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Ma i guru da quarantena non parlano di salvezza

Brulicano peggio dei ribelli alla clausura. Si dibattono. Si affannano. Alla frenetica ricerca di parole, di soluzioni, di ricette, di decaloghi per contrastare la disgrazia. Per dirci come dobbiamo comportarci. Per dare a tutti le chiavi interpretative della tragedia. Ogni giorno c’è un nuovo maestro del pensiero. Un intellò che ci trasmette ciò che ha imparato. Come dobbiamo vivere e affrontare la pandemia. Come dobbiamo vivere e affrontare la paura. Chiusi nel nostro rifugio. Al confino domestico. Perché «dopo» il mondo sarà migliore, assicurano. Noi stessi saremo migliori, più solidali, altruisti, empatici. Sapremo apprezzare anche quello che prima ci infastidiva. In forza di cosa è difficile a dirsi. Per quanto si dia da fare, di fronte alla disgrazia che accomuna i destini dell’intero pianeta la cultura mainstream, umanitarista, filantropica, positivista mostra tutta la sua insufficienza. La sua pochezza. C’è la versione volontaristica di Alessandro Baricco, il guru dei guru, che su una doppia di Repubblica ha constatato, infastidito, che «abbiamo troppa paura di morire». Suvvia, la paura della morte va gestita, controllata, organizzata nella comunità. Sfugge il come. Però, facciamoci coraggio, ha esortato l’autore dei Barbari, «è il momento dell’audacia». Perché la pandemia è solo un livello più elevato del Game. Basta fare l’aggiornamento. Poi c’è la versione tra l’ombelicale e l’autocommiserante di Antonio Scurati, riconosciutosi nella generazione dei cinquantenni «in coda per il pane». Uomini e donne «tristi, incongrui a loro stessi… arrivati del tutto impreparati all’appuntamento con la loro storia». Il quale, pur ammettendo «la fine di una certa idea di modernità», ha decretato che se «un’epoca è finita, un’altra comincerà». Anche lui, tuttavia, senza riuscire a suggerire una strada, qualcosa che mostri un cambio di passo. Infine, c’è la versione narcisistico nichilista di Sandro Veronesi, considerata la messe di recensioni devote al suo Colibrì, probabile successore di Scurati allo Strega, il quale ha dichiarato che il virus siamo noi, noi specie umana: «A che cosa serviamo, ormai, noi uomini sulla terra? Perché dovremmo continuare a vivere, noi, dopo che la Madre terra si è sbarazzata di altre migliaia di specie inutili o dannose?». Ben venga il coronavirus, quindi, e facciamo piazza pulita di questa escrescenza nociva, di questa piaga purulenta e nefasta che è la specie umana. Non è bello il mondo popolato di farfalle e gladioli?

No. Parole nuove non se ne leggono né se ne ascoltano nelle pensate degli intellettuali cool. È vero, si parla molto del «dopo» e del «quando». Perché è chiaro che ci sarà un prima e un dopo. Il Covid-19 stabilirà una cesura temporale. Ma grazie a cosa il dopo sarà migliore non si riesce ad intuirlo. Leggendo certi distillati sembra di trovarsi davanti a un acquario. O all’orchestrina del Titanic che suona senza avvedersi che il pensiero unico si avvicina pericolosamente all’iceberg. Nessuno che si fermi per farsi qualche domanda. Solo risposte, ricette. La presunzione dell’intellò non flette nemmeno di fronte a un microrganismo invisibile che ci sta gettando nel panico. Il superomismo di cui abbondano i nostri giornali risulta patetico e velleitario nella convinzione che, per aggiornare il computer del mondo, bastino «le piccole cose», «la solidarietà», «essere insieme». E tutto andrà bene. Per chi resterà.

Autocritiche zero. Allora proviamo a fare un passo indietro a fine Novecento, senza menarla troppo. Trent’anni fa, dopo la caduta del Muro di Berlino il Nuovo ordine mondiale ha fatto decollare la globalizzazione. Il paradiso terrestre era dietro l’angolo. Certo, c’erano le guerre asiatiche, ma c’era anche un gendarme che dettava l’agenda. C’erano le Nazioni unite, erano conflitti tutto sommato locali. Intanto, nell’Occidente progredito, passavamo dall’inseguire la società perfetta all’inseguire l’esistenza perfetta. Nascita e morte quando decidiamo noi e come vogliamo noi. A illuderci che l’Eden fosse a portata di mano è arrivata la rivoluzione digitale. Così ci siamo ancor più convinti di essere invulnerabili, onnipotenti, capaci di programmare tutto. Mondo perfetto, stiamo arrivando.

