e sopra le righe, sui più giovani Verdone allarga uno sguardo tollerante e benevolo. In fondo, ancora un po’ di tempo per capire meglio chi sono ce l’hanno a disposizione. Come ce l’aveva lui, un tantino acerbo all’epoca dell’infatuazione per Maria F. (Mita Medici). Malgrado Carlo riesca quasi mai a fare quello che vuole fare, a soccorrerlo c’è lo sguardo della poesia, pure quando sconfina nella malinconia. Il punto di vista da dove gustare la bellezza come da una terrazza affacciata su Roma.

 

La Verità, 22 ottobre 2023

La serie di Verdone, prodotto corale con solista

Autobiografica («al 35%», dice lui), autoironica, comica e malincomica, insomma, una bella serie tv. È Vita da Carlo, 10 episodi di mezz’ora dal 5 novembre su Amazon Prime Video. Carlo Verdone l’ha scritta (con Nicola Guaglianone, Menotti e Pasquale Plastino), diretta (con Arnaldo Catinari) e interpretata. E anche il cast scelto è un bell’esempio di collaborazione e coralità: Max Tortora (che interpreta sé stesso), Monica Guerritore (l’ex moglie), Caterina De Angelis (la figlia), Antonio Bannò (il suo fidanzato), Andrea Pennacchi (Signoretti, presidente della regione Lazio), Anita Caprioli (una farmacista affascinata da Verdone), Maria Paiato (la domestica), Giada Benedetti (la segretaria). Perdonerete il lungo elenco, ma è per dare rilievo al super cast coinvolto dalla produzione Filmauro. Perché, come da tempo si va dicendo, la migliore serialità non ha nulla da invidiare al cinema. Vita da Carlo lo conferma e ribadisce a cominciare dalle scelte degli attori, per proseguire con la qualità della sceneggiatura e le scenografie, la splendida casa del protagonista, la meravigliosa terrazza con vista sulla città ripresa negli scorci meno visti.

All’uscita da una farmacia, davanti all’incidente di un motociclista causa buca del fondo stradale, Verdone si lancia in uno sfogo su Roma poco amata dalla politica e la politica, vista la viralità dell’invettiva, lo arruola immediatamente. Alle prossime elezioni sarà lui il candidato sindaco del partito guidato dal presidente della regione Signoretti. Ovviamente, è solo il pretesto narrativo di una storia che si beve come un sorso d’acqua di montagna, ma si snoda tra incubi, notti insonni e ipocondrie varie, per lo scoramento del povero Carlo.

Assediato dai fan ai quali non riesce a negare un selfie, acclamato dai sostenitori che lo vedono già insediato al Campidoglio, incapace di misurare la propria generosità, Verdone passa dal confortare un’ammiratrice malata di tumore al dissuadere un attore deluso dalla volontà di suicidarsi buttandosi dal Colosseo. Il vero rovello che però lo assilla è la difficoltà a liberarsi dei personaggi dei primi film (Furio, Mimmo, Ivano…), continuamente richiesti dai fan e dal produttore (Stefano Ambrogi), per svoltare finalmente nel cinema d’autore (con relativa, godibile, presa in giro dello stesso). Insomma, una commedia in cui si ride spesso e qualche volta ci si commuove. E alla quale aggiungono freschezza gli imprevedibili camei di Roberto D’Agostino, Antonello Venditti, Alessandro Haber, Rocco Papaleo, Morgan, Paolo Calabresi e Massimo Ferrero.

 

La Verità, 9 ottobre 2021

«Assurda la cacciata di Spacey, reciterei con lui»

Buongiorno Carlo Verdone, cominciamo dalla buona notizia: come si sta con due anche nuove di titanio?

Mi sembra d’essere ringiovanito di trent’anni. Ricominciare a fare movimenti che avevi dimenticato è come guadagnare un pezzo di vita.

La notizia cattiva è che i cinema ancora non aprono.

E il fatto è fonte di grande apprensione e tristezza. Tutti noi del settore temiamo che il pubblico cambi atteggiamento. Le persone di mezza età che amavano la sala resteranno spettatori, ma i giovanissimi che già prima la frequentavano poco si abitueranno sempre più al display?

Si vive una volta sola, il suo ultimo film, aspetta da un anno.

Per amore della visione in sala io, il produttore e il distributore stiamo temporeggiando, ma è un ultimo tentativo. Se i cinema non riapriranno presto non potremo fermare l’uscita in piattaforma perché altrimenti il film invecchia.

Qualcuno ha già fatto questa scelta.

Lo credo bene, non tutti hanno la forza economica per resistere come Aurelio De Laurentiis e Vision distribution.

Lei accetta docile o un po’ s’incazza?

Credo che prima o poi arriverà il via libera degli esperti al 40% di spettatori. A meno che le nuove varianti del virus non complichino ancora la situazione.

Lei è un rigorista o un vitalista?

Una parte di me è rigorosa e molto ubbidiente. Un’altra parte vuole vivere, vedere, stupirsi, emozionarsi.

