«Aspetto il film dopo La corazzata Potemkin»

Abbronzato, capello arioso e pantalone informale, Enzo Carra porta con ironia i suoi 75 anni. Non ci vediamo dal tramonto della Prima repubblica, quand’era capo della comunicazione della Democrazia cristiana e influenzava elegantemente giornali, giornalisti e nomine Rai. Per recuperare il tempo perduto c’incontriamo in un ristorante vicino a Montecitorio, prima di spostarci nel suo pensatoio: travi a vista, scrivania in cristallo, riviste di filosofia e politica.

Che cosa fa oggi Enzo Carra?

«Sto finendo di scrivere un libro».

Argomento?

«Dalla fine della Prima repubblica, attraverso la Seconda e la Terza, a quello che verrà. Sono convinto che gli italiani siano migliori di come li immaginiamo. Più resistenti».

In che senso?

«Resistono ad avversità di fronte alle quali altri popoli soccombono. Nel Novecento alla fame, alle ideologie, al terrorismo; di recente ai governi sbagliati e al senso del ridicolo. In soli 15 anni l’Italia è passata dalla fine della guerra al boom economico, costruendo l’Autostrada del Sole in cinque anni. O estinguono la razza o è difficile liberarsi di noi».

Titolo ed editore?

«Si chiamerà Domani e conterrà memorie, documenti e vissuto raccontati con la passione del notista politico, la mia vera professione. L’editore ancora non c’è».

Com’è la sua giornata?

«Comincia con la meditazione e la preghiera, prosegue con la lettura dei giornali italiani e stranieri fino alle 10. Poi scrivo fino all’una. Dopo un riposo pomeridiano, mi dedico a tre libri: uno di storia, un saggio e, dopo cena, la narrativa».

C’è molta disciplina.

«Cerco di non farmi prendere dall’emozione di un libro che mi piace più di altri. Sono disordinato su altre cose. A un certo punto della vita ho recuperato insegnamenti e pratiche giovanili, scandendo la giornata, secondo la migliore lezione del monachesimo».

I libri in lettura ora?

«I Saggi di Michel de Montaigne, M di Antonio Scurati e Il castello interiore di Teresa d’Avila».

Quanto le manca la politica in Parlamento?

«Mi manca la politica vera, non il chiacchiericcio del Transatlantico, anche perché quelli che chiacchierano oggi… Mi mancano la riflessione e il confronto senza infingimenti e diplomazie. La politica è soprattutto dialogo e contrapposizione. È una risorsa squisitamente italiana fin dai tempi dell’Impero romano».

Nel 2000 fu tra i fondatori della Margherita che poi confluì nel Pd.

«Fui l’unico a votare contro. Temevo che la semplice somma degli eserciti non avrebbe garantito la qualità della proposta. Come avvenne».

Dieci anni dopo entrò nell’Udc di Pier Ferdinando Casini.

«Uscii dal Pd per un richiamo identitario che andò deluso perché non c’erano le condizioni per ricostruire un partito di centro. Così come ora si è visto che non ci sono neanche per un partito a sinistra del Pd».

Nel 2013 fu Mario Monti a non ricandidarla?

«Non chiesi e non l’ho mai capito. Seppi da Casini che c’erano difficoltà e lo mandai a quel paese».

Non lottò abbastanza?

«D’accordo con lui avevo lavorato per un’altra lista centrista. Quando mi fece sapere che sarebbe entrato in Scelta civica i rapporti si raffreddarono. Non volevo rincorrere posti e posizioni che non condividevo. Si è visto com’è finita Scelta civica».

Lei è ricordato per le immagini dell’ingresso nell’aula del Tribunale di Milano con gli schiavettoni. Come si è spiegato che quel fatto avvenne tre mesi dopo l’approvazione della legge che vietava di mostrare gli imputati con le manette?

«Quando vieni arrestato da Antonio Di Pietro non hai la lucidità per appellarti alla legge appena approvata. Mi portarono in aula dopo tre ore di attesa nelle segrete del Tribunale. Il maresciallo aveva detto ai carabinieri di prendermi sotto braccio e quando ricevette una telefonata che impose di applicarmi gli schiavettoni eseguì l’ordine con visibile disappunto».

Da chi era partita la telefonata?