Poi invece son successi alcuni fatti imprevisti. Senza aprire il file «Migrazioni» o il file «11 settembre», c’è stata prima la crisi finanziaria di Wall Street (2008), il cui smaltimento appare tuttora remoto. E adesso quella di Wuhan, che vi si sovrapporrà, e vedremo come andrà a finire. Inizia perciò a insinuarsi il sospetto che queste crisi non siano solo incidenti di percorso, ma effetti non collaterali della cultura dominante.

Questa prova ci cambierà, si ripete. Ed è probabile. Ma che cosa ci garantisce che sarà in meglio? L’uomo rimane un essere limitato, ce lo spiega la morte e ce lo dovrebbe spiegare questa situazione. La scienza e la tecnologia progrediscono e grazie a dio continuano a farlo. Ma, con tutto il nostro impegno, alla fine quello che ci inventeremo non potrà non riprodurre il nostro limite ultimo. La nostra ambiguità. Il pensiero unico contemporaneo rimuove questo dettaglio, dibattendosi nell’acquario. In quella che tanti poeti hanno chiamato «stanza». Il perimetro della ragione intesa come misura delle cose. Un perimetro che, per quanto lo allarghiamo, a un certo punto finisce.

Forse l’unica vera lezione che dovremmo apprendere è una buona dose di umiltà. Ora che siamo blindati dentro le nostre stanze possiamo capirlo. Per quanto progrediamo, per quanto esploriamo, tutto ciò che facciamo, alla fine, s’imbatterà nel limite. «Fermatevi e sappiate che io sono Dio», recita il salmo 46. Solo un Altro che bussa alla porta può farci uscire dall’isolamento.

L’ultimo libro di Daniele Mencarelli s’intitola Tutto chiede salvezza (Mondadori). La parola che la cultura contemporanea non sa pronunciare è questa. Non è una parola astratta, una categoria filosofica, una pensata di qualche intellettuale ambizioso. È un incontro. L’ha pronunciata anche papa Francesco nella memorabile piazza san Pietro deserta: «Nessuno si salva da solo». Già. Prima ancora che per un fatto sociologico, perché per salvarci serve un Salvatore. Il romanzo di Mencarelli è il diario autobiografico del Trattamento sanitario obbligatorio cui fu sottoposto dopo che in un accesso di follia si era scagliato con violenza contro il padre. Lo presero e lo portarono nel reparto psichiatrico. Un giorno suona il campanello della stanza dov’è ricoverato insieme ad altri cinque malati reclusi. «Apro. A un centimetro dal mio viso mi ritrovo mio padre. Il suo stupore più grande del mio… Restiamo a guardarci, ognuno fa dell’altro il suo speciale inventario… Mio padre allarga le braccia… Ci abbracciamo». Come sarà stato quell’abbraccio?

Nelle ricette che leggiamo quotidianamente la parola salvezza non compare. Io stesso la pronuncio con pudore e zero meriti. Perché è una parola che contempla l’iniziativa di un Altro. Perché è un dono, un atto gratuito di Dio… Protesi verso i nostri traguardi, non riusciamo ad accorgerci di questo atto. A riconoscerlo nel desktop dei nostri computer. Perché non ci riusciamo? Semplice, perché Dio siamo noi.

 

La Verità, 31 marzo 2020

Veronesi, Haber… Eravamo quattro amici a Cinecittà

Il cinema va in tv. Meglio, il backstage del cinema. Il dietrolequinte, scritto in una parola, perché, con Maledetti amici miei, diventa un genere, un’affabulazione, un disvelamento (Rai2, giovedì, ore 21,30, share del 4.37%). Niente di epocale, beninteso. Aneddoti, raccontini, piccoli retroscena, qualcuno più divertente di altri. La compagnia è ben assortita: Giovanni Veronesi, regista e burattinaio del gruppo, Sergio Rubini, l’Al Pacino italiano anche se, ahinoi, più corretto, Rocco Papaleo, attore e musicante autoironico assai, Alessandro Haber, capro espiatorio e vittima designata. Ospiti fissi, Max Tortora e Margherita Buy, mentre Paolo Conte regala a tutte le puntate una sigla diversa tratta dal suo repertorio. L’alchimia è notevole, ognuno dei quattro ha una tempra e una tempera, perché si conoscono e si frequentano da decenni e il segreto è proprio questo: mettono in scena loro stessi, singolarmente e insieme, interagendo, come si dice. Prendendosi per i fondelli, stuzzicandosi, alzandosi la palla per la gag vincente.

