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Un reality dei migliori per guarirli dalla «melonite»

A un certo punto, nel bel mezzo di una stagione intrisa di patologie incontrollate – dall’invasione dei migranti all’inflazione, dall’innalzamento ritmato del tasso sul costo del denaro ai blocchi del traffico orditi da Ultima generazione – una strana sindrome prese a diffondersi negli interstizi delle centrali del potere. Colpiva per contagio, attraverso la confermazione reciproca che si espandeva con la frequentazione del medesimo circuito mediatico. Gli stessi talk show, gli stessi editoriali, gli stessi siti d’informazione. Un gioco al rimbalzo che propagava il virus della melonite senza che chi lo contraeva se ne avvedesse, tanto era una patologia condivisa e aggravata dalla sicurezza di essere nel giusto. Sì perché essa attecchiva più facilmente sul terreno arato dal complesso di superiorità. All’inizio si era manifestata come un malessere a bassa intensità, un nervosismo serpeggiante del quale non si riuscivano a individuare le cause né a circoscrivere le fasce a rischio. Poi, a un anno dalle elezioni che avevano consegnato il Paese alle destre, pian piano la nebbia si era diradata. La melonite era la malattia delle élite. Il morbo dell’establishment. Una patologia ossessiva che colpiva le classi dei migliori, lasciando immuni gli strati umili.

Dopo decenni di controllo del potere, improvvisamente, si era andati a votare e Giorgia Meloni aveva inusitatamente vinto. Il maggior partito della sinistra, abituato a governare per diritto divino senza bisogno di primeggiare, aveva accusato il colpo e, pur con i suoi tempi, aveva sostituito il grigio segretario figlio della tecnocrazia post-democristiana, con una giovane militante cresciuta tra la Svizzera e i centri sociali, molto sensibile all’armonia dei colori.

Nel Paese occidentale dove, secondo alcuni autorevoli studi, gli operatori della comunicazione erano spostati più a sinistra rispetto all’orientamento dell’opinione pubblica, sembrava di vivere in una sorta di distopia. Fu così che la melonite prese a ramificare nelle sue diverse varianti. La variante Bilderberg, per esempio, aveva colpito la conduttrice del talk show più seguito nei salotti cool. Allorquando pronunciava il cognome del premier come in un rap compulsivo – allora la Meloni, intanto la Meloni, adesso la Meloni – l’inflessibile anchorwoman con un passato da europarlamentare ulivista, non riusciva a trattenere l’arricciamento del labbro superiore in una smorfia di ribrezzo che sembrava un tic nervoso. Era lo stadio più acuto. Pur avendo teorizzato la necessità di dare maggior potere alle donne per contrastare la politica del testosterone, ora che, per la prima volta, si era affacciato un premier donna, il talk della giornalista di sangue tedesco era divenuto il focolaio del contagio. Che, con l’abitudine a intervistarsi tra loro, si espanse rapidamente tra i conduttori della rete.

La variante livida aveva intaccato l’espressione facciale del direttore del giornale della più influente famiglia imprenditoriale il cui cognome identificava il capitalismo italiano per eccellenza. Ciò nonostante, sul quotidiano di sua proprietà si esibivano le firme più antagoniste e radicali del villaggio. Nel caso del megadirettore, un habitué del focolaio, la melonite si manifestava con un impercettibile digrignar dentale che alla lunga gli stampava in volto una piega di tristezza sabauda. Quando poi era costretto a pubblicare sondaggi che certificavano la popolarità del premier, lo stridore dei denti diventava ancora più fastidioso.

La variante più goliardica, insidiosa e paragura si esprimeva invece nella narrazione di uno dei siti più consultati dal bel mondo. Il suo era un caso da manuale perché proprio l’avvento del nuovo premier aveva determinato la svolta nelle cadenze del portale. Prima irriverente ai diktat della gente che piace, si era convertito al verbo quirinalizio, istituzionalizzandosi. Al mefistofelico fondatore del sito, ogni tre post ne partiva uno contro il premier e il suo cerchio tragico di cui prospettava l’imminente autodafé, l’isolamento interno e l’emarginazione internazionale. Fino ad attribuire al primo ministro certe crisi di panico e il ricorso a psicofarmaci.

Infine, l’ultima variante era quella nera. Una vecchia storia che affiorava limacciosa, soprattutto in prossimità degli appuntamenti elettorali. E colpiva alcune firme del giornalismo militante annidato nell’altro giornale di proprietà della solita famiglia di grandi imprenditori. A riassumerle tutte, quasi un prontuario sanitario vivente, c’era la variante iconografica che aveva infettato irreparabilmente un fotografo dal glorioso passato. Com’era nella sua estetica, egli non risparmiava sfumature e si abbandonava a insulti e sputacchi per esternare il disprezzo contundente. Rabbia, visceralità, saccenza, snobismo: gli ingredienti c’erano tutti. Ma i suoi toni erano talmente accaniti che pochi lo consideravano davvero mentre lui seguitava a invecchiare peggio.

L’espandersi del virus però qualche effetto l’aveva prodotto anche sul premier, a sua volta affetto dalla sindrome di accerchiamento. Così, anziché contornarsi di consiglieri competenti e collaboratori autorevoli, si era colpevolmente trincerato con poche persone fidate, principalmente famigliari.

Svelata anche dal sorprendente successo del pamphlet di un generale dei paracadutisti sfuggito alle maglie dell’editoria di regime, le conseguenze della distopia finivano per cristallizzarsi. Da una parte i migliori, colpiti dal virus. Dall’altra il premier, sempre più propenso ai compromessi per non inciampare sui poteri forti a ogni disegno di legge e arroccato con il clan, collezionista di gaffe. Sembrava una situazione irreparabile. Nessuno aveva un’idea. Nessuno coltivava lo straccio di un vaccino.

Finché un giorno accadde un fatterello all’apparenza marginale. Si sa com’è, a volte l’ispirazione viene da un episodio minore. Un giornalista e scrittore che viveva a Roma in una confortevole abitazione foderata di libri e opere d’arte, un intellettuale abituato a vagliare gli argomenti uno a uno, decideva di abbandonare i propri agi e di recludersi nella casa di un famoso reality show. Senza giornali e telefonino quanto sarebbe resistito? Chissà. Così a un grande produttore televisivo venne l’idea. Perché non proporre alle persone affette dalla melonite un periodo di detox? Sì, un reality show dei migliori. Più che un vaccino, il reality poteva essere la terapia della realtà parallela, la bolla nella quale gli ammalati erano immersi. L’idea divenne virale. Il produttore era sicuro e depositò il progetto. Male che andasse, sarebbe stato un interessante esperimento sociale, dai promettenti risvolti comici. Messe a punto tutte le precauzioni, dotata la casa di ogni comfort, si erano rotti gli indugi. Pur scettici e riluttanti, i colpiti dal morbo avevano accettato di entrare nella bella residenza dove sfogare tra loro le accuse contro il nemico. Allo scopo di disintossicarsi, avevano rinunciato a giornali, tv, siti, wifi e a tutte le tecnologie indispensabili per dettare la linea. Non era stata una passeggiata, tutt’altro. Il complesso di superiorità era duro a morire. Gli inquilini avevano dovuto superare pericolose ricadute e crisi di astinenza. Fu trovata anche qualche monografia giornalistica antipremier fatta entrare di soppiatto nella casa. Ma, alla fine, ce l’avevano fatta ed erano tornati rigenerati e ringiovaniti alla loro vita e alle loro professioni. Il sistema dell’informazione ne aveva guadagnato in equilibrio e capacità di valutare l’operato della politica senza pregiudizi. Il clima di tutto il villaggio aveva acquistato in serenità. E anche il premier si era tranquillizzato. Ora non aveva più alibi per rinviare la realizzazione del suo programma di governo. Nel Belpaese era iniziata una nuova èra. Certo, non che fosse tutto perfetto. Alcuni problemi persistevano sul fronte internazionale. Soprattutto a causa del comportamento dei poteri continentali e degli Stati fratelli, ingerenti in campo economico e invece latitanti quando si trattava di condividere le crisi sovranazionali. Ma i più ottimisti erano convinti che, ben presto, qualcuno avrebbe cominciato a mettere la testa anche su questo…

 

La Verità, 26 settembre 2023

«Sul Covid obblighi, danni e silenzi: ora capiamo»

Una scrittrice polimorfa, in grado di esprimersi in varie forme letterarie». Così monsignor Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla, e suo amico di lunga data, ha definito qualche giorno fa Susanna Tamaro. Si era a Caorle, alla festa organizzata da Tempi per riflettere sul tema «Chiamare le cose con il loro nome», e l’autrice di Va’ dove di porta il cuore e di un’altra quarantina di libri, tra romanzi, saggi e favole per bambini, era stata invitata per ritirare il premio intitolato a Luigi Amicone, fondatore e storico direttore della rivista. Un premio assegnato dalla giuria presieduta da Giuliano Ferrara all’ultimo libro, Tornare umani, edito da Solferino, riflessione critica ad ampio raggio sugli anni vissuti nello scacco della pandemia da Covid-19. Ma anche un premio a tutta l’opera della scrittrice triestina che vive in Umbria, cuore geografico d’Italia, «dove anch’io ho una casa», ha raccontato monsignor Camisasca, «e così ci siamo frequentati nella terra di Francesco e di Benedetto, dove si è snodata tre quarti della storia del cristianesimo mondiale». E dove Tamaro ha scelto di stare «per dedicarmi a pensare anche per chi non vuole o non può farlo, assorbito dalle incombenze quotidiane o sommerso dal rumore che avvolge a tutti i livelli la società contemporanea». È lì, nella collina vicino Orvieto, che è maturata nella scrittrice quella che potremmo chiamare dimensione sapienziale, uno sguardo lucido e profondo sulle vicende del nostro tempo. Uno sguardo anche sanamente distaccato, in forza del quale le capita di assumere posizioni di denuncia, come in questa intervista.

Susanna Tamaro, come ha accolto il premio a Tornare umani, un libro forse un po’ divisivo?

«Con grande gioia perché mi è costato molta fatica per la delicatezza dell’argomento».

Che accoglienza ha avuto al momento della pubblicazione?

«Un’accoglienza ottima da parte dei lettori dai quali continua a essere apprezzato perché è un libro esente da qualsiasi forma di fanatismo. E che si pone domande importanti su quello che abbiamo vissuto in questi anni».

Invece i grandi giornali e i media in generale come l’hanno trattato?

«Non ha avuto un’accoglienza particolarmente benevola, forse perché non è un grande romanzo o per l’argomento trattato che allora era abbastanza esplosivo: la gestione della pandemia».

Eppure è stato pubblicato da Solferino, marchio di proprietà di Urbano Cairo, editore anche del Corriere della Sera.

«E questo è un bel segno perché vuol dire che c’è un editore che crede in un autore e investe su di lui».

Perché secondo lei è un libro importante?

«Perché abbiamo passato due anni di follia totale, soggiogati da due fanatismi contrapposti. Ma le persone normali, che non parteggiavano per nessuna delle due parti, a un certo punto hanno cominciato a farsi delle domande e a cercare delle risposte. Che, però, dalla narrazione ufficiale non arrivavano e non sono arrivate».