Con la sua esperienza in materia di salute, che cosa suggerirebbe per contrastare la pandemia?

Non ho idee in più, suggerirei di attenersi alle prescrizioni. Quest’anno ha visto traccia dell’influenza? No, perché abbiamo portato le mascherine. Nessuno tra le persone che conosco l’ha avuta, mentre cinque miei amici sono morti di Covid.

Il suggerimento è maggior disciplina e uso delle mascherine?

Appena viene proclamata la zona gialla le strade dello shopping si riempiono. Capisco la gioia dei negozianti, ma credo che ci vorrebbero più responsabilità e autocontrollo. Maggior disciplina significa meno morti. Ricordiamoci anche degli anziani, che sono una categoria fondamentale per la formazione dei giovani e per la memoria storica di una società.

Aspetta con ansia il vaccino?

Certo. Come arriva me lo faccio. Un’ora fa mi hanno avvertito della morte di un’altra mia amica.

Ha paura della morte?

No. Ho paura solo del dolore che posso lasciare nella mia famiglia e nelle persone alle quali voglio molto bene quando non ci sarò più.

I suoi figli?

Non ne parliamo, quando si affronta l’argomento si incupiscono e cambiano stanza. Il brutto della morte è vederla arrivare. Per noi è un interruttore che si spegne. Poi se uno è cattolico può trovare conforto e forza in qualche modo nella fede. Non ci sono alternative.

Lei è credente?

Certo. E lo sto diventando sempre di più negli anni. Non per paura, ma perché è un percorso lungo e complicato. La fede si trova, si perde, si ritrova. Mi ha dato ragione anche il Papa quando gli ho parlato.

Mi ha detto che i veri credenti sono quelli che la perdono, ma continuano a camminare in salita e poi magari la ritrovano con più forza. Mi ha detto di dubitare dei cattolici di professione.

Dopo La casa sopra i portici, dedicato all’abitazione paterna, Carlo Verdone torna in libreria con La carezza della memoria (Bompiani), sorta di viaggio nel passato sulla scorta del ricco baule di fotografie da riordinare che ci svela il lato malinconico del più poliedrico attore brillante italiano.

Perché l’ha intitolato La carezza della memoria?

Perché provo sollievo nel ricordo, pure in quelli dolenti. E anche nella nostalgia.

Cosa vuol dire quando scrive: «Sono un uomo che ha vissuto nello stupore continuo»?

Mio padre, grande educatore, mi ha educato allo stupore, al gusto del bello.

È questo stupore che le permette di raccontarsi liberamente?

Penso di sì, non ho ancora il cuore indurito. Spero di continuare a stupirmi come mio padre fino a 90 anni. Lo stupore deriva dalla curiosità, dalla voglia di stare con gli altri, di amare la gente.

Come mai uno che ha avuto il suo successo è ancora attraversato da trepidazioni e paure?

La cosa giusta l’ha detta mio fratello: «Hai scritto un libro di grande umiltà». Se si legge con attenzione ci si accorge che il protagonista non sono io, ma gli altri.

Cosa vuol dire essere un «pedinatore di italiani»?

Essere curioso delle persone. Riuscire a scovare, anche in quelle apparentemente più grigie, un dettaglio che le rende involontariamente comiche.

Il ritratto di Maria F. ha accenni poetici.

È stata una storia breve, struggente e impossibile. Era una prostituta. Nella mia vita non ho pianto molto e questo è un guaio. Quando ho scritto il suo capitolo ho dovuto nascondere la commozione anche a mio figlio.

La stupisce che Bruno Gambarotta, storico comico e dirigente Rai di Torino, e una terrorista abbiano indovinato il suo futuro di successo?

È una coincidenza sorprendente. Quella donna che incontrai sul treno e che mi fissava con occhi intelligenti raccontò pochissimo di lei. Io ero un perfetto sconosciuto. Quando scendemmo a Torino all’una e mezza di notte, mi disse: «Tu ce la farai». In seguito scoprii dai giornali che faceva parte di una banda armata. Chissà cosa aveva visto.

La stessa cosa che vide Gambarotta?

Avevo partecipato alla seconda stagione di Non stop, il programma fucina di comici del grande Enzo Trapani. Gambarotta mi convocò nel suo ufficio: «La prossima volta che verrai a Torino sarà in Mercedes». Non male come profezia.

Si è rivelata azzeccata.

Come mai, pur essendo popolato di gente coatta e bische, questo libro è venato di malinconia?

È la mia anima, c’è poco da fare. Qualcuno confonde la malinconia con la depressione, ma non c’entra niente. È una tonalità totalmente diversa, come si vede già in Un sacco bello e Bianco rosso e Verdone. Meno male che ho questa malinconia, altrimenti farei film vuoti.

Un altro personaggio straordinario è Zdenek Digrin che, senza essere un fotografo, è stato suo maestro di fotografia?

Non direi.

Le disse di non fare fotografie «per soddisfare chi le vedrà. Sennò farà solo cartoline. Segua i suoi colori, le atmosfere della sua anima».

