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Gli esperti: macché patriarcato. Inascoltati

Stavolta il mantra «ce lo dice la scienza» non vale. Sembrava un dogma, tassativo e inconfutabile, avendoci accompagnato nelle ultime campagne comportamentali, nelle recenti ubriacature collettive, dalla pandemia al riscaldamento globale. Del resto, la scienza, medica o ecologica che sia, ha il compito di «supportare» il magistero del momento, si tratti della vaccinazione e delle restrizioni planetarie, dell’invasione buona delle auto elettriche o di «efficientare» le abitazioni. E invece no. Per la violenza contro le donne e i femminicidi il dogma si è sgretolato. Eppure, c’era da abbattere il patriarcato e con esso la famiglia tradizionale, composta da un padre e da una madre. Retaggi medievali incrollabili. Totem delle destre di tutte le latitudini. E dunque l’arsenale andava schierato al completo. Invece, tocca registrare la defezione dei competenti, gli esperti della materia, non solo restii ad allinearsi, ma fautori di un’interpretazione alternativa: le ragioni della violenza di genere risiedono nella solitudine, nel disagio giovanile, o adulto che sia, spesso intriso di narcisismo patologico. Torre di controllo, abbiamo un problema: che si fa? Niente; se psicanalisti, psicologi e psicoterapeuti smentiscono la narrazione preordinata, si fa finta di niente e si avanza imperterriti.

Da quando si scandagliano i fondali socio-psicologici dell’atroce assassinio della povera Giulia Cecchettin, i competenti della materia si esprimono a una sola voce: «Il patriarcato non c’entra». Proprio questo era il titolo dell’intervento di Massimo Ammaniti, uno dei maggiori psicoanalisti italiani, ospitato venerdì con qualche imbarazzo da Repubblica. Le violenze e le sopraffazioni maschili «non nascono oggi dal potere patriarcale, che le usava per legittimare la sua supremazia», scrive nascosto nelle pagine interne Ammaniti, «originano piuttosto dalla debolezza e dalla fragilità degli uomini, che sentendosi impotenti e impauriti per essere sopravanzati affettivamente e socialmente dalle donne, reagiscono con rabbia e odio». Stessa sorte capita due giorni dopo al più cool degli psicanalisti, Massimo Recalcati che alla giornalista di Repubblica che gli chiede se il crimine di Filippo Turetta sia «retaggio del patriarcato» o se sia più corretto parlare di «ferita narcisistica», risponde: «Il mito del nostro tempo è quello del successo individuale. Si tratta di un nuovo imperativo che rende impossibile l’esperienza del fallimento. Subire il rifiuto di una ragazza significa riconoscere i propri limiti (…) Per questo a volte il ricorso alla violenza sostituisce la dolorosa constatazione della propria insufficienza». Concetti chiari, quelli espressi da «uno dei più lucidi e autorevoli indagatori dell’animo umano», come recita la presentazione della collana di opere che il quotidiano sta testé pubblicando, ma che forse avrebbero cromaticamente stonato sotto l’«Onda fucsia», il titolo d’apertura del giornale che illustrava la manifestazione anti-patriarcato di sabato. Bel paradosso per un luminare, la scarsa visibilità. Non l’unico, nelle interpretazioni che si dibattono su questa tragica vicenda. Basta citare quello «nordico», così chiamato dal rapporto dell’Onu che non si capacita di come «nonostante siano leader mondiali in termini di uguaglianza di genere», i Paesi del Nord Europa presentano «tassi di violenza da partner intimo contro le donne sostanzialmente più alti della media Ue». Impossibile rassegnarsi, per le vestali turbofemministe di casa nostra. Impossibile accettare anche lo scenario prospettato dal filosofo Massimo Cacciari sulla Stampa: «La famiglia patriarcale è già defunta con la famiglia borghese, dove proprio la “patriarcalità” si sfascia in mille forme di incomunicabilità».