In particolare?

«Tutte le questioni relative all’obbligo vaccinale e ai danni del vaccino. Una cosa impensabile in un Paese democratico. E poi la sproporzione dell’allarme mediatico. Si è creato terrore in modo irresponsabile per due o tre anni».

Però la gente moriva.

«Innanzitutto, va detto che per malattia si muore. E si muore anche se non si è curati o si è curati male. È chiaro che una malattia virale importante come il Covid non si può lasciarla agire nel corpo, stando a vedere che cosa succede. La vigile attesa è una tecnica che viene usata soprattutto per monitorare forme tumorali in persone anziane, per capire il rischio o il beneficio di un’eventuale operazione. Come si può applicare questo principio a una malattia che è virulenta? È chiaro che se si lascia un virus agire, poi quando si interviene è molto più difficile debellarlo».

Questo libro ha anticipato alcuni dei dibattiti seguiti nei mesi successivi?

«In qualche modo quando leggevo le cronache delle indagini di Bergamo ci ritrovavo le stesse cose che avevo scritto semplicemente osservando la realtà».

Secondo lei si stenta a parlare in modo trasparente di ciò che è accaduto nella fase acuta della pandemia?

«In Italia abbiamo vissuto una guerra civile che, invece di aprire un dialogo, avviando un tentativo di guarire la memoria dalle ferite ancora aperte, ci invita a fingere che tutto sia andato nel migliore dei modi».

Una forma di censura dolce?

«C’è una volontà di non affrontare l’argomento. Negli altri Paesi europei non è così. La situazione è diversa».

Lei ha evidenze concrete che richiederebbero una maggiore disponibilità ad affrontare questi temi? Situazioni, casi e vicende problematiche?

«Certo. Dato che vivo in un paese vedo la realtà concreta e non quella raccontata dai numeri dei telegiornali. Allora posso dire che vivo con otto persone che conosco da decine di anni. Bene, tre di loro sono state vittime di eventi avversi molto importanti. Non solo, questi eventi non sono stati segnalati anche per la scarsa sensibilità mostrata di fronte alle persone colpite. Persone la cui vita è drammaticamente cambiata».

Secondo lei, con la motivazione della pandemia e da allora in poi, si tende a espandere il controllo sulla vita quotidiana dei cittadini?

«Assolutamente sì. Un fatto che mi irrita profondamente è la legge sulla privacy. I bambini non possono più fare le foto di fine anno scolastico per la privacy, ma questo sistema di controllo conosce anche il colore delle calze che indossiamo la mattina».

Le vittime di questi eventi avversi sono invisibili per la comunicazione mainstream?

«Non solo. Siccome questi danni da vaccino sono situazioni nuove, il sistema sanitario non è in possesso degli strumenti per capire di che cosa si tratta. In Germania, per esempio, già da diversi mesi sono state create équipe mediche che lavorano per capire come curare questi effetti avversi. Pericarditi, miocarditi, infarti fulminanti, paralisi e anche danni cerebrali, compresi certi casi di demenza improvvisa esplosi dopo quattro dosi vaccinali. Situazioni con cui sono personalmente venuta a contatto e che hanno colpito anche persone con cui vivo».

Delle conseguenze negative della vaccinazione massiccia si parlava poco anche prima della morte di Silvio Berlusconi che ha monopolizzato i media negli ultimi giorni.

«Adesso lo si fa ancora meno».

Ha pensato di scrivere sull’argomento? C’è qualcosa che l’ha disturbata e qualcos’altro che invece le è piaciuto nei giorni scorsi?

«No. Dall’esplosione dell’epidemia ho smesso di leggere i giornali e anche di guardare la televisione».

Una scelta molto radicale.

«Quando è troppo è troppo. Dalla guerra in Ucraina ho chiuso tutto. Il male è male, la morte è morte. È tutto una follia».

Il suo rapporto con i giornali e i giornalisti è divenuto più diffidente dopo l’intervista che ha concesso in occasione del Salone del Libro di Torino a proposito della letteratura nelle scuole?

«Già da trent’anni anni diffido dei mass media. Tutta la vita sono stata vittima di giornalisti che si approfittano della mia ingenuità e del mio parlare libero. Mi hanno fatto dire tutto e il contrario di tutto secondo ciò che faceva comodo a loro. Anche in quell’occasione c’è stata una manipolazione del titolo del giornale. La parola odio non l’ho mai usata. Posso aver detto che la scuola fa odiare la letteratura ai ragazzi. Ma è la verità e dobbiamo capire perché».

Basta poco per cadere in qualche trappola?

«Purtroppo il punto d’arrivo finale di questa situazione è che le persone più sensibili sceglieranno il silenzio».

Se fosse una professoressa di lettere delle scuole superiori come, in poche parole, proverebbe ad attrarre gli studenti alla lettura?

«Facendo capire che la letteratura è qualcosa che riguarda profondamente il cuore dell’uomo e la sua capacità di comprendersi e comprendere».

A proposito di persone sensibili che scelgono il silenzio, conosceva i romanzi di Cormac McCarthy?

«Ho letto La strada e visto i film tratti dalle sue opere».

Sta lavorando a qualcosa, un nuovo saggio o romanzo?

« Dopo la fatica di Tornare umani, sto finendo di lavorare a un romanzo che uscirà in autunno».

Nessuna anticipazione?

«Non voglio spoilerare niente. Sarà una grande sorpresa».

 

La Verità, 20 giugno 2023

Storie e memoria dal gorgo della pandemia

Sotterrata dalla nuova infodemia bellica, giovedì 17 marzo è passata completamente sotto silenzio la Giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid-19 istituita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A svegliarci dalla narcosi provvede ora Attraverso i muri: storie del tempo della pandemia, il docufilm realizzato da Andrea Broglia e Daniele Ferrero, e prodotto da Mneo – Archivio italiano della memoria e Puntodoc, in collaborazione con il dipartimento di storia dell’università di Bologna (master in comunicazione storica), lodevolmente trasmesso ieri in prima serata da Rete 4 e ora disponibile su Mediaset Infinity. Alcune parole chiave descrivono la notevole qualità di questo lavoro. Innanzitutto si tratta di storie, cioè di 190 testimonianze dirette, vissute in prima persona, di pazienti scampati alla morte, di figli o famigliari di persone decedute, di infermieri, medici, volontari, operatori delle onoranze funebri, sacerdoti… Niente virologi, con la puntuale eccezione di Andrea Crisanti, per la sperimentazione di Vo’ Euganeo. Tra i politici solo Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, e i sindaci di Vo’ e di Nembro. L’altra parola chiave di questo racconto è memoria. Non a caso a consegnarci questo documento di ciò che abbiamo vissuto è un’associazione culturale che «si fonda sul lavoro di produzione e archiviazione video». La dimenticanza è anch’essa un virus sempre in agguato. Nelle quasi due ore di racconto divise in quattro capitoli (Dispnea, Apnea, Comunità, Naufraghi) non c’è un briciolo di retorica, tipo quella dei medici «eroi», non ci sono eccessi sentimentali o insistenza su immagini abusate dell’iconografia pandemica. L’asciuttezza narrativa rende, appunto, memorabile la tragedia che ha colpito la popolazione e commuove chi ripensa a ciò che ha vissuto. I pazienti che hanno visto spegnersi un compagno di stanza e si sono risvegliati dopo due settimane di coma. I figli che, dopo aver accompagnato un padre o una madre in ospedale, per giorni non ne hanno avuto notizia. I medici che hanno dovuto decidere a chi dare e a chi togliere il casco ventilatorio polmonare o chi mandare in terapia intensiva e chi lasciare in pronto soccorso. I famigliari che non hanno potuto celebrare il lutto di un proprio caro. Gli infermieri che rientravano dopo turni interminabili con la paura di contagiare chi li aspettava a casa. La condivisione di chi ha saputo stringersi nel dramma, come accaduto in tante situazioni. Scrive Paul Claudel: «La sofferenza è un’aggressione che ci invita alla coscienza». Attraverso i muri è un documentario da vedere.

 

La Verità, 20 marzo 2022

«Sull’onda del Covid l’élite vuole rifare il mondo»

Carlo Freccero, il provocautore. Da quando, quasi due anni fa, ha lasciato la direzione di Rai 2 ed è tornato stabilmente a Savona, lungi dal ritirarsi a vita privata, Freccero continua a studiare e a intervenire nel dibattito delle idee restando l’anarchico e vulcanico autore che abbiamo conosciuto in tanti anni vissuti pericolosamente. Al punto che, come conferma l’intervista che segue su pandemia e globalizzazione, la definizione di provocautore gli calza a pennello.

Sulla pandemia, fin dalla prima reazione dei balconi e degli slogan come «andrà tutto bene», è in atto uno scontro sempre più ideologico. Perché secondo lei?

Ci sono due Italie destinate a non incontrarsi perché partono da presupposti diversi. Per gli ortodossi è in atto la più pericolosa pandemia di cui si abbia memoria. Di fronte alla morte il sacrificio dei diritti costituzionali è indifferente e necessario. Per i dissidenti la pandemia non è la causa, ma il pretesto per eradicare questi diritti e instaurare un nuovo modello di vita attraverso quello che Klaus Schwab, il fondatore del World economic forum, ha chiamato «il Grande Reset» nel suo libro scritto con Thierry Mallaret e dedicato agli effetti del Covid. Anche il Time gli ha consacrato la copertina con un’immagine del globo terrestre circondato dai ponteggi di un cantiere in cui gli operai ricostruiscono il mondo.

Esistono organizzazioni economiche o gruppi di potere che vorrebbero trasformare la pandemia in un’occasione di palingenesi planetaria?

Oltre che sanitario, la pandemia è un evento politico ed economico. Per le élites è un’occasione irripetibile per instaurare l’agenda 2030 con largo anticipo. Cito ancora Schwab e Malleret: «Il mondo come lo conoscevamo nei primi mesi del 2020 non c’è più, dissolto nel contesto della pandemia. Stiamo per trovarci di fronte a dei cambiamenti radicali di una tale importanza che alcuni esperti parlano di anticoranavirus e dopocoronavirus». AC e dC non significherebbero più avanti Cristo o dopo Cristo, ma avranno per spartiacque la pandemia.

Concorda con gli studiosi secondo i quali come la peste nera fu all’origine dell’uomo moderno anche il Covid potrebbe provocare cambiamenti nell’antropologia di quello del Terzo millennio?

