Tag Archivio per: Zelensky

Ritirata di Zelensky: solo un testo letto da Amadeus

Ritirata sul fronte di Sanremo. Battuta d’arresto dei bellicisti a oltranza. Sul campo di battaglia dell’Ariston lo schieramento pacifista registra un piccolo, ma simbolico successo. Se sia merito della Rai o di Volodymyr Zelensky lo capiremo meglio nei prossimi giorni. Il leader ucraino non manderà un videomessaggio come previsto finora, ma un testo che verrà letto da Amadeus. Una lettera al posto di un discorso registrato. L’artiglieria leggera invece dei carri armati. Una raffica di mitra anziché gli ordigni dei Leopard. Non siamo alla resa, ma la de-escalation è evidente. La notizia arriva all’ora di pranzo dalla conferenza stampa di apertura del Festival di Sanremo e provoca sconcerto e delusione nelle formazioni atlantiste. A darla è Stefano Coletta, direttore dell’Intrattenimento prime time della Rai, incaricato dall’ad Carlo Fuortes di tenere i rapporti con le autorità ucraine. «Siamo in contatto quotidiano con l’ambasciatore in Italia Yaroslav Melnyk», annuncia misurando le parole il solitamente ciarliero capo dei varietà della Tv di Stato. L’impaccio è evidente. Come lo è l’arretramento della Rai che finora si era proclamata compatta nella difesa dell’ospitata del leader ucraino.

Basso profilo

«Nel pomeriggio del 2 febbraio l’ambasciatore ha comunicato che il presidente avrebbe preferito inviare un testo, che sarebbe stato letto da Amadeus», precisa Coletta. Una scelta di basso profilo, che avrà un impatto certamente inferiore a quello del video in divisa militare di Zelensky. Calcolo dei benefici e attenzione a non inimicarsi l’opinione pubblica italiana, alla fine dei conti gli uomini di Kiev sembrano autori aggiunti del Festival: niente videomessaggio, ma un testo affidato al conduttore. Il quale, interpellato su tutta la vicenda, nega che avrebbe fatto volentieri a meno di questa grana. Com’è noto, era stato lo stesso Zelensky a manifestare a Bruno Vespa il desiderio di essere ospitato a Sanremo. Con un passato da attore consumato, il presidente ucraino sa bene che nella società dello spettacolo ogni avvenimento, anche il più drammatico, viene comunicato con il linguaggio dello showbiz. Per questo, finora il suo tour aveva inanellato i Grammy Awards e il Festival di Cannes, la Mostra di Venezia e i Golden Globe. Alla collezione mancava Sanremo. Ma ora il display della war speech avverte a sorpresa che «qualcosa è andato storto» e bisogna aggiornare il programma.

Levata di scudi

Sebbene Giorgia Meloni abbia confermato la linea di sostegno a Kiev adottata dal precedente governo, la maggioranza degli italiani rimane contraria all’invio delle armi. Detta in breve, ne ha le tasche piene di un conflitto che si ripercuote sulla vita quotidiana di tutti. Perciò, la notizia dell’ospitata di Zelensky aveva scatenato un dissenso diffuso e trasversale. Perché il servizio pubblico deve offrire una platea di 15 milioni di persone come la serata finale del Festival, la più affollata dell’anno televisivo, al leader ucraino richiedente nuovi armamenti? Ragioni di opportunità e motivi di contenuto lo sconsigliavano. Da quando è trapelata la notizia, il fronte contrario ha coinvolto da Pier Silvio Berlusconi, editore figlio del capo di un partito di governo, a intellettuali come Aurelio Picca e Carlo Freccero, fino a politici di schieramento diverso come Matteo Salvini, Carlo Calenda e Gianni Cuperlo. In alcuni casi la critica principale riguardava il contesto scelto: non si parla di guerra e morte tra i lustrini e le paillettes. Ma la questione è più profonda. Se ci si strappa le vesti per difendere l’indipendenza del popolo ucraino perché la volontà prevalente di quello italiano dev’essere ignorata? Anche la Rai avrebbe potuto averne un contraccolpo d’immagine, finendo per alienarsi una fetta rilevante di pubblico, per altro già nervoso per l’eccesso di messaggi gender di cui sarà disseminata la kermesse.

Atlantisti delusi

Sui contenuti del testo che arriverà già tradotto in italiano «saremo più puntuali nei prossimi giorni», ha chiarito il solito Coletta. Che subito dopo ha precisato: «Mi sembra complicato poter censurare il presidente. Il controllo di noi dirigenti è preventivo alla messa in onda di ogni programma, ma sorrido all’idea di un dirigente Rai che possa censurare un presidente». Però la decisione è presa: i ghost-writer di Kiev allentano la presa sulla postazione dell’Ariston. Mentre non si registrano rilevanti prese di posizione sul fronte politico, forse deciso a non seguire l’altalena di decisioni tra canzonette e proclami di guerra, contrarietà e malumore attanagliano gli editorialisti con l’elmetto. Non aspettavano che di vedere l’ex Servitore del popolo reclamare nuovi armamenti indossando la t-shirt dell’esercito. Invece dovranno accontentarsi del lettore Amedeo Umberto Rita Sebastiani (in arte Amadeus) in smoking scintillante. A meno che, alla fine, qualche autore non pensi che se la leggesse Chiara Ferragni, magari con una spallina scivolosa, potrebbe fare anche più audience. Buona visione.

 

La Verità, 7 febbraio 2023

Achille Lauro è il volto identitario del Festival

Achille Lauro non poteva mancare nemmeno stavolta, e fanno cinque edizioni consecutive. Tre da concorrente e due come superospite. È lui il volto identitario del Festival di Sanremo anni Venti. Una vetrina modaiola di fluidità e gender in varie gradazioni che ha sostituito la kermesse patronale, il luna park tuttifrutti di un tempo. Adesso il frutto principale è questa salsa queer. Sanremo segue il costume, ma qualche volta lo anticipa e lo influenza a suon di musica e polemiche, ugole e predicozzi, canzonette e politica. È così fin dal Ragazzo della via Gluck e Chi non lavora non fa l’amore (Adriano Celentano, 1966 e 1970), e da Una vita spericolata (Vasco Rossi, 1983), per citare le prime. Da La terra dei cachi (Elio e le storie tese, 1996) e Non è l’inferno (Emma Marrone, 2012), per avvicinarci al presente. Sanremo era Sanremo. Condito di superospiti internazionali, da Josè Feliciano, anche in gara, a Madonna, da Michail Gorbaciov a Mike Tyson e John Travolta, che per brevi comparsate procuravano salassi alle casse della Rai e overdosi di polemiche sull’uso del denaro pubblico. Il concorso era trasmesso in Eurovisione e c’era chi diceva che tutto il mondo ce lo invidiava. Domenico Modugno, Claudio Villa, Gianni Morandi, Celentano, Laura Pausini vendevano alla grande anche all’estero, e senza il complesso di essere italiani. Anzi, magari proprio per quello. Oggi no. Oggi, nell’èra della globalizzazione, sebbene declinante, i generi musicali perlopiù li importiamo. Comunque, Sanremo era quella roba lì. Epperò negli ultimi anni abbiamo assistito a una curiosa metamorfosi. Con innesti crescenti di progressismo, il nazionalpopolare è mutato in mainstream. Ben più di una correzione linguistica, un passaggio culturale. Dalla prospettiva nazionale a quella globale, dalla tradizione del Belpaese al pensiero unico sul vassoio dell’intrattenimento di tendenza. Il nuovo linguaggio deriva dalla frammentazione dei generi? L’Ariston si adegua e offre la vetrina.

Dicevamo di Achille Lauro, nome d’arte(?) di Lauro De Marinis. Quando si è presentato in gara, le sue dimenticabilissime canzoni navigavano nelle retrovie della classifica, puro pretesto per le messinscene, le mise transex, gli scandaletti di polistirolo pour épater le bourgeois. La sua ultima esibizione aveva simulato un battesimo. Roba farlocca. Tanto che, stuzzicato da Fiorello che l’anno prima, con una corona di spine sul capo, aveva duettato con lui, l’Osservatore Romano aveva dispensato delusione: «Volendo essere a tutti i costi trasgressivo, il cantante si è rifatto all’immaginario cattolico. Niente di nuovo. Non c’è stato nella storia un messaggio più trasgressivo di quello del Vangelo. Da questo punto di vista difficilmente dimenticheremo la recita del Padre Nostro, in ginocchio, di un grande artista rock come David Bowie. Non ci sono più i trasgressori di una volta».

Insomma, in quel lembo di Liguria si fatica a pensare in grande. A osare veramente. Ci hanno provato Rula Jebreal con un monologo in difesa delle donne violentate e Roberto Saviano ha voluto ricordare il trentennale dell’uccisione di Giovanni Falcone con tre mesi di anticipo. Nel 2020, con una libera interpretazione del Cantico dei cantici, definito il libro «più bello, più santo, più importante della Bibbia», Roberto Benigni ha sdoganato tutte le forme di amore, quella «dell’uomo con la sua donna, la donna con la sua donna, l’uomo con il suo uomo». Perché, alla fine, si casca sempre lì, nella moltiplicazione dei sessi e nell’amore non binario, come si dice.

Sotto la supervisione di Stefano Coletta, prima come direttore di Rai 1, poi come responsabile della sezione Intrattenimento della tv pubblica, Sanremo si è travestito da festival queer, disseminato di baci gay, unghie smaltate e trucco pesante per entrambe i sessi (e speriamo che la comunità Lgbtq non insorga). Se prendiamo i vincitori delle edizioni frequentate da Lauro, due volte ha vinto Mamhood (nel 2022 con Blanco) e una i Måneskin, poi tornati come ospiti l’anno scorso. E il vecchio luna park è sembrato un Gay pride per famiglie. Arcobaleno, naturalmente.

Erano gli anni dei governi guidati da Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte e Mario Draghi, con il Pd a dare sempre la linea (tranne la breve parentesi gialloverde). Erano gli anni del dibattito sul ddl Zan, di genitore 1 e genitore 2, dell’asterisco e dello schwa proposti, e spesso adottati, nei documenti pubblici… Non che siano stati definitivamente archiviati. Tuttavia, dalle parti di Palazzo Chigi l’aria è cambiata. Invece in Rai ancora no. Basta guardare i programmi d’intrattenimento, certe rubriche pomeridiane di Rai 1 e Rai 2, le giurie degli show della rete ammiraglia… Finora l’avvento di Giorgia Meloni e del governo «delle destre» non ha fatto girare il vento nemmeno tra i fiori e le pailettes della kermesse canzonettara. Al suo fianco, il conduttore e direttore artistico ha voluto, sì, il rassicurante Gianni Morandi, amato sia dalle nonne che dai giovanissimi («Da grande voglio essere come lui», confidò Blanco sul palco di un anno fa). Ma fedele al mainstream modaiolo, ha chiamato l’«imprenditrice digitale» Chiara Ferragni e la pallavolista non binaria Paola Egonu (e chissà perché nessuno invita mai Miriam Sylla, anche lei di colore e pure capitana dell’Italvolley femminile).