Tornando nell’alveo della psicologia, la materia che aiuta a riconoscere il pericolo di far coincidere il vivere con un rapporto amoroso, intervistato dal Corriere della Sera, il terapeuta dell’età giovanile Gustavo Pietropolli Charmet osserva che questo sortilegio trasforma il compagno in uno stalker. Quando si concretizza l’abbandono, «viene fuori non solo rabbia o malinconia, ma la disperazione di chi si sente definitivamente perduto. E, ai suoi occhi, la responsabile di ciò è la persona che aveva fatto il sortilegio e poi l’ha rotto». Pietropolli Charmet è solo l’ultima delle voci che contesta il ritornello sul patriarcato. Al Sussidiario.net Paolo Crepet, autore di Prendetevi la luna (Mondadori), aveva detto: «La teoria per cui non c’è da fidarsi perché noi maschi, siamo dei precursori delle violenze, se non degli assassini, mi sembra una teoria nazista: i nazisti ragionavano così, ovvero secondo genetica». Ancora più definitivo, lo psicanalista Claudio Risé sul nostro giornale: «Come si fa a vedere il patriarcato in un poveretto che fa un delitto confuso e pieno di errori, e finisce in un’autostrada senza benzina? Lui è un povero assassino, ma le autorità e i comunicatori che lo scambiano per un esempio di patriarcato non sanno di cosa parlano».

Già, le autorità e i comunicatori. Può succedere che, a volte, l’ideologia li renda sordi ai contributi della scienza. A volte.

L’azzardo di Ammaniti è una distopia di nome Anna

Niente male come azzardo. Produrre una serie distopica nella quale un virus ha falcidiato gli adulti in un momento in cui una vera pandemia sta mietendo vittime soprattutto tra gli anziani. O la va o la spacca. Il rischio potrebbe comportare il rifiuto del pubblico televisivo, già quotidianamente sommerso da un’informazione apocalittica. Abbiamo i telegiornali farciti dalla contabilità pandemica e tutti i canali intasati di talk show pullulanti di virologi ed epidemiologi che disegnano scenari più o meno foschi: ci mancava Anna, miniserie in sei episodi tratta dall’omonimo romanzo (Einaudi), pubblicato nel 2015 da Niccolò Ammaniti, qui alla seconda prova da regista per Sky Italia (dopo Il Miracolo). Prodotta da Wildside del gruppo Fremantle e coprodotta da Arte France, The new life company e Kwaï, scritta dallo stesso Ammaniti con Francesca Manieri, la serie Sky original andrà in onda dal 23 aprile, giorno in cui tutte le puntate saranno disponibili per la visione sequenziale.
All’epidemia soprannominata «la rossa», un virus che si manifesta con strane macchie sulla pelle prima di attaccare gli organi vitali fino alla morte, sono sopravvissuti solo i bambini e gli adolescenti. In loro il virus «è dormiente», per adesso. In una Sicilia di rottami e rifiuti, dove la natura fagocita i resti della civiltà, resiste solo la legge della sopravvivenza. Ma quando Anna (l’esordiente Giulia Dragotto) fa ritorno nella casa dentro il bosco dove sfanga la giornata, il fratellino Astor (Alessandro Pecorella, anche lui debuttante) non c’è più, rapito dalla banda dei Blu. Oltre all’aiuto di Pietro (Giovanni Mavilla), coetaneo complice e rivale, Anna può contare sul Libro delle cose importanti nel quale la mamma (Elena Lietti) ha trascritto regole e consigli utili ad affrontare la vita «quando io non ci sarò più». Una sorta di lascito, di bussola per l’esistenza in cattività. «Fuori dal bosco ci sono tanti pericoli, ma voi insieme li affronterete. Siete fratelli, siete una famiglia», sottolinea, sebbene abbia istericamente allontanato il compagno al primo palesarsi dell’infezione. Tra piccole insidie e grandi agguati, tra un flashback e qualche reminiscenza da Io non ho paura, tra qualche visione onirica e le apparizioni del fantasma materno, inizia la caccia al fratellino rapito. Che è ricerca del legame con il passato e possibilità di costruzione di un futuro.

«Volevo raccontare una ragazzina costretta a superare i propri limiti, a fare la madre senza esserlo», spiega l’autore e regista. «Volevo vedere che cosa fanno i bambini senza gli adulti, come affrontano il futuro. L’adolescenza è una delle mie ossessioni. E siccome sono un biologo, mi è venuta in mente la situazione creata da un virus che li costringe a far da soli. Con l’esclusivo aiuto della memoria, di un’educazione che proviene dal passato e che si condensa in quel libro delle regole».