Li provocherà se lasceremo spazio al transumanesimo, grazie al quale l’uomo dovrebbe sconfiggere la morte e acquisire un potenziamento intellettuale e soprattutto mnemonico connettendosi all’intelligenza artificiale. Per chi ci crede c’è un solo ostacolo: il sovrappopolamento del pianeta. Da tempo nei testi scolastici il concetto di sovrappopolamento – insieme al riscaldamento del pianeta – è un dato acquisito. Non a caso tutti i filantropi, a cominciare da Bill Gates, si pongono il problema della pianificazione familiare. Si potrebbe scrivere un libro su questo argomento, ma cito solo la conferenza del 2014 nella quale Roberto Cingolani, attuale ministro della Transizione ecologica, ha detto che «il pianeta è progettato per 3 miliardi di persone». Perciò, siccome siamo 8 miliardi, o si riduce la popolazione o se ne comprimono i consumi impedendo viaggi e tutto ciò che produce Co2 . A questo servono lockdown e chiusure.
Vede anche lei come Massimo Cacciari un pericolo nel ricorso a prolungati stati di emergenza?
Cacciari ha ragione. Sotto l’onda emotiva della pandemia e di fronte alla minaccia della morte, la maggioranza degli italiani è disposta a rottamare quella stessa Costituzione che nel 2018 fa aveva saputo difendere contro il referendum promosso da Matteo Renzi. Disarmarci oggi per la pandemia è pericoloso per il nostro futuro. Perché il mondo potrà essere cambiato senza che noi possiamo decidere come.
Secondo Schwab l’umanità è a un bivio: dopo la pandemia potrà costruire una società più solidale e inclusiva o più individualista e selettiva. È davvero così?
Schwab si riferisce all’agenda 2030 che è piena di buoni propositi e condivisa da organizzazioni internazionali come l’Onu, l’Unesco e l’Oms. Questi buoni propositi però hanno una matrice malthusiana: difendere il pianeta dall’invadenza dell’uomo e non viceversa. Si persegue la fine dell’umanesimo in favore della green economy. Per me questa utopia è, in realtà, una distopia perché è antiumanistica. Ma noi siamo uomini: come potremmo mai partecipare al nostro stesso ridimensionamento?
Perché è stato l’annuncio dell’adozione diffusa del green pass a riportare parte della popolazione nelle piazze?
Perché costituisce una violazione dell’articolo 3 della Costituzione che vieta ogni forma di discriminazione.
Per il filosofo Giorgio Agamben il vaccino è «un simbolo religioso» al quale si attribuisce potere salvifico. Ne è una conferma il fatto che chi non vi ricorre è colpito da una sorta di scomunica sociale?

Secondo Walter Benjamin, cui Agamben sembra rifarsi, il cristianesimo è una religione culturale. Al suo interno tutto ha significato in riferimento a un culto, più che rispetto a un dogma o a un’idea. La vaccinazione non avrebbe senso senza il culto che la circonda. Provoca emozione come la celebrazione di un sacramento e dev’essere immortalata sui social di tendenza. La sua somministrazione sancisce l’appartenenza al gruppo di culto e provoca intolleranza verso chi si sottrae.

È la scarsa dignità culturale dell’universo no-vax a giustificare questa divisione in cittadini di serie A, vaccinati, progressisti e acculturati, e di serie B, antiscientifici, di destra e rozzi?

I no-vax vengono dipinti dalla propaganda come scientificamente ignoranti, ma la realtà è diversa. Il mainstream identifica la scienza con un vaccino che, secondo il suo stesso bugiardino, non è stato sperimentato e lo sarà soltanto se le vaccinazioni si protrarranno sino al 2023. Come possiamo definire scientifico un dispositivo non sottoposto a verifica sperimentale? Molti no-vax sono informati sulle più recenti scoperte della letteratura scientifica. I loro riferimenti sono il premio Nobel Luc Montagnier e il maggior virologo vivente Didier Raoult. Mentre i favorevoli al vaccino hanno per informatori le star della tv.

Come vengono usati i grandi quotidiani e i talk show nella costruzione di questa narrazione?

Per la comunicazione la pandemia è un grande campo di studio. Marshall McLuhan aveva previsto una terza guerra mondiale combattuta non con le armi tradizionali, ma con l’informazione. Giornali mainstream e televisione tendono a rendere conformista l’opinione degli utenti tramite l’emissione di un messaggio unico. Invece il web, anche quando viene commissariato dalle grandi piattaforme tramite gli algoritmi, i factchecker e la censura esplicita dei dissidenti, riesce a far trapelare messaggi «eretici». Sui social la censura è scandalosa, ma in qualche modo ha motivato i dissidenti. Sulla tv generalista invece non c’è censura perché non c’è n’è bisogno: il pubblico della televisione sembra vittima di una forma d’ipnosi.

C’è chi vede nell’adozione del certificato verde una forma di sorveglianza del potere. Ma anche per guidare un’auto bisogna esibire una patente che attesti l’idoneità del pilota a tutela della collettività.

A cosa li abilita di specifico il green pass? Semplicemente alla vita quotidiana che da quasi due anni ci è impedita. Nessun regime era arrivato al punto di richiedere una patente per vivere.

Una volta era la sinistra a difendere il diritto di critica e di dissenso. Oggi, sulle norme sanitarie, Giorgia Meloni la pensa come lei e Cacciari, e Matteo Salvini come Maurizio Landini.

Chi era di sinistra come me criticava il pensiero unico neoliberista, ma non conosceva ancora l’unanimismo di oggi. Sembra di essere piombati nella distopia orwelliana, costruita sul controllo e l’impoverimento del linguaggio. Non solo i politici non si sottraggono a questa tendenza. Di più, sono loro a costruire la gabbia del pandemicamente corretto nei limiti del quale ci si può esprimere. Maggioranza e opposizione stanno entrambe collaborando al grande reset.

Tuttavia il certificato verde è adottato in Francia e non ad esempio in Germania, Stati Uniti e Giappone.

Perché è un disegno che procede a macchia di leopardo. Molti Paesi lo hanno già accantonato. Altri vogliono andare avanti a ogni costo. L’Europa resiste con alterne vicende perché è il centro dell’operazione. Basta guardare gli interventi al Global Forum del gennaio 2021 per capire gli schieramenti.

È sotto gli occhi di tutti che la pandemia ha reso ancora più centrali le piattaforme. L’omologazione planetaria arriva con lo streaming di Netflix e Amazon?

Distruggere le piccole e medie imprese perché considerate obsolete per incrementare le grandi corporation fa parte del piano. Tutto ciò viene presentato come progresso. Dall’inizio della pandemia, le piattaforme e le grandi società di distribuzione hanno guadagnato tutto quello che le piccole imprese hanno perso.

Che spazi rimangono per l’originalità e l’identità nell’arte e nella comunicazione?

Ormai originalità e identità sono slogan pubblicitari per imporre obiettivi di massa nascondendoli sotto una patina di glamour.

 

Panorama, 11 agosto 2021

L’azzardo di Ammaniti è una distopia di nome Anna

Niente male come azzardo. Produrre una serie distopica nella quale un virus ha falcidiato gli adulti in un momento in cui una vera pandemia sta mietendo vittime soprattutto tra gli anziani. O la va o la spacca. Il rischio potrebbe comportare il rifiuto del pubblico televisivo, già quotidianamente sommerso da un’informazione apocalittica. Abbiamo i telegiornali farciti dalla contabilità pandemica e tutti i canali intasati di talk show pullulanti di virologi ed epidemiologi che disegnano scenari più o meno foschi: ci mancava Anna, miniserie in sei episodi tratta dall’omonimo romanzo (Einaudi), pubblicato nel 2015 da Niccolò Ammaniti, qui alla seconda prova da regista per Sky Italia (dopo Il Miracolo). Prodotta da Wildside del gruppo Fremantle e coprodotta da Arte France, The new life company e Kwaï, scritta dallo stesso Ammaniti con Francesca Manieri, la serie Sky original andrà in onda dal 23 aprile, giorno in cui tutte le puntate saranno disponibili per la visione sequenziale.
All’epidemia soprannominata «la rossa», un virus che si manifesta con strane macchie sulla pelle prima di attaccare gli organi vitali fino alla morte, sono sopravvissuti solo i bambini e gli adolescenti. In loro il virus «è dormiente», per adesso. In una Sicilia di rottami e rifiuti, dove la natura fagocita i resti della civiltà, resiste solo la legge della sopravvivenza. Ma quando Anna (l’esordiente Giulia Dragotto) fa ritorno nella casa dentro il bosco dove sfanga la giornata, il fratellino Astor (Alessandro Pecorella, anche lui debuttante) non c’è più, rapito dalla banda dei Blu. Oltre all’aiuto di Pietro (Giovanni Mavilla), coetaneo complice e rivale, Anna può contare sul Libro delle cose importanti nel quale la mamma (Elena Lietti) ha trascritto regole e consigli utili ad affrontare la vita «quando io non ci sarò più». Una sorta di lascito, di bussola per l’esistenza in cattività. «Fuori dal bosco ci sono tanti pericoli, ma voi insieme li affronterete. Siete fratelli, siete una famiglia», sottolinea, sebbene abbia istericamente allontanato il compagno al primo palesarsi dell’infezione. Tra piccole insidie e grandi agguati, tra un flashback e qualche reminiscenza da Io non ho paura, tra qualche visione onirica e le apparizioni del fantasma materno, inizia la caccia al fratellino rapito. Che è ricerca del legame con il passato e possibilità di costruzione di un futuro.

«Volevo raccontare una ragazzina costretta a superare i propri limiti, a fare la madre senza esserlo», spiega l’autore e regista. «Volevo vedere che cosa fanno i bambini senza gli adulti, come affrontano il futuro. L’adolescenza è una delle mie ossessioni. E siccome sono un biologo, mi è venuta in mente la situazione creata da un virus che li costringe a far da soli. Con l’esclusivo aiuto della memoria, di un’educazione che proviene dal passato e che si condensa in quel libro delle regole».

Insomma, la chiave interpretativa è nel passaggio di contenuti dagli adulti agli adolescenti. Forse è per questo che fin dalle parole dell’incipit rivolte dal fratellino ad Anna – «Mi racconti del fuori?» – echeggia l’aria moraleggiante dell’«andrà tutto bene» del primo lockdown. Raccontare una catastrofe epidemica in un momento come questo sperando di non creare sovrapposizioni è impresa ardita assai. «L’epidemia da Covid 19 è scoppiata sei mesi dopo l’inizio delle riprese», si avverte all’inizio di ogni episodio. Certo per segnare la distanza dall’attualità. Ma forse, al contempo, anche per segnalare una certa preveggenza autoriale. Chissà se queste sottigliezze convinceranno i telespettatori. Ha un bel dire Nicola Maccanico, vice presidente esecutivo di Sky Italia, che, non essendo voluta, «la sovrapposizione con l’attualità ci ha liberato dal dubbio» di rinviarne la programmazione. Se ci sono, sono «assonanze involontarie. Anna è una meravigliosa storia di fantasia che va a toccare le domande più profonde delle persone». Tutto vero. Ancor più vera è la quotidianità nella quale cade la finzione. Pure Maccanico deve ammettere che «la sera in tv si stenta a trovare una rete in cui non si parli del Covid. Ma», assicura, «Anna è un viaggio diverso, porta speranza». Tuttavia, a conti fatti, è probabile che la storia creata da Ammaniti sedurrà più facilmente quella parte di pubblico che crede che «la pandemia ci renderà migliori». E che, sebbene per fiction, abbia voglia di un’ulteriore immersione nella tragedia dei contagi e della morte. Invece, all’Italia che ha patito davvero per il Covid, la distopia di Ammaniti potrebbe risultare un fastidioso esercizio da laboratorio. Un’epidemia da manuale. La situazione giusta per avviare il ricalcolo della civiltà ad opera dei migliori. Come quello echeggiato dalla sigla della serie, Settembre di Cristina Donà: «Tu mi dicevi che la verità e la bellezza non fanno rumore/ Basta solo lasciarle salire, basta solo farle entrare/ È tempo di imparare a guardare/ È tempo di ripulire il pensiero/ È tempo di dominare il fuoco/ È tempo di ascoltare davvero».