«So solo che la decisione fu difesa dalla Procura di Milano. Ho un’idea, ma non la dirò».

Di Pietro disse che non c’entrava.

«Ci fu la sollevazione dei giornalisti. Di Pietro entrò nella gabbia, mi fece togliere gli schiavettoni e sedere davanti al banco della corte vicino agli avvocati. Piercamillo Davigo disse che tutti i giorni i marocchini venivano tradotti con le manette e nessuno obiettava. Solo dopo appresi di una legge che tutelava la dignità dell’imputato».

Che riflessione ha fatto quando è divampata la polemica per la per mancanza di rispetto nei confronti di Cesare Battisti per il video del suo accompagnamento fatto girare dal ministro Alfonso Bonafede?

«Riparlare 25 anni dopo dei miei schiavettoni nel contesto del trattamento riservato a Battisti è quasi una pena accessoria. Può darsi che le manette facciano bene a un criminale che ha ammazzato la moglie o a un mafioso pluriomicida. Dopo il mio caso, l’arresto per falsa testimonianza o reticenza può avvenire solo dopo il giuramento in aula e non più durante l’interrogatorio».

Le procedure dell’azione giudiziaria sono così flessibili perché imputati e condannati vengono esibiti all’interno di logiche politiche?

«Diceva Montaigne: “Sopra ogni altra cosa bisogna guardarsi, se si può, dal cader nelle mani d’un giudice nemico, vittorioso e armato”. Questa situazione definisce il pericolo della politicizzazione della giustizia».

Con il M5s al governo c’è un ritorno giustizialista?

«Non ho questa impressione. Il gesto delle manette del senatore Mario Giarrusso è stato sconfessato dai suoi stessi compagni di partito».

Che idea si è fatto di Roberto Formigoni in galera?

«Sono addolorato, ma per l’amicizia che gli porto non ho la lucidità necessaria per esprimermi. La dilatazione dei tempi della giustizia non è mai giusta. Tempi più rapidi gli avrebbero permesso di difendersi meglio».

La legge «Spazzacorrotti» che equipara i reati contro la pubblica amministrazione a quelli per mafia e cancella le pene alternative è costituzionale?

«Sono convinto che da alcuni decenni viviamo in un sistema di leggi emergenziali che sono l’anticamera di quelle eccezionali che non si sa dove possono portarci. La legge “Spazzacorrotti” è certamente materia per la Corte costituzionale».

Si aspettava lo tsunami delle elezioni di un anno fa?

«Sì. Il segnale era stato l’affondamento della riforma costituzionale di Renzi. Non averlo capito ha creato le premesse per il ribaltone. Se non ti accorgi che il clima del Paese è un sentimento diffuso di protesta, di aspirazioni e di rabbia, sei destinato a perdere perché non hai le armi per difenderti».

Quindi la responsabilità è del Pd di Matteo Renzi?

«È di chi governava allora. Un partito che vive i suoi congressi solo per eleggere con le primarie il suo capo non è un partito, ma una tribù primitiva. Portavamo i pantaloni corti e già si parlava di riforma della Costituzione. Il M5s ha scelto la strada della democrazia del click: è giusto chiedersi che ne facciamo delle persone che per strada vediamo piegate sui propri smartphone».

Per un anno si è parlato del Senato mentre larghi strati della popolazione stentavano ad arrivare a fine mese.

«Ci si è illusi che la riforma dei rami alti bastasse a dare risposte, invece i rami alti cascano come i pini di Roma. È strano che chi ha avuto quella intuizione non abbia saputo cogliere il disagio reale e la paura del momento».

Forse perché la paura è immotivata e artificiale?

«Un conto è dire che c’è l’industria della paura e un altro che la paura è un’invenzione. Si passa dal modo aggressivo di affrontare certi temi all’ipocrisia di rimuoverli. Questo è il nostro problema attuale».

Ingigantito dal politicamente corretto: è l’ideologia emergente?

«Lo è. Come il buonismo, il dover apparire non cinici, non scettici, non duri di cuore. Ma questa ideologia ne trascina un’altra, anzi lo spero: il cattivismo. Se togli la scorza vedi che c’è un cuore anche lì sotto. Alla fine, non credo né ai buoni né ai cattivi. Ma che, salvo i criminali e i santi, sia soprattutto un gioco delle parti, una recita…».