Insomma, la chiave interpretativa è nel passaggio di contenuti dagli adulti agli adolescenti. Forse è per questo che fin dalle parole dell’incipit rivolte dal fratellino ad Anna – «Mi racconti del fuori?» – echeggia l’aria moraleggiante dell’«andrà tutto bene» del primo lockdown. Raccontare una catastrofe epidemica in un momento come questo sperando di non creare sovrapposizioni è impresa ardita assai. «L’epidemia da Covid 19 è scoppiata sei mesi dopo l’inizio delle riprese», si avverte all’inizio di ogni episodio. Certo per segnare la distanza dall’attualità. Ma forse, al contempo, anche per segnalare una certa preveggenza autoriale. Chissà se queste sottigliezze convinceranno i telespettatori. Ha un bel dire Nicola Maccanico, vice presidente esecutivo di Sky Italia, che, non essendo voluta, «la sovrapposizione con l’attualità ci ha liberato dal dubbio» di rinviarne la programmazione. Se ci sono, sono «assonanze involontarie. Anna è una meravigliosa storia di fantasia che va a toccare le domande più profonde delle persone». Tutto vero. Ancor più vera è la quotidianità nella quale cade la finzione. Pure Maccanico deve ammettere che «la sera in tv si stenta a trovare una rete in cui non si parli del Covid. Ma», assicura, «Anna è un viaggio diverso, porta speranza». Tuttavia, a conti fatti, è probabile che la storia creata da Ammaniti sedurrà più facilmente quella parte di pubblico che crede che «la pandemia ci renderà migliori». E che, sebbene per fiction, abbia voglia di un’ulteriore immersione nella tragedia dei contagi e della morte. Invece, all’Italia che ha patito davvero per il Covid, la distopia di Ammaniti potrebbe risultare un fastidioso esercizio da laboratorio. Un’epidemia da manuale. La situazione giusta per avviare il ricalcolo della civiltà ad opera dei migliori. Come quello echeggiato dalla sigla della serie, Settembre di Cristina Donà: «Tu mi dicevi che la verità e la bellezza non fanno rumore/ Basta solo lasciarle salire, basta solo farle entrare/ È tempo di imparare a guardare/ È tempo di ripulire il pensiero/ È tempo di dominare il fuoco/ È tempo di ascoltare davvero».

Insomma, la palingenesi dei buoni.

 

La Verità, 13 aprile 2021

«In Rai la famiglia normale è trasgressiva»

Una serie su una famiglia normale. Su una grande e chiassosa famiglia in cui nonni, figli e nipoti si vogliono bene. Una serie in cui una ragazza che resta incinta decide di tenere il bambino sebbene il rapporto con il padre naufraghi. Una serie senza tonalità arcobaleno e amori omosessuali. Una serie scritta con linguaggio contemporaneo, come si dice; con la chat delle mamme della scuola che si fa gli affari degli altri; con la difficoltà a gestire relazioni complicate, la perdita del lavoro dopo i cinquanta, un figlio affetto dalla sindrome di Asperger, persino con una onlus che lavora per i bambini nati con il labbro leporino. Non sembrerebbe, ma una serie così (media tra il 14 e il 15% di share) esiste, anche se, con l’eccezione dell’Osservatore romano, le grandi firme della stampa l’hanno quasi ignorata. Forse perché Rai 1 l’ha mandata in onda con scarsa promozione tra partite dei mondiali e isole delle tentazioni, nella stagione in cui, di solito, si vedono solo repliche. Lunedì prossimo verrà trasmesso l’epilogo di Tutto può succedere, ultimo episodio della terza stagione, realizzata per Rai Fiction da Cattleya (la stessa di Gomorra). Il regista è Lucio Pellegrini (con Alessandro Casale), autore di film di successo (E allora mambo e Tandem con Luca e Paolo, La vita facile, con Stefano Accorsi e Pierfrancesco Favino), oltre che del Miracolo di Sky (ideata da Niccolò Ammaniti e co-diretta con Francesco Munzi).

La tavolata di «Tutto può succedere», dove le grane dei Ferraro si ricompongono

La tavolata di «Tutto può succedere», dove le grane dei Ferraro si ricompongono

Allora, Pellegrini: ci sarà una quarta stagione di Tutto può succedere?