Era un grande intellettuale che incontrai nella Praga degli anni Settanta, un grande studioso di commedia dell’arte italiana e del teatro di Carlo Goldoni. Un uomo mite, di un candore assoluto, alto e con due occhiali da miope grossi così. Ma siccome aveva scritto qualcosa che non andava bene al regime, ha fatto tutta la vita il portiere di notte.

Qual è stato l’incontro che ha segnato maggiormente la sua carriera artistica?

Forse sono due. Il primo è stato Federico Fellini, che veniva spesso a cena a casa nostra. All’epoca seguivo le rassegne underground e le monografie dei cineclub. Quando lo ascoltavo dialogare con mio padre o rispondere a qualche mia timida domanda sui suoi primi film mi affascinava la mente del regista. Così continuai a frequentare assiduamente i cineclub.

Il secondo maestro?

È stato Sergio Leone. Fu lui a impormi di scrivere e dirigere Un sacco bello e Bianco rosso e Verdone oltre a interpretarli. Sosteneva che nessun altro regista avrebbe potuto tradurre sullo schermo la mia comicità come avrei saputo farlo io. Leone fu più che un angelo custode, un demiurgo. Per sei mesi, prima di Un sacco bello mi teneva a casa sua dalle 10 di mattina alle 4 di notte per farmi lezioni di regia. Avevo pensato anche di trasferirmi in una delle sue dependance, non lo feci perché ero sposato da poco.

A parte Roma, dove le piacerebbe vivere?

A Torino. Negli anni Settanta era grigia, un posto di solitudini. Oggi ha un fermento e una grazia nuova. Anche Siena, la città di mio padre, mi piace. Una città medievale, con strade strette e angoli scuri. Sono città nelle quali mi trovo a mio agio, anche se non sono esattamente radiose.

Mi regala un pensiero sulla politica italiana?

Diversi anni fa a una cena da un amico chirurgo ebbi modo di conoscere Mario Draghi, allora al ministero del Tesoro. Mi fece subito l’impressione di una persona per bene. Una persona umile nonostante il curriculum. Quando mi capita di incontrarlo a Città della Pieve, constato che la semplicità si abbina alla preparazione. Non a caso ha frequentato la scuola dei gesuiti.

Ne parla come di un esempio assoluto.

Credo lo sia. Non ha interessi personali ed è colto. All’estero, durante la crisi, si mettevano le mani nei capelli. Lui è credibile. I politici italiani devono essere preparati, per questo bisogna amare gli studi. Vorrei una classe politica che non pensasse alle poltrone e fosse di esempio per la gente, che altrimenti può diventare indisciplinata, volgare, violenta.

L’ultimo libro che ha letto?

Conversazioni di Jorge Louis Borges. Sono lunghe interviste fatte per la radio argentina. Con Borges si spazia dalla letteratura antica a quella moderna alla poesia.

L’ultima scoperta musicale?

Ho scoperto Mark Lanegan, un cantante maledetto, un po’ funereo, ma con una bella energia e bei testi. E sto rivalutando Lana Del Rey, che ha un bravo arrangiatore e scrive testi complessi e intelligenti.

A che punto è la serie per Amazon prime?

Abbiamo finito la sceneggiatura e in maggio inizieremo a girare.

È una storia autobiografica?

Ci sono cose della mia vita quotidiana, qualche amicizia, qualche fisima. È una commedia brillante in dieci episodi.

Il nome di un attore con cui le piacerebbe lavorare?

Kevin Spacey. Trovo incredibile che un attore gigantesco come lui, a causa del bigottismo che l’ha colpito sia ai margini. Basterebbe leggere Hollywood babilonia per accorgersi che tanti hanno fatto le cose più turpi. Noi, che siamo un paese cattolico, abbiamo santificato Pasolini. Spacey faccia il suo percorso di pentimento e riabilitazione, ma non può finire nell’oblio.

Il politicamente corretto non ammette eccezioni.

E bisognerebbe piantarla. Le basi del politicamente corretto sono giuste. Ma non lo sono più quando diventano qualcosa di dogmatico, un’ipocrisia unica, un’aberrazione.

Che cosa fa ridere oggi Carlo Verdone?

Bella domanda. Non c’è molto da ridere… I mitomani, i megalomani sono sempre divertenti. L’altro giorno ero in fila con la mascherina in una di quelle drogherie chic… Spunta un tizio senza mascherina, salta la coda e inizia a sbraitare: «Credete ancora a ’ste cazzate… No ’o capite ch’è ’n complotto? Che ce stanno a perculà…». Risultato: ce ne siamo andati tutti, lui ha indossato la mascherina ed è entrato bello tranquillo. A volte genialità e cafoneria vanno in coppia.