Tuttavia non crede che la narrazione dei media maggioritari, delle case editrici, del cinema e della tv modaioli sia innervata da questa nuova ideologia?

«Nella cultura, nello spettacolo e nel cinema di provenienza americana è così. Un ruolo, non eccessivo, ce l’ha anche la voce indipendente della Chiesa attraverso papa Francesco. Però vedo che sta emergendo anche una narrazione diversa. Manifesti degli intellettuali e marce per i diritti civili ce ne sono meno rispetto a un tempo. Anche le case editrici contano meno».

Ne è convinto?

«Mi pare di sì. Rispetto ai blocchi di destra e sinistra avanzano voci più libere e isolate che ridiscutono la mappa tradizionale. Una faccia di sinistra come quella di Marco Minniti è quasi sovrapponibile a quella di Matteo Salvini che fa, più o meno, lo stesso lavoro. Purtroppo il dibattito pubblico anche in tv si limita agli stessi ospiti tutte le sere. Si va da Vittorio Sgarbi a Massimo Cacciari: credo che nella realtà ci sia più varietà. La tv e la rete dovrebbero scoprire e valorizzare questa ricchezza».

Il populismo supplisce la mancanza di concretezza dei partiti tradizionali?

«Non ricordo negli ultimi trent’anni una discussione nella politica tradizionale che partendo da uno stimolo sia arrivata a una sintesi utile e operativa. Al massimo, chi ha avuto il potere ha imposto una soluzione: se andava bene, ok, altrimenti il perdente veniva accantonato per qualche giorno».

Ogni riferimento è casuale. Come si trovava nel Pd quando il dibattito interno concerneva le unioni civili e il ruolo della grande finanza?

«Non mi ci trovavo. Chi non è contrario al femminicidio? Questi temi, sacrosanti, hanno allontanato dalla massa, dagli strati disagiati. Ci si è chiusi in una élite benpensante. Così è arrivato chi, in modo semplice e diretto, ha urlato cos’è veramente La corazzata Potemkin. Ora si comincia a capire che interrompere un film è più facile di scrivere la sceneggiatura di uno diverso, mandarlo in sala e trattenere gli spettatori che hanno già dimenticato la proiezione precedente».

Lo chiamano governo del cambiamento…

«Stiamo ancora aspettando che inizi il primo tempo. Ogni giorno ci dicono che il film è pronto, però ancora non partono le immagini. La Tav è l’emblema di questo continuo rinvio».

Il M5s sconta la difficoltà del passaggio da forza d’opposizione a forza di governo.

«Ma io sono un cittadino che paga le tasse, sto seduto in sala e dopo aver visto il film deciderò se mi è piaciuto o no. Finora vedo una signorina che chiede di pazientare perché il proiezionista sta sistemando la pizza. Qualcuno se ne va, qualcuno strepita, altri aspettano. È passato meno di un anno, ma almeno datemi il trailer».

Il reddito cittadinanza e quota cento.

«Sono i trailer. Se ci sono i soldi il reddito di cittadinanza va bene. La corsa al pensionamento la capisco meno».

Dovrebbe servire a far entrare i giovani.

«Per i giovani serve il film intero».

Quali sono i programmi o i volti televisivi ai quali è più fedele?

«Seguo Otto e mezzo di Lilli Gruber, qualche volta Nicola Porro, mentre Maurizio Belpietro, che rappresenta un pensiero altro, ora interviene meno. La crisi del talk show non so se sia la causa o la conseguenza della povertà del dibattito. Quello tra i candidati alla segreteria del Pd che dicevano la stessa cosa ne è stato un esempio».

La Rai è riformabile?

«L’unico modo è lasciare una rete di servizio pubblico e privatizzare le altre. Solo così potremo evitare d’interrogarci sul grado di lottizzazione in atto. A ogni stagione cambiano gli attori, non il copione della commedia».

Nel libro intitolato Roma non perdona, Carlo Verdelli scrive che «la Rai è la torta nuziale» di chi vince le elezioni. Si può non ingolosirsi o restare a lungo a dieta?