«No e spiace anche a noi. Ma già all’inizio erano state programmate tre stagioni. La storia si conclude, ma è stata una bella avventura per tutti».

Proviamo a raccontarla: come e da chi è nata l’idea?

«Cattleya ha proposto di fare l’adattamento di Parenthood, la storica serie americana a sua volta tratta dal film diretto da Ron Howard. Nella prima stagione siamo rimasti più aderenti alla storia e abbiamo fatto un casting molto preciso degli attori. Poi abbiamo scelto strade più autonome, cercando di mantenere una certa fedeltà alle caratteristiche di freschezza e di verità dell’originale».

Com’è stato il rapporto con la Rai?

«Molto buono. Tinni Andreatta, responsabile della fiction, era entusiasta del progetto. L’obiettivo era rinnovare il genere family, importantissimo per la Rai fin dai tempi della Famiglia Benvenuti. Qualche problema c’è stato all’inizio e quest’anno per la programmazione. Ma sono scelte che dipendono da logiche di palinsesto».

In che senso?

«La Rai ha voluto controprogrammare i mondiali di calcio. Non il massimo».

È passata come una replica.

«Lo so. Era pronta da poco, forse poteva partire un mese prima. Su Raiplay la settimana precedente alla messa in onda ha avuto 2,5 milioni di visualizzazioni».

Pubblico di giovani?

«Penso di sì, anche se non abbiamo la composizione del target. Quello della visione in tv aveva un livello d’istruzione più alto e più giovane della media di Rai 1».

Altre serie più politicamente corrette, come Romanzo famigliare, hanno avuto collocazioni più strategiche.

«Anche quelle tradizionali, però, come Don Matteo, occupano il centro della stagione. Da quando È arrivata la felicità è stata interrotta causa bassi ascolti si è pensato che il genere family non tirasse più. E ci si è concentrati sul giallo o sul noir».

Com’è nato il titolo?

«Da un confronto interno a Cattleya. Non c’era una parola italiana che traducesse il titolo americano. Alla fine questo è piaciuto a tutti».

In Siamo soli Vasco Rossi canta: «Tutto può succedere; ora qui, siamo soli, siamo soli». Invece, mentre nella vostra sigla i Negramaro cantano: «Finché sei qui, tutto può succedere», si vede la tavolata della famiglia: una risposta al nichilismo?

«La canzone è stata scritta da Giuliano Sangiorgi. Il qui è quella tavolata, ma anche un luogo personale, intimo. In questi anni il pranzo di famiglia l’abbiamo visto spesso al cinema e in tv. Abbiamo provato a ripensarlo. La tavolata è il luogo del caos sentimentale organizzato. Ho messo l’operatore in mezzo alla scena perché volevo che il telespettatore si sedesse anche lui a quel tavolo».

Esistono famiglie con quattro fratelli che si confrontano e consigliano?

«Penso di sì. Magari è un gradino sopra le righe, perché si tratta di un film di finzione. Però abbiamo cercato di elaborare la realtà. Anche in famiglie più piccole si vivono queste dinamiche».

La famiglia è il luogo della resilienza, dove si trasformano le esperienze di sofferenza in qualcosa di positivo?

«Può essere questo. Quando il clan si ritrova tutto si ricompone, riacquista una forma e una profondità che prima sembrava non avere. Basta uno scambio, una goliardia, un po’ di calore. Poi per sopravvivere e ripartire, ognuno rielabora i fatti con la propria sensibilità e secondo la propria età».

Tra i quattro fratelli lei sembra simpatizzare per il personaggio di Alessandro Tiberi.

«Tanti simpatizzano per Carlo, l’adulto bambino del gruppo. Tiberi è un attore talentuoso. Ma tutti lo sono, Maya Sansa, Pietro Sermonti… Ogni personaggio ha qualcosa che mi piace».

La definizione dei tipi umani è il suo marchio di fabbrica?

«Lo spero. Mi piace creare con gli attori i profili e i temperamenti. Sul set si è creato un bel amalgama tra gli attori più esperti e i ragazzi esordienti come Roberto Nocchi, Benedetta Porcaroli, la stessa Matilda De Angelis, che al tempo della prima serie aveva girato solo Veloce come il vento, che però non era ancora uscito».

Chi ha scritto i dialoghi?