Intanto Madame ha dovuto cambiare il titolo della canzone in Il bene nel male (al posto di Puttana), prima di essere indagata per una storia di vaccini falsi e piegarsi al volere comune: senza polemiche la colonnina dell’Auditel non s’impenna. Dopo aver detto che non ci sarebbero stati ospiti perché già tanti erano i cantanti in gara, man mano che ci si avvicinava al giorno d’inizio, Amadeus ha annunciato Black Eyed Peas, Piero Pelù, Francesco Renga, Nek… E, sempre in modalità allineamento, si è parlato di Volodymyr Zelensky in videocollegamento nella serata finale.

Di sicuro c’è che i cantanti in gara saranno 28, ventidue big più sei giovani, così le serate termineranno quando albeggia, tutta salute per lo share. A naso, il cast del 73° Sanremo, dal 7 all’11 febbraio, è tranquillo. C’è la quota star da stadio con Marco Mengoni e Giorgia, il trash dei Cugini di campagna, la nutrita fetta anni Novanta con Anna Oxa e i Modà, senza dimenticare le reunion di Articolo 31 e Paola e Chiara. Ci sono «i figli di» Leo Gassmann e Lda (di Gigi D’Alessio), i big da classifica Lazza, Elodie e la già citata Madame, la quota di musica indie con Colapesce Dimartino e Coma Cose, che bissano la partecipazione dell’anno scorso, come Tananai che, giunto ultimo, può migliorare ma non è detto. Non s’intravedono troppe trasgressioni fasulle. Però occhio a Rosa Chemical che somiglia non poco ad Achille Lauro, speriamo solo nell’aspetto. Nell’incertezza, si è pensato bene di convocare anche l’originale. Hai visto mai che se ne sentisse la mancanza.

 

Il Timone, febbraio 2023

«Sono ateo (provvisorio), ma credo in Lucifero»

Intelligenza magmatica, ragionamento proteiforme, linguaggio minaccioso, Quirino Principe è uno degli intellettuali più controversi della cultura contemporanea. Nato a Gorizia 87 anni fa, vive a Milano dove cura la sua incessante attività di traduttore, musicologo, saggista, critico e consulente editoriale. Forse lo si potrebbe inserire nella galleria dei grandi reazionari ma, nella sua vanità, rifiuterebbe anche questa collocazione. Si definisce ateo, salvo riconoscere e, in un certo senso esaltare, la figura di Lucifero. Non a caso, se lo si definisce «un tizzone d’inferno» s’inorgoglisce. Intervistarlo vuol dire infilarsi in un ingranaggio infernale. Ha un così elevato concetto di sé da permettersi risposte particolarmente sprezzanti.

Professore, come mai da qualche tempo non la si legge e non la si ascolta?
«Le contro-domando: dove diavolo dovrei scrivere o parlare affinché mi si legga o mi si ascolti?».

Perché si è interrotta la sua collaborazione con Il Sole 24 ore?
«Mi ero stancato di recensire libri di altri. La funzione di recensore è interessante, ma a un certo punto ha cominciato a starmi stretta. Perciò avevo più volte proposto di occuparmi di letteratura tedesca, inglese, ispanico-americana, mitteleuropea, slava. Non sono solo uno studioso di musica, ho tradotto Ernst Jünger, Karl Jaspers, molti altri autori, un numero indescrivibile di Lieder e di testi di teatro d’opera».

E dal Sole come le hanno risposto?
«Non ci fu né richiesta né risposta. Avevo altro cui pensare, e per cui soffrire maledettamente. Era appena morta mia moglie, dopo 60 anni precisi di matrimonio felice e fedele. Non occorre essere religiosi per essere fedeli, non occorre essere ricchi come il patriarca Kyrill o come i vari Ronaldo, Mask, Bezos, per essere felici. Sono molto affezionato e grato al Sole 24 ore, però non posseggo competenze soltanto musicali, anche se a qualcuno sfugge l’esistenza di una mia forte professionalità anche al di fuori della musica. Questo non vale solo per Il Sole 24 ore, ma anche per altri committenti».

Per esempio?
«La Rai».

Che cosa faceva per la Rai?
«Quando la Rai era meno nepotista e meno corporativa, avevo qualche spazio possibile: musica, poesia, teatro, filosofia… La domenica tenevo una rubrica molto seguita su Radio 3, La spina nel fianco. Nella sua conduzione,  fra l’altro, proponevo ogni settimana un sonetto che, attraverso diabolici depistaggi, invitava gli ascoltatori a individuare un autore, un’opera o un episodio di storia della musica».

Una rubrica esoterica?
«Ma quale esoterica? In quella rubrica mi divertivo con l’enigmistica, e qui l’esoterismo c’entra come il classicissimo cavolo a merenda. Cerchiamo di non usare parole a vanvera, e di conoscere bene il significato delle parole, prima di attingere al lessico italiano, che sospetto essere enigmatico per troppi miei connazionali! Lei è certo di sapere esattamente che cosa significhi “esoterico”? Quella rubrica era, per me,  un esercizio di tecnica versificatrice come parodia dei poeti stilnovisti, e, per il pubblico, un’occasione per saggiare il livello culturale medio degli italiani. Quella rubrica, che mi aveva molto divertito, era piuttosto un impagabile incentivo a una mia naturale tendenza,  quella a non avere peli sulla lingua e a non avere rispetto per le nullità travestite. Infatti, l’allora direttrice di Radio Tre troncò di brutto quella rubrica, in atto da due anni – era la fine del 1999 – per “punirmi” dell’avere io osato citare in modo “irrispettoso” i nomi di Francesco Rutelli e di Alessandro Baricco. Nella fattispecie, dovendo, per depistare gli ascoltatori, citare Bonifacio VIII a proposito di Dante, e avendo bisogno di una rima in “-elli”, avevo indicato quel papa – a me odioso, come lo sono per me tutti i papi, anzi, tutti gli ecclesiastici di tutte le religioni monoteistiche – con un “irriguardoso” endecasillabo: “… il primo precursore di Rutelli”. Ovviamente, alludevo alle analogie tra le due colonne di pellegrini che vanno verso San Pietro (Inferno, 28-33) oppure ne ritornano indietro: espediente di regolazione del traffico, “copiato” da colui che  era sindaco di Roma alla fine del secolo XX. Non vedo come potessi avere “offeso” Rutelli, tipo simpatico ma allora troppo sollecito nel fornire i servigi del Comune di Roma al Vaticano, More solito, del resto:  per me, incrollabilmente laico, è insopportabile questo ricorrente servilismo delle laiche istituzioni pubbliche italiane a favore di Santa Madre Chiesa. Quanto a Baricco… ebbene sì, nel sonetto della settimana successiva fui io ad essere molto antipatico. Lo riconosco: meritavo una punizione. Mi scusi: c’entra, tutto questo, con il concetto di esoterismo?».

Non le sfugge certamente che di lei si parla come di un «tizzone d’inferno». Che cosa la attrae verso l’elemento infernale?
«Io sono ateo come visione del cosmo, anche se non escludo l’impensabile, l’indescrivibile, il “totalmente altro”, come lo chiama Max Horkheimer. Marxista eretico, nel suo penultimo libro parla del “totalmente altro” come di una necessaria idea collaterale che deve accompagnarci quando parliamo del certamente definibile. Pur essendo ateo contemplo il demoniaco e l’infernale come ne hanno parlato le grandi religioni».

Non è contraddittorio?
«La mia dichiarazione di ateismo è provvisoria, una messa in sicurezza di fronte all’immagine contraddittoria di Dio data dalle religioni monoteiste. Un Dio geloso, che si arrabbia, si vendica e si occuperebbe di questa piccola specie che è l’homo sapiens. Mentre per me è un concetto altissimo, sublime e parlare di Dio mi risulta difficilissimo. Al contrario, il demonio è qualcosa di prossimo alla nostra esperienza, agli istinti, alle necessità naturali e sane. Il bisogno di mangiare e di provare piacere con il sesso, per esempio. È un’energia presente nel cosmo, nell’istinto di ribellione al potere».

Come trascorre le giornate?
«Le ore diurne lavorando, invece le ore notturne lavorando. Il totale delle ore di sonno durante la settimana è di cinque o sei. Non è insonnia, è lavoro incessante. Se non avessi avuto l’incidente che mi ha spezzato le gambe e un braccio dimostrerei trent’anni di meno e sprigionerei ancora più energia. Purtroppo il 4 giugno del 2011 sono stato investito e da lì è iniziato il mio declino fisico. Il 4 giugno è il giorno di San Quirino: il mio ateismo ne è stato ulteriormente confermato».

In che cosa consiste il suo lavoro?
«Traduzioni, soprattutto dal  tedesco. Saggi per teatri d’opera. Preparazione capillare di lezioni universitarie, a beneficio degli studenti tutti laureati: da 10 anni insegno Storia della Musica in un master post-universitario. Sto preparando la seconda edizione del mio libro su Richard Strauss. Curo con assoluta esattezza le mie lecturae Dantis: una lectura integrale, dal principio alla fine della Commedia. Tengo le lecturae nella sede della casa editrice Jaca Book. Sono arrivato al XXII del Purgatorio.  Di solito, non leggo: recito direttamente, in stile teatrale. Conosco l’intero poema dantesco a memoria».

Lavoro «matto e disperatissimo»?
«Il lavoro non è disperato, è fatica e la si sopporta. Lo studio invece è felicità assoluta».

C’è qualcosa o qualcuno che lenisce la sua solitudine?
«Come dicevo, lo studio. Invece, amo la solitudine. Vorrei assolutamente che mia moglie rinascesse. Anche i miei figli, quando vengono mi fanno felice. Ma sto bene con la solitudine, è così fin da adolescente. È essa il mio vero lenimento».

Perché ritiene l’insegnamento della musica la molla della rinascita?
«Perché è il livello più alto della conoscenza. Forse neanche i musicisti lo capiscono. Platone, Damone, Aristosseno, Plutarco, anche un politico come Pericle, Lucrezio, Quintiliano, Boezio, consideravano la musica una dote indispensabile per ogni uomo di governo. Così anche, in tempi vicini a noi l’hanno capito filosofi come Adorno. La musica è matematica, regina delle scienze, che agisce sui nostri sensi e sulle nostre percezioni. Purtroppo oggi è ritenuta solo una forma di intrattenimento».

Preferisce i grandi compositori del passato?
«La musica non va valutata in base alla cronologia, ma per la sua qualità. Nella mia estetica il bello è ciò che ha forza di significato, il brutto ciò che è debole di significato o ne è privo».

Tre opere che porterebbe su un’isola deserta.
«Facciamo cinque. Don Giovanni di Mozart, il Quartetto opera 132 di Beethoven, la Sonata per pianoforte n. 32 Op. 111 di Beethoven, le Scene per il Faust di Goethe di Schumann, Parsifal di Wagner».

Il più grande direttore d’orchestra del Novecento?
«Sebbene ai direttori d’orchestra si richieda più studio che genio, le propongo una rosa ristretta: Gustav Mahler, straordinario anche come direttore, Bruno Walter, Gino Marinuzzi, Sir Thomas Beecham, e Whilelm Furtwängler. Herbert von Karajan per me è un po’ al di sotto».