In uno studio sui tetti di un’ipotetica periferia postindustriale i tre attori e il regista improvvisano episodi che animano la vita quotidiana dei set, attraversati da manie, fobie, paturnie personali. La premessa che fa da cornice all’operazione che è una grande citazione di Amici miei (e di Quelli della notte) con burle e goliardate annesse, passa dalle parole di Rubini: «Noi siamo l’avamposto della tv generalista, siamo gli ultimi televisivi, quelli che la tv non l’hanno mai fatta». Ma ora, con loro, Cinecittà arriva in tv. Attraverso questa scena tutta autoriferita: autobiografica, autoironica, autoreferenziale. Con un filo di malinconia-nostalgia di sessantenni alla ricerca del tempo perduto, narratori di litigi, di interpretazioni rocambolesche e di autisti stralunati. Una psicopatologia del cinema italiano svelata in prima persona. Nella quale la Buy, «maestra d’ansia» («mettere ansia ai figli fin da piccoli va bene perché così non vanno da nessuna parte e restano con voi»), potrebbe vincere l’oscar come protagonista femminile, e Carlo Verdone, con le sue turbe ipocondriache, quello da protagonista maschile. Non a caso si scopre che il loro romanticissimo bacio in Maledetto il giorno che ti ho incontrato è, in realtà, frutto di una prova di forza dello stesso Verdone al culmine di 37 esasperanti ciak. Godibile, spassoso, burlesco, ma perfetto per la seconda serata. Anche perché così si potrebbe eliminare il gioco del turpiloquio libero una volta scaduta l’ora della fascia protetta: una banalità.

 

La Verità, 5 ottobre 2019

«Paolo VI e Donato Bilancia mi dissero…»

«Si accomodi lì, è il posto dei pazienti», sorride Vittorino Andreoli. «Pronto per essere analizzato», annuisco. Lo studio del professore veronese, psichiatra di fama internazionale e autore di perizie sui casi di cronaca nera che hanno segnato gli ultimi trent’anni di storia, è nel bellissimo salone di una dimora del Cinquecento. Ci sono una grande scrivania, un inginocchiatoio, stucchi e affreschi. «Non è casa mia, io amo la campagna», precisa. «Questo è uno dei due palazzi veneziani rimasti di quella che fu una dominazione tremenda. Qui hanno comandato austriaci, francesi e la Serenissima, la peggiore. I veronesi non amano i veneziani. Della ventina di leoni di San Marco che arredavano piazze e monumenti, poco alla volta ne è rimasto uno solo perché si faceva a gara per toglierli. Sa come sono i veronesi…».

No, mi fa l’identikit?

«Gran lavoratori, molto centrati su di sé, poco amanti della cultura. Parlo anche di me, s’intende. I veneziani invece non lavorano. Veneziani gran signori, vicentini magna gati, veronesi tuti mati».

Da psichiatra ha giocato in casa.

«Noi veronesi siamo così. Amavamo re Teodorico che se ne stava nella sua rocca e, racconta la leggenda, morì rincorrendo un cervo d’oro. Delirava, ma i veronesi lo adoravano malgrado fosse barbaro, invasore e pazzoide. La pearà, una salsa particolare che accompagna il bollito, è diventata il piatto veronese per definizione perché era il suo preferito».

Insisto: l’indole dei locali c’entra con la sua professione?

«Mettiamola così: conosco la lingua madre e questo aiuta. Faccio il mio lavoro con il dialetto. Nel raptus non si dice: “Guarda, c’è il demonio che ti mangia”, ma: “Varda, gh’è el demonio che te magna”. Ho lavorato anche negli Stati Uniti, ma i matti veronesi sono i miei preferiti. Come uno che predilige le donne modenesi».

Settantasette anni, statura, chioma e sopracciglia da scienziato istrione, frequente ospite di salotti tv sul disastro antropologico contemporaneo, prolifico saggista e autore di narrativa, nell’ultimo libro intitolato Il silenzio delle pietre (Rizzoli), Andreoli racconta di un uomo che nel 2028 fugge dalla sua città e si ritira nel Sutherland, alta Scozia, territorio con «un abitante per chilometro quadrato, la più bassa concentrazione umana di tutto il pianeta, deserto compreso».