Insomma, la palingenesi dei buoni.

 

La Verità, 13 aprile 2021

«Sulla pandemia non ho visto grandi inchieste»

La faccia di Toni Capuozzo ti guarda dalla copertina dell’ultimo libro intitolato Piccole patrie. Gli occhi profondi sotto la cuffia di lana grigia. La cenere della barba. È un’immagine che sa di antico come la sua scrittura densa e malinconica. Spesso, chi ha girato il globo e raccontato bombardamenti e violenze, come ha fatto lui per le testate Mediaset e per la carta stampata, assume la postura del cinismo o di una certa spavalderia. O un misto di entrambi. Ma anche se di padre napoletano, come tradisce il cognome, Capuozzo è friulano. Uscito da poco, Piccole patrie (Edizioni Biblioteca dell’Immagine) è un’antologia di articoli, reportage e interventi pubblicati negli anni. Segue di pochi mesi Lettere da un Paese chiuso. Storie dall’Italia del coronavirus (Signs Books), il diario che l’ex conduttore di Terra! ha tenuto su Facebook nei 71 giorni del primo confinamento.

Come trascorrerai il Natale?

«Con la famiglia ristretta, moglie, figli e nipotina. C’è un punto interrogativo su mio genero, medico in terapia intensiva che fa il tampone ogni due giorni. Non faremo uno di quei pranzi che durano fino alla cena».

Il governo è diviso: tu sei aperturista o rigorista?

«Sono abbastanza rigorista, seguo le regole, evito i mezzi pubblici… Ma per imporre il rigore ci vuole credibilità, invece mi pare che politici e scienziati l’abbiano persa. Ci è stato detto: chiudiamo per salvare il Natale, ma adesso chiudono il Natale per evitare la terza ondata. Come se il virus fosse una marea. Quando a scuola certi professori minacciavano continue punizioni te ne fregavi, poi c’era quello che ti metteva in riga con uno sguardo. L’autorità necessita di autorevolezza».

Tipo Angela Merkel?

«Sono riluttante a guardare fuori. Non mi consola il fatto che altri stiano male come noi, né mi eccita che stiano meglio quelli che mi sono simpatici. Mi fa rabbia sentir dire che l’Italia è un modello che altri studiano. Forse per non ripeterlo».

Perché questo secondo lockdown è più indigesto del primo?

«Il primo aveva il sapore della novità. In più eravamo accompagnati – io no – dall’illusione che sarebbe andato tutto bene. Una sorta di premio al sacrificio. Adesso ci sono regole più frastagliate, i colori delle regioni… Nessuno mette più le bandiere arcobaleno o il tricolore alla finestra. Ci siamo convinti che ne usciremo con cicatrici sociali robuste e le orecchie a sventola».

Cos’hai pensato vedendo le persone in fila al Pane quotidiano di Milano?

«Ci passo spesso davanti e ultimamente avevo notato che si stava allungando e che c’erano più italiani che in passato. Quella coda è un documento visivo di un degrado sociale che tutti temevamo. Ci sono sempre più persone che non hanno reddito e non possono incolonnarsi al supermercato. Persone che il mese non riescono nemmeno a iniziarlo».

Le chiusure disposte a inizio dicembre dovevano consentire un Natale più sereno.

«È uno dei sintomi della confusione regnante. Da questo governo, nato per scampare le elezioni, non si può pretendere una visione di lungo periodo. Basta guardare il dibattito sul Recovery fund: le letterine di Natale dei bambini sono più articolate e precise dei nostri piani di rinascita».

Eppure si son fatti gli Stati generali.

«Qualcuno ha notizia del piano di Vittorio Colao? Dovremmo farci aiutare da Indiana Jones a ritrovarlo dentro qualche piramide egizia».

Oppure dall’ennesima task force.

«Mi viene in mente quando da bambini si giocava e ognuno aveva un ruolo: io faccio il presidente, tu il sindaco, tu il generale… Si crede che i nomi in lingua straniera nobilitino, ma sono solo pompose etichette che nascondono l’inconsistenza del prodotto».

L’imminenza della terza ondata dipende da un weekend lassista documentato da qualche foto nelle ore dello shopping?

«Personalmente, se vedo una folla mi allontano. Ma chi è andato a fare acquisti non mi pare abbia violato nessuna disposizione. Se apri i negozi per aiutare il commercio e inventi il cashback non puoi incolpare i cittadini che fanno ciò che è permesso. Trovo fastidioso dare sempre la colpa alla popolazione. Davvero l’aumento dei contagi di ottobre è figlio delle discoteche della Costa Smeralda? Io ricordavo che la malattia necessita di 14 giorni d’incubazione. Il calendario non torna. Mi sembra si siano buttati dei fumogeni per nascondere le responsabilità di chi invece di prepararsi all’arrivo della stagione fredda, pensava ai banchi a rotelle e alle elezioni regionali».

In Lettere da un Paese chiuso contesti ad alcuni colleghi di giustificarsi per l’iniziale sottovalutazione del virus con il fatto che sbagliavano anche gli scienziati. Non è vero?

«In parte è colpa della televisione e del meccanismo dei talk show. Ben presto i virologi hanno capito le tecniche per lasciare il segno, chi recitando da prefica chi da ottimista a oltranza. La commedia dell’arte ha reclutato anche il girone degli scienziati. Non uno che abbia l’umiltà di dire che la scienza è un processo di ricerca continua. Sbagliamo tutti, ma se dopo aver sbagliato assumi un tono profetico sfiori il ridicolo».

La minimizzazione dei primi tempi era una forma di appoggio al governo che si diceva prontissimo?

«Anche della correttezza politica. Non dimentico che alcuni miei colleghi si mostravano mentre assaggiavano gli involtini primavera. Non dimentico che il presidente Mattarella è andato in visita a una scuola multietnica e che da Chinatown il sindaco di Milano ha invitato a frequentare i ristoranti cinesi. Tutto questo mentre c’era una coppia di cinesi in quarantena allo Spallanzani. Ma il nemico era il razzismo, non il virus. I cinesi residenti in Italia hanno chiuso i loro negozi prima di noi: hanno fatto autorazzismo?».

La correttezza politica è una pellicola tra noi e la realtà?

«È un velo che fa vivere in un mondo virtuale. Per esempio, sui migranti. Nessuna persona di buon senso può sostenere che la nostra accoglienza sia qualcosa più di un permesso di entrare. Accogliere vuol dire aiutare a trovare lavoro e pagarlo in modo adeguato. Invece, finita la retorica, dove vai a dormire, dove trovi lavoro non importa più a nessuno».

Come si sta comportando l’informazione?

«Ho visto poche vere inchieste. È difficile uscire dalla trappola obbligatoria del bollettino quotidiano, inevitabilmente ansiogeno. L’informazione non deve né rassicurare né spaventare, ma dare notizie».

Alcune sono state secretate, come i verbali delle riunioni del Comitato tecnico scientifico e l’inesistenza del piano pandemico.

«È uno degli aspetti più spinosi. In assenza di trasparenza servirebbero inchieste capaci di aprire cassetti e rompere lucchetti. Secondo me si è proclamato lo stato di emergenza in buona fede. Come quando i sindaci chiudono le scuole all’annuncio di una forte nevicata. Durante il primo lockdown ho scritto un post intitolato “Ho visto un italiano felice: Giuseppe Conte”. È riuscito a saltare sul treno che gli ha consentito di tenere conferenze stampa all’ora dei tg. Conte è ancora in piedi per mancanza di alternative. Tutti hanno voglia di gestire i fondi del Recovery, nessuno di gestire le cosiddette ondate».

Che idea ti sei fatto della gestione dei numeri? Morti per Covid o di Covid?

«Non frequento dietrologie. Persone che conosco con patologie pesanti hanno avuto il colpo finale dal Covid. A livello mondiale il paese che sta nascondendo più informazioni è la Cina. In Italia vedo all’opera più un’Armata Brancaleone che la Spectre».

Ti aspettavi di trovare nella nostra classe dirigente qualcuno che sapesse mettere da parte il proprio punto di vista e proporre uno sguardo responsabile?

«Avrebbe dovuto farlo il governo, come in presenza di uno stato di guerra. Non parlo solo della necessità di un governo di unità nazionale, ma della necessità di lavorare di concerto per varare misure condivise. C’è stata grande sottovalutazione, qualcuno ha preso la pandemia come l’occasione della vita. Anche l’opposizione si è adagiata nel copione. In piena emergenza, con l’eccezione di Berlusconi, tutti hanno fatto campagna elettorale. Dissonante rispetto al governo centrale, la Lombardia, dove qualcosa non ha funzionato, è stata sottoposta a un monitoraggio estremo. La lotta politica è entrata nelle corsie di ospedale sulla pelle di un Paese in preda alla tragedia».

Ti aspettavi di più anche dalla Chiesa?

«Sì. La cosa peggiore è l’assenza di punti di riferimento. La pandemia era ed è l’occasione per affrontare problemi sempre accantonati come il fine vita. Abbiamo visto situazioni di grande solitudine, addii senza la ritualità e bare senza nome. Un discorso alto avrebbe aiutato».

Da cosa faresti iniziare la ricostruzione?

«Abbandonerei la strategia degli aiuti e dei bonus. Ma temo sia difficile considerato che al governo ci sono il partito dei sussidi e il partito dello Stato. Vorrei che ogni investimento avesse come condizione la creazione di posti di lavoro. La digitalizzazione è la nuova frontiera e tutti siamo contenti al casello autostradale quando evitiamo la coda con il telepass. Ma ora quanti casellanti sono disoccupati? Anche la digitalizzazione dev’essere ponderata dalla creazione di nuove professionalità».

L’ultimo libro s’intitola Piccole patrie

«Ho raccolto molti articoli scritti sul Friuli. Lo ammetto, è un’idea fuori moda».

È un fatto affettivo o riguarda l’identità?

«Entrambe le cose. L’amore per la patria funziona come per le persone, si prova un affetto più intenso quando sono deboli. Voglio bene all’Italia proprio perché è sfigata. Le piccole patrie fanno capire che un friulano si sente più affine a uno sloveno che a un toscano. La lingua, il dialetto, il campanile non sono realtà di un passato da cancellare in nome della globalizzazione. A una cena con amici ognuno porta qualcosa, un suo piatto; se arrivi a mani vuote un po’ vuol dire che sei nessuno».