«Abbiamo avuto molti bravi sceneggiatori, da Michele Pellegrini che non è mio parente, a Federica Pontremoli a Filippo Gravino».

C’è una scena a cui è più affezionato?

«Ci siamo commossi girando quella in cui Giorgio Colangeli dice a Maya Sansa, che ha appena combinato uno dei suoi casini con un uomo, di essere orgogliosa anche dei suoi errori».

Altra cosa: non è una serie politicamente corretta. Non ci sono amori omosessuali e dibattiti sulle unioni civili.

«Nella prima stagione abbiamo sfiorato questo tema, ma senza la preoccupazione di apparire al passo con i tempi. Il confronto con la diversità è comunque presente con Massimiliano, il figlio di Alessandro e Cristina, un ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger, molto difficile da gestire in casa, interpretato benissimo da Roberto Nocchi, un ragazzo normalissimo».

Anche il razzismo e l’integrazione sono presenti nella famiglia di Carlo, compagno di una ragazza di colore. Il loro figlio è vittima di bullismo a scuola, ma il modo di raccontarlo non è retorico.

«Il fatto di non essere politicamente corretti forse ci costa un po’ di pubblico, ma fin dall’inizio non abbiamo mai voluto fare la lezioncina. Tutti noi viviamo queste situazioni e le affrontiamo giorno per giorno senza bisogno di salire in cattedra».

La fiction Rai in genere è molto politicamente corretta?

«È mamma Rai: c’è tutto e il contrario di tutto. Ma c’è margine di discussione».

Da 1 a 10 quanto si riconosce in questa serie?

«Sicuramente molto, non so dare una cifra. Adesso ho intrapreso nuove strade».

Appunto: nel Miracolo quanto si riconosce?

«Mi è molto piaciuto affrontare nuove tonalità visive e nuove situazioni di genere. Grazie a Niccolò Ammaniti, che è un amico, ho potuto contribuire a un progetto molto impegnativo e gratificante, di cui siamo orgogliosi anche per il riscontro che sta avendo all’estero».

Vita e pensiero, la rivista dell’Università cattolica, ha scritto che è più una serie mistery che di fede: concorda?

«Sì, è un racconto che ha grande rispetto per il sacro. Ma è una serie di genere, che cerca di esplorare in chiave mistery un fatto umanamente inspiegabile. Più che indagare se quel fatto sia vero o no, la storia riguarda le conseguenze di quel fatto su alcune persone».

Lucetta Scaraffia ha scritto che chi resta colpito non prega la Madonna, ma il mistero che la statuetta evoca.

«È così. Abbiamo lavorato su quale impatto può avere in una realtà profana un evento inspiegabile».

Il fatto che i protagonisti siano eccentrici, persone nelle quali è difficile riconoscersi, è un punto debole?

«Qui non c’è la ricerca dell’identificazione, ma una provocazione a mettersi in quella situazione: che cosa faresti tu? Lo spettatore può anche sentirsi superiore ai protagonisti e ipotizzare di agire diversamente da loro. Favoriamo un distacco critico usando diversi registri narrativi, dal mistery al grottesco, dall’horror al noir».

State già lavorando alla seconda stagione?

«Non è ancora deciso se e quando si farà. Sky vorrebbe farla, vedremo in che tempi».

La sua è un’estate di lavoro?

«Di vacanza e scrittura. Dopo qualche anno ho deciso di prendermi un po’ di tempo per decidere bene cosa fare in futuro».

 

La Verità, 1 agosto 2018

 

Ammaniti, il regista che smentisce la sua serie

Se è vero che Niccolò Ammaniti ha detto che quello della Madonna di Civitavecchia «era sangue di pollo, era tutto falso», c’è un altro motivo per suggerire a registi e scrittori di calibrare le dichiarazioni lasciando che a parlare siano le loro opere. È difficile infatti decodificare l’esternazione del creatore de Il Miracolo, la serie di Sky in parte ispirata ai fatti di Civitavecchia e giustamente acclamata da critica e pubblico, oltre che premiata al festival «Séries Mania» di Lille. Dopo la querela al regista per le sue asserzioni diffamatorie da parte di Fabio Gregori, protagonista del fatto nel 1995, sulla vicenda di Civitavecchia si pronunceranno i tribunali. Ci sarà da attendere; come si attende ancora un pronunciamento ufficiale della Chiesa, sebbene l’allora papa Giovanni Paolo II si recò a venerare la statua della Vergine.