Il nuovo romanzo con parti autobiografiche di Vittorino Andreoli

Il nuovo romanzo con parti autobiografiche di Vittorino Andreoli

Siamo in via XX settembre 35, lo stesso indirizzo del protagonista del romanzo. È mai stato a Inverkirkaig?

«15 anni fa ho fatto sistemare da un architetto una casa di pescatori davanti a una baia sull’Oceano. Adesso ci vado meno perché è troppo isolata, ma ho sempre amato la Scozia. Per un anno ho studiato a Cambridge e quando potevo scappavo lassù. Ci ho trascorso molte estati. Anche se lì, come si dice, le stagioni le puoi vivere tutte in un giorno».

Ci andava per immergersi nella natura?

«Per ridurre la paura dell’uomo. Penso che chiunque voglia fuggire dalla città immagini un posto così».

Quindi è un libro con parti autobiografiche?

«Ci sono esperienze, sentimenti, pensieri personali».

Anche sul rapporto con la sua città?

«Ho un ottimo rapporto con Verona. Mi muovo, vado all’estero, ma ho sempre voglia di tornarci. La città non va abbandonata, ma ripensata allo scopo di renderla vivibile per tutti».

A fine anni Novanta poteva farlo candidandosi come sindaco.

«Alcuni cittadini avevano fatto il mio nome. La gente mi vuole bene. Non me ne vogliono giornalisti e professionisti».

Perché uno psichiatra scrive romanzi, in parte autobiografici?

«Lo psichiatra non è un fisico che studia le particelle in modo distaccato, con i suoi pazienti si mette in gioco. Scrivere romanzi è l’unico modo per esprimere i miei sentimenti, per immedesimarmi».

La storia del suo personaggio senza nome contiene un dilemma antropologico: meglio la vita nella metropoli o nella natura?

«Il mio personaggio è stanco del mondo metropolitano, pensa a un mondo che si è fermato al quinto giorno del libro della Genesi».

Dicevamo del dilemma antropologico.

«Se è per questo ci sono tutti i dualismi: silenzio e rumore, isolamento e ressa, solitudine e compagnia, animali e uomo».

Scrive che forse sarebbe stato meglio si fosse occupato di zoologia anziché di psichiatria. Le prime 80 pagine sono descrizioni di uccelli marini.

«Li osservo senza pretese scientifiche. All’inizio, sembra che la natura sia l’eden, invece poco alla volta il protagonista scopre che anche gli uccelli sono pericolosi, come nel film di Alfred Hitchcock. Anche in riva all’oceano c’è bisogno dell’uomo. Questo è l’approdo dello psichiatra: senza l’altro, l’io non esiste».

Lei ha seguito i casi più tragici della storia criminale recente, da Pietro Maso a Donato Bilancia a Luigi Chiatti. Che cosa ne ha tratto?

«Quando iniziai a fare lo psichiatra si pensava che il matto fosse una summa di devianze: irrazionalità, immoralità, impulsività, rapporto alterato col reale. Io mi son sempre chiesto: che cos’ha di umano questa persona? Cosa c’è di positivo nella follia? Lo schizofrenico veronese Carlo Zinelli, mio paziente, è diventato un grande pittore: al Guggenheim di Venezia per vedere le sue opere ho pagato un biglietto d’ingresso. Donato Bilancia è stato il più grande criminale del Novecento italiano. Ha commesso 17 omicidi in sei mesi. Un giorno mi disse: “Ci sono due persone che godono della mia massima stima. La prima è chi mi ha insegnato a rubare, la seconda è lei”. Ho sempre rispettato l’uomo nel paziente. Lo vedevo ogni giorno, mi aveva raccontato tutto. “Che cosa posso raccontarle che non le abbia già detto? Non le ho mai parlato di quelli a cui è andata bene”. Capisce il grado di fiducia?».

Crede nell’esistenza del demonio?