Non ti senti inviato di guerra, ma cronista. Si può essere affascinati più dalla normalità che dall’epica?

«Mi piace raccontare la normalità come fosse un’epica. È molto interessante se sai rovistare».

Come sta Kemal Karic, il bambino che nel 1992 portasti in Italia da Sarajevo?

«Sta bene. Una volta ripulito chirurgicamente, il tumore di cui era affetto ha un’alta possibilità di remissione. Perciò, siamo ottimisti. Appena possibile farà a Sarajevo i controlli necessari che poi saranno esaminati all’Istituto dei tumori».

Come sono stati trattati questi due libri dai media italiani?

«Silenzio totale. Me l’aspettavo».

 

La Verità, 19 dicembre 2020

«L’industria dell’eros ha ucciso la passione»

Lunga vita a Barbara Alberti. Scrittrice, sceneggiatrice, regista, titolare della posta del cuore, commentatrice di fatti di costume. Soprattutto, demolitrice di luoghi comuni. Ribelle al politicamente corretto. Anticonformista senza codici. Anarchica a tutto campo. Basta leggere i suoi interventi su Vanity Fair, bibbia del conformismo glam nella quale, fortunatamente, resiste qualche isola trasgressiva (la rubrica di Roberto D’Agostino). Nell’ultimo articolo, in una sorta di dialogo con l’aldilà, Alberti ha scritto che l’eros «è morto in un portone, dimenticato. Non era più il putto con la faretra, ma un vecchio clochard avvolto in un cappottone pieno di buchi».

Chi l’ha lasciato morire?

«Non posso che risponderle con le parole pronunciate dallo stesso Eros in quell’articolo: “Siete stati voi. Ero il dio del mistero, avete fatto di me un articolo di mercato. L’industria del sesso è tutta contro di me. Sono riusciti a vincere la mia immortalità. Hanno reso finito l’infinito. C’è una congiura mondiale per abbattermi”».

Quand’è iniziata e perché quest’agonia?

«È iniziata quando l’eros è diventato un affare pubblico, un blasone, uno status, qualcosa da sbandierare, un’infinita chiacchiera, un “bavardage sur le sexe”, parafrasando Roland Barthes. Ma le pare sensato che se in una coppia muore il desiderio, invece di fare i conti col proprio rapporto, si ricorra a un estraneo, un sessuologo, e si aspetti da lui la soluzione? Una ragazza molto schietta anzi ruspante, non più desiderata dal marito, dopo anni di castità forzata, quando lui le propose di andare insieme dal sessuologo, esasperata rispose: “E che può fare per noi? Giusto se mi scopa!”. C’è della verità in questa rozzezza. Tra parentesi: in caso di disturbi funzionali, farsi curare è ottima cosa».

Nei giornali, nelle riviste, nella pubblicità, nei social non si parla d’altro: l’industria erotica smorza la passione?

«Che bella parola fuori moda: passione. Evoca incontri clandestini, relazioni pericolose, struggimento, attesa, desiderio… Riguarda un tempo perduto. Non questo in cui siamo telecomandati, e da uomini ci siamo trasformati in consumatori bulimici e annoiati, spesso virtuali».

Denuncia che si è persa la sacralità del sesso: da una femminista non me l’aspettavo.

«Chiariamoci sulla femminista: difendo con passione i diritti delle donne, calpestati ogni giorno. I maschi ci ammazzano con la complicità di un’intera società, e contano sulle pene spesso irrisorie. L’abolizione della legge sul delitto d’onore è una finzione. Ma non faccio parte del femminismo ufficiale, spesso ideologico e formalista. E inetto: perché non scendiamo in piazza quando riducono la pena di un assassino che ha ucciso con 27 coltellate la sua donna? Perché non facciamo sciopero? Siamo in tante. Fermeremmo il Paese. Spesso è un femminismo da copertina, o da sfilate ai premi. Sono una femminista indipendente. Sì, il sesso è sacro. È lo scambio più vero e profondo fra due esseri. Il sesso è – sempre – una piccola trascendenza».

Che fine ha fatto il gusto della trasgressione?

«È diventato una regola. Manette, fruste, sesso sadico telematico… che mancanza di fantasia. Che noia. Ormai la trasgressione esiste solo nella sua forma più bestiale, la violenza. Già 30 anni fa il geniale Carlo Verdone aveva intercettato il ridicolo trash del “Famolo strano” di due piccolo borghesi alla moda».

Perché se il sesso non è mai stato così facile i sessuologi si arricchiscono?

«Siamo regrediti a una minorità perenne, abbiamo paura del libero arbitrio, e vogliamo che ci istruiscano su tutto, da soli non ci sappiamo nemmeno più soffiare il naso. C’è anche il sexual coach, un professionista che ti insegna cosa e come devi desiderare. Meglio farsi monaci».

Scrive che il detonatore della passione era il pudore, ma il suo senso non è più tanto comune.

«Lo si ritrova nella grazia istintiva dell’amore. Ci ammonisce Apuleio, nella favola di Amore e Psiche: finché Amore è segreto, al buio, i due amanti sono felici. Ma appena Psiche si confida con le sorelle vengono separati, con guai a non finire».

La spinta al sesso in età avanzata è figlia di una società iper-competitiva?

«Più ancora sulla rimozione della morte. Beati i miei nonni, quando la parola vecchio non era stata eliminata dal linguaggio come fosse un insulto, mentre è il nome di una stagione. L’ultima. La più avvincente, un’adolescenza senza futuro: come ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman giochi a carte con la morte, e ogni giorno in più è una vittoria. I miei nonni avevano ancora il diritto di essere vecchi, senza sconciarsi con le plastiche per fare i finti giovani, non dovevano essere produttivi, smart e sexy fino all’ultimo respiro. La pubblicità ci vuole consumatori fino alla fine, non sappiamo più stare né davanti alla vita né davanti alla morte».

Ha preso le difese degli uomini perché sempre sotto esame: anche questo da una femminista non me l’aspettavo.

«Sì, poveretti. Ho molta comprensione per loro perché hanno quella disgrazia, l’erezione. Alle donne è stata risparmiata la prova di un sesso così evidente e infido. L’invidia del pene l’hanno inventata i maschi, per mascherare un complesso d’inferiorità, non immotivato. In teoria sarebbe invidiabile: l’asta, lo scettro… se obbedisse per davvero. Ma non è così. Io, da quando ho capito come funzionava li ho sempre trattati bene, in considerazione della loro sventura. Che incubo, dipendere tutta la vita da un servo infido che ti lascia magari quando più ci tieni. Non dà retta nemmeno all’amore, quello. Un nemico in casa, che espone al giudizio. Il Viagra è solo l’esorcismo di un’eterna paura. Meno male che sono nata senza. Orgogliosa come sono, dopo il primo fiasco me lo sarei tagliato – si dice, ma poi chissà. Per questo la donna vive più a lungo, per il bene della sua sessualità segreta. Per questo invecchia meglio. Una vecchia fa le torte, balla coi nipoti. Ma l’uomo, condannato a quella prova eterna, non si consola».

Perché ha criticato il body positive, la nuova tendenza a valorizzare l’imperfezione del corpo?

«Per l’aggressività con cui la libertà di aspetto viene proclamata, come se fosse un nuovo vangelo, o un canone obbligatorio. Odio gli schemi.  La bellezza va rispettata, come il suo contrario. Trovo giustissimo che la si smetta di sfottere le persone per il loro sembiante. Ma crederò di più in questo movimento quando vedrò fra le attiviste del body positive delle brutte vere. Quelle che vanno a parlarne in tv sono tutte belle, solo un po’ sovrappeso. E le meno avvenenti dove le mettono? Le nascondono in cantina? Che siano loro le prime a macchiarsi di body shaming?».

Ha visto che nel nuovo 007 James Bond si defila e la nuova protagonista sarà un’eroina di colore?

«Il fatto che sia una notizia, è la misura di quanto sia forte il razzismo. Guardi l’America: com’è possibile che dopo centinaia d’anni di convivenza esistano ancora bianchi e neri? Non si sono mai mischiati veramente. I bianchi non hanno mai perdonato i neri di essere la prova del loro colonialismo feroce e invece di riscattarsi, continuano a cercare di opprimerli. Donald Trump, più simile al Joker di Batman che a un uomo politico, davanti alla polizia che trucidava a freddo gli afroamericani, ha osato dire che quando un poliziotto uccide un nero è come quando un battitore di baseball sbaglia il tiro, elevando l’uccisione di un cittadino di colore a sport nazionale».

Replicando alle critiche, l’attrice si è detta grata per aver potuto sfidare gli stereotipi di razza e di genere perché «ci stiamo allontanando dalla mascolinità tossica». Cosa ne pensa?

«Magari fosse vero che ci stiamo allontanando. Lashana Lynch è bella da levare il fiato, è brava, ha carisma, porterà comunque qualcosa di audace e di nuovo».

C’è un modo antagonista di vivere l’appartenenza di genere?

«Non lo conosco. Io scelgo le persone, il sesso viene dopo».

Appunto: l’espressione «mascolinità tossica» mostra che siamo in piena guerra dei sessi?

«È un’espressione su cui preferisco non pronunciarmi».

Un certo femminismo estremo è responsabile di questo antagonismo?

«Perché, esiste un femminismo estremo? Magari. La situazione delle donne in Italia sarebbe molto migliore. Vedo solo tante signore che sfilano in passerella».

Che cos’è per lei il sessismo?

«Razzismo allo stato puro. Non ti considero una persona, ma solo secondo i miei pregiudizi sul tuo sesso. Non sarà facile uscire da questa follia millenaria».

Non è un’accusa di cui si abusa?

«Mai quanto si abusa delle donne. Finché questa forma di razzismo è così viva non è mai inutile reagire. Ma all’ideologia preferisco il gesto rivoluzionario – l’utopia, il sogno, l’umorismo. La mia femminista preferita resta Sabina Guzzanti, una dea della trasfigurazione attraverso la comicità».

Carlo Verdone ha detto che il politicamente corretto impedisce agli sceneggiatori di scrivere e che di questo passo i comici non faranno più ridere.

«Soprattutto diventeremo sempre più stupidi. Bisogna guardarsi dalla censura sul linguaggio. Possibile che non si riesca a reagire alla prepotenza se non facendone un’altra, ugualmente autoritaria?».

Cosa pensa del dibattito suscitato dall’editore Alessandro Laterza per aver detto che all’orizzonte non intravvede nuove Elsa Morante?

«Per il parere di Laterza ci si può offendere come scrittrici, ma non come donne. Non ha mica detto che le donne sono negate per la scrittura, ha detto di preferire la Morante alle contemporanee, sarà padrone di dirlo? Penso invece che oggi ci sia una letteratura femminile senza precedenti: Chiara Barzini, Isabella Santacroce, Elisa Fuksas, Michela Murgia, Chiara Valerio, Federica De Paolis, Tiziana Gazzini, ma potrei fare una lista lunghissima. Io, per esempio, preferisco Chiara Barzini a Elsa Morante. Sui gusti letterari non si discute. Mi piace la battaglia, non il vittimismo aggressivo e gratuito, che nuoce alla causa. La censura libertaria è un ossimoro».