 

Panorama, 17 febbraio 2021

 

 

«L’industria dell’eros ha ucciso la passione»

Lunga vita a Barbara Alberti. Scrittrice, sceneggiatrice, regista, titolare della posta del cuore, commentatrice di fatti di costume. Soprattutto, demolitrice di luoghi comuni. Ribelle al politicamente corretto. Anticonformista senza codici. Anarchica a tutto campo. Basta leggere i suoi interventi su Vanity Fair, bibbia del conformismo glam nella quale, fortunatamente, resiste qualche isola trasgressiva (la rubrica di Roberto D’Agostino). Nell’ultimo articolo, in una sorta di dialogo con l’aldilà, Alberti ha scritto che l’eros «è morto in un portone, dimenticato. Non era più il putto con la faretra, ma un vecchio clochard avvolto in un cappottone pieno di buchi».

Chi l’ha lasciato morire?

«Non posso che risponderle con le parole pronunciate dallo stesso Eros in quell’articolo: “Siete stati voi. Ero il dio del mistero, avete fatto di me un articolo di mercato. L’industria del sesso è tutta contro di me. Sono riusciti a vincere la mia immortalità. Hanno reso finito l’infinito. C’è una congiura mondiale per abbattermi”».

Quand’è iniziata e perché quest’agonia?

«È iniziata quando l’eros è diventato un affare pubblico, un blasone, uno status, qualcosa da sbandierare, un’infinita chiacchiera, un “bavardage sur le sexe”, parafrasando Roland Barthes. Ma le pare sensato che se in una coppia muore il desiderio, invece di fare i conti col proprio rapporto, si ricorra a un estraneo, un sessuologo, e si aspetti da lui la soluzione? Una ragazza molto schietta anzi ruspante, non più desiderata dal marito, dopo anni di castità forzata, quando lui le propose di andare insieme dal sessuologo, esasperata rispose: “E che può fare per noi? Giusto se mi scopa!”. C’è della verità in questa rozzezza. Tra parentesi: in caso di disturbi funzionali, farsi curare è ottima cosa».

Nei giornali, nelle riviste, nella pubblicità, nei social non si parla d’altro: l’industria erotica smorza la passione?

«Che bella parola fuori moda: passione. Evoca incontri clandestini, relazioni pericolose, struggimento, attesa, desiderio… Riguarda un tempo perduto. Non questo in cui siamo telecomandati, e da uomini ci siamo trasformati in consumatori bulimici e annoiati, spesso virtuali».

Denuncia che si è persa la sacralità del sesso: da una femminista non me l’aspettavo.

«Chiariamoci sulla femminista: difendo con passione i diritti delle donne, calpestati ogni giorno. I maschi ci ammazzano con la complicità di un’intera società, e contano sulle pene spesso irrisorie. L’abolizione della legge sul delitto d’onore è una finzione. Ma non faccio parte del femminismo ufficiale, spesso ideologico e formalista. E inetto: perché non scendiamo in piazza quando riducono la pena di un assassino che ha ucciso con 27 coltellate la sua donna? Perché non facciamo sciopero? Siamo in tante. Fermeremmo il Paese. Spesso è un femminismo da copertina, o da sfilate ai premi. Sono una femminista indipendente. Sì, il sesso è sacro. È lo scambio più vero e profondo fra due esseri. Il sesso è – sempre – una piccola trascendenza».

Che fine ha fatto il gusto della trasgressione?

«È diventato una regola. Manette, fruste, sesso sadico telematico… che mancanza di fantasia. Che noia. Ormai la trasgressione esiste solo nella sua forma più bestiale, la violenza. Già 30 anni fa il geniale Carlo Verdone aveva intercettato il ridicolo trash del “Famolo strano” di due piccolo borghesi alla moda».

Perché se il sesso non è mai stato così facile i sessuologi si arricchiscono?

«Siamo regrediti a una minorità perenne, abbiamo paura del libero arbitrio, e vogliamo che ci istruiscano su tutto, da soli non ci sappiamo nemmeno più soffiare il naso. C’è anche il sexual coach, un professionista che ti insegna cosa e come devi desiderare. Meglio farsi monaci».

Scrive che il detonatore della passione era il pudore, ma il suo senso non è più tanto comune.

«Lo si ritrova nella grazia istintiva dell’amore. Ci ammonisce Apuleio, nella favola di Amore e Psiche: finché Amore è segreto, al buio, i due amanti sono felici. Ma appena Psiche si confida con le sorelle vengono separati, con guai a non finire».

La spinta al sesso in età avanzata è figlia di una società iper-competitiva?

«Più ancora sulla rimozione della morte. Beati i miei nonni, quando la parola vecchio non era stata eliminata dal linguaggio come fosse un insulto, mentre è il nome di una stagione. L’ultima. La più avvincente, un’adolescenza senza futuro: come ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman giochi a carte con la morte, e ogni giorno in più è una vittoria. I miei nonni avevano ancora il diritto di essere vecchi, senza sconciarsi con le plastiche per fare i finti giovani, non dovevano essere produttivi, smart e sexy fino all’ultimo respiro. La pubblicità ci vuole consumatori fino alla fine, non sappiamo più stare né davanti alla vita né davanti alla morte».