Nel frattempo, qualcosa non torna. Malgrado Wildside, produttrice della serie, abbia assicurato che «non c’è mai stata volontà di mancare di rispetto nei confronti della religione e dei credenti», vien da chiedersi se l’autore della dichiarazione di falsità sia la stessa persona che ha creato, voluto e diretto la serie che su quel pianto ematico ha costruito una complessa trama di sette ore (in attesa della seconda stagione). Perché, di primo acchito, le parole sembrano smentire le opere. Nei giorni scorsi Sky Atlantic ha trasmesso il finale delle parabole dei protagonisti, le cui esistenze sono state sconvolte dalla Madonnina piangente. La forza del racconto si è confermata nell’epilogo un filo pasticciato da troppi finali, forse inevitabili per comporre la storia dell’ambiguo premier (Guido Caprino), in difficoltà a reggere l’evoluzione della campagna referendaria per l’uscita dall’Europa, gli urti di una moglie volubile (Elena Lietti) e l’obbligo(?) di mantenere il segreto sul presunto miracolo; la vicenda di don Marcello (un notevole Tommaso Ragno) alle prese con crisi vocazionale e incontrollabili perversioni; il percorso della biologa interpretata da Alba Rohrwacher, che incarna al meglio il bisogno di credere dell’uomo contemporaneo; il ruolo del generale Votta (Sergio Albelli), il più «normale» della compagnia, e la figura di Clelia (Lorenza Indovina), amante in gioventù di Marcello. Con tante storie che mostrano un’umanità dolente e mendicante un significato, era inevitabile che il finale fosse farcito di troppi colpi di scena. Peraltro salvati da un’estetica che, fin dalla malinconica sigla iniziale (Il mondo di Jimmy Fontana), riesce a trasformare in thriller un (presunto) evento soprannaturale.

La Verità, 2 giugno 2018

Sky tenta «Il miracolo»: una serie sul sacro

E se fosse vero? Se davvero un evento soprannaturale irrompesse nella nostra quotidianità? Come reagiremmo? Che cosa accadrebbe alle nostre vite? Sono questi gli interrogativi da cui prende le mosse Il Miracolo, la nuova serie originale di Sky, creata, scritta e diretta da Niccolò Ammaniti, in onda da martedì prossimo su Sky Atlantic (e in simulcast anche su Sky Cinema Uno, oltre che on demand). Prodotta da Mario Gianani e Lorenzo Mieli per Wildside, in coproduzione con Arte France e Kwaï, la serie si sviluppa in otto episodi, uno per ogni giorno da quando l’inspiegabile avvenimento improvvisamente si palesa. L’Italia è alla vigilia del referendum che può portarla fuori dall’Europa e, durante un’operazione di polizia a caccia di un boss criminale, viene rinvenuta la statua di una Madonnina che piange sangue. Il generale Votta (Sergio Albelli) convoca il primo ministro Fabrizio Pietromarchi (Guido Caprino) per mostrargli la straordinarietà del fatto e la necessità di non divulgarlo nemmeno al Vaticano: «Se si venisse a sapere, arriverebbero milioni di pellegrini», sostiene, convinto, il capo dei servizi segreti, «e ci troveremmo di fronte a un grave problema di ordine pubblico nell’imminenza del referendum». Anche gli analisti chiamati a pronunciarsi non sanno darsi spiegazioni compatibili con le leggi della fisica: un corpo non può produrre materia superiore al proprio peso e questa statuetta di 2,3 chili piange 9 litri di sangue l’ora. I catini si riempiono velocemente di «sangue umano, sangue maschile, sangue vivo», documenta la biologa (Alba Rohrwacher), «i cui valori variano come se la Madonna si nutrisse, modificando glicemia, fluidità, composizione ematica». In assenza di risposte scientifiche, restano due alternative: il trucco tecnologico, la truffa, o il miracolo. Al premier non resta che chiedere consiglio a padre Marcello (Tommaso Ragno), un prete missionario conosciuto in Africa, del quale però ignora la crisi in cui è piombato, preda di fin troppe pulsioni incontrollabili, dalla ludopatia alla pornografia, dall’alcol al sesso.

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