Come vive questo tempo di restrizioni?

«Come nella canzone di Franco Battiato Fisiognomica: “E se ti senti male, raccomandati al Signore”».

Apocalittica o minimizzatrice?

«Spaventata e ottimista. Spero di vivere, anche se noi vecchi siamo in prima linea».

Chi è il suo virologo di fiducia?

«Nessuno. Tutti soubrette. Ognuno è il capo di una religione che considera l’unica valida. Parlano tanto di vaccini, e non si trova nemmeno quello antinfluenzale».

Che cosa le manca di più?

«La libertà. Un bacio a mia nipote. Non temere gli altri e me stessa come untori. Il rito collettivo del cinema, la grande affabulazione in una sala buia, questo antico sogno».

 

La Verità, 28 novembre 2020

 

«Sono di sinistra, perciò sto dalla parte di Trump»

Breve anteprima. Dobbiamo spostare l’intervista a domani – dico ad Aldo Nove – tra poco ho una visita medica. «Quelle hanno la precedenza. Anch’io devo farne una, perché dovrò operarmi… Hanno fatto un nuovo dpcm e devono togliermi il cervello perché rompo troppo i coglioni».

Aldo Nove è uno spirito libero, un poeta, «un cannibale», secondo la vulgata della critica letteraria. Conserva l’innocenza del bambino pur avendole viste, vissute e raccontate tutte. La perdita precoce del padre e della madre. Le dipendenze. Il sesso sfrenato. I tentativi di suicidio. Dire irregolare è poco. Pure controcorrente o anticonformista suonano cliché. È Aldo Nove. Sempre alla ricerca di «un’altra vita», ben oltre Milano (citazione di Franco Battiato, al quale ha dedicato l’ultimo libro appena pubblicato da Sperling & Kupfer). Ha 53 anni, è nato a Viggiù, in provincia di Varese, vive a Monza. In una delle ultime interviste ha contestato il governo Conte, il Pd, Vasco Rossi, Angela Merkel e l’intero sistema dell’informazione. Salvo poi chiedere all’intervistatore di scrivere che era sotto l’effetto di stupefacenti.

Adesso parla da sobrio?

«Tutto dipende dalle domande, mentre me le fa potrei assumere qualche sostanza».

Per essere più disinibito?

«In vino veritas e anche in droga veritas… Per sintonizzarmi con la sua testata».

Non c’è abbastanza libertà per dire ciò che si pensa?

«No che non ce n’è. L’altro giorno ho visto la diretta degli scontri a Torino… Sui giornali nazionali si è parlato di rivolta armata, ma c’era solo la foto di una vetrina rotta e due cassettoni ribaltati. È chiaro che siamo sotto una dittatura mediatica».

Addirittura. In cosa consiste?

«Lo spiega bene Biung-Chul Han in Topologia della violenza pubblicato da Nottetempo. Oggi la guerra si combatte usando la paura e la falsificazione dei dati. E i dissidenti sono etichettati come negazionisti, che sono quelli che negano la Shoah. Sarebbe più corretto parlare di complottisti. I negazionisti veri sono quelli che sostengono un sistema di potere che sembra confuso, ma non lo è per nulla».

C’è un disegno?

«È difficile concepire ciò che sta davvero succedendo. Anche perché siamo abituati a valutare le cose a livello nazionale. Prendersela con Giuseppe Conte o con l’attuale pseudogoverno italico è riduttivo».

C’è un disegno più ampio? Il Nuovo ordine mondiale?

«Basta guardare cosa fanno in Francia o in Spagna. Questa è la prima guerra davvero mondiale. Durante la Seconda alcuni continenti ne sono rimasti immuni. La pandemia riguarda tutto il pianeta».

Perciò assolve Conte?

«Certo che no. Ma il problema è strutturale, al posto suo ne metterebbero un altro e la situazione non cambierebbe. L’Italia fa ciò che permettono i Trattati europei».

Che effetto le fa il clima diffuso di paura e di ansia?

«Mi fa rabbia. La paura alimenta altra paura e abbassa le difese immunitarie. Invece di migliorare la salute, la peggiora. C’è un ordine gerarchico nella dittatura: al primo posto il potere economico, poi quello politico, infine quello sanitario».

Al quarto quello mediatico?

«Potere sanitario e mediatico sono sullo stesso livello. La gente avverte i sintomi di stagione, raffreddori e mal di gola. Ma per la paura corre al pronto soccorso».

C’è un’informazione apocalittica?

«Non c’è spazio per il dissenso, nei canali ufficiali non esiste. Anche in parlamento vedo solo finte opposizioni. I grillini erano un movimento di opposizione, ora sono i più realisti del re. Quali sono le voci vere di opposizione?».

Giorgia Meloni?

«Ha un’ottima dialettica. Ma voglio vederla al potere, sotto le pressioni della Bce».

Come valuta il fatto che durante il lockdown è nata una task force per sorvegliare le fake news?

«Quale autorità può ergersi a stabilire quali sono le notizie vere o false? Il fatto che venga creato apposta un organo governativo fa capire cos’è la dittatura».

Che cosa le fa davvero paura?

«Il fatto che ci si sia completamente dimenticati della Costituzione. Nell’articolo 1 non c’è scritto che siamo un Paese fondato sulla salute o che la prima finalità repubblicana è combattere il virus. Più di tutto temo la disumanizzazione».

Cioè?

«Dimenticare che siamo corpo e anima. Della prima parte ci si ricorda molto. La seconda interessa ben pochi. Per questo sono stato entusiasta della lettura dell’enciclica di papa Francesco».

La fraternità deriva da una paternità o è un fatto sociologico?

«Per me è qualcosa di spirituale. Una fraternità sociologica non so cosa sia. Come dice Battiato, la prospettiva orizzontale porta verso la materia, quella verticale verso lo spirito. La verità è nel punto d’incontro tra le due dimensioni. Lo vediamo nella croce che è il simbolo che unisce materia e spirito».

Perché ha scritto un libro su Franco Battiato?

«Perché mi è stato proposto un anno fa. L’avevo visto in tv da bambino, avevo sei o sette anni. Era il Battiato sperimentale degli anni Ottanta e me ne innamorai subito. Dopo 50 anni di carriera sappiamo che è molto più che un cantante, è un filosofo, un ricercatore, un artista. Perciò sono stato subito entusiasta di scrivere questo libro».

Che cosa dice un artista nato a Riposto, in Sicilia, a un professore di Viggiù?

«Dice la sua vita… Per esempio il valore del pensiero induista, di quello di George Ivanovic Gurdjieff, dell’ecumenismo di Raimon Panikkar, della cultura sufi… L’elenco sarebbe lungo, per arrivare a Manlio Sgalambro. Molte persone si sono avvicinate a questi mondi su sollecitazione di Battiato».

Esperienze in varie direzioni che possono far perdere il «centro di gravità permanente»?

«Che è un’espressione presa da Gurdjieff. In un’intervista a Mara Venier, con molta tranquillità, Battiato ha detto di sperare di non trovarlo mai questo centro di gravità, perché a quel punto s’interromperebbe la ricerca. Mi permetto di aggiungere che, se hai trovato un equilibrio interiore, sei facilitato a dialogare con le culture più diverse».

Il libro parte dalla «facoltà dello stupore» di Battiato: una facoltà assente nella società contemporanea?

«Manca la capacità di guardare con occhi puliti quale meraviglia sarebbe la vita se non fosse inquinata dal neoliberismo impazzito o dall’interventismo del potere che stanno facendo fallire tutti. Penso ai fratelli tassisti, ai proprietari di bar e ristoranti. La logica secondo cui per prevenire un contagio si debba crepare di fame chiusi in casa continua a sfuggirmi».

«Strani giorni, viviamo strani giorni», cantava Battiato.

«Nelle sue canzoni ci sono molti elementi profetici. Da Isaia in poi il profeta è chi, sapendo leggere il presente, anticipa il futuro».

Come vive i suoi «strani giorni» a Viggiù?

«Adesso vivo a Monza, via da Milano. Esplico le normali funzioni: mangio dormo bevo studio scrivo. Come una specie di monaco laico».

Che rapporto ha con la tecnologia?

«Uso Facebook, cerco notizie alternative su YouTube».

Tipo i video di Enrico Montesano?

«Sì, li ho trovati belli, discreti e signorili. Montesano è un galantuomo».

Si definisce cattocomunista, ma elogia Donald Trump: qualcosa non torna.

«È la realtà che non torna. Nel senso che, paradossalmente, c’è maggiore attenzione al popolo e ai problemi della classe lavoratrice in Trump che non nella gauche caviar di Hillary Clinton o di Joe Biden, una sorta di pupazzo».

Che cosa la convince di Trump?

«Il fatto che sia un’anomalia. Che non sia espressione dell’alternanza convenzionale tra conservatori e democratici».

Fa una politica razzista, sottovaluta la pandemia?

«Il potere strutturale americano non si riconosce in lui appunto perché è un’anomalia. Basta considerare come si schierano i media. Con Trump c’è solo la Fox. Politica razzista dove? Semmai Trump è un imprenditore erotomane ed egocentrico. Sicuramente non potranno accusarlo di pedofilia, visto che gli piacciono le donne mature. In compenso, del caso Epstein e delle sue diramazioni non si parla più».

Scusi, Nove, ma lei non era di sinistra?

«Io sono di sinistra».

Chi c’è di sinistra in Italia?

«Marco Rizzo».

Fine? E la Repubblica, Fabio Fazio, Michela Murgia, Luca Guadagnino…

«Vuol far bestemmiare un cattolico? La sedicente sinistra è espressione dello status quo neoliberista che con la sinistra storica non ha niente a che fare».

Chi salva oggi in Italia?

«Marcello Veneziani… Che non è proprio di sinistra, ma lo trovo uno degli intellettuali più lucidi del momento. Andiamo oltre le etichette…».

È anche amico di Susanna Tamaro.

«Le voglio un bene immenso. È una grandissima scrittrice che ha sempre detto quello che pensa. Ha avuto la sfortuna di vendere milioni di libri. E si sa, vendere tanto è da maleducati».

Si dice cattolico e nei Poemetti della sera cita Dio e il creato…

«Se è per questo ho scritto anche Maria, un poemetto teologicamente rigoroso».

Ma altrove racconta di aver tentato il suicidio.

«Avevo 18 o 19 anni, non capivo un cazzo e stavo male».

Il cristianesimo basta a strapparci dal nulla, dal nichilismo imperante?

«Se vissuto profondamente, cioè a un livello che io non ho ancora raggiunto, sì».

I Poemetti della sera contengono anche un’elegia della madre e della maternità: perché l’Italia e l’Europa non fanno più figli?

«L’albero degli zoccoli, un film di Ermanno Olmi, ritrae il mondo contadino spontaneamente solidaristico nel quale si facevano figli all’interno di una vita collettiva e dentro un rapporto forte con la natura. Quel mondo è scomparso. Oggi, a causa di problemi non solo economici, per una coppia avere un figlio è diventato un rischio».