«Nel 1972 scrissi un libro intitolato Demonologia e schizofrenia. Il cardinale di Milano Giovanni Colombo mi telefonò per chiedermi se ero disposto a incontrare Palo VI. Lo vidi due volte. La prima mi chiese se avessi mai avuto un paziente il cui comportamento fosse collegabile alla possessione. Risposi che mi ero imbattuto nei limiti della conoscenza, ma mai avevo pensato alla necessità di un’entità esterna all’uomo. Per noi il male è nell’uomo e nella società. Mi chiese ancora se la psichiatria avesse mai rilevato casi di possessione. Mi presi del tempo. Quando ci rivedemmo dopo un mese gli dissi che i dubbi della psichiatria non riguardano il trascendente, bensì la funzionalità dell’uomo da solo e in mezzo agli altri uomini. Mentre, prendendomi sotto braccio mi accompagnò alla porta, continuava a ripetere: “Il male c’è, professore; il male c’è”. Qualche tempo dopo scrisse la famosa lettera sull’esistenza del maligno e “il fumo di Satana entrato nella Chiesa”».

Papa Paolo VI, che Andreoli incontrò due volte per parlare dell'esistenza del demonio

Papa Paolo VI, che Andreoli incontrò due volte per parlare dell’esistenza del demonio

La società del 2028 che descrive nel romanzo è un mondo in cui la trasgressione è il principale strumento di successo e chi è stanco di vivere si può ammazzare. Pensa che tutto precipiterà così rapidamente o è fantascienza?

«Tutto fuorché fantascienza. Estremizzo fatti che già accadono. Se avessi traslato il racconto di un secolo sarebbe stata fantascienza. In dieci anni il declino può diventare precipizio. Se non cambierà qualcosa, in un decennio l’uomo pulsionale che agisce in base ai sensi – voglio, mi piace, lo prendo – avrà vinto».

Qual è la causa di questa deriva?

«Con Tangentopoli scoprimmo che un gruppo di persone usava il denaro per appropriarsi di tutto, potere, vantaggi, donne. Nel mio studio vennero a chiedere aiuto politici e ministri. Non dormivano, vivevano nel terrore. Sembrava che si dovessero correggere le abitudini di una fetta di popolazione. Invece, la corruzione è diventata di massa. Una volta gli avvisi di garanzia spaventavano. Oggi sono relativizzati. Si dice che bisogna essere flessibili, adeguarsi. È la banalità della corruzione. Il verbo rubare è stato cancellato».

Da psichiatra cosa pensa delle baby gang e di ciò che avviene nelle nostre scuole?

«Non ci sono più educazione e principio di autorità. Non c’è più differenza tra bene e male. I genitori ricorrono al Tar perché il figlio ha preso nove anziché dieci. Un alunno di 17 anni sfregia l’insegnante con un coltello perché vuole interrogarlo. Educare è insegnare a vivere. Purtroppo non vedo i maestri. La risposta alle baby gang è mandare 100 militari in più a Napoli?».

La soluzione?

«Leggi che rispondano ai principi, i quali appartengono alla natura dell’uomo. La consapevolezza della propria fragilità, che è una conquista perché ci fa capire di aver bisogno dell’altro, il rispetto della donna che può diventare madre, l’amore e il dono di sé».

Da dove cominciare?

«Mi sono attribuito l’ambizione di completare la massima socratica: “Conosci te stesso”. Aggiungerei: per vivere meglio con l’altro».

Che consiglio darebbe ai politici in vista delle elezioni?

«Di farsi aiutare – da soli non ce la fanno – a scoprire se il loro impegno è motivato dalla ricerca di una gratificazione dell’ego, o da un reale servizio alla comunità. Politico deriva da polis, città: siamo sempre lì. Purtroppo, non vedo nessuno con questo spirito».

Perciò non andrà a votare?

«Non glielo dico. Amo la democrazia, non quella mascherata delle sette».

Ha mai pensato di entrare in politica?

«Mi è stato proposto in due occasioni molto importanti, ma ho declinato. Il mio sogno sarebbe andare 15 giorni a Palazzo Chigi o a Montecitorio. Ma non mi vogliono».

Per analizzare i politici?

«Per curarli. Sono maghi nel fregare la fiducia delle persone. Con l’occhio clinico vedo subito quando qualcuno recita. Il potere è una malattia sociale gravissima, si crede di curarla aumentandolo».

Crede in Dio?

«Se non credo in Dio devo credere al caso. Nel nostro cervello ci sono 85 miliardi di cellule organizzate in una rete a cui si legano idee, parole, gesti, fantasia, desideri. Come si fa a non credere che esista un Creatore? Più difficile è credere in un Dio che regola la morale. Molti miei amici lo hanno incontrato, io spero visiti anche me».

La Verità, 4 febbraio 2017