Ha preso le difese degli uomini perché sempre sotto esame: anche questo da una femminista non me l’aspettavo.

«Sì, poveretti. Ho molta comprensione per loro perché hanno quella disgrazia, l’erezione. Alle donne è stata risparmiata la prova di un sesso così evidente e infido. L’invidia del pene l’hanno inventata i maschi, per mascherare un complesso d’inferiorità, non immotivato. In teoria sarebbe invidiabile: l’asta, lo scettro… se obbedisse per davvero. Ma non è così. Io, da quando ho capito come funzionava li ho sempre trattati bene, in considerazione della loro sventura. Che incubo, dipendere tutta la vita da un servo infido che ti lascia magari quando più ci tieni. Non dà retta nemmeno all’amore, quello. Un nemico in casa, che espone al giudizio. Il Viagra è solo l’esorcismo di un’eterna paura. Meno male che sono nata senza. Orgogliosa come sono, dopo il primo fiasco me lo sarei tagliato – si dice, ma poi chissà. Per questo la donna vive più a lungo, per il bene della sua sessualità segreta. Per questo invecchia meglio. Una vecchia fa le torte, balla coi nipoti. Ma l’uomo, condannato a quella prova eterna, non si consola».

Perché ha criticato il body positive, la nuova tendenza a valorizzare l’imperfezione del corpo?

«Per l’aggressività con cui la libertà di aspetto viene proclamata, come se fosse un nuovo vangelo, o un canone obbligatorio. Odio gli schemi.  La bellezza va rispettata, come il suo contrario. Trovo giustissimo che la si smetta di sfottere le persone per il loro sembiante. Ma crederò di più in questo movimento quando vedrò fra le attiviste del body positive delle brutte vere. Quelle che vanno a parlarne in tv sono tutte belle, solo un po’ sovrappeso. E le meno avvenenti dove le mettono? Le nascondono in cantina? Che siano loro le prime a macchiarsi di body shaming?».

Ha visto che nel nuovo 007 James Bond si defila e la nuova protagonista sarà un’eroina di colore?

«Il fatto che sia una notizia, è la misura di quanto sia forte il razzismo. Guardi l’America: com’è possibile che dopo centinaia d’anni di convivenza esistano ancora bianchi e neri? Non si sono mai mischiati veramente. I bianchi non hanno mai perdonato i neri di essere la prova del loro colonialismo feroce e invece di riscattarsi, continuano a cercare di opprimerli. Donald Trump, più simile al Joker di Batman che a un uomo politico, davanti alla polizia che trucidava a freddo gli afroamericani, ha osato dire che quando un poliziotto uccide un nero è come quando un battitore di baseball sbaglia il tiro, elevando l’uccisione di un cittadino di colore a sport nazionale».

Replicando alle critiche, l’attrice si è detta grata per aver potuto sfidare gli stereotipi di razza e di genere perché «ci stiamo allontanando dalla mascolinità tossica». Cosa ne pensa?

«Magari fosse vero che ci stiamo allontanando. Lashana Lynch è bella da levare il fiato, è brava, ha carisma, porterà comunque qualcosa di audace e di nuovo».

C’è un modo antagonista di vivere l’appartenenza di genere?

«Non lo conosco. Io scelgo le persone, il sesso viene dopo».

Appunto: l’espressione «mascolinità tossica» mostra che siamo in piena guerra dei sessi?

«È un’espressione su cui preferisco non pronunciarmi».

Un certo femminismo estremo è responsabile di questo antagonismo?

«Perché, esiste un femminismo estremo? Magari. La situazione delle donne in Italia sarebbe molto migliore. Vedo solo tante signore che sfilano in passerella».

Che cos’è per lei il sessismo?

«Razzismo allo stato puro. Non ti considero una persona, ma solo secondo i miei pregiudizi sul tuo sesso. Non sarà facile uscire da questa follia millenaria».

Non è un’accusa di cui si abusa?

«Mai quanto si abusa delle donne. Finché questa forma di razzismo è così viva non è mai inutile reagire. Ma all’ideologia preferisco il gesto rivoluzionario – l’utopia, il sogno, l’umorismo. La mia femminista preferita resta Sabina Guzzanti, una dea della trasfigurazione attraverso la comicità».

Carlo Verdone ha detto che il politicamente corretto impedisce agli sceneggiatori di scrivere e che di questo passo i comici non faranno più ridere.

«Soprattutto diventeremo sempre più stupidi. Bisogna guardarsi dalla censura sul linguaggio. Possibile che non si riesca a reagire alla prepotenza se non facendone un’altra, ugualmente autoritaria?».

Cosa pensa del dibattito suscitato dall’editore Alessandro Laterza per aver detto che all’orizzonte non intravvede nuove Elsa Morante?

