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«Ho usato “gnocca” contro i dogmi antifamiglia»

Insomma, che volgarità, Marco Rizzo.
«Purtroppo, oggi, per far capire certi concetti, bisogna ricorrere anche a qualche espressione colorita. Mi pare abbia funzionato, visto che ne stiamo parlando».
Riassumiamo brevemente per chi avesse perso l’antefatto.
«In un intervento di 18 minuti ho provato a spiegare come sta girando il mondo, dalla guerra allo schiacciamento della classe lavoratrice, dal cambiamento epocale nelle abitudini all’attacco alla famiglia, fino alle nuove ideologie che irrompono nella nostra vita. Per spiegare questo cambiamento ho intercalato una frase, pronunciata con grande serietà: “Mi piace la gnocca”. Sapevo che mi sarei scontrato con il totalitarismo del pensiero unico. Perché, un conto è essere contro ogni discriminazione di gusti sessuali, di razza e di ogni tipo, un altro è voler imporre i desideri e le preferenze di una minoranza a tutta la popolazione».
Marco Rizzo è un politico difficilmente classificabile. Un po’ novecentesco, molto pacifista, larvatamente complottista, trasversale agli schieramenti. Fino a qualche tempo fa era segretario del Partito comunista, di cui poi è divenuto presidente onorario. Adesso è candidato alle regionali in Umbria del 17 e 18 novembre con la lista Democrazia sovrana e popolare di cui è fondatore. Anche il suo linguaggio può risultare eccentrico: parla di classe lavoratrice e di operai. E non solo…
Ha usato un’espressione esecrabile, come le è stato fatto notare.
«Sono finito sulla prima pagina del Corriere della Sera, non avveniva da anni. Uno come Massimo Gramellini, a cui sono legato solo dalla fede calcistica – anche se lui va certamente in tribuna mentre io ai popolari – mi ha attaccato duramente per il linguaggio da taverna, addirittura scomodando la lingua italiana. Forse non sa che la parola gnocca si trova anche nella Treccani».
L’ha usata perché è a caccia di visibilità?
«No. Conosco i meccanismi della cosiddetta informazione italiana che ogni giorno tenta di turlupinare l’opinione pubblica. Faccio un esempio fra i tanti possibili: qualcuno pensa davvero che lo yacht affondato nel porto di Palermo sia stato vittima di un nubifragio?».
E di che cosa?
«Di una resa dei conti tra ricconi collegati ai servizi segreti».
Lo deciderà la magistratura.
«Sì, certo. Ma mica abbiamo l’anello al naso».
La prima pagina del Corriere della Sera comunque è un bel successo.
«Essere attaccati dal mainstream è sempre una medaglia».
Nel suo intervento contestava la dittatura delle minoranze, un argomento anche del generale Roberto Vannacci.
«Se piove io dico che piove, non vado a vedere chi lo sta dicendo. Premesso questo, ricordo di essere stato il primo a dire che Vannacci è stato attaccato per il suo libro perché aveva denunciato la morte dei soldati a causa dell’uranio impoverito. Un uomo controcorrente, rispetto al servilismo diffuso alla politica e all’establishment».
È diventato di moda prendersela con il politicamente corretto?
«Dire che è una moda è uno stratagemma per non affrontare l’argomento e nascondersi dietro un dito. Oggi la pratica mostruosa dell’utero in affitto e i laboratori nelle università pubbliche destinati ai bimbi trans dai 5 ai 14 anni come quello di sabato scorso presso l’università Roma 3 sono normalità. Così come lo è l’attacco costante e forsennato alla famiglia, che non è più quella descritta come prima cellula della società borghese da Friederich Engels 150 anni fa. Oggi senza le famiglie che svolgono la funzione dello Stato sociale avremmo 11 milioni di poveri in più. Questa è la normalità propugnata sempre dai soliti potenti».
Chi, per la precisione?
«I rappresentanti della grande finanza che ci vuole obbligare a mettere il cappotto termico alle case, che non vuole più farci girare con la nostra automobile, che sdogana la guerra nucleare. Ma che soprattutto continua a prenderci in giro dicendo queste cose in lussuosi convegni, dove arrivano a bordo di inquinantissimi jet ed elicotteri privati».
Il politicamente corretto è una forma di bon ton, un galateo o cos’altro?
«È un’ideologia. Le faccio un altro esempio. Ha mai provato ad andare in uno di quei negozi di abbigliamento di catene multinazionali? Provi a vedere che orientamento ha la maggioranza dei commessi. Anche quella è una politica di marketing, una forma di discriminazione al contrario verso gli eterosessuali. Dico di più: se si smembra la famiglia le grandi multinazionali ci guadagnano. Me l’ha spiegato un importante manager del food: una famiglia composta da due persone consuma per due, ma se queste due persone le dividi, compreranno due monoporzioni che costeranno 1,3 e i grandi marchi guadagneranno il 30%».
Le multinazionali ci vogliono single?
«Single, privi di relazioni sociali, di protagonismo, di libertà e spirito critico. Ma collegati al nostro cellulare con cui ordinare pessimo cibo e cattivi oggetti che ci verranno recapitati da schiavi in bicicletta».
Che basi ha l’ideologia politicamente corretta?
«Quelle che oggi interpreta alla perfezione il Pd. Basta vedere cos’era il Pci nel 1980, quando Enrico Berlinguer andava a parlare con gli operai di Mirafiori ai cancelli della Fiat. 44 anni dopo, con Elly Schlein il Pd balla sul carro del gay pride».