«Una volta la Rai era suddivisa in tre aree politiche. Nei giorni scorsi è stato scritto che Salvini si è impossessato di due reti su tre. Non frenando l’ingordigia, a un certo punto la torta potrebbe sparire, gli ascolti calare, il ruolo stesso della Rai diventare opaco, come sta accadendo. La metafora della torta è giusta, ma la torta non è eterna».

Durante la Prima repubblica lei è stato portavoce di Arnaldo Forlani e capo ufficio stampa della Dc. Cosa pensa di chi è venuto dopo? Partiamo da Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi.

«Berlusconi non delegava nulla soprattutto nella comunicazione. Bonaiuti è stato più un amico, un consigliere di Berlusconi».

Michele Anzaldi, portavoce del Pd e di Renzi.

«Non è un comunicatore, ma una persona che sta sempre all’opposizione di chi fa a sua volta comunicazione. Ha grande carica, uno simile a lui era Michele Bonatesta di An».

Filippo Sensi, portavoce di Palazzo Chigi con Renzi e Paolo Gentiloni.

«Lo conosco bene, è di grande intelligenza e cultura, mai volgare».

Rocco Casalino, portavoce di Giuseppe Conte.

«Credo che essersi fatto beccare con gli sms e i messaggi ai giornalisti debba farlo riflettere. Il portavoce del premier dovrebbe far comprendere che i giornalisti vanno trattati adeguatamente».

Perché nella Seconda repubblica politici come lei, Marco Follini e Paolo Cirino Pomicino non hanno più trovato casa? Forse solo Enzo Scotti e Casini ci sono riusciti in posizioni defilate.

«Ognuno ha pensato che mettersi in proprio alternando le alleanze garantisse la sopravvivenza. Scotti si è rifugiato negli studi e fa l’influencer del M5s. Casini è partito da Occidente per finire a Oriente… Avrebbe potuto traghettare la Dc negli anni Novanta, ma si è staccato da Mino Martinazzoli per fare il Ccd con Follini e Lorenzo Cesa e poi dividersi anche da loro».

Il confine tra i due poli tagliò in due la balena bianca.

«Dalla fine della Prima repubblica a oggi sono passati più anni che dal fascismo al boom economico. Capisco che inizialmente entrarono in scena la sinistra di Achille Occhetto e Berlusconi. Però già nel 1994 arrivò Lamberto Dini. Un intero popolo si smarrì. Oggi quella formazione si vede in Sergio Mattarella al Quirinale, per certi versi in Renzi, in Clemente Mastella. Oltre alle persone però servono le idee e il famigerato amalgama. Ma se a ogni stagione si cambiano le alleanze…».

Come vedeva la supplenza attuata dalla Conferenza episcopale italiana?

«Come un errore, a prescindere dalla qualità dei loro presidenti. Per la Chiesa si può parafrasare ciò che John Fitzgerald Kennedy diceva dell’America: anziché chiederci che cosa può fare per noi cattolici, chiediamoci che cosa possiamo fare noi per la Chiesa».

Frequenta ancora Forlani?

«Certo, ha un’età veneranda, ma è pienamente attivo e lucidissimo. Ci vediamo da buoni amici. Lunga vita a Forlani. Frequento anche Ciriaco De Mita e lo stesso Scotti, persone con le quali si ragiona bene sull’attualità».

Lei che fu l’ultimo a intervistarla che ricordo ha di Madre Teresa di Calcutta?

«È stato un incontro che mi ha cambiato la vita. La vidi l’ultima volta un mese prima che morisse nel 1997. La prima ero andato a Calcutta quand’era già malata. Mi avevano detto che non avrei potuto né vederla né parlarle. Però mi suggerirono di andare nella cappella. Dove mi vidi sfiorare da un velo, un soffio di vento. Si fermò, mi salutò in inglese, mi fece sedere vicino a lei, mi chiese della mia vita, mi concesse di filmare le case dove prestava la sua opera, mi fece sapere che sarebbe andata nella Casa degli orfani. Filmai anche un altro colloquio all’esterno».

Che andò in onda?

«Su Rai 3 per Mixer di Giovanni Minoli».

Diceva che le ha cambiato la vita.

«Fu una grazia. Quando vivi un periodo particolarmente pesante come stava accadendo a me e ti imbatti in una personalità come Madre Teresa e in una realtà come quella della Casa dei morenti non puoi che rivedere tutto con altri occhi».

 

La Verità, 17 marzo 2019