Ammaniti, il regista che smentisce la sua serie

Se è vero che Niccolò Ammaniti ha detto che quello della Madonna di Civitavecchia «era sangue di pollo, era tutto falso», c’è un altro motivo per suggerire a registi e scrittori di calibrare le dichiarazioni lasciando che a parlare siano le loro opere. È difficile infatti decodificare l’esternazione del creatore de Il Miracolo, la serie di Sky in parte ispirata ai fatti di Civitavecchia e giustamente acclamata da critica e pubblico, oltre che premiata al festival «Séries Mania» di Lille. Dopo la querela al regista per le sue asserzioni diffamatorie da parte di Fabio Gregori, protagonista del fatto nel 1995, sulla vicenda di Civitavecchia si pronunceranno i tribunali. Ci sarà da attendere; come si attende ancora un pronunciamento ufficiale della Chiesa, sebbene l’allora papa Giovanni Paolo II si recò a venerare la statua della Vergine.

Nel frattempo, qualcosa non torna. Malgrado Wildside, produttrice della serie, abbia assicurato che «non c’è mai stata volontà di mancare di rispetto nei confronti della religione e dei credenti», vien da chiedersi se l’autore della dichiarazione di falsità sia la stessa persona che ha creato, voluto e diretto la serie che su quel pianto ematico ha costruito una complessa trama di sette ore (in attesa della seconda stagione). Perché, di primo acchito, le parole sembrano smentire le opere. Nei giorni scorsi Sky Atlantic ha trasmesso il finale delle parabole dei protagonisti, le cui esistenze sono state sconvolte dalla Madonnina piangente. La forza del racconto si è confermata nell’epilogo un filo pasticciato da troppi finali, forse inevitabili per comporre la storia dell’ambiguo premier (Guido Caprino), in difficoltà a reggere l’evoluzione della campagna referendaria per l’uscita dall’Europa, gli urti di una moglie volubile (Elena Lietti) e l’obbligo(?) di mantenere il segreto sul presunto miracolo; la vicenda di don Marcello (un notevole Tommaso Ragno) alle prese con crisi vocazionale e incontrollabili perversioni; il percorso della biologa interpretata da Alba Rohrwacher, che incarna al meglio il bisogno di credere dell’uomo contemporaneo; il ruolo del generale Votta (Sergio Albelli), il più «normale» della compagnia, e la figura di Clelia (Lorenza Indovina), amante in gioventù di Marcello. Con tante storie che mostrano un’umanità dolente e mendicante un significato, era inevitabile che il finale fosse farcito di troppi colpi di scena. Peraltro salvati da un’estetica che, fin dalla malinconica sigla iniziale (Il mondo di Jimmy Fontana), riesce a trasformare in thriller un (presunto) evento soprannaturale.

La Verità, 2 giugno 2018