Tra quelli contemporanei chi apprezza?
«Oleg Caetani, Riccardo Chailly e Riccardo Muti».

Qual è il suo pensiero riguardo ai generi musicali contemporanei?
«Quali? Me li indichi».

Cosa pensa del jazz?
«È una provincia marginale come, del resto, lo è anche Chopin. Una provincia che pure contiene opere splendide. Come quelle di Cole Porter, George Gershwin, Chick Corea, Ornette Coleman, Duke Ellington… A volte le suono, Sophisticated lady è una delle mie preferite».

Il John Coltrane di A love supreme e My favorite things?
«Mi piace molto, certo».

Keith Jarrett?
«Interessantissimo. Apprezzo il mixage e le contaminazioni, senza le quali potrebbe risultare un po’ noioso».

Le piace qualcuno degli interpreti popolari della canzone italiana?
«Odio visceralmente tutto ciò che è popolare, o così denominato. Nel suo interesse, non mi faccia andare su tutte le furie».

Cosa pensa del rap?
«Non è musica e nemmeno suono musicale. È un parlato in forma di scioglilingua accompagnato da una consolle. Perciò, essendo non-musica, non mi riguarda professionalmente».

Ha mai visto il Festival di Sanremo?
«Un paio di volte Il Sole 24 ore mi ha chiesto di seguirlo. Ho obbedito con disagio e noia. Ciò che detesto maggiormente sono il contorno di lustrini, coriandoli, luce diffusa, neon, stivaletti di marca…».

Negli ultimi anni è diventato una vetrina gender: conosce Achille Lauro?
«Com’è ovvio, più che conoscerlo, so chi è. Non ho alcuna intenzione di approfondire la sua conoscenza».

Per Uto Ughi i Måneskin sono un insulto alla musica e all’arte.
«Ha perfettamente ragione».

Quest’anno vedrà il Festival di Sanremo?
«No. Non ho intenzione di vomitare».

Salvo sorprese, alla serata finale dovrebbe partecipare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky con un videomessaggio: che impressione le fa?
«Penosa. Zelensky era un modesto attore comico che si è trovato per sua sventura in una posizione disperante, affrontata con coraggio. Altri si sarebbero dati alla fuga, invece la sua resistenza lo ha nobilitato. Purtroppo, con questa partecipazione mette la sua figura nobile in un contesto ignobile».

C’è qualcosa o qualcuno che fa eccezione alla sua contestazione della contemporaneità?
«Grrrrrrrrr….. un tipo di domanda che suscita i miei istinti omicidi. Lo volete capire, si o no, che non è questione di cronologia, bensì di qualità, di livello qualitativo? Per favore, non irritatemi ulteriormente con domande senza significato. Alla fine, non rispondo delle mie azioni. Sono un ex ufficiale di artiglieria, e ho un’indole violenta. Non contesto la contemporaneità, dal momento che anch’io sono contemporaneo a me stesso. Contesto, invece, lo schifo».

Che cosa pensa della letteratura italiana contemporanea?
«Non credo che Dio esista, almeno nei termini con cui il cattolicesimo ufficiale, il Papa, monsignor Ravasi, eccetera, ce lo rappresentano. Ma se Dio esiste davvero, ci liberi dall’incubo: ci liberi dall’immaginare che la letteratura sia Gianrico Carofiglio o Alessandro Baricco o Alda Merini! Non mi preoccupa il male, è il nulla a essere spaventoso».

Professore, lei è massone?
«Ci mancherebbe solo questo!!! Mi avrebbe potuto risparmiare una simile domanda, che mi offende gravemente e mi fa infuriare: e non perché io disistimi la massoneria, che è una realtà storica e cui attribuisco qualche pregio per quanto riguarda l’esperienza illuministica della nostra amata Europa. No, ciò che mi offende è l’attribuzione, alla mia persona, dell’obbrobrio di “far parte di qualcosa”, di “condividere essendo in sottordine”. Trovo la domanda gravemente offensiva: da querela, se avessi la sia pur minima fiducia nel trionfo della  giustizia, sia in Italia, sia in Afghanistan,  o altrove. Ma non è forse arcinoto che io voglio essere solo, che non voglio far parte di associazioni, partiti, circoli, parrocchie, cellule, di questo o quello staff, board, team, e via divertendoci  con questo sterco lessicale anglicizzante? Come potrei, Io, Quirino Principe, associarmi a persone o ad ambienti sociali che  sappiano nulla di nulla, che non sappiano usare la lingua italiana, che non sappiano leggere un codice medievale né la grafia musicale espressa in neumi, che non conoscano il greco antico, né il latino, né il sanscrito, né il tedesco, né la matematica, né l’astrofisica, né la meccanica quantistica, né gli scritti musicali di Aristosseno o di Plutarco, né la differenza tra calendario giuliano e calendario gregoriano??? Per favore, smettiamola con queste offese alla mia persona. Rammento che la mia indole è notoriamente molto irascibile, e sono capace di eccessi».

 

 La Verità, 4 febbraio 2023

«Zelensky a Sanremo puro atto di propaganda»

Carlo Freccero, cosa significa il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ospite del Festival di Sanremo?

«Significa che siamo di fronte a un atto di propaganda».

Cioè?

«È sempre stato necessario far accettare al popolo un’azione impopolare come la guerra, le cui vittime sono sempre i popoli. Indipendentemente dagli schieramenti, guerra significa morte. Di solito non si scherza a un funerale».

Nel caso del popolo italiano, in maggioranza contrario all’invio di armi all’Ucraina nonostante l’informazione spinga in questa direzione, la propaganda fallisce?

«È interessante osservare il comportamento del pubblico su due argomenti. Sui vaccini ha assecondato la linea governativa, mentre sulla guerra dissente apertamente. Questo avviene per due motivi. Il primo è la paura di un conflitto nucleare che suscita una reazione di rifiuto dettata dall’istinto di sopravvivenza. Il secondo motivo è che nel nostro Paese c’è povertà e noi abbiamo già destinato molti soldi all’Ucraina. La guerra sta provocando disagi all’economia e alla nostra vita quotidiana».

Questo potrebbe essere egoismo?

«La guerra è la forma di egoismo più atroce. Ormai non si parla solo dell’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito di Vladimir Putin, ma di equilibri internazionali e dello scontro fra America e Russia. La maggioranza degli italiani non vive come Joe Biden alla Casa bianca, ma in case fredde e con spese che si  moltiplicano».

L’errore di questa ospitata è il contesto o il contenuto?

«Entrambi. Innanzitutto perché sollecitare l’invio di più armi significa elevare la tensione e aumentare il pericolo. La Russia ha già fatto presente che se si alzerà l’asticella sarà costretta a usare armi pesanti. Anche le persone che ritengono necessaria la partecipazione alla guerra non ne condividono la spettacolarizzazione a Sanremo. La metafora dell’Orologio dell’apocalisse segna 90 secondi alla fine del mondo».

Spieghi.

«L’Orologio dell’apocalisse è il Bollettino degli scienziati atomici ideato nel 1947 da un gruppo di studiosi della California, idonei a esprimere un giudizio sul pericolo nucleare. Oggi l’Orologio indica una distanza di soli 90 secondi alla mezzanotte. Neanche durante la Guerra fredda eravamo così vicini al disastro irrimediabile».

Zelensky all’Ariston è la spettacolarizzazione della guerra?

«Mentre non c’è spazio per la trattativa e per la diplomazia, tutto è affidato all’azione delle armi e l’Ucraina è diventata un cimitero a cielo aperto».

Proprio questo giustifica l’invito al suo presidente?

«È tutto più complesso. Questa guerra è un esempio di reductio ad Hitlerum di Putin analoga a quella condotta contro Saddam Hussein e Gheddafi. Ricordiamo le armi di distruzione di massa di Saddam simboleggiate dalla fialetta agitata da Colin Powell nell’assemblea delle Nazioni unite. Tutti sanno che quelle armi non esistevano, però nell’immaginario Saddam è rimasto un crudele dittatore».

I morti ucraini esistono.

«A questo proposito vorrei ricordare la frase sfuggita nel 2014 a Victoria Nuland, all’epoca segretario di Stato aggiunto, quando le fu fatto presente che l’Europa non poteva tollerare un colpo di Stato nazista in Ucraina: “Che l’Unione europea si fotta”, disse. Da quel colpo di Stato, la guerra dell’Ucraina contro le popolazioni russofone del Donbass non si è mai interrotta. Tutti conoscono la strage di Odessa, oggi derubricata da Wikipedia a incendio incidentale. Prima dell’intervento di Putin anche i giornali mainstream riportavano correttamente le provocazioni ucraine, ma appena iniziata l’invasione l’informazione è stata colta da amnesia sugli otto anni precedenti».

Zelensky è intervenuto al Festival di Cannes, alla Mostra del cinema di Venezia e ai Golden Globes: dov’è lo scandalo?

«Nel frattempo la guerra si è trasformata in pericolo nucleare e Sanremo viene usato per allargare il conflitto. Zelensky chiederà altre armi, invece bisogna dire basta».

Dire basta significa pace senza giustizia?

«Questo è argomento delle diplomazie».

Il presidente ucraino è un ex attore comico e un ottimo comunicatore.

«Non un comunicatore, ma un attore che cura molto le sue apparizioni. Il fatto interessante è che mescolare guerra con spettacolo è, in qualche modo, in continuità con la propaganda pandemica».

In che senso?

«I virologi chiedevano di vaccinarsi contro il Covid sulle note di Jingle bells. Ora Zelensky ex attore arriva al palco del Festival di Sanremo a chiedere armi. Da tempo Sanremo sembra occuparsi, più che di musica, di look transgender presunti trasgressivi. Anche a questo riguardo Zelensky è idoneo perché sono noti i suoi balletti con tacchi a spillo, nudo e lingua fuori, in perfetto stile Måneskin».

Non li ho visti.

«Li trova su Telegram».

Pierferdinando Casini ha ironizzato sulla necessità di far intervenire anche Putin per la par condicio…

«Promuovere la propaganda e l’allargamento della guerra su un palcoscenico ultra popolare come l’Ariston va contro la maggioranza dell’opinione pubblica italiana. La democrazia non conta più nulla? Infine, la cultura della guerra, se non ricordo male, è contro la nostra Costituzione».

Il Cda Rai ha convocato il direttore dell’Intrattenimento Stefano Coletta per spiegare l’invito: cosa si aspetta?

«Oltre a Coletta, sarebbe interessante ascoltare Bruno Vespa che si è prestato a fare il Beppe Caschetto di Zelensky».

 

La Verità, 31 gennaio 2023

«Zelensky a Sanremo? Affronto alla democrazia»

Nella sua casa tra gli ulivi sopra Velletri, Aurelio Picca sta lavorando al nuovo romanzo. «Un libro coraggioso e audace, come sempre», dice. Del resto, coraggio e audacia gli appartengono, come conferma anche in questa intervista.

Ha visto la serie Call my agent?

«Ho visto qualcosa. C’era Pierfrancesco Favino che faceva Che Guevara. È un bravo caratterista…».

Perché secondo lei gli addetti ai lavori sono in estasi?