«Per il parere di Laterza ci si può offendere come scrittrici, ma non come donne. Non ha mica detto che le donne sono negate per la scrittura, ha detto di preferire la Morante alle contemporanee, sarà padrone di dirlo? Penso invece che oggi ci sia una letteratura femminile senza precedenti: Chiara Barzini, Isabella Santacroce, Elisa Fuksas, Michela Murgia, Chiara Valerio, Federica De Paolis, Tiziana Gazzini, ma potrei fare una lista lunghissima. Io, per esempio, preferisco Chiara Barzini a Elsa Morante. Sui gusti letterari non si discute. Mi piace la battaglia, non il vittimismo aggressivo e gratuito, che nuoce alla causa. La censura libertaria è un ossimoro».

Come vive questo tempo di restrizioni?

«Come nella canzone di Franco Battiato Fisiognomica: “E se ti senti male, raccomandati al Signore”».

Apocalittica o minimizzatrice?

«Spaventata e ottimista. Spero di vivere, anche se noi vecchi siamo in prima linea».

Chi è il suo virologo di fiducia?

«Nessuno. Tutti soubrette. Ognuno è il capo di una religione che considera l’unica valida. Parlano tanto di vaccini, e non si trova nemmeno quello antinfluenzale».

Che cosa le manca di più?

«La libertà. Un bacio a mia nipote. Non temere gli altri e me stessa come untori. Il rito collettivo del cinema, la grande affabulazione in una sala buia, questo antico sogno».

 

La Verità, 28 novembre 2020

 

«Se vince il politicamente corretto addio risate»

Ebbasta co’ sto politicamente coretto. Basta, ne abbiamo le palle piene, nun se ne pò più… Sta diventando ’na patologgìa». Era una tiepida sera di fine agosto e in piazza San Cosimato a Roma si parlava di Alberto Sordi e del suo cinema nel centenario della nascita. Dopo la proiezione de Lo scapolo (1955), il regista Francesco Zippel aveva chiesto a Carlo Verdone se secondo lui era più facile fare cinema negli anni Cinquanta e Sessanta o adesso.

E lei che cosa gli ha risposto?

«Che forse era più facile allora, per tanti motivi. Innanzitutto, perché il periodo storico offriva molti spunti. Uscivamo dal dopoguerra, iniziava il boom economico, poi ci fu l’avvento del terrorismo. Sordi era stato protagonista della rappresentazione del boom. Poi, con Un borghese piccolo piccolo, tratto da un romanzo di Vincenzo Cerami, lo diventava anche dei nuovi conflitti. Il cinema di Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman e Nino Manfredi poteva attingere alla narrativa… Piero Chiara, Ennio Flaiano, Carlo Emilio Gadda… Noi questa letteratura non ce l’abbiamo. In compenso, abbiamo un altro problema…».

Ovvero?

«Sembriamo sceneggiatori liberi e indipendenti. Invece, se diamo retta alle regole del politicamente corretto, proprio tanto liberi non siamo».

Racconti.

«In questo periodo sto scrivendo la sceneggiatura di Vita da Carlo, una serie in parte autobiografica in dieci episodi per Amazon Prime. Bene, ogni giorno con i miei collaboratori dobbiamo fermarci per qualche parola impronunciabile o qualche tabù inviolabile. È uno stillicidio. Spesso si riesce ad aggirare l’ostacolo, salvando la battuta magari un filo scorretta, ma che fa scaturire la risata. Altre volte non ci riusciamo… Questa pressione è un errore micidiale perché con l’andar del tempo faremo sempre meno ridere. Questo non si può dire perché s’incazzano quelli, quest’altro nemmeno perché s’incazzano l’altri. Ci dobbiamo continuamente autocensurare. È un fenomeno che arriva al cinema, ma attraversa tutta la società. Non c’è giorno che non resti basito per la protesta di qualcuno».

L’ultimo caso?

«L’altro giorno ho letto quello che è capitato alla popstar Adele in occasione del carnevale di Notting Hill (una tradizione londinese nata da cittadini di origine caraibica che quest’anno non si è festeggiata causa Covid ndr). Ognuno dovrebbe potersi mascherare come gli pare… Adele, che è dimagrita, ha postato una foto in bikini con i colori giamaicani e si è acconciata con le treccine. Prima si è beccata le proteste degli obesi, tipo: hai voluto dire che noi grassi siamo schiavi, non tutti hanno i soldi per il dietologo come te… Poi si sono scatenati quelli che difendono l’appartenenza culturale: con quell’acconciatura ti sei burlata della nostra etnia, ma tu sei bianca…».

Ha definito il politicamente corretto è una patologia. A quando risalgono i primi sintomi?

«Credo che tutto sia iniziato da Woman is the nigger of the world, una canzone di John Lennon e Yoko Ono del 1972. All’epoca era giusto cominciare a difendere le donne e pure mettere i puntini sulle i sul modo di chiamare i negri. D’accordo, li chiameremo in un’altra maniera: neri, colored…».

Ricordandoci che esiste anche la negritudine.

«Esatto. Il problema è che quelle istanze in partenza giuste sono state esasperate fino ad assumere toni dittatoriali».

Una dittatura che pesa molto nel cinema?