Gli operai non ci sono più.
«C’è un ceto medio fatto di commercianti, artigiani e partite Iva che precipita verso il basso e che, in un certo senso, si proletarizza. Per questo bisogna sviluppare il sovranismo popolare».
Ci arriviamo. Una volta si diceva parla come mangi, adesso ci insegnano la neolingua preconizzata da George Orwell?
«L’élite che ha in mano la comunicazione riserva privilegi per sé e costrizioni per noi. Così sentiamo parlare di “flessibilità in uscita” invece che di licenziamenti, di “peace-keeping” invece che di guerra, di carenza di integrazione, invece che di delinquenza. Ci siamo rotti le palle».
Perché si candida governatore della regione Umbria?
«Per un motivo: vogliamo cominciare ad assaltare i fortini di questo partito unico che sono la destra e la sinistra, due facce della stessa medaglia, iniziando dal luogo dove la sovranità viene cancellata per prima: le regioni. E vogliamo cominciare dalla sanità pubblica che, nelle mani di politici incapaci e corrotti, nega il diritto alla salute del nostro popolo. Marco Rizzo in Umbria e Francesco Toscano in Liguria vogliono fare la stessa cosa che Afd (Alternative für Deutschland ndr) e Sahra Wagenknecht (leader del Bsw, il partito omonimo ndr) hanno fatto alle elezioni della Turingia e della Sassonia».
Lei che è torinese doc in Umbria?
«Il cognome è calabrese, del quadrisavolo che venne al Nord con i garibaldini. Mio padre era piemontese e mia madre romagnola. Adesso vivo a Rovereto, prima ho vissuto a Torino e a Roma».
Democrazia sovrana e popolare è una denominazione tautologica?
«Vi è racchiusa la sostanza della nostra Costituzione, tanto bella quanto disattesa».
«La sovranità appartiene al popolo» occorre ribadirlo?
«Sì, perché la sovranità può essere del re o del popolo. Io propendo per la seconda idea, visto che oggi il re è rappresentato da Bill Gates, così come, in Italia, dagli Elkann e dai Benetton. Mentre il popolo è incarnato dall’operaio della Stellantis e dal ristoratore di Piazza Augusto Imperatore nel centro di Roma che rischia di essere sfrattato proprio dai Benetton. Sto dicendo un fatto reale».
Democrazia sovrana e popolare è una sigla da elezioni amministrative o da movimento di opinione?
«Ha una forza intrinseca. Pensi che con queste elezioni lanciamo la proposta che la sanità venga riaffidata ai medici e ai cittadini».
Come?
«Tornando ad avere le Usl invece delle Aziende sanitarie locali, per ricostruire l’universalismo della prestazione sanitaria, togliendone il governo alle regioni, il cui bilancio è costituito all’80% proprio dalla sanità, mal gestita».
L’approvazione dell’autonomia differenziata migliorerebbe la situazione?
«Ne dubito. Questa autonomia è la stessa che voleva Massimo D’Alema con la riforma del titolo V studiata da Franco Bassanini. Favorirebbe il moltiplicarsi dei centri di potere di cui faremmo volentieri a meno. Il Pd la contesta solo perché non se la intestano loro».
Fino a qualche anno fa sanità, scuola e lavoro erano al centro della politica, perché non lo sono più?
«Perché la lotta di classe l’hanno vinta i super ricchi. Non è un caso che il Pd sia il partito della Ztl e che Maurizio Landini, leader della Cgil, si fa mettere la mano sulla spalla dal banchiere Mario Draghi».
Quelle priorità sono scalate nella classifica a vantaggio di che cosa?
«Basta guardare la lista degli investimenti del Pnrr e si troverà la sanità all’ultimo posto. Scavalcata dagli investimenti per le politiche in favore della teoria gender. Cose da pazzi. Al primo posto delle priorità c’è la digitalizzazione e al secondo il pessimo green».
Sono le priorità dell’Unione europea.
«Infatti, siamo l’unica forza politica che non ha alcuna remora ad affermare che vogliamo l’uscita dall’Ue, dall’euro, dalla Nato e anche dall’Oms, una struttura privata che fa gli interessi delle multinazionali del farmaco».
Scuola, lavoro e sanità erano temi prioritari della sinistra: che fine ha fatto il suo vecchio Partito comunista?
«Oggi, se ci fosse Antonio Gramsci starebbe con noi. Per quanto riguarda la sinistra ricordo che negli anni Sessanta e Settanta hanno provato a batterla con Gladio, con la strategia della tensione e le stragi. Poi si sono accorti che era più facile conquistarla dall’interno con gli Achille Occhetto, i Massimo D’Alema, i Walter Veltroni e i Piero Fassino».
L’alleanza con Gianni Alemanno?
«In realtà, non c’è mai stata. Insieme abbiamo dato vita a un’iniziativa importante contro la guerra e sarei pronto a ripeterla. Così come, viste le sue recenti parole sull’argomento, mi piacerebbe animare un confronto con Roberto Vannacci su come contrastare la guerra».
Lavoro, scuola e sanità possono essere il programma del campo largo?
«Il campo largo andrebbe arato da persone che almeno sanno usare la zappa, ma questi leader della sedicente sinistra non saprebbero da che parte impugnarla».
Che impressione le fa Elly Schlein che canta con gli Articolo 31?
«Mi dà l’idea di un partito finito, almeno rispetto alle motivazioni sociali e di passione che dovrebbe avere. Non sarà un caso se il Pd, invece di scegliere un segretario al suo interno, ha preso una passante dell’alta borghesia».