«Evidentemente amano questa autofiction, una finzione nella quale i protagonisti sono personaggi reali. Stefano Accorsi fa Accorsi, Paola Cortellesi fa sé stessa e così tutti gli altri. Sembra una duplicazione, una bolla narrativa. Siccome oggi la commedia prende un campo ristretto, come se non si potesse raccontare in modo comico la realtà, ci s’inventa questa escrescenza della commedia. Che, alla fine, è tragica. Il gioco dell’apparire che sostituisce l’incapacità a raccontare la realtà è, a suo modo, tragico».

La gente già va poco al cinema per non vedere i soliti attori, ora si appassiona all’ombelico del cinema, pur raccontato in modo brillante?

«Dovrebbe appassionarsi alle storie di questi grandi attori che fanno sempre più o meno la stessa parte? Qualche tempo fa, vedendo Il bambino nascosto di Roberto Andò, mi sono imbattuto in un Silvio Orlando inedito, un ruolo totalmente inaspettato. Se si esce dalla bolla, anche l’attore diventato seriale può sorprendere. Non così se si resta nella comitiva in gita dei produttori, nel giro dei casinò delle produzioni come mi sembra sia questa serie».

Il cinema sul cinema è l’ombelico del cinema?

«Nessuno rischia più sulle storie psicopatiche e apocalittiche, le storie dell’orrore e della fine del mondo. Che sono le storie della realtà. Nessuno racconta la fine del mondo antico mentre noi contemporanei camminiamo su una strettoia. Vorrei vedere un grande film sulla ricerca di assoluto. Con i teenager che non guardano la tv e puntano al sublime. Perché non alzare il tiro e provare a vedere come si abbracciano i ragazzi, come cercano l’assoluto, l’utopia?».

Il cinema è prigioniero dell’autoreferenzialità come la letteratura?

«Tutto è prigioniero, anche le arti visive, il teatro… Se proponessi al Franco Parenti ogni sera un monologo a canovaccio di 50 minuti come mi accoglierebbero? Si preferisce l’ennesima caricatura di Mussolini… Adesso va molto il rapimento di Emanuela Orlandi, rispolverano anche quello di Mirella Gregori… Su quello che accade oggi fanno la serie tra una settimana, e chi se ne frega del linguaggio cinematografico e della profondità. Vendiamo prodotti da supermercato. Anche nell’arte si privilegia la cronaca bassa».

Agenti, critici, premi, festival, cordate: tutto nello schema dell’amichettismo?

«Sì, ma niente formule però. Gli editori scelgono sempre al ribasso, autori da 500 parole. Finalmente si stanno rivalutando i provinciali, Luciano Bianciardi, Curzio Malaparte… Qualche anno fa se ne parlavi ti beccavi del fascista come successe a me. Il problema è nato con Italo Calvino che per pubblicare Una questione privata ha aspettato che Fenoglio fosse morto. Si è appiattita la letteratura sulla comunicazione…».

Ci si parla addosso, si rincorre la propria coda?

«Si è raschiato il fondo e non c’è più niente. Se anche nelle antologie scolastiche non ci sono gli autori importanti del Novecento ma quelli che hanno scritto due libri, è inevitabile che la scrittura si fermi a 1000 parole, quando va bene. Anche la scuola è motore di un meccanismo bloccato».

Questo ripiegamento è dettato dalla rivoluzione digitale?

«Viene dall’industria culturale degli anni Sessanta e Settanta che, in nome della rivoluzione, ha distrutto il romanzo. Era uno degli obiettivi della neoavanguardia perché alla rivoluzione non servivano i romanzi. L’esempio più pertinente – lo dico con molto rispetto perché sto parlando di un grande storico medievale e di un grande semiologo – è Umberto Eco. Anche lui ha lavorato per la distruzione del romanzo perché era un teorico della neoavanguardia, come il Gruppo ’63. Poi però ha fatto Il nome della rosa, il grande romanzo comunicativo che ha venduto milioni di copie».

L’autofiction e l’appiattimento sulla comunicazione vengono da lontano.

«Negli anni Novanta alcuni nuovi narratori e poeti hanno ricominciato, tentando di recuperare il romanzo come arte che inventa i mondi. Ma l’industria gioca al ribasso per accontentare il lettore dominato dai mass media e infarcito di comunicazione e informazione».

Ora questo processo è aggravato dai social network?

«È un processo inestricabile. La virtualità non ha allontanato o migliorato l’orrore della realtà, è proprio un altro modo di viverla. La virtualità ha decomposto i corpi, ormai incapaci di vera leggerezza e vera pesantezza. È tutto simulazione».

Il lavoro è postare dei selfie dal salotto di casa.

«Penso agli operai comunisti che si alzavano alle 4 del mattino per andare a lavorare e tornavano alla sera, orgogliosi. In pochi anni siamo passati dal lavoro con il corpo alla cancellazione del corpo».

Che però è molto esibito.

«Un corpo che si vede ma che non si incontra e non si tocca, non è un corpo, ma una sua proiezione. È la stessa differenza che passa tra fare l’amore sul serio e vedere pornografia in rete. La virtualità è tutta pornografia perché si vende una finzione di sensualità e di erotismo che non ha la controprova dell’incontro».

Perché Chiara Ferragni è attesa al Festival di Sanremo come una regina?

«Perché siamo stupidi. Sono convinto che la stragrande maggioranza degli italiani guardi queste cose ma ci rida su, come in una commedia. Purtroppo, nella realtà siamo soffocati dall’orrore per il cinismo montante, la disumanità nei rapporti, l’incapacità di parlarci».

Cosa pensa del fatto che Ferragni ha annunciato di devolvere il cachet del Festival a un’associazione per la difesa delle donne?

«È detestabile che si annunci pubblicamente la beneficenza per accrescere la propria immagine».

Sono le regole della comunicazione?

«Ovviamente, i soldi si devolvono alle donne. Ormai, anche la donna fragile è un cliché esibizionista. Siamo nel post-femminismo dell’esibizione. Perché le donne devono combattere da sole e non insieme agli uomini? La donna fragile è un nuovo stadio dell’evoluzione della specie».

La notizia delle griffe scelte da Ferragni per l’Ariston è stata data al Tg1.

«Siamo in una fase di deragliamento che temo incontrollabile. O c’è un’intenzione precisa per non parlare dell’apocalisse che si avvicina, oppure la visibilità è diventata scientificamente il nuovo idolo e quindi è ancora più folle. Come in una commedia dell’assurdo di Ionesco».

Sempre al crocevia tra moda e spettacolo, che adesso si chiamano fashion e show, cosa pensa del fatto che per promuovere il nuovo disco i Måneskin hanno simulato un matrimonio?

«Io credo nel matrimonio assoluto, i giochetti non li apprezzo. Quando facevano i baffi alla Gioconda m’incazzavo. Adesso trovo irritante quella pubblicità con l’Ultima cena nella quale Gesù è una mezza femminuccia. Non accetto che una grande cultura sia spazzata via in un gioco di barzellette».

Ma nel rock si è sempre dissacrato…

«Certo, ma qui l’operazione è sottile. Prendiamo queste parole, glamour, fashion, show… Il problema non è che siano declinate in inglese, che è già grave, ma che il loro scintillio annulla la potenza del corpo, la sua realtà».

Lo scintillio sostituisce la carne?

«Esattamente, anche nella malattia o nella sanità. Sostituisce la corporeità in tutte le sue manifestazioni».

È il trionfo dell’immagine?

«Siamo oltre l’immagine, siamo alle ombre cinesi. L’immagine erano anche quelle degli anni Settanta, c’erano le icone… Questa è la frutta caricata di potassio, la carne chimica…».

La barzelletta compensa i limiti artistici?

«Questo non lo so, anche se non trovo grande musica. Lo dico da appassionato di Peter Gabriel, da uno che a 14 anni amava Jumpin’ Jack Flash, tutta la musica italiana anni Sessanta, e poi il travestitismo che però aveva sotto il corpo, dai Roxy Music a Lou Reed a David Bowie. La nudità di Iggy Pop era funzionale alla musica, il corpo era uno strumento, anzi, lo strumento principale».

Perché i Måneskin non si possono criticare?

«Perché sono il punto più alto della vendibilità, della vendibilità facile».

Quest’anno tornano a Sanremo per la terza volta, invece Achille Lauro sarà presente per il quinto anno di fila. È lui il volto identitario della manifestazione più importante della Rai?

«Alcuni suoi pezzi potevano pure piacermi… Il fatto è che si va per annate, ci sono pure Al Bano, Massimo Ranieri e il solito Gianni Morandi».

Questioni di audience e di target?

«Certo. I Måneskin e Achille Lauro sono la pseudo avanguardia, in realtà sono retroguardia perché la trasgressione c’è già stata negli anni Settanta. Poi ci sono i vecchi dromedari e la terra di mezzo. È una parcellizzazione in tante minoranze, come avviene per i diritti civili, dei gay, dei trans, delle donne… La parcellizzazione dei diritti sembra un’avanzata di civiltà, invece produce frammentazione in tante minoranze».

Che cosa indica il fatto che alle ultime sfilate Giorgio Armani ha scelto di tornare al classico facendo indossare i suoi capi a coppie composte da un uomo e una donna?

«È stato un gran signore. Il portabandiera di una nuova avanguardia che si oppone a questa deriva. Da stilista ha dato prova di stile. Anzi, di eleganza: c’è differenza… L’eleganza è naturale, lo stile si acquisisce con gli abiti e il portamento. I veri eleganti sono i bambini e gli animali, perché si muovono con grazia e libertà. Armani ha smesso i panni dello stilista e ha indossato quelli dell’uomo elegante».

Che cosa pensa del fatto che Volodymyr Zelensky sarà ospite in videocollegamento della serata finale del Festival?

«È un’idea pessima. Un una mossa da croupier del casinò. Una politicizzazione estrema».

La maggioranza degli italiani è contraria all’invio di armi all’Ucraina eppure si offre a Zelensky la vetrina di maggior ascolto della televisione italiana.

«Infatti, è un affronto alla democrazia. Un inedito. Qualcosa che sa di dittatura mediatica».

I Giganti cantavano: «Mettete dei fiori nei vostri cannoni», stavolta si mettono i cannoni tra i fiori di Sanremo.

«C’è bisogno della guerra tra le canzonette? La decomposizione dei corpi, l’assenza di incontro tra le persone, la vittoria delle ombre cinesi e la parcellizzazione dei diritti non sono già una guerra?».

 

La Verità, 28 gennaio 2023

 

«Processo all’Azov e Donbass chiavi della pace»

Ricalcolo. Come i navigatori quando si sbaglia strada, anche opinionisti e analisti di geopolitica sono costretti ad aggiornare il percorso. La mappa della guerra evolve inesausta e le cartografie con le sagome di carri armati e missili si arricchiscono ogni giorno di nuovi elementi. Di conseguenza pure il nostro scenario politico diventa scacchiere di fantasiose alleanze. Ne parliamo con Antonio Padellaro, giornalista politico di lungo corso, già al Corriere della Sera, L’Espresso, L’Unità, fondatore e direttore del Fatto quotidiano, spesso ospite di Piazzapulita su La7.