«Il Festival di Berlino ha abolito l’Orso d’argento per le interpretazioni maschile e femminile, istituendo il premio neutro-gender. Un cedimento incredibile, inventato per non offendere chi non si sente maschio o femmina. Questa è una nuova frontiera. Una mia amica progressista si è presa un pistolotto da una persona che lei aveva chiamato con il pronome she. In quanto polisessuale, si rifiutava di essere catalogata al femminile e pretendeva di essere chiamata con they. Capisce?».

L’anno scorso alla Mostra di Venezia Lucrecia Martel, presidente della giuria, contestò la presenza in concorso di Roman Polanski: i festival del cinema un tempo laboratori anticonformisti si stanno trasformando in luoghi di omologazione?

«Fortunatamente Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia, ha espresso molte perplessità nei confronti della decisione del Festival di Berlino. Mi sembra che tutto nasca da un atteggiamento post femminista estremo e non dialogante. Da un moralismo proveniente dall’America talmente radicale da paralizzare l’espressione creativa».

Restando in America, il cinema di Clint Eastwood meriterebbe più attenzioni?

«È un cinema che racconta un’anima autentica di quel paese. Eastwood sembrerebbe un conservatore, e sicuramente lo è, ma ben analizzati i suoi lavori mostrano più tolleranza di quelli di altri registi schierati. Credo che la stima nei suoi confronti sia unanime o quasi».

Perché questo moralismo trova terreno fertile nella critica cinematografica?

«Perché è una critica tendenzialmente radical chic, molto intellettuale, spesso espressa da donne con qualche frustrazione. Una conseguenza di ciò che è successo al povero George Floyd è stato censurare un film come Via col vento. Sono decisioni infantili, i film vanno contestualizzati. C’è la mamy di colore… Via col vento è una bandiera di Hollywood. Con questo criterio prendiamo le opere dei futuristi e le buttiamo al macero perché alcuni degli autori simpatizzavano per il fascismo. Oppure abbattiamo i monumenti fatti erigere da Diocleziano».

Da Un sacco bello a Benedetta follia: quali scene dei suoi film sono state contestate?

«Ricordo una volta, il trailer di Io e mia sorella. Io stavo sempre al telefono al posto di Ornella Muti. Nel trailer dicevo a un suo amante che lei non era in casa, ma quando usciva dalla vasca da bagno mi subissava: come parli? T’impappini che sembri un handicappato… o uno spastico; non ricordo bene. Fatto sta che arrivò la lettera di un’associazione di portatori di handicap che minacciava denuncia. Di notte, a tempo di record, prima che il film uscisse, cambiai la battuta e mi salvai».

Certi film oggi non riuscirebbe a farli?

«Forse Viaggi di nozze, di sicuro Gallo cedrone. Il rimorchiatore che guarda il culo di una ragazza e commenta “chi te l’ha scolpito quel fondoschiena, Michelangelo? Stava in forma quel giorno”, non passerebbe il vaglio di questi censori. Per il resto sono sempre stato rispettoso delle donne. Tutte le attrici che hanno recitato con me sono state valorizzate e hanno conquistato premi e riconoscimenti».

Il politicamente corretto è una questione che riguarda il linguaggio o il complesso di superiorità di certi ambienti?

«È un moralismo da salotto, un po’ costruito, frequente in ambienti alto borghesi. Invece di dire “cameriere” o “domestico”, dicono “l’indianinio” o “il filippinetto… te lo faccio portare dal filippinetto”».

Si teme di offendere certe minoranze?

«Una misura ci vuole, ci mancherebbe. Ma se iniziano a comandare certi ayatollah addio leggerezza. Oggi la scena di “lavoratori!” de I vitelloni non si potrebbe girare».

Quindi c’era molta più libertà creativa allora?

«Erano film al maschile, là sì la donna era l’oggetto del desiderio. Se si eccettuano Franca Valeri, Monica Vitti, Mariangela Melato e poche altre, in gran parte le attrici erano prese per quanto erano belle, e spesso cornificavano. Si rideva della nostra immoralità, del nostro sbracamento sentimentale».

Scoppiò una guerra di religione per La dolce vita che portò al licenziamento di suo padre da un giornale.

«Però fortunatamente intellettuali come Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Tullio Kezich si schierarono in difesa del film e un certo bigottismo democristiano polveroso non vinse. Tutti la vedevano Via Veneto, come si poteva definire pornografia pura La dolce vita? Anche nel mondo cattolico, padre Nazareno Taddei e il cardinale Giuseppe Siri lo difesero».

Che idea si è fatto del movimento #Metoo?

«È stata una goccia che ha riempito ancora di più il vaso. Una vicenda traumatizzante. Da una parte lo appoggio perché qualcuno si è comportato molto, molto male. Dall’altra, alcune ragazze non potevano non sapere che certi produttori avevano determinate riprovevoli abitudini. Dopo le denunce delle prime, altre si sono accodate per avere risarcimenti e notorietà. Ora stiamo scoprendo che Jeffrey Epstein era peggio di Harvey Weinstein. Un attore del carisma di Kevin Spacey non può più lavorare perché ha la sfortuna di essere americano e non si è salvato nemmeno con la residenza britannica. Noi che siamo un popolo cattolico e viviamo in un Paese nel quale il Papa è seguito, abbiamo quasi santificato Pasolini».