 

La Verità, 12 ottobre 2024

«Costruiamo il futuro, no alla società del controllo»

Caro Giordano Bruno Guerri, per cominciare le chiedo un piccolo sforzo di fantasia: oggi che consiglio darebbe Gabriele d’Annunzio a Giorgia Meloni?

«Se parlasse ai suoi tempi direbbe di rifare grande l’Italia. Ma non credo che oggi D’Annunzio spingerebbe il nazionalismo, semmai l’innovazione: perché è questo il modo per difendere la nazione».

Invece lei, uomo contemporaneo, come valuta i primi due mesi del nuovo governo?

«Due mesi sono pochi, eppure leggo già molti giudizi taglienti. All’inizio un governo, per di più nato nelle condizioni che sappiamo, si deve organizzare com’è capitato a tutti gli esecutivi. La mia prima sensazione è positiva, Giorgia Meloni mi sembra solida ed essenziale. D’altra parte ravviso la tendenza a un conservatorismo che non mi piace».

Dove lo vede?

«Per esempio, sulla scuola. Il merito è certamente un criterio da valorizzare, ma non vedo ancora gli strumenti per farlo. Oppure la legge sui rave party, intendiamoci, una legge necessaria, ma all’inizio stesa molto male. Gli esempi non mancano».

Se non ho capito male, è contento di non essere diventato ministro.

«Ha capito bene. L’avrei fatto per senso del dovere e gusto della sfida. Sarei entrato in un mondo che non ho mai frequentato se non marginalmente. Ma la mia vita ne sarebbe stata devastata, soprattutto perché avrei dovuto lasciare il Vittoriale».

Presidente e direttore generale della Fondazione Vittoriale degli Italiani dal 2008, Giordano Bruno Guerri, scrittore, storico eminente e già direttore editoriale di marchi prestigiosi, è impegnato a rendere sempre più attraente e moderna la casa museo più visitata al mondo. Nell’anno che si sta chiudendo il Vittoriale ha superato i 260.000 visitatori, 19.000 in meno del 2019, anno record, ma 100.000 in più del 2021. Perciò si può dire che «si è messo alle spalle la crisi del Covid e la guerra e ora prepara nuove iniziative in occasione delle manifestazioni per Bergamo e Brescia Capitale italiana della cultura per il 2023 come GardaLo!, il primo festival culturale della sponda lombarda del lago di Garda».å

Oltre alla cura del Vittoriale, qual è la vita che da ministro sarebbe stata compromessa?

«Adesso, per fare un esempio concreto, sono all’estero con la mia famiglia…».

Come trascorrerà il Natale?

«Visiterò il Marocco. Ritengo sia un bene che i miei figli conoscano il mondo arabo. E poi mi depurerò dall’assalto di luci, presepi e babbi natale».

È una presa di distanza dal cristianesimo o dal consumismo?

«È un allontanamento dai riti e dalle abitudini di questo periodo, dalla finzione di armonia e dai pranzi eccessivi».

Tornando al governo, trova conferma l’idea che Meloni e il suo partito non dispongano di una valida classe dirigente?

«Credo che la classe dirigente la stiano preparando, ma non si forma né in un anno né in dieci. È un lavoro lungo e complesso, nel frattempo si opera con quello che c’è».

L’esecutivo ha perso compattezza sulla legge contro i rave party e sui temi economici?

«Credo ci sia una visione diversa fra i partiti della maggioranza che crea conflitti che si spera restino piccoli. Non vedo un difetto nel correggere alcune decisioni, ma la capacità di riconoscere gli errori e di porvi rimedio».

Un’altra obiezione della campagna elettorale riguardava il ritorno al potere del fascismo in caso di vittoria di Giorgia Meloni.

«Il fascismo è un fenomeno storico morto e sepolto. Credo che nessuno ai vertici di Fratelli d’Italia lo rimpianga. Piuttosto, ci potrebbe essere un ritorno al conservatorismo di Dio, patria e famiglia che non è una formula propria del fascismo, ma tipica anche dei governi democristiani. Personalmente penso che converrebbe puntare energie e risorse in altre direzioni».

Quali?

«Vigilerei sul dominio degli algoritmi e dell’economia digitale sulle persone. A questo proposito apprezzo il comportamento di Giorgia Meloni nei confronti dell’Europa. Che non è una chiusura pregiudiziale, ma la difesa del controllo nazionale di fronte alla pressione economica europea che spesso si configura come un secondo governo, potenzialmente schiacciante».