Quando sembra che si apra lo spiraglio per un dialogo subito ci si deve ricredere?

«Sicuramente sotto traccia persistono tentativi di negoziato per un cessate il fuoco, per aprire corridoi umanitari o marittimi al fine di sbloccare le forniture di grano. Ma per iniziare a parlare di pace a mio avviso servono due condizioni. La prima: che Vladimir Putin conquisti militarmente il Donbass entro il primo luglio. La seconda: il riconoscimento della denazificazione, con l’avvio del processo nel quale alcuni elementi del battaglione Azov confesseranno le loro colpe. Una volta che queste due condizioni si saranno realizzate, forse il signor Putin acconsentirà all’idea di cercare un accordo».

L’importanza per Putin del consolidamento del Donbass è evidente, perché è importante anche la vicenda del battaglione Azov?

«Perché dal processo, al quale potranno assistere gli osservatori occidentali, capiremo se il problema dei nazisti era una sua invenzione e se quelle milizie impedivano a Volodymyr Zelensky di trattare. L’impressione è che l’Ucraina non sia un monolite che combatte come un sol uomo per l’indipendenza, ma che convivano varie fazioni. Tolta di mezzo quella più intransigente, si può aprire qualche spiraglio. La resa del battaglione Azov serve a Putin, ma forse anche a Zelensky».

Le condizioni di Mosca andranno bene anche a Kiev e all’Occidente?

«Credo che vedremo due parti in commedia. Innanzitutto l’Europa, rappresentata da Francia, Germania, Italia e Spagna, non vedrà l’ora che l’Ucraina le accetti, malgrado sia stato aggredita. La seconda parte riguarda l’atteggiamento americano, che nessuno può prevedere. Biden potrebbe accodarsi alla posizione più morbida dell’Ue, oppure potrebbe spingere perché Zelensky vada avanti. Una buona merce di scambio potrebbe essere un ingresso veloce dell’Ucraina nell’Unione europea. Nel poker c’è un momento in cui tutti i giocatori dicono “parola”, e al giro successivo ognuno fa la propria puntata. Poi c’è un altro elemento che può avere un peso sui negoziati».

Quale?

«La ricostruzione dell’Ucraina è il più gigantesco affare internazionale dal dopoguerra a oggi. Quali Paesi saranno coinvolti e a che condizioni?».

Appena ipotizzato un colloquio tra Zelensky e Putin sono rispuntate le armi pesanti: quelle che invierà Joe Biden smentiscono l’idea della Nato alleanza difensiva?

«Mentre la Russia vuole chiudere la partita militare, la Nato, l’America e l’Ucraina tendono a rallentarla. Ora sembra che il pallino ce l’abbia in mano Putin. Questo nuovo invio di armi serve a evitare che realizzi il suo piano militare entro il primo luglio. Se così fosse, avrebbe meno forza per imporre le sue condizioni».

È ricomparsa anche Angela Merkel.

«Già, chi l’ha vista? Quello della Merkel è un mistero».

In che senso?

«In patria è accusata di aver favorito la stabilizzazione del regime putiniano, trasformando la Germania in un partner importante della Russia. Come l’Italia, la Germania dipende dal gas di Mosca. Al termine del suo mandato il cancelliere Gerhard Schroeder è entrato nel vertice di Gazprom. Sebbene la Merkel sia stata la migliore amica di Putin in Europa, quel genio di Matteo Renzi l’aveva proposta come mediatrice della crisi».

Con queste premesse, ora l’ex cancelliera denuncia l’aggressione della Russia.

«Senza togliere nulla al suo spessore politico, arriva con 100 giorni di ritardo».

Anche questa una fotografia degli impacci della diplomazia occidentale?

«L’esempio più clamoroso è il vertice del G7 di fine ottobre a Roma, quello delle monetine lanciate nella Fontana di Trevi. Nei documenti finali c’era un cenno molto generico alla situazione ucraina. Com’è stato possibile che nessuno tra i grandi della terra, che anche ora mentre si sparano addosso si telefonano con una certa frequenza, abbia ravvisato la gravità della situazione».

Cosa vuol dire?

«Osservo che tre mesi prima che scoppiasse l’ira di Dio un importante vertice tra i capi dei Paesi più importanti del pianeta non ha dato la sveglia. Se non è dolo, è colpa».

Rispetto ai primi giorni del conflitto è scemata la retorica sulla resistenza ucraina e si parla meno di esercito russo allo sbando?

«Dobbiamo stare ai racconti degli inviati dei giornali e delle televisioni, che però sono al seguito delle truppe ucraine o russe. È probabile che Putin pensasse di chiudere la partita in poco tempo. Ma da qui a dire che, essendo passati 100 giorni, ha perso la guerra, ne passa. Lo stesso discorso vale per Zelensky che oggi, forse a causa di ciò che avviene sul terreno militare, appare più morbido».

Come giudica il comportamento altalenante del presidente americano?

«Finora abbiamo visto tre Biden. Il primo è quello che offre a Zelensky un elicottero per mettersi in salvo e si sente rispondere che non gli servono passaggi, ma armi. Il secondo comincia a credere nella vittoria di Kiev e nella defenestrazione di Putin, salvo farsi correggere da fonti della Casa Bianca. Il terzo Biden forse ha capito che Zelensky non può vincere e si può frenare l’avanzata russa con armi più pesanti per cercare un compromesso più favorevole all’Ucraina».

I nostri media mainstream sono un po’ meno monolitici rispetto all’inizio del conflitto?

«Hanno meno certezze sulla vittoria dell’Ucraina e sul crollo del regime di Mosca. Nei nostri media pesa l’inquinamento del discorso pubblico avvenuto nelle prime settimane con l’accusa di filoputinismo a coloro che non sono subito saliti sul carro armato. Abbiamo visto le liste di proscrizione e la bullizzazione di chi si azzardava a porre domande. Il professor Alessandro Orsini descritto come quinta colonna della propaganda russa è una vergogna che parla da sola».

Introducendo l’etica nell’interpretazione bellica si è affermato il primato dei buoni?

«Il primo passo è stato equiparare Putin a Hitler. Fortunatamente il Papa ha detto che forse “la Nato ha abbaiato” ai confini della Russia. A lui non si può dire che è filoputiniano. Del resto, ha detto ciò che hanno provato a dire anche alcuni analisti americani, ovvero che alcune azioni della Nato hanno favorito la sensazione di accerchiamento del Cremlino. Questo non giustifica l’aggressione, ma smonta il paragone tra Putin e Hitler».

Come giudica l’azione del governo italiano?

«Come canta Lucio Battisti, andiamo a fari spenti nella notte. Verrà un momento di riflessione per valutare se è il caso di fermarci o di continuare ad armare Zelensky?».

Il 21 giugno in Parlamento?

«Ci auguriamo di capire di più. Dire che dev’essere Zelensky a stabilire quali debbano essere le condizioni della pace è un’arma a doppio taglio. È vero che l’Ucraina è uno Stato sovrano, ma è altrettanto vero che non possiamo essere a rimorchio di decisioni altrui. Dobbiamo definire una condotta e forse anche uno stop al sostegno militare, considerando le conseguenze economiche della guerra».

Salvini ha portato legna al fuoco del fronte bellicista?

«Non c’è dubbio. Impressiona che il segretario di un partito di governo avvii un’iniziativa diplomatica per incontrare ministri, politici e magari lo stesso Putin senza avvisare il premier. Lo stesso giudizio vale per il piano abbozzato da Luigi Di Maio: vuoi concordarlo con il governo di cui sei ministro degli Esteri? Questa improvvisazione toglie credibilità a un Paese che potrebbe avere un ruolo di mediazione».

Gli schieramenti attuali sull’Ucraina alimentano la suggestione di un governo Letta-Meloni.

«In tutta sincerità, mi sembra una barzelletta, un film di fantascienza. L’atlantismo di Enrico Letta e quello di Giorgia Meloni sono molto diversi. Mentre il Pd ha come riferimento Biden, Obama e i democratici americani, Fdi, proveniente dall’estrema destra, punta a trasformarsi in un partito conservatore e in grado di dare garanzie per governare l’Italia. Mi sembra lunare che il prossimo Parlamento, drasticamente ridotto in termini numerici, finisca per esprimere una maggioranza tanto stravagante. L’ipotesi più plausibile sarà un altro giro di valzer con Draghi e molti nuovi ballerini. Sarebbe sempre inquietante, ma meno incomprensibile».

Come giudica il fatto che anche la banca americana Goldman Sachs scongiuri un cambio di governo e un successo del centrodestra?

«È evidente che Draghi sia il garante del nostro gigantesco debito pubblico. E che sia il garante dell’applicazione del Pnrr, portato a casa da Giuseppe Conte, non dimentichiamolo. Tuttavia, Draghi appare un po’ logorato dalla gestione della pandemia e della guerra. Forse è il caso di chiederlo a lui se nella prossima legislatura vorrà restare a palazzo Chigi. Magari vorrà andare a fare il nonno o subentrare a Ursula von der Leyen o a Jens Stoltenberg, alla Nato. A quel punto chi garantirà i nostri soldi?».

Navighiamo nell’incertezza.

«Ci siamo abbastanza abituati. Ma senza fare le cassandre, qualche interrogativo in più sulle conseguenze economiche di questa guerra dovremmo porcelo. Sempre sperando che in autunno il Covid non torni a mordere. Crediamo nel ritorno alla normalità, pensiamo ai festeggiamenti delle nostre squadre e ai pullman scoperti per le strade di Milano e Roma…».

A proposito, visto il botta e risposta con Stefano Disegni, più facile una cena tra un laziale e un romanista o l’alleanza tra Letta e Meloni?

«Una cena tra un laziale e un romanista è possibile come lo sono stati gli incontri tra Letta e Meloni. Una fusione tra Roma e Lazio, quella è impossibile: ci sono i tifosi e gli elettori. Se, più che improbabile, Letta e Meloni riuscissero ad accordarsi, chi glielo racconta agli elettori di Fdi e del Pd?».

 

La Verità, 4 giugno 2022

«La probabilità di guerra nucleare supera il 50%»

Un eretico: si definisce così Nicola Piepoli. Sondaggista creativo, imprenditore dinamico, fondatore di ben due istituti di ricerche, il Cirm prima e, nel 2003, quello che porta il suo nome e tuttora presiede, Piepoli è soprattutto uno che custodisce le lezioni della storia. Dobbiamo parlare della guerra in Ucraina? Per prima cosa elenca i suoi maestri: «Il francese Gaston Bouthoul, l’inventore della polemologia; Franco Fornari, insigne psicologo e autore di Dissacrazione della guerra. Dal pacifismo alla scienza dei conflitti; Luigi Pagliarani, anche lui psicologo, convinto che l’unico modo per combattere la guerra è innamorarsi continuamente della vita».

Lei è innamorato?

«Io sono tra i pochi che ha un rifugio antiatomico».

Prego?

«L’ho comprato in Svizzera dove ho un appartamento di 64 metri quadrati dotato di rifugio antiatomico».

Pensa che le servirà?

«Potrebbe. La possibilità di una guerra nucleare è superiore al 50%».

Non una bella prospettiva.