Lei riabiliterebbe Spacey?

«Mi chiedo se sia giusto cancellare definitivamente un attore così a causa di azioni che hanno compiuto tanti altri. Tanti registi si portavano i ragazzi nello yacht. Se si legge Hollywood Babilonia non si salva nessuno. Ma quegli attori, registi e attrici non sono stati toccati, forse perché il politicamente corretto non era ancora in voga».

Alberto Sordi è la figura che l’ha maggiormente influenzata?

«Più ancora mi hanno influenzato i primi film di Fellini: Lo sceicco bianco, Il bidone, La dolce vita, I vitelloni. La messa in scena della coralità, i personaggi minori, caratteristi come Leopoldo Trieste mi hanno fatto amare presto il cinema. Credo che Fellini sia stato il più grande psicologo che il cinema abbia avuto».

Quando si è scoperto fotografo delle nuvole?

«Sono vent’anni che fotografo il cielo e metto tutto in un hard disk. Era un hobby privato. Quando Elisabetta Sgarbi ne ha letto in un’intervista e mi ha detto che voleva vederle per la Milanesiana, mi sono messo a riguardarle e gliene ho mandate venti. Ha insistito per vederne altre, le ha mandate a dei critici e alla direttrice del Museo Madre di Napoli, dove ora sono esposte. È una passione che nasce come reazione a un lavoro nel quale sono sempre in rapporto con le persone e inquadro continuamente dei volti. Qui rivolgo l’obiettivo verso l’alto, nel silenzio assoluto, da solo. Se qualcuno mi chiede dov’è la mia anima, lo invito a guardare quelle fotografie. Ci sono il cielo, le nuvole, il vento, i colori, la ricerca di Dio. Non sono immagini malinconiche, ma preghiere senza parole. Carezze».

Ci rivela un tic, un segreto, qualcosa che fa incazzare Carlo Verdone?

«Mi fa incazzare l’omologazione che avvolge i giovani. Sono tutti uguali: nei capelli, nei tatuaggi, nel gergo. Nessuno riesce a distinguersi davvero. Se oggi qualcuno volesse raccontare la cafoneria come ho fatto in Grande grosso e Verdone o in Gallo cedrone non riuscirebbe a causa del piattume generale. Poi la realtà mi ha ampiamente superato».

In cosa, per esempio?

«Certi personaggi che sembravano estremi ora sono normalissimi. Una volta all’anteprima di Viaggi di nozze Lietta Tornabuoni (storica critica cinematografica della Stampa ndr) mi venne incontro: “Film bellissimo, Carlo. Ma che esagerazione il ristorante con tutti quei cellulari che squillano”. “Vedrai Lietta, vedrai”».

Il film più bello visto di recente?

«Green book, affettuoso e pieno di grazia, con un Viggo Mortensen strepitoso. E poi Joker, con Joaquim Phoenix: nessuno ha mai interpretato così la follia».

La serie prediletta?

«Braeking beads».

Il libro?

«Durante il lockdown ho riletto Viaggio in Italia di Montesquieu, ritrovandoci ancora cose nuove sul nostro paese».

Che cosa trattiene del periodo di clausura?

«Molti miei amici sono ricorsi agli antidepressivi o agli ansiolitici. Personalmente, ho imparato a bastare a me stesso. Ne ho approfittato per sistemare il soggetto del prossimo film, scrivere la serie e ultimare il mio terzo libro».

Che s’intitolerà?

«Non ha ancora un titolo. Prende spunto dal ritrovamento di uno scatolone sigillato dal mio compianto segretario. Aprendolo, racconto fotografie, oggetti, lettere, intraprendendo un viaggio nel passato intrecciato a racconti del presente. Uscirà nel 2021».

Come Si vive una volta sola, il film rinviato a causa del Covid?

«Esatto. L’abbiamo stoppato e con Aurelio De Laurentiis abbiamo deciso di aspettare la riapertura dei cinema. I film sono fatti per uscire in sala».

Si vive una volta sola vuol dire?

«Non posso anticipare nulla perché il titolo è legato a un colpo di scena finale».

Come vede l’Italia al tempo della pandemia?

«Mi preoccupano alcune persone di governo inadeguate. Una sorte che ci accomuna alla Gran Bretagna, la Spagna, la Francia… Noi, con tutti gli errori che sono stati fatti per esempio a Bergamo e Brescia, ci siamo arrangiati. L’altra cosa che mi preoccupa è il futuro delle giovani generazioni, l’assenza di lavoro. Mi piacerebbe molto poter allenare il talento dei ragazzi. Temo che tra poco si troveranno a pagare le conseguenze di una crisi spaventosa».

 

La Verità, 5 settembre 2020