Manca la gioia di vivere, prevale l’incertezza su dove ancorare il futuro?

«È così. Ci chiediamo che mondo lasciamo a questo nostro figlio. Procreare è un atto d’amore e l’amore scarseggia».

In televisione non la invitano o è lei che si rifiuta di andarci?

«Ultimamente ho rifiutato in modo un po’ rude alcuni inviti».

Di chi?

«Di Nicola Porro e Giuseppe Cruciani, che mi è quasi simpatico. Però se mi chiamano a parlare di Battiato ci vado. Ho scritto un libro d’amore, e amor omnia vincit… Come diceva Fedez… O forse non era lui…».

 

La Verità, 31 ottobre 2020

«Non siamo più cittadini, ma solo degli ammalati»

Buongiorno Aldo Maria Valli, lei porta la mascherina?
Glielo chiedo per fugare eventuali dubbi su una sua sottovalutazione del pericolo determinato dal Covid-19.

«Sì, la indosso, secondo le norme stabilite. Non credo nella sua efficacia – un epidemiologo mi ha spiegato che è come pretendere di bloccare i moscerini con una staccionata – ma non ho nessuna intenzione di farmi multare. Già lo Stato mi tartassa con il fisco. La vera resistenza la faccio scrivendo».

L’ultima cosa che Valli ha scritto è Virus e Leviatano, un agile e lucidissimo saggio per l’editrice Liberilibri, nel quale offre una visione molto controcorrente del tempo della pandemia e soprattutto della sua gestione da parte della politica, dei media e anche della Chiesa. In questa intervista, l’ex vaticanista del Tg1 nonché autore del seguitissimo blog Duc in altum, si esprime anche sulle parole di papa Francesco a proposito delle coppie gay e il loro diritto di «essere in una famiglia».

Il primo capitolo del suo libro s’intitola «Un dispotismo statalista, condiviso e terapeutico». Come può un dispotismo essere condiviso?

«Non è la prima volta che una collettività si fa irretire. Étienne de La Boétie, nel suo Discorso sulla servitù volontaria, dice che sono i popoli stessi che si lasciano incatenare. “È il popolo che si fa servo, che si taglia la gola da solo”. Perché? Per paura, ignoranza, passività, vigliaccheria. Per scarso amore della libertà».

Per dispotismo terapeutico intende che il rapporto tra politico e cittadino somiglia a quello tra medico e paziente?

«Non siamo più cittadini, ma malati. Il politico ha assunto il ruolo del medico. La nazione è diventata un ospedale. Il rapporto medico-paziente è ben diverso da quello politico-cittadino: è asimmetrico. Ciò che il medico stabilisce, per il tuo bene, non lo metti in discussione. Ti assoggetti e lo ringrazi pure».

I cittadini diventano docili e pronti a rinunciare a quote di libertà sull’altare della salute?

«Nel mio saggio scrivo Salute con la maiuscola, perché questo è diventato il valore assoluto, a cui sacrificare tutto, compresi i diritti di libertà. Pretesa assurda e pericolosa. La salute è sì un bene primario, ma se viene trasformato in assoluto può essere usato, come di fatto sta avvenendo, in modo strumentale».

Come spiega il fatto che i famosi Dpcm contengano esortazioni a comportamenti virtuosi, a rispettare regole di convivenza, a restare in casa?

«Proprio con il dispotismo terapeutico, con questo paternalismo che tratta i cittadini come sudditi sciocchi, come bambini incapaci di gestirsi, per cui si arriva al punto di mettere il naso nelle abitazioni private, di voler regolare minuziosamente ogni comportamento. Precedenti pericolosissimi».

Che ruolo ha l’informazione nella creazione di questo scenario?

«Decisivo. Il dispotismo terapeutico per essere condiviso ha bisogno dei mass media, di una narrativa appropriata. Ha bisogno del terrore, e il terrore va diffuso mediante l’informazione».

Cosa indica che proprio ora sia nata la prima task force contro le fake news?

«Un provvedimento del tutto illiberale. Non può essere il governo a stabilire che cosa è vero e che cosa è menzogna, a priori. Di nuovo i cittadini sono trattati come bambini incapaci di giudicare. In una democrazia liberale il cittadino si forma le opinioni attraverso il libero confronto».

Sbagliano coloro che, rilevando i successi contro il Covid di Cina e Vietnam, hanno sottolineato i vantaggi delle dittature nei momenti di crisi?

«Mi sembra difficile parlare di successo nel caso della Cina, visto che il virus è stato un suo gentile omaggio. Nel caso del Vietnam c’è da dire che il paese, visti gli stretti legami con la Cina, ha giocato d’anticipo rispetto al resto del mondo, con provvedimenti ad hoc e stretti controlli sui cinesi, specie se in arrivo da Wuhan. Ma se diciamo che le dittature sono meglio delle democrazie nei momenti di crisi facciamo proprio il gioco di chi ci vuole incatenare».

Anche l’Oms avvalora la tesi che la Cina è il paese che ha risposto meglio all’epidemia.

«E lo credo! Il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, è amicissimo del regime cinese. È etiope, e la Cina sta facendo investimenti notevolissimi in Etiopia. Tra i grandi elettori di Ghebreyesus all’Oms la Cina ha svolto un ruolo decisivo».

Per la Chiesa cattolica la pandemia è stata un’occasione mancata?

«Purtroppo, sì. Non ha parlato di santificazione, ma solo di sanificazione. Si è lasciata contagiare dal terrore. Non ha detto nulla circa i grandi temi della morte e del peccato. Si è piegata ai diktat governativi. Non ha rivendicato la propria autonomia. Si è mostrata più realista del re. È diventata Chiesa di Stato. Va bene il senso di responsabilità, ma non ti puoi annullare. La liturgia ha assunto connotati grotteschi. Siamo diventati adoratori dell’amuchina. Abbiamo trattato Gesù come un untore».

Come spiega il fatto che, salvo rare eccezioni, abbia accettato in modo acquiescente il lockdown religioso imposto dalle autorità civili?

«Connivenza, paura, accettazione passiva, arrendevolezza. C’è di tutto. Ma sopra a tutto c’è una spaventosa mancanza di fede».

Condivide il giudizio di monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, che ha ravvisato il pericolo del diffondersi di «una visione paranoica della realtà»?

«Certamente. Siamo già paranoici. Parliamo dei positivi come se fossero malati. Siamo tutti terrorizzati. Non solo di beccarci il virus, ma anche di non saper rispettare le norme. Non esaminiamo i fatti, ma ci lasciamo prendere da mille suggestioni. La crisi della ragione procede parallelamente a quella della fede».

In questi giorni il mondo cattolico è agitato dalle parole di papa Francesco sul diritto delle coppie gay a «essere in una famiglia». Che idea si è fatto di queste dichiarazioni?

«Francesco è circondato da una potente lobby gay che ha lavorato per arrivare a questo risultato. Ma si tratta di dichiarazioni private di Bergoglio: il cattolico non è tenuto per nulla a farle proprie».

Ora sta emergendo la manipolazione cui sono state sottoposte le parole del Papa, fatto che si ripete. Ma sembra che Francesco accetti il rischio.

«Non solo lo accetta, ma lo favorisce. È un’operazione decisa a tavolino. Bergoglio provoca la parte sana della Chiesa così che qualcuno, vescovo o cardinale, lo accusi di apostasia. A quel punto lui avrebbe gioco facile, con l’appoggio della grande stampa amica, nel puntare il dito contro i “nemici della Chiesa” e gridare al complotto contro il povero Papa buono e tanto amato dal popolo».

Questi travisamenti ricorrenti riguardano una tecnica di comunicazione o la concezione stessa del ruolo della Chiesa nel mondo?

«Entrambe le cose. L’obiettivo è una religione mondialista sostenuta da una nuova Chiesa schierata con il mondo. La narrativa appropriata serve come strumento».

Meglio una Chiesa che si contamina e traffica il talento o una Chiesa austera ed estranea ai dibattiti della contemporaneità?

«La Chiesa è nella storia e si è sempre mescolata al mondo. Ma ben sapendo che pur essendo in questo mondo non è di questo mondo. Gli slogan sulla “Chiesa in uscita” sono banalizzazioni. La Chiesa è di per sé in uscita perché fa evangelizzazione. Il problema vero è rimettere al centro Gesù e la legge divina».

Tornando all’emergenza Covid, è possibile dissentire dal conformismo prevalente senza essere scomunicati con l’accusa di negazionismo?

«Sì, occorre resistere alla narrativa dominante. Dire chiaramente che essere tacciati di negazionismo è un’infamia. Nessuno nega l’esistenza del virus. Si vuole solo stare alla realtà e combattere l’uso strumentale della pandemia».

Certe manifestazioni di dissenso, condite di complottismo folcloristico quando non becero, avvalorano queste accuse?

«Temo di sì. Io non amo le manifestazioni di piazza: preferisco il ragionamento pacato. Comunque, se si organizza una manifestazione occorre farlo bene, evitando esiti controproducenti».

Si pensava che lo stato di emergenza servisse a snellire le burocrazie per migliorare i servizi al cittadino in condizioni di urgenza, ma non è avvenuto: a cosa serve realmente?

«Lo stato di emergenza serve a incatenare i cittadini, a farli sentire sudditi incapaci di gestirsi, bambini irresponsabili bisognosi di una guida paternalistica. È il frutto di un governo debole il quale, proprio perché avverte la propria debolezza, punta sull’autoritarismo».

Teme che questo stato di eccezione possa diventare norma?

«Questo timore è ciò che mi ha spinto a scrivere Virus e Leviatano. Stiamo dando vita a un precedente pericoloso. L’unione perversa di biopolitica e bioinformazione ha inferto un duro colpo al sistema democratico liberale di stampo parlamentare. Un vulnus che potrebbe diventare permanente».

Pensa che la sottomissione dei cittadini al nuovo dispotismo statalista sia un disegno perseguito o l’esito inevitabile del virus dell’ideologia mai davvero estirpato nell’establishment politico e culturale?

«Dopo tanti anni di giornalismo posso dire tranquillamente di essere complottista. Perché il potere complotta sempre. E tanto più grandi sono gli interessi tanto più ampio è il complotto. Che avviene lontano dai riflettori, in quelli che potremmo definire i “santuari” dei padroni del caos. Ma l’aiuto degli utili idioti è sempre di fondamentale importanza».

Come valuta il fatto che stiamo progressivamente tornando in una situazione di confinamento?

«Alla fin fine è un fatto culturale. Non si viene più educati alla libertà, all’amore per la libertà. Siamo narcotizzati. Abbiamo l’illusione di essere al corrente di tutto e non sappiamo niente. Non studiamo e ci lasciamo condizionare. Dobbiamo imparare di nuovo a pensare. Ma com’è possibile se passiamo tutto il tempo sui social o davanti a programmi televisivi beceri? Huizinga in La crisi della civiltà scrisse che se si vuole ripartire occorre essere consapevoli, per prima cosa, di quanto sia già progredita la dissoluzione».