Con il movimento «Italiani liberi» fondato con l’antropologa Ida Magli avevate messo in guardia da questi pericoli.

«A metà anni Novanta denunciavamo la possibilità di una sopraffazione dei popoli in favore di un’omogeneità non realizzabile in tempi così brevi. Mi sembra che il governo Meloni stia muovendosi nella direzione giusta, collaborando con l’Unione europea ma, quando occorre, mantenendo una politica distinta come sulla gestione degli sbarchi e l’arrivo degli extracomunitari».

O come sull’adesione al Mes: si è detta pronta a firmare con il sangue la decisione di non prenderlo.

«Concordo nel merito della decisione, ma forse certe battute a effetto andrebbero evitate perché l’Europa non è spiritosa».

La cultura del politicamente corretto e l’avvento della pandemia hanno rafforzato la tendenza all’omologazione?

«La pandemia ha aperto un varco terribile all’estensione del controllo degli individui. La possibilità di chiudere tutti in casa, di dire a che ora uscire e a che ora rientrare è un precedente di gestione delle masse molto pericoloso. Se si verificasse una crisi economica di gravi proporzioni, chissà cosa potrebbe fare un governo per limitare l’indipendenza dei cittadini».

È il capitalismo della sorveglianza.

«Possiamo chiamarlo così ed è sempre più pressante. Non solo nella sorveglianza, ma anche nell’indirizzo del pensiero e dei comportamenti. Il politicamente corretto è già una componente e un risultato di questo indirizzo che non si limita al divieto di pronunciare la parola “negro”, ma tende a promuovere una forma di pensiero unico».

Qualcosa si è visto negli annunci di alcuni politici di vertice europei che si sono auto-investiti del compito di vigilare sul comportamento del governo italiano.

«Il pensiero unico avanza e si estende. Mi ha molto confortato sapere che in America alcuni intellettuali come Noam Chomsky stanno fondando nuove università per rompere questo accerchiamento».

L’emergenza sanitaria giustificava la richiesta di maggiore disciplina ai cittadini?

«Io non sono no vax e penso che la salute venga prima di tutto. Ma si è visto che si sono commessi degli errori e che la stretta dei governi italiani, al plurale, è stata inferiore solo a quella del governo cinese. Che ci siano stati eccessi è comunemente riconosciuto. È particolarmente grave che per proteggerci dal Covid si sia danneggiata la salute riguardo ad altre malattie più gravi, per esempio rinviando o cancellando gli esami preventivi per il cancro. Sembra sia stata un’esercitazione generale per un controllo strettissimo. Lo si vede anche oggi… La difesa a oltranza del pos e il rifiuto di alzare il tetto al contante potrebbero preludere a nuove forme di controllo».

Viviamo in una specie di distopia?

«Il timore è che questo sia l’inizio, non un episodio estemporaneo».

Ci vorrebbe un volo sopra Bruxelles come quello di D’Annunzio su Trieste?

«Non credo basterebbe. Probabilmente lo abbatterebbero».

L’accusa di ritorno al potere del fascismo è un’intimidazione preventiva prima che Meloni muova le sue pedine?

«Certamente. Il pericolo fascista viene usato come un manganello dalle sinistre. Che deve fare quella povera donna più che piangere durante la visita al museo ebraico di Roma?».

È stato un pianto un po’ tardivo?

«E quando doveva farlo, appena nata? Non mi sembra che abbia mai manifestato amore per il fascismo. C’è quella sua intervista a 16 anni… Ma lei si riconoscerebbe in ciò che pensava a 16 anni? È politicamente scorrettissimo rinfacciargliela, per altro da parte dei più strenui militanti del politicamente corretto».

È giusto che il nuovo governo estenda la sua influenza nei posti di comando o dovrebbe mostrarsi più liberale?

«A me sembra sia una cosa normale, sempre avvenuta e sia giusto che avvenga. L’esempio americano di spoil system è limpido e nessuno si scandalizza. Piuttosto dev’esserci attenzione affinché vengano scelti uomini di qualità perché se sostituisci un bravo avversario con un amico inetto ti giochi una fetta di credibilità».

Dopo decenni di egemonia culturale della sinistra è giusto puntare a una nuova mappa?

«Ho paura delle egemonie di sinistra come di quelle di destra. La cultura è un unicum in movimento e non ha colore… Non auspico che si passi dal rosso al nero, ma che si realizzi un processo di maturazione attraverso la scuola e nelle istituzioni, senza preoccuparsi di instaurare nuove egemonie».

Qualcuno osserva che Meloni è troppo timida, per esempio sulla Rai.

«Il governo è in carica da due mesi e sta affrontando la legge di bilancio e il Pnrr. Buttarsi sulla Rai sarebbe una mossa goffa e sbagliata. Credo sia una necessità da affrontare in un secondo momento, sempre se ci saranno gli uomini giusti per farlo».

Concorda con la decisione del ministro Giuseppe Valditara di vietare l’uso dei cellulari in classe?