«Tre giorni fa Vladimir Putin ha dichiarato che di fronte a sanzioni eccessive ricorrerà alle armi che possiede. Siamo in una guerra guerreggiata. Credo che a Mariupol si arrenderanno, ma questo paradossalmente rischierà di coalizzare ulteriormente i Paesi occidentali».

Perciò intravede la guerra nucleare?

«Non penso che Putin possa vincere con armi normali. La Russia ha una superficie doppia di quella degli Stati Uniti e un Pil come quello della Spagna, perciò non può combattere a lungo. Se non si vuole precipitare nella guerra nucleare è necessario diminuire l’aggressività del nemico, come dicevano Bouthoul e Fornari».

Come si fa?

«Studiamo la Guerra fredda. Ottobre 1962: John Fitzgerald Kennedy negozia con Nikita Kruscev il disarmo dei missili della Nato in Turchia e ottiene lo smantellamento di quelli sovietici a Cuba. Scoppia la pace, cioè la Guerra fredda. Successivamente vinta dall’America quando crolla il Muro di Berlino e l’Urss si scioglie».

Il nemico principale è la guerra o Putin?

«La guerra porta sempre distruzione. Perciò la vince chi non la fa. Tra il 1989 e il 1992 l’America ha vinto senza fare un morto. Perché la Russia rinasca servono quattro o cinque generazioni. Se Putin vuole anticipare la rivincita e l’Occidente lo vuole soffocare con le sanzioni, potrebbe ricorrere alle armi nucleari. Credo si debba lenire il suo orgoglio. Concedergli qualcosa, trattarlo da cristiano non da mostro».

La bomba atomica è fatta apposta per non essere usata?

«A dieci anni ho visto Hiroshima. I documenti fotografici di quella sciagura mi hanno terrorizzato per tutta la vita. La bomba atomica è fatta per non essere usata fino a quando non c’è qualcuno che osa usarla. Dipende dalla psicologia del capo che la detiene. E che magari si sente in pericolo».

È vero che in Italia cresce la preoccupazione per le conseguenze economiche del conflitto?

«Sì, ma resta marginale. Nella mente della gente c’è ancora la fine del Covid. Il sentimento prevalente assomiglia a quello del Dopoguerra. La gente vuole ricominciare a vivere, andare a cena, lavorare, viaggiare, pensare al futuro. La guerra in Ucraina è in secondo piano rispetto all’euforia di non avere il Covid e della fine delle restrizioni. Questo sentimento fa aumentare i consumi anche se l’inflazione ci frena».

Gli italiani sono egoisti perché poco interessati alle sorti della popolazione ucraina?

«La risposta è sì, ciascuno s’interessa di sé stesso. Adam Smith diceva che l’economia si basa sull’egoismo, non sull’altruismo. Il panettiere pensa ai suoi clienti non al futuro del Paese».

Il premier Mario Draghi ha posto l’alternativa pace o aria condizionata: quella espressione ha spostato il sentimento della popolazione riguardo alla guerra?

«No, della guerra all’Ucraina si interessano soprattutto i media».

E la gente?

«Se ne interessa meno perché è lontana».

Quella frase ha influito sulla popolarità del premier?

«È stata ininfluente. Draghi rimane attorno a un indice di 60, dietro Mattarella che è a 70. Nel febbraio 2021 anche Draghi era a 70, poi è sceso fino a 52 a maggio, risalendo oltre 60 a fine ottobre e fino a tutto gennaio 2022. Adesso si è assestato sul 60. Crollerebbe se ci facesse entrare in guerra».

Che consenso hanno le sanzioni alla Russia?

«Non ho rilevamenti. Dal mio punto di vista sono una stupidaggine perché danneggiano più noi della Russia».

Perché non abbiamo risorse alternative?

«Perché è un errore rompere rapporti internazionali che producono ricchezza. Inoltre, le sanzioni mostrano che noi vogliamo la guerra e hanno fatto imbufalire Putin, provocando il contrario dell’esito sperato».

Si percepiscono come un boomerang sulla nostra economia?

«La gente non pensa a questo, ma a godersi la vita. Claudio, il patrigno di Nerone, non è stato il più intelligente degli imperatori, ma durante il suo regno non si sono combattute guerre. Il simbolo del potere non è fare la guerra, ma non farla. Ai senatori Claudio disse che per avere il popolo devoto bisogna dare panem et circenses, cibo e giochi. La gente s’interessa dei successi dell’Inter o della Juventus. Noi organizziamo le Olimpiadi di Cortina».

È vero che decresce la preoccupazione per l’allargamento del conflitto? Se non è deflagrato in due mesi…

«Bisognerebbe studiare la mente di Putin. Nel 2014 quando ha preso manu militari la Crimea, molti prevedevano una rapido ritiro. Io ero sicuro del contrario perché l’avevo studiato. Putin ragiona in maniera paranoide».

Cioè?

«Vive la gente come nemici. Non è un merito né un demerito. Una mente paranoide ce l’ha il 25% degli italiani».

Nel 2014 Henry Kissinger scriveva che l’Ucraina appartiene all’anima russa e non può essere un avamposto dell’Occidente o di Mosca, ma dev’essere un ponte tra loro.

«Ragionando psicanaliticamente, bisogna evitare di toccare le corde che provocano una guerra. L’ideale è che Russia e Ucraina si combattano tra loro e gli altri stiano a guardare. Eviterei l’ampliamento e il nostro coinvolgimento nel conflitto».

Da chi dipende l’ampliamento in atto?

«Dalla Russia e dall’America. Joe Biden è un creatore di guerra, parla creando il nemico non l’amico. Da eretico dico che Donald Trump mostra di capire di più di polemologia. Lodare il nemico diminuisce la conflittualità, fa calare l’animus».

Il minor timore del peggioramento della guerra è suffragato anche dal contrasto all’invio delle armi all’Ucraina?

«Sono cose diverse. Gli italiani sono pacifisti, lo erano anche nel 1914 e nel 1940. E lo sono anche adesso, abbiamo il Papa tra noi. E il Papa influenza».

Anche se non è molto seguito?

«Io non sono un’anima religiosa, un cattolico praticante, sebbene sia battezzato e mi sia sposato in chiesa. Eppure, ieri mattina sono andato in chiesa a pregare Dio che ci aiuti in questo momento particolare».

Che cosa pensano gli italiani delle alleanze internazionali?

«La maggioranza non se ne interessa, viviamo nel nostro Paese. Se chiede alle persone per strada la storia della Russia molte si domandano dov’è. Quanti hanno letto Guerra e pace? Forse duecentomila persone, compresi gli studenti che lo leggono per forza».

Gli italiani sono pacifisti, ma i media non rispecchiano questa tendenza. Com’è la fiducia nel sistema dell’informazione?

«È sempre la stessa. La gente segue distrattamente l’informazione politica».

Il distacco tra popolazione ed élite è in aumento o in calo?

«È lo stesso che c’era già nel 1914 e nel 1939. In un saggio intitolato L’opinione degli italiani al tempo del fascismo la storica Simona Colarizi ha rivelato che Mussolini aveva creato un ufficio statistico servendosi di 84 responsabili, uno per provincia, che dovevano informare quotidianamente Palazzo Venezia sul sentimento dell’opinione pubblica. Da questa ricerca risulta che nel 1938-’39 gli italiani erano contrari alla guerra. Divennero favorevoli solo per un breve periodo quando sembrava fosse facile vincerla, in concomitanza della presa di Parigi da parte dei nazisti. Poi tornarono pacifisti».

Perché la serie tv con Volodymyr Zelensky nella parte di un professore che diventa presidente trasmessa da La7 in Italia è stata un flop e altrove un successo?

«Perché sono più saggi i telespettatori italiani di quelli degli altri Paesi. Non può essere capo di Stato uno che è stato un personaggio televisivo. Il diritto internazionale dice che un capo dello Stato è responsabile delle morti nel suo territorio. Ovviamente, lo stesso vale anche per Putin. Sa qual è la verità?».

Me la dica lei.

«Sia Putin che Zelensky sono due criminali di guerra perché hanno violato il diritto internazionale e fatto uccidere i loro sudditi. Ne dovranno rispondere, come accadde a Norimberga per i gerarchi nazisti. Hitler si sottrasse al processo suicidandosi. Il diritto vale anche in guerra: né Putin né Zelensky l’hanno dichiarata».

Putin non l’ha fatto perché l’invasione dell’Ucraina è la prosecuzione della guerra civile nel Donbass?

«Ed è un altro dei motivi per cui non sono ottimista».

L’Occidente ha la tendenza a colpevolizzarsi: in questa vicenda è innocente?

«George Bush senior ha violato i patti. Dopo la caduta del Muro aveva promesso a Michail Gorbaciov che non gli avrebbe creato grane in quella zona. Invece, sono entrati un minuto dopo».

Dissolta l’Urss e sciolto il Patto di Varsavia bisognava sciogliere anche la Nato?

«Oppure invitare la Russia e i Paesi dell’ex Urss a entrare nella Nato? Con un presidente come Trump una guerra come questa non sarebbe deflagrata».

Invece si vuole ancora esportare la democrazia.

«Questo è il modo in cui la vendiamo. Che cosa se ne faccia la Cina confuciana della democrazia mi riesce difficile capire. Credo si dovrebbero imparare ad accettare le rispettive diversità».

Dopo i missili su Kiev durante la visita del segretario dell’Onu Antonio Guterres gli spazi per la trattativa si sono ulteriormente ridotti.

«Si parla di de-escalation, ma accade il contrario. Putin e Biden agiscono per alimentare la guerra non per fermarla».

Ormai è uno scontro tra super potenze sulla pelle degli Ucraini.

«Al quale collabora Zelensky, sacrificando il suo popolo. Ai vicini di casa di un leader paranoide è consigliata prudenza. Henri Guisan era il comandante dell’esercito svizzero durante la Seconda guerra mondiale. La Svizzera: tra Germania, Italia e Francia. Gli hanno eretto un monumento equestre in bronzo con questa dedica: il generale che non ha mai combattuto. Una statua così non l’avranno né Zelensky né Putin».

 

La Verità, 30 aprile 2022

«Pd indifferente ai poveri, meglio la destra»

Buongiorno Michele Santoro: le stanno facendo pagare di aver detto che la guerra è un nemico più mostruoso di Vladimir Putin?

«Mi sembra evidente che il nemico più grande sia la guerra. Una guerra che potrebbe essere nucleare e mettere in discussione l’esistenza della nostra specie».

Le fanno pagare di non demonizzare abbastanza Putin?

«Pago già un’emarginazione che non è cominciata con questa guerra. Mi sono battuto contro l’editto bulgaro di Silvio Berlusconi, ho raccolto voti per chi si dichiarava diverso da lui. Ma che alla prova dei fatti non lo è affatto».

Questa guerra finirà solo con la destituzione di Putin?

«Siamo di fronte al congelamento delle posizioni. L’ipotesi più sciagurata per l’Europa è l’allungarsi del conflitto. Ai morti e ai massacri si aggiungerà la situazione tragica dei profughi e di tutti coloro che già stanno sopportando le conseguenze della pandemia. Il numero dei poveri aumenterà enormemente».