 

La Verità, 24 ottobre 2020

«Provo a restare umano, nonostante il virus»

Buongiorno Enrico Montesano, o devo chiamarla Monteinsano?

«Mi chiami come vuole (ride). Un po’ di follia non guasta. Com’era quella frase di Friedrich Nietzsche… “Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella che danza”».

Sì, ma la sostanza è che ha una nuova popolarità negativa.

«Non tanto negativa».

Se la chiamano Monteinsano…

«Quando Massimo Gramellini scrive certe cose, quel suo “Caffè” diventa una ciofeca».

Figurarsi se Er Pomata di Febbre da cavallo non ha la battuta pronta. È o non è un pezzo di storia della commedia italiana? E non solo al cinema, pure a teatro e in televisione. Il suo Fantastico del 1988, in coppia con Anna Oxa, detiene ancora il record di ascolti e di vendita dei biglietti della Lotteria Italia. Record ne ha mietuti anche al boxoffice e l’elenco dei titoli memorabili sarebbe lungo. Regista, autore, attore, comico, la politica ha sempre stuzzicato Montesano. Ultimamente si è espresso in modo critico sulla gestione dell’epidemia da coronavirus e ha appoggiato la Marcia per la liberazione di sabato scorso a Roma. L’altro giorno, invece, è stato fermato dalle forze dell’ordine perché non portava la mascherina.

Montesano no-mask?

«L’ho detto anche da ospite di Barbara D’Urso su Canale 5: prima di tutto tengo alla salute del prossimo. Se stanno bene familiari e parenti, sto bene anch’io. Sono una persona di buon senso e mi comporto in modo responsabile».

Cosa vuol dire?

«Che non vado agli aperitivi, non frequento le discoteche ed evito i posti dove c’è confusione. Per strada, se qualcuno mi viene incontro cambio marciapiede e scelgo percorsi alternativi, ci sono tante strade vuote. Stamattina sono uscito per comprare il pane e non ho incontrato nessuno».

E la mascherina?

«Non la porto, ma la tengo in tasca. Entrando dal panettiere l’ho indossata».

All’agente che l’ha fermata perché non la indossava prima ha detto che non riesce a respirare e poi che il Dpcm contraddice una legge dello Stato che prescrive di essere riconoscibili.

«Con il cappello e gli occhiali, se metto la mascherina chi mi riconosce? La legge e il decreto si contraddicono, ma la legge prevale. Poi, dopo 52 anni di polvere di palcoscenico, ho un certo affaticamento dei bronchi. Perciò la mascherina la metto il necessario. Come ha detto il professor Matteo Bassetti, se sono a cinque o dieci metri di distanza, chi posso infettare?».

Fa ostruzionismo da attaccabrighe?

«Assolutamente. Caso mai è questo Dpcm che confligge con la legge».

Perché non è andato alla Marcia per la liberazione di sabato scorso mentre ha partecipato a quella per la liberazione di Chico Forti?

«Perché quella in favore di Chico Forti non si prestava a interpretazioni errate com’è successo per la Marcia per la liberazione, dove si è detto di tutto tranne ciò che importava agli organizzatori. Io non ci sono andato perché a queste manifestazioni a volte spuntano gruppi strani. Avevo detto da subito che aderivo, ma che non avrei partecipato».

Lei rifiuta la definizione di negazionista, preferisce il termine minimizzatore?

«Mi definisco critico. Il negazionismo riguarda l’Olocausto e significa negare una cosa accaduta. Io non nego che esista questo curioso virus. Purtroppo c’è».

Cosa intende per curioso?

«Sorvoliamo se sia naturale, determinato dal salto di specie o sviluppato artificialmente. Esiste. Quello che non trovo giusto è terrorizzare, spaventare la popolazione. La prima parola che sento quando accendo la tv è Covid, l’ultima quando spengo è lockdown. Che è una parola americana, lo sa che nel vocabolario inglese non si trova? Lo usano nei penitenziari americani quando mettono un detenuto in isolamento. Allora parlano di lockdown».

E lei lo rifiuta?

«Non mi rassegno al confinamento».

Il consulente del ministero della Salute Walter Ricciardi ha detto che è stata «una misura di cieca disperazione».

«Certamente molto rigida e senza che ne abbiamo avuto grandi risultati. Per contro, ora cominciamo a vederne le conseguenze economiche. Chi non l’ha adottata, come la Svezia, in percentuale sta più o meno come noi».

Forse se non avessimo chiuso staremmo peggio?

«Che ne sappiamo. Si potevano fare scelte diverse».

Per esempio?

«Lockdown localizzati. I nostri governanti sono in una situazione scomoda, non do loro addosso per partito preso. Però trovo strano che a Chiasso si debba indossare la mascherina e oltre il confine no. Paesi come la Svizzera stanno uscendo bene senza adottare misure così drastiche. D’accordo con il professor Giulio Tarro, la ricercatrice Antonietta Gatti, Alberto Zangrillo e Bassetti auspico che la seconda ondata abbia una carica virale più blanda e ci risparmi un’altra chiusura totale».

Si profila per il periodo natalizio.

«Manco potemo fa l’albero? Che palleee!».

Si fida di più dei virologi che ridimensionano il pericolo?

«Io non sono un esperto, ma leggo di tanti medici austriaci o inglesi che in alcuni documenti esprimono punti di vista meno allarmisti».

I dati non giustificano l’allarme?

«Non lo so… Parlare di casi mi sembra un’espressione generica. Molti medici dicono che una persona positiva asintomatica non è malata. Positivo a che cosa? Siamo pieni di virus, il nostro corpo reagisce… Perché tranne qualche medico di famiglia, nessuno dice: non vi intossicate, non fumate, mangiate sano, prendete le vitamine che aumentano le difese… Poi può capitare che una persona con altre malattie si contagi. Io credo che il virus esista eccome. Ma numerosi medici dicono che i pazienti che hanno la febbre e i primi sintomi si possono curare senza correre in ospedale. Questo mi conforta e non è invitare a fregarsene delle precauzioni. Gli italiani sono persone di buon senso».

Quando è nato il CanaleMontesano su YouTube dove legge brevi testi di Adolf Huxley, George Orwell, Michel Onfray?

«È nato durante il confinamento per fare compagnia a chi era chiuso in casa. Ho iniziato con i miei personaggi, Torquato il pensionato, Famo Blas, Il conte Tacchia, il Figlio di papà… Poi vedendo che queste letture avevano successo li ho lasciati un po’ in disparte».

Chi sono i suoi seguaci?

«Persone desiderose di aprire un po’ gli occhi. Mi suggeriscono letture, mi mandano i libri a casa… Questo rapporto col pubblico vuol dire che c’è bisogno di questi pensieri e che tanti sono stanchi delle urla dei talk show o dei reality».

È sempre stato un grande lettore?

«Abbastanza».

Ultimamente si è spostato su nuovi autori?

«Un po’ più mirati. Critici del pensiero unico. Poi un libro porta l’altro. Il filosofo Gunther Anders fa un riferimento a Hannah Arendt, un altro cita Elias Canetti… Non compro libri online perché voglio che i negozi del vicinato sopravvivano. Proviamo a rimanere umani, con i nostri pregi e difetti, e allontaniamo questo transumanesimo incombente».

Che cosa la preoccupa?

«Lo scienziato che vuole sostituirsi a Dio, vuole modificare la natura umana».

Cosa significa «Eretici e guerrieri», lo slogan con cui conclude i suoi video?

«È una frase di Carlos Castaneda che invita a mantenere una libertà di giudizio».

C’è troppo conformismo?

«Domina il politicamente corretto. Ne parlavo già nel mio spettacolo del 2007 intitolato È permesso? È permesso criticare il pensiero unico stimolandone uno alternativo?».

Legge La teoria della dittatura di Onfray, parla di terrorismo sanitario: estremismo?

«Forse per contrastare decisioni altrettanto estreme. La paura non è una buona compagna perché abbassa le difese immunitarie. Nella trasmissione della D’Urso ho citato una frase sul concetto di salute diffusa dall’Oms quando era un organismo affidabile: “La salute è uno stato dinamico di completo benessere fisico, mentale, sociale e spirituale, non mera assenza di malattia”».

Cosa c’è dietro?

«In rete gira una battuta in romanesco sui prodotti esportati dalla Cina: “Ao’… er coronavirus è l’unica cosa cinese che dura tanto”».

È merito del governo se rispetto alla Francia, alla Spagna, alla Gran Bretagna abbiamo una percentuale di contagi inferiore?

«A maggior ragione questa diffusione della paura non è giustificata. E tutte queste restrizioni sono una contraddizione. Se i risultati sono buoni perché dobbiamo stringere la vite ancora di più? Forse non siamo noi i complottisti, ma qualcun altro. Faccio sempre salvi i nostri uomini di governo… Magari c’è qualcosa che viaggia al di sopra della Merkel, di Macron, di Conte».

Cosa vuol dire?

«La quarta rivoluzione industriale, il Nuovo ordine mondiale».

La globalizzazione, il 5G.

«Non ne sento il bisogno, stavo bene pure con il 3G. Vorrei un referendum per capire se ci serve davvero».

Vede molti effetti nocivi?

«Perché questa corsa senza interpellare i popoli? Giustamente ci preoccupiamo del Covid-19, ma non conosciamo i danni collaterali che il 5G può provocare. Ci sono studi che documentano che le grandi epidemie si presentano sempre in corrispondenza di rivoluzioni tecniche e tecnologiche».

In televisione la chiamano ancora? Con i suoi spettacoli, intendo.

«Forse c’è un po’ di timore. Potremmo fare un programma che stimolasse domande negli spettatori, ma forse non si vuole proprio questo. Ricorda quella massima: Castigat ridendo mores (corregge i costumi ridendo ndr)».

In questa crisi i lavoratori dello spettacolo sono stati tra i più penalizzati.

«Dopo la bellissima manifestazione di Milano ce ne vorrebbe una anche a Roma. Forse queste norme trascurano le reali necessità del mondo dello spettacolo. Dietro un primo attore c’è un indotto enorme, la scenografia, il trucco, il facchinaggio, i trasporti, il personale, tutti i servizi. Il teatro è vita e cultura. Un teatro accende la vita della via dove si trova. La gente ha anche bisogno di distrarsi, invece è tutto fermo».

Sugli aerei si sta gomito a gomito, negli stadi all’aria aperta possono entrare solo mille persone.

«L’Olimpico può tenerne fino a 70.000, possiamo farne entrare 30.000? Io capisco che non dobbiamo mettere in ginocchio le compagnie di volo, ma gli aerei sono anche abitacoli angusti con circolazione della stessa aria. Durante il lockdown, avevano chiuso persino i parchi ai bambini…».

Beppe Grillo è partito da un blog e poi ha fondato un movimento: il suo obiettivo qual è?

«Vorrà dire che se un comico vi ha distrutto un altro comico vi salverà. Guardi che è solo una battuta, niente più. Non voglio fondare nulla».

 

La Verità, 17 ottobre 2020