«Certamente, il cellulare è uno strumento privato che permette attività che non c’entrano con il lavoro scolastico. Spero che verrà un momento in cui le classi saranno dotate di computer per favorire una didattica più adeguata e moderna. Una cosa è aiutare la ricerca, un’altra andare su TikTok. Finché non si potrà fornire tutti di i-pad è corretto proibire il cellulare. I miei figli li mando a scuola senza telefono senza che me lo dica il ministro».

Non legge Tolkien né Roger Scruton: che autore consiglierebbe a Meloni?

«Premetto che non detesto Tolkien, ma non ho interesse per Il Signore degli anelli. Personalmente trovo affascinante Yuval Noah Harari, l’autore di Homo Deus. Breve storia del futuro e 21 lezioni per il XXI secolo».

Vorrebbe maggiore attenzione alla contemporaneità?

«Auspico una classe dirigente più vigile e progettuale sul futuro. Per esempio, il problema della denatalità è gravissimo perché si rischia la scomparsa di un popolo e di una cultura. Giustamente ci vantiamo del made in Italy, ma quando non ci saranno più persone in grado di realizzarlo sparirà. Servono misure energiche per favorire la natalità, uno dei problemi principali del nostro Paese».

Il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo dice che nel 2070 ci saranno 11 milioni d’italiani in meno.

«Il cittadino comune se ne frega del 2070, ma è giusto che gli uomini di Stato si pongano questo problema come priorità assoluta. Progettare il futuro è il massimo compito della politica».

 

La Verità, 24 dicembre 2022

«Il mio libro porno riscatta la maternità perduta»

Altro che intervista, per raccontare Franco Branciaroli servirebbe un romanzo. Infatti, l’ha scritto lui: il primo, a 74 anni. Oltraggioso. Estremo. Disturbante. Volgare. Poco autobiografico, però. Branciaroli ha 50 anni di teatro nelle corde vocali, ha lavorato con Aldo Trionfo e Carmelo Bene, con Luca Ronconi e Giovanni Testori; senza dimenticare il cinema con Tinto Brass. Nel romanzo, scritto in una lingua che a qualche critico ha ricordato quella di Carlo Emilio Gadda e Alberto Arbasino, c’è altro. Il titolo, La carne tonda (Nino Aragno editore), descrive il corpo di una donna incinta, ossessione erotica di un impiegato import-export milanese in pensione. Poi ci sono un ex compagno di scuola dalle numerose e indecifrabili identità, un amico con moglie malata di sclerosi multipla e altri personaggi minori. Più che un pugno, è un calcio nello stomaco. Il campionario di perversioni e acrobazie alternato alle chiacchiere da bar su comunismo, Papa, maschilismo islamico, metamorfosi di Milano e prestanza dei neri compongono l’anatomia di una rivolta, pornografica e scorretta. Nella quale, alla fine, vince la maternità.

Perché, Branciaroli, un romanzo adesso e di questo tenore?

«Il perché è una voglia di libertà creativa. In teatro non sei completamente libero perché dipendi dai direttori, dal regista e dall’autore dell’opera che si mette in scena. Tu sei solo un attore. Per realizzare un tuo progetto dovresti essere anche autore e regista. Con il passare degli anni questo stato può alimentare una sorta di frustrazione. Il vantaggio della letteratura è la libertà assoluta. Con una risma di fogli e due biro puoi fare quello che vuoi».

Si è scoperto scrittore a 74 anni?

«Rispondo con un esempio. Paragoni a parte, questo è bene sottolinearlo, Theodor Fontane ha scritto Effi Briest a 70 anni. Prima aveva scritto nulla d’importante. Solitamente ho un altro modo di sfogarmi. Quando non basta più, tutto quello che hai letto e pensato, può trasformarsi in un’altra forma espressiva. Che per me è la scrittura».

Qual è la molla di questo sfogo?

«L’idea è che cos’è una donna gravida. La maternità è la vera protagonista della storia. Infatti, l’ho dedicato a mia madre».

È viva?

«No, si chiamava Angela».

Se lo fosse cosa direbbe di questo romanzo?

«Glielo nasconderei. Se lo scoprisse si sconvolgerebbe per le parti pornografiche. Però farei presto a spiegarle come va il mondo. Questo libro è in linea, il Pil di internet è la pornografia».

I critici hanno molto apprezzato lo stile.

«Questo modo di scrivere non so da dove arriva. La lingua è dentro, un dono, un mistero. Io ho imparato prima il dialetto dell’italiano. Sono lombardo, come Gadda e Arbasino. Testori scrive pensando ai suoni. Il romanzo è tutto al presente, il protagonista non è uno che racconta, è uno che fa. Non so perché molti ridano quando gli attori scrivono. Ho letto e mandato a memoria migliaia di pagine di capolavori, non capisco lo stupore. Nella scrittura trovo una forma di voluttà artistica, spero di produrla anche nei lettori».

Gliel’hanno accettato subito o ha subito qualche rimbalzo?

«So che c’è stato qualche rifiuto, ma non me ne sono occupato direttamente. Ho trovato un editor che l’ha proposto ad Aragno, editore di lusso, che pubblica senza l’affanno delle vendite. Mi ha telefonato Aragno in persona, dicendomi che lo pubblicava perché gli piaceva lo stile. Lo benedico».