Il vicesegretario della Nato Mircea Geoana ha teorizzato che più si arma l’Ucraina prima finisce la guerra.

«La traduzione pratica di questo linguaggio è il ricorso a sistemi sofisticati di contraerea e all’uso di missili a medio raggio. Quale sarebbe la risposta di Putin? Armi nucleari tattiche? Nessuno ricorda come iniziano le guerre che finiscono male».

Per esempio?

«Il bombardamento dell’Afghanistan giustificato dalla mancata consegna di Bin Laden, ucciso anni dopo in Pakistan. La guerra è continuata per altri undici anni e si è conclusa con una rovinosa ritirata. Oppure l’invasione dell’Iraq giustificata dalla presenza delle inesistenti armi chimiche che ha portato all’Isis e a milioni di morti».

Questi fatti giustificano l’azione di Putin?

«Ne creano le premesse. Putin chiede: perché gli americani possono perseguire unilateralmente i propri interessi strategici e io non posso perseguire quelli russi? La Nato non c’entra? Ma se i militari ucraini vengono addestrati in America vuol dire che l’Ucraina già si comporta come un paese della Nato».

Ha torto Biden quando dice che siccome Putin non vuole trattare, l’unica possibilità per riportare la pace è schiacciarlo militarmente?

«I fatti lo smentiscono. Le rivelazioni del Wall Street Journal sul tentativo del cancelliere tedesco Olaf Scholz dimostrano che chi non ha voluto trattare è Volodymyr Zelensky».

L’Europa e l’Italia hanno interesse a seguire l’America in questa strategia?

«Secondo me non ha interesse nemmeno l’America. È una strategia che si è dimostrata fallimentare in Iraq Afghanistan, Libia. Oggi Biden vuole creare un muro tra Europa e Russia. Ma questo spinge Putin in braccio alla Cina, creando un blocco asiatico in grado d’influire in maniera decisiva sul dollaro».

E l’Europa e l’Italia?

«L’economia europea sarà la più penalizzata. Quanti profughi e disoccupati avremo? Per me è grave che la destra appaia più sensibile alle condizioni degli strati disagiati. Cosa ci dice il voto in Ungheria e in Serbia? Non vince l’indignazione nei confronti di Putin. Perché Marine Le Pen recupera su Macron. Questi politici non sono certo nelle mie simpatie, ma si mostrano più preoccupati per le sorti dei più deboli. In Italia il Pd è totalmente indifferente alle conseguenze della guerra sui ceti più poveri. Mentre devo sentire Giorgia Meloni dire una cosa ovvia: chiudere il gas per noi è un suicidio».

Perché Mario Draghi è il più zelante nel seguire Biden?

«Temo che la mancata elezione al Quirinale l’abbia trasformato in un’anatra zoppa. Lo stesso governo è un’anatra zoppa. Prima non si poteva aprire una crisi per la pandemia ora per la guerra. Il governo sopravvive e basta. Draghi è l’alfiere della linea dell’<intervento armato umanitario>. Zero iniziativa».

Cosa pensa dell’alternativa pace o aria condizionata?

«La guerra la stanno facendo con i missili non con i condizionatori».

Forse ritiene risolutive le sanzioni.

«Allora perché ha approvato l’invio di armi, decisione che, per conto mio, offende la Costituzione. Dovremmo inviare armi a tutti i popoli aggrediti, come fa intendere Giuliano Amato?».

Il fatto che tutti i sondaggi diano una maggioranza contraria all’aumento delle spese militari avrebbe meritato più attenzione?

«Da 15 anni non abbiamo un governo espressione del voto popolare e meno della metà degli aventi diritto va alle urne. Questa democrazia che difendiamo anche con le armi non mi pare scoppi di salute».

Perché Letta e Draghi sembrano gareggiare in allineamento alle volontà americane? C’è qualche poltrona da conquistare?

«Credo che non riescano a concepire un pensiero diverso. Per Letta è più grave perché è un leader di un partito».

Il Pd ha il pensiero dei Dem americani.

«Biden e Letta si assomigliano, ma nel Pd non ci sono Ocasio-Cortez o Bernie Sanders».

I massacri di Bucha sono il punto di svolta della guerra: prima si parlava di negoziato ora c’è spazio solo per le armi?

«Quella strage, sulla quale restano molti dubbi, porta a concludere che con Putin che fa queste cose non si può trattare. Gli stupri, il missile per i bambini. Tutto viene narrato per arrivare a questa conclusione».

Non l’hanno convinta le intercettazioni dei servizi segreti tedeschi che svelano i dialoghi tra i militari russi che giustiziano i civili?

«Le intercettazioni e i morti sono veri. Metto in discussione la connessione tra gli elementi, trasformati in una comunicazione organica per trasformare tutto in uno scontro tra cattivissimi e buonissimi».

Per esempio?

«Chiamare fossa comune quella buca con i cadaveri davanti alla chiesa. Le fosse comuni servono ad occultare cadaveri giustiziati, non adagiati in attesa di essere sepolti. Si mostrano i corpi sulla strada, ma non si capisce quando e dove siano stati giustiziati. Poi si mostra una camera di tortura… Il video dell’ingresso a Bucha della milizia ucraina non mostra né la fossa comune né i morti per strada. Siccome i morti dovevano essere per forza visibili, qualcuno dovrebbe spiegare perché non sono stati mostrati subito».

Il sindaco di Bucha a Piazzapulita ha detto che i cadaveri erano in un’altra zona.

«Nel filmato con la milizia ucraina si vedono levarsi i droni. E i droni li avrebbero visti. E secondo me li hanno visti, ma hanno preferito tenerli al riparo per confezionare adeguatamente il racconto. Detto questo, i morti sono veri. C’è un altro fatto».

Cioè?

«Esiste una guerra civile tra russofili e ucraini. Una guerra combattuta non dagli eserciti regolari, ma da civili e bande avvezze a rappresaglie, torture, vendette di tutti i tipi, com’è sempre nelle guerre civili».

Questa è una guerra dominata dalla propaganda?

«Sicuramente. II linguaggio degli ucraini è molto efficace per gli occidentali, meno per la Cina o l’India. Come per l’esercito, i consulenti americani funzionano bene anche per la comunicazione».

Stiamo camminando su un piano inclinato? Come spiega la voglia di guerra dei nostri media?

«Il conformismo si era già steso ovunque con la pandemia. Perciò i nostri media erano già pronti… Se si deve arrivare a Mosca è necessaria un’escalation della comunicazione».

Ora si calcano i toni apocalittici e si parla di genocidio, forni crematori, stupri di bambini…

«Si usano termini che possono tradurre l’equazione tra Putin e Hitler, sovrapporre le due immagini. Ma mentre Hitler aveva la volontà di annientare gli ebrei, non credo che Putin voglia sterminare gli ucraini».

Letta ha risposto al suo invito di pronunciarsi per il diritto di Alessandro Orsini a partecipare ai programmi Rai?

«No».

Il professor Orsini a Cartabianca censurato da Andrea Romano e Valeria Fedeli, l’eurodeputata Francesca Donato zittita da Paola Picierno: oltre che della guerra il Pd è diventato il partito dell’intolleranza?

«Il Pd per nascondere il vuoto politico in cui si trova si rifugia nell’indignazione facile. Ma dimentica i 20 milioni di russi morti per combattere Hitler».

L’unica voce che prova ad affermare una visione diversa è papa Francesco?

«Mi ha colpito che a Fabio Fazio che gli chiedeva delle conseguenze della guerra sui bambini il Papa ha risposto che più che dei bambini dobbiamo parlare della guerra. Certo, muoiono i bambini, muoiono i civili. Non trascuriamo la sofferenza enorme di vedere questi morti. Però può essere fuorviante parlare dei bambini e delle morti piuttosto che del sacrilegio della guerra. Appena si palesa la possibilità di un accordo si torna a parlare delle atrocità dei bambini e non di come fermare la guerra».

Francesco ha detto che prevale lo schema della guerra sullo schema della pace.

«Bisogna che l’Unione europea si comporti diversamente dagli Stati Uniti e costringa Biden a cercare l’accordo. Perché fin quando non lo cercherà Biden la guerra continuerà».

Un’altra accusa è ai neutralisti. Come sostituire alla prospettiva Zelensky o Putin quella guerra o pace?

«Innanzitutto, non sono neutrale. Condanno l’invasione di Putin di uno stato sovrano. Sto decisamente dalla parte dell’Ucraina. Quelli che s’indignano nei dibattiti ci facciano capire quale obiettivo perseguono. Vogliono arrivare a Mosca e rendere la Russia un Paese simile all’Italia? Non avvertono il peso dei morti, non vogliono la fine del massacro? Vogliono che si concluda con un <lieto fine democratico>. Fra quanti mesi, quanti anni, quanti morti?».

Siamo sempre all’esportazione della democrazia?

«Se la esportiamo con la forza dell’esempio mi va benissimo. Se la vogliamo imporre con le bombe o con una possibile distruzione del mondo, mi va meno bene».

In questa situazione la priorità della pace rischia di aggiornare uno slogan storico: meglio russi che morti?

«L’idea che Putin possa invadere la Polonia è una favoletta buona per giustificare l’equazione con Hitler. I cosacchi non si abbevereranno alla fontana di San Pietro; ma se fosse possibile vorrei evitarmi anche le distruzioni e le radiazioni nucleari». 

 

 La Verità, 9 aprile 2022

Zelensky, gioco di specchi tra fiction e realtà

Detto francamente, non credo che, senza tutto ciò che sta accadendo in Ucraina, avrei guardato Servitore del popolo, la serie che racconta l’involontaria elezione a presidente di un professore di storia imbranato, ma dotato di un istintivo spirito anticasta. Com’è noto è la storia di Volodymyr Zelensky, narrata in tre stagioni trasmesse dal 2015 a 1+1, la rete del magnate nonché suo sponsor elettorale, Ihor Kolomoisky. Quello che nella sit com si è raccontato quasi per gioco si è totalmente avverato. Rimasto a lungo in sonno su Netflix, dall’inizio dell’invasione russa Servitore del popolo è diventato un prodotto premium per i media vaccinati ai dubbi pacifisti così che, da lunedì, La7 ce lo propone in prima serata, confezionato con l’introduzione di Andrea Purgatori e il commento entusiasta di Paolo Mieli («film storico»). Per i telespettatori comuni, forse quelli in prevalenza contrari all’aumento delle spese militari nei sondaggi, la fiction-che-non-lo-è-più risulta invece meno seduttiva: lo share è del 3,4%, per 820.000 spettatori medi.