È un romanzo contro?

«Indubbiamente. Ma è soprattutto un romanzo a favore della carne, che di questi tempi è molto bistrattata».

Non c’è contraddizione in un cattolico che scrive un romanzo pornografico?

«Nessuna contraddizione. Se superiamo il moralismo, vale la massima che dice: “Ho conosciuto dei farabutti che erano anche dei moralisti, ma non ho mai conosciuto un moralista che non fosse farabutto”. Dopodiché questo paradosso è cristiano perché è l’esaltazione della carne. Il cristianesimo è l’unica religione che esalta la carne, l’incarnazione. Come scrive Michel Henry: “La carne è il dolore”».

Non mancano gli eccessi.

«Paragoni a parte, sottolineo, di quelli di Philip Roth, nessuno dice nulla».

Da chi è bistratta la carne?

«In particolare dal femminismo notarile, a causa del quale il sesso si trasforma in un contratto, un protocollo. Non ci rendiamo conto che il politicamente corretto è il trionfo dello spirito bianco».

Deprime la carne e la rende standard?

«Esatto. L’amore, la carne, il sesso: tutto diventa meccanico, solipsistico. Alla sinistra americana la vita carnale fa orrore. È costruzionista. Ma questa è la dimostrazione patetica dell’origine bianca del movimento».

Il bianco eterosessuale però ne è spesso il bersaglio.

«Solo il bianco ha questi problemi. È dei bianchi essere politicamente corretti».

Scrive negri e negre al posto di neri e nere.

«Così si esprime il protagonista, non io… Ne fa una questione di pronuncia. “Negra con quella gr così potente” è più bello da pronunciare. È una geografia, “nera si può dire di una scarpa”. Rasenta la pesantezza e la volgarità, però è vitale. Racconto il ceto medio degli anni d’oro, prima che diventassimo tutti transgender, vegetariani, vegani, green. La classe media soprattutto americana è questa roba qui».

I neri sono più prestanti: invidia non razzismo?

«Il libro è un’esaltazione della potenza sessuale dei neri. Rappresentano il futuro e generano invidia. Il protagonista immagina che l’Europa diventerà tutta nera».

Per opporsi al dominio della Cina?

«Ma soprattutto per procreare. Raddoppieremmo la popolazione nel giro di 15 anni».

Scenario apocalittico.

«La carenza di nascite è il problema di tutti, anche della Cina. È vero che l’assenza di procreazione diminuisce la popolazione, ma aumenta la quota di vecchi. Chi li mantiene?».

I mussulmani prolificano, noi abbiamo l’aborto, la pillola, i preservativi, i gay. Ci domineranno anche numericamente?

«È il pensiero del protagonista. Ma è un fatto evidente che non nasce più nessuno. Nella visione del romanzo, il parto si trasforma in amplesso, esperienza di piacere. La maternità senza dolore si rivitalizza».

Scrive culattoni invece di gay.

«È il linguaggio di quella classe media milanese».

Romanzo reazionario?

«Definirlo reazionario è un equivoco femminista, mentre esalta le donne. Non che me ne freghi niente, ma è uscito così. Caso mai è un cicinin apocalittico. Tra reazionario e conservatore c’è differenza. Il reazionario vuole distruggere ciò che c’è, il conservatore vuole mantenerlo. Il romanzo è né questo né quello, più complesso di quel che sembra».

Quanto c’è di autobiografico?

«Non molto, le parti dell’infanzia, il bar di famiglia. Il resto è inventato o aggiustato».

Ci sono anche i fotoromanzi, stagione rimossa.

«Da bambino ero addetto alla vendita dei fotoromanzi e delle sigarette. Quelle osterie erano come dei drugstore. Stavo su un seggiolone con i Grand Hotel e i pacchetti di sigarette che si scartocciavano per venderne 5 o 10. I fotoromanzi erano la possibilità di sognare. Pubblicavano foto a tutta pagina dei divi di Hollywood che ritagliavo e conservavo».

Lei ha una moglie affetta da sclerosi multipla.

«Sì, ho una moglie così. Lì la vicenda è estremizzata. Ho immaginato cosa può passare una persona che ha difficoltà economiche, che io non ho, davanti a un problema del genere. È una condizione nella quale i soldi sono ancora più discriminanti: da uno standard normale alla disperazione. Non abbiamo un’organizzazione pubblica all’altezza, devi fare da solo. Lo Stato non si occupa di questi cittadini. Il contributo pubblico è di 350 euro al mese, più 700 per l’accompagnatore. Uno che ha una persona così e lavora, come fa?».

Che cos’è per lei la ricchezza?

«È fondamentale. Se lavori, avere una persona così vuol dire badanti. Ma nel nostro Paese sono considerate un lusso come le cameriere perché il loro costo non è detraibile dalle tasse. Detraibili sono le infermiere, che però costano 200 euro al giorno. Le badanti poi hanno dei retrovita complessi, figli e mariti distanti, nei quali ti coinvolgono. In Italia i disabili sono 4 milioni, aggiungici i parenti: non capisco perché non facciano un partito».