Il video di uno studente mentre sclera parlando di corruzione e di elettori rassegnati a votare il meno peggio divenuto virale su YouTube proietta l’anonimo professore di liceo Vasiliy Petrovic Goloborodko in un gioco più grande di lui nel quale ci pensa il primo ministro a teleguidarlo. Prima maltrattato e vessato da famigliari e colleghi ora la sua esistenza è una passeggiata soave tanto che la banca gli estingue il mutuo senza che batta ciglio. Mentre la storia sovrappone scolasticamente il professore e il presidente e il boom politico del comico ci rammenta Beppe Grillo, alcuni analisti azzardano il paragone con Ronald Reagan. In realtà, il fatto che Zelensky abbia interpretato in anticipo il suo futuro e tratto ispirazione dallo show per diventare ciò che è oggi è tutt’altro che secondario. Come non lo è il fatto che il partito con il quale si candidò nel 2019 si chiamava come la serie, e che chi l’ha scritta, con lui e sua moglie, Olena Zelenska, sia tuttora tra i suoi collaboratori e ghostwriter. Parlando di tv e politica, non è la tragedia causata dall’aggressione di Vladimir Putin a rendere significativa la visione della sit com. Quanto il gioco di specchi e l’identificazione tra fiction, realtà e politica che contiene. Come in un vecchio capitolo di Black mirror. Quanto alla tragedia dell’invasione, con le sue conseguenze di dolore e morte, sarebbe rimasta identica anche se il presidente ucraino fosse stato un politico di professione o un uomo della casta.

 

La Verità, 6 aprile 2022

«Il Papa boccia il riarmo non il diritto alla difesa»

Monsignor Massimo Camisasca è tornato a vivere in riva al lago Maggiore. Avendo compiuto 75 anni lo scorso novembre, ora è vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla, l’ultima diocesi da lui presieduta. «Sto organizzandomi una nuova vita», rivela fiducioso. Autore di numerosi saggi di materia religiosa e non solo, monsignor Camisasca è superiore generale oltre che fondatore della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo. Ha accettato di rispondere alle domande della Verità sulla possibilità di un negoziato della Santa Sede nella crisi in atto e sull’atto di consacrazione della Russia e dell’Ucraina al Cuore immacolato di Maria pronunciato ieri in San Pietro da papa Francesco.

Eccellenza, con che occhi dobbiamo guardare a questa azione del Santo Padre?

«Con gli occhi realistici di chi sa che la guerra trova la sua origine nel cuore degli uomini, talvolta anche di un uomo solo, e che Dio soltanto può convertire i cuori. La storia umana non è costruita da puri determinismi, è un intreccio di libertà. La preghiera mira ad ottenere che la libertà dell’uomo si indirizzi verso il bene e non verso il male».

Da che cosa nasce precisamente questo atto di papa Francesco?

«Dalla percezione che il mondo sta correndo un gravissimo rischio. Che migliaia di persone stanno morendo, che decine di migliaia stanno cercando fuori del loro paese il futuro. Gli occhi disperati delle madri, i volti terrorizzati dei bambini rimarranno come l’icona di questi giorni spaventosi».

Quali sono a suo avviso i passaggi fondamentali della consacrazione pronunciata da papa Francesco?

«Il Papa sa che i popoli russo ed ucraino riconoscono in Maria la Madre di Dio e la loro madre. Perciò si rivolge a Maria per dirle: “Questi popoli sono consacrati a Te, sono tuoi, difendili, aiutali, sorreggili, fa che si incontrino nella pace del tuo volto”. Nello stesso tempo si rivolge alle singole persone, soprattutto ai capi dei popoli e, in questo caso, agli aggressori perché si rendano conto del male che stanno compiendo, della responsabilità che portano di fronte alla storia, delle onde concentriche di distruzione che la guerra comporta».

Come va letto il fatto che il Papa abbia fatto riferimento esplicito alla «minaccia nucleare»?

«La minaccia nucleare è sempre un’opzione possibile e naturalmente terribile perché probabilmente comporterebbe una distruzione di gran parte della terra. Bisogna dire anche che la stessa minaccia costituisce forse il deterrente più serio di fronte al suo uso».

In che modo il fatto che questa consacrazione sia avvenuta contemporaneamente in San Pietro e a Fatima con il cardinale Konrad Krajewski la mette in relazione ai segreti affidati alle apparizioni di oltre un secolo fa?

«Più che ai segreti penserei all’evento stesso di Fatima, alle distruzioni provocate dalla Prima guerra mondiale, alle lotte tra popoli cristiani, alla dissoluzione dell’Europa che la guerra portò con sé, alla finta pacificazione, prodromo della Seconda guerra mondiale. La Madonna interviene nei campi di guerra. Questo mi sembra il collegamento storico tra Fatima e Kiev. Anche allora la Madonna chiese preghiere e digiuno, come ha continuato a chiedere in questi anni Duemila anche dalla martoriata Bosnia, da Medjugorje».

Come dobbiamo considerare il fatto che in questa occasione anche Benedetto XVI, papa emerito, si è unito in preghiera a papa Francesco?

«Benedetto XVI è, soprattutto in questi ultimi anni, una figura orante. Assieme al Papa supplica Dio come Mosè sul monte».

È significativo il fatto che lo sguardo di Francesco dalla Russia e l’Ucraina si allarghi a «tutti i popoli falcidiati dalla guerra, dalla fame, dall’ingiustizia e dalla miseria»?

«Il mondo contemporaneo conosce un numero significativo di guerre locali, più o meno grandi, quelle che papa Francesco ha chiamato “la terza guerra mondiale a pezzi”. La fine del bipolarismo ha accentuato il sorgere di questi conflitti, per lo più dimenticati. Francesco, come i suoi predecessori, continua a metterci davanti questa mappa del dolore affinché abbiamo a sentire l’urgenza del cambiamento».

Parlando di cambiamento, l’ultima invocazione è una preghiera che invita i cristiani a essere «artigiani della comunione» e a individuare «i sentieri della pace»?

«La ragione per cui esiste la Chiesa, Corpo di Cristo fatto di peccatori e perciò segnata da mille macchie di infedeltà, divisioni e colpe dei suoi membri, è di portare nel mondo la comunione che Cristo ha definitivamente inaugurato con la sua morte e resurrezione. Il cristiano è artigiano della comunione vivendo la vita della Chiesa e chiamando a essa gli uomini che possono trovare nell’abbraccio di Cristo il fondamento e la forza di una fraternità ritrovata».

In altre occasioni la consacrazione al cuore immacolato di Maria aveva riguardato solo la Russia.

«Suor Lucia aveva trasmesso ai papi questa richiesta insistente della Madonna: consacrare la Russia al Cuore Immacolato di Maria. Questa consacrazione è avvenuta più volte da Pio XII ad oggi, con maggiore o minore esplicitezza. Oggi non c’è più nessuna ragione per cui il nome della Russia non possa essere accostato a quello di Maria».

Dicendo che la spesa per le armi «è scandalosa», papa Francesco ha corretto il segretario di Stato Pietro Parolin?

«Non penso proprio. Come ha rivelato Zelensky il Papa sa che accanto a mille guerre ingiuste vi può essere il diritto di difesa. Il mercato delle armi, incrementato dopo la fine del bipolarismo, è una delle cause principali delle guerre. Altra cosa è fornire un aiuto, anche militare, a chi sta combattendo un’occupazione del proprio territorio nazionale».

L’altro giorno, parlando a braccio, Francesco ha detto di essersi «vergognato» quando ha letto che un «gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2% del Pil nell’acquisto di armi come risposta a quello che sta succedendo… Pazzi». A qualcuno nel nostro governo saranno fischiate le orecchie: è indispensabile questo aumento di spese militari?

«Penso che il Papa sia preoccupato di una possibile corsa al riarmo, di una escalation che porti da una e dall’altra parte a tempi lontani quando ci si confrontava tra Unione Sovietica e Nato e con fatica si arrivò poi a degli accordi sul disarmo. Certo, una potenza che ha occupato ingiustamente la mia terra esige una difesa da parte mia. Occorre bilanciare il diritto alla difesa con una diplomazia saggia che sappia lavorare per evitare le guerre».

Perché secondo lei oltre alla condanna della guerra «ripugnante» e la denuncia della spesa in armi che «non è un gesto neutrale», Francesco non ha pronunciato una condanna esplicita dell’azione di Vladimir Putin?

«Un’autorità mondiale come il Papa deve essere attenta a ciò che dice. La sua condanna dell’aggressione russa è inequivocabile. Nello stesso tempo, deve sempre salvare la possibilità di un negoziato. La Santa Sede rimane oggi tra le poche istituzioni in grado di essere protagoniste in una trattativa di pace».

Che ruolo possono avere i capi delle diverse confessioni religiose?

«La più importante confessione religiosa di Russia e Ucraina è quella ortodossa. Le sue divisioni interne rendono ininfluente la sua possibilità di mediazione».

Alcuni osservatori ritengono che l’aggressione della Russia vada compresa all’interno di un attacco al mondo occidentale. Va interpretata così l’omelia di qualche giorno fa del primate ortodosso Kirill?

«Non so se l’aggressione di Putin riguardi il mondo occidentale. Penso che egli sappia benissimo che dal punto di vista militare la Russia non può competere con l’Occidente. Per conoscere con esattezza le ragioni dell’aggressione bisognerebbe poter entrare nella mente di Putin. Penso che in lui vi siano una serie di paure: l’adesione dell’Ucraina alla Nato, più ancora la democrazia che stava nascendo a Kiev, l’adesione all’Unione Europea… L’Europa ha avuto interlocutori interessati verso Putin, ma non interlocutori sufficientemente intelligenti per capire le sue intenzioni ed eventualmente aiutare le autorità europee nelle decisioni da prendere. L’Europa ha tenuto il piede in due scarpe, ottenendo questi risultati spaventosi. Al di là di tutte queste ipotesi, ora c’è un obiettivo chiaro: sconfiggere l’aggressore e ripensare la politica estera commerciale energetica dell’intera Europa. Non dobbiamo mettere la Russia in un angolo. Oltre che impossibile, sarebbe una scelta politica cieca. La Russia va lentamente recuperata all’Europa affinché non abbia soltanto la Cina come alleato».

Ha ascoltato l’intervento del presidente Volodymyr Zelensky al Parlamento italiano?

«L’ho letto. Dalla serie di interventi che il presidente ucraino ha tenuto in questi giorni nei parlamenti di tanti Paesi di tutto il mondo emerge una statura morale e politica non comune, che suscita la mia ammirazione e mi fa pensare al coraggio e alla cultura di tutto quel popolo».

In questi giorni si sono riuniti a Bruxelles i capi di Stato occidentali. Dal suo punto di vista, ritiene che l’Europa dovrebbe ritagliarsi una maggiore autonomia rispetto agli Stati Uniti in difesa della propria storia e della propria convivenza pacifica?

«La debolezza dell’Europa sta nella rinuncia, tacitamente o esplicitamente affermata, alla propria storia, ai propri valori religiosi e morali a favore di una tecnocrazia mondiale in cui i diritti dell’individuo diventano la radice del suo isolamento e della sua nudità davanti al potere».

Il Papa dovrebbe considerare l’invito che proviene da più parti, in particolare dal presidente ucraino Zelensky, a recarsi a Kiev per compiere un gesto concreto di pace? Si pensa a quali rischi si esporrebbe?

«Papa Giovanni Paolo II voleva andare a Sarajevo. Sono stato testimone diretto, in un pranzo, di questa sua intenzione. Ne fu sconsigliato e infine impedito per ragioni di sicurezza. Se fossi papa Francesco prenderei in seria considerazione questo invito».

 

La Verità, 26 marzo 2022