In questi mesi è in tournée con Umberto Orsini, 88 anni, con una storia di due amici: è una sintesi della sua carriera, lei ha spesso stretto grandi sodalizi artistici?

«L’opera di Nathalie Serraute, madrina del nouveau romance francese, s’intitola Pour un oui ou pour un non e si basa sugli equivoci del linguaggio che, con la sintassi rozza dei messaggini, riportano a galla vecchi malintesi fino a generare a catena la crisi del rapporto. È un gioco molto sofisticato e divertente».

Dicevamo dei suoi sodalizi con i mostri sacri del teatro: erano fratelli maggiori, maestri, padri?

«Sono esperienze fatte in età diverse. Trionfo l’ho incontrato quando ero molto giovane. Dirigeva Carmelo Bene e me e nel Faust di Christopher Marlowe. Carmelo era più vecchio ma di poco, il fratello maggiore e complice».

Luca Ronconi?

«Il maestro, ascoltandolo imparavo cose che non sapevo. Un maestro senza volerlo essere, tra i maggiori a livello mondiale. Molti fanno teatro, ma non lo conoscono in profondità».

Giovanni Testori?

«Lui era un autore, ho provato la sensazione di un drammaturgo che lavorava apposta per me. Un’esperienza eccitantissima: c’è uno che scrive delle opere pensando a te».

Cosa comportava la complicità con Carmelo Bene?

«A parte il principio di obesità dovuta all’alcol, abbiamo trascorso due anni in tournée. Un giorno si presentò al ristorante con un occhio nero, regalo del fidanzato di un’attrice che aveva tentato di sedurre. Invano. Oltre all’insuccesso, le botte. Anche il fidanzato era un attore. “Ma Carmelo”, gli dissi, “non sapevi che ha l’asma, ti bastava metterti a correre e non ti avrebbe mai preso”».

Questo romanzo è un copione per Tinto Brass?

«Qualche scena potrebbe esserlo. Ma il cinema è crudele perché quando si inizia un film bisogna firmare le polizze assicurative. Se non si è in ottima salute non ti fanno più fare niente».

Come ha vissuto il periodo acuto della pandemia?

«Malissimo. Prima dei vaccini dovevo proteggere e controllare tutto e tutti, un disastro. Chi è già malato e vecchio non doveva prendere il virus. Sono rimasto chiuso un anno, non dormivo, ho sfiorato la depressione. Fortuna che ho un piccolo pezzo di terra. Parlavo con le piante…».

 

La Verità, 5 marzo 2022

Fiorello, patrimonio del divertimento italiano

Leggerezza, giocosità, buona musica, invenzione, spensieratezza: dove si trova tutto questo? Nel nuovo show di Rosario Fiorello, intitolato Fiorello presenta, con l’aggiunta del nome della città nella quale va in scena il recital. Venerdì sera è toccato a Padova. Oltre due ore di puro divertimento, concluse con l’intera platea in piedi, prima a ballare e cantare insieme allo showman, poi ad applaudirlo per i saluti finali e richiamarlo al bis. Il Teatro Geox era sold out nei suoi 2500 posti a sedere, tanto che sono state aggiunte nuove date a fine marzo, dopo che la tournée avrà toccato altre città. Sarebbe facile raccontare lo spettacolo citando le battute e i tormentoni, ma vorrebbe dire togliere il piacere della sorpresa ai prossimi spettatori. Gli show saranno sempre diversi, da una città all’altra e la contestualizzazione accentuerà la differenza. Padova, com’è noto, è la città dei «tre senza». Prato della Valle, la piazza senza il prato, il caffè Pedrocchi, senza le porte, il Santo, senza il nome. «Ma ha un con che compensa tutto: lo spritz». Fiorello usa il dialetto alla perfezione nell’intercalare del turpiloquio e di quella grinta un po’ rabbiosa dei veneti, punteggiatura della serata opposta ai Brividi lamentosi di Mahmood.

Tutto, però, è universalmente italiano. Musica, gag, brevi squarci di vita quotidiana, imitazioni volanti, karaoke in giacca color zucca e coda di cavallo, amarcord d’infanzia e di gioventù, improvvisazioni con il pubblico nel quale erano confusi il sindaco Sergio Giordani e Adriano Panatta, infilzato per tutta la sera come una bambolina. Un varietà assoluto, nel senso della versatilità dei linguaggi e delle espressioni. Ma anche nel senso delle varie età cui si rivolge e di cui, con rapido appello, Rosario ha voluto conoscere la diversa rappresentanza in sala. Se ci fosse un organismo deputato a tutelare il patrimonio dell’italico divertimento come l’Unesco sancisce la protezione dei patrimoni dell’umanità, lo showman siciliano andrebbe iscritto per primo in questa speciale categoria. Fiorello è un artista completo, compiuto, perfettamente risolto. Regalare uno spazio di piacere collettivo come ha fatto l’altra sera è qualcosa di unico. Non si tratta solo di evasione, di distrazione di massa. Le problematiche della quotidianità, soprattutto quelle connesse al rapporto tra le generazioni, non sono dimenticate, ma riproposte in chiave comica, paradossale o sull’onda di felici iperboli, con l’esito di sdrammatizzarle. Uno show in cui si parla con delicatezza del tempo che fugge veloce e della morte.

A ben guardare, c’è un’avvertenza sottesa all’intero canovaccio: la giusta distanza dalla politica. Proprio questo, in fondo, dà ariosità e freschezza a tutto lo spettacolo. Siamo persone, molto prima e molto più che militanti di qualcosa, espressione di qualche schieramento. La politica è divisiva e un filo tossica. Fiorello se ne sta alla larga, sfiorandola appena con una rapida citazione della padovana presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati e con la gag innocua dei cloni di cui si servirebbero il presidente Sergio Mattarella, la regina Elisabetta d’Inghilterra e qualche altro vip. Non ci sono manierismi, gne gne salottieri, correttismi dei migliori. Ma joie de vivre, voglia di cantare e ballare, attraversando i decenni e connettendo le generazioni attraverso i generi musicali. Una delle eredità lasciate dall’ultimo Festival di Sanremo è proprio il confronto a distanza tra le diverse età e la difficoltà a intrecciarne i linguaggi. In La musica è cambiata?! (Baldini+Castoldi) lo sostiene anche Mimma Gaspari, storica promoter di Paolo Conte, Gianni Morandi e Renato Zero: i rapper e i trapper di oggi non conoscono e forse nemmeno vogliono conoscere la musica di ieri, la tradizione melodica e il mondo dei cantautori. Fiorello prova a creare questa comunicazione proponendosi come ponte tra universi paralleli, per evitare di rapportarci al rap come i nostri genitori facevano con i Bee Gees. Così I giardini di marzo surfano su una metrica sincopata e Figli di puttana di Blanco prova a trasformarsi in una ballata di Domenico Modugno. Gli Ottanta e i Novanta sono stati decenni fortunati per la fusion, il jazz rock interpretato da musicisti particolarmente talentuosi. Ma Fiorello non compie un’operazione virtuosistica, la sua comunicazione non ha niente di etico e viaggia sulle ali del divertimento, suo e nostro. Se i brani dei rapper contemporanei usano senza sfumature il turpiloquio, Gino Paoli e Tony Renis si divertivano con le metafore e i sottotesti del Cielo in una stanza e di Grande grande grande. Sul sesso non si poteva essere espliciti, eppure il linguaggio era più fresco perché non incombeva il politicamente corretto. Edoardo Vianello poteva cantare I Watussi («Nel continente nero/ Alle falde del Kilimangiaro/ Ci sta un popolo di negri…») che oggi Ghali riproporrebbe in versione urban liofilizzata. Fiorello contamina, divaga, sconfina nella musica classica citando l’Ave Maria di Schubert cantata in latino da chierichetto, fino a proporre un’ispirata versione del Padre nostro sulle note di un brano di Tiziano Ferro. Narra Elvis Presley in vacanza in Italia che si affaccia dalla Torre degli Anziani roteando il bacino e s’imbatte in Questo piccolo grande amore di Claudio Baglioni… Plana sull’adolescenza e la psicologia moderna che raccomanda ai genitori di dialogare senza giudicare per «non minare l’autostima dei figli» anche quando prendono tre nel compito di greco. Seguono gli omaggi senza pose ruffiane a Raffaella Carrà e Franco Battiato, il medley di karaoke, la disco anni Novanta… Tutti in piedi con Ciuri.

 

La Verità, 20 febbraio 2022

«Forza Italia impedirà che la destra sia legittimata»

No, Marco Tarchi, docente a Scienze politiche a Firenze, ideologo della Nuova destra vicino ad Alan de Benoist, non si è convertito al cellulare e ancor meno ai social network. Le conversazioni con lui avvengono per iscritto e sanno di pensatoio. Di riflessione lontana dalla schiuma mediatica. Lo abbiamo interpellato sulle ultime novità nello scacchiere italiano, in particolare nell’area del centrodestra e in vista della partita del Quirinale.

Professor Tarchi, che cosa pensa del fatto che alla recente convention di Fratelli d’Italia siano sfilati tutti i leader dell’arco costituzionale, da Giuseppe Conte a Enrico Letta fino a Matteo Renzi?

«È il riconoscimento del ruolo centrale che, grazie alla forte crescita dei consensi, il partito ha assunto all’interno del centrodestra, e di conseguenza nel sistema politico italiano. Un dato che nessuno può più ignorare».

Fino a ieri a Giorgia Meloni veniva chiesto di prendere le distanze dal fascismo e da gruppi come Forza nuova. Queste partecipazioni mostrano che è la pregiudiziale è caduta?

«Solo apparentemente. Quando si presenteranno occasioni di contrasto su temi importanti, l’accusa di criptofascismo verrà rispolverata da ambienti di centrosinistra. Del resto, questo compito continuano a svolgerlo, in tv, giornalisti e commentatori schierati su posizioni di sinistra radicale, che al momento opportuno torneranno utili anche al Pd».

Che eredità lasciano incontri apparentemente cordiali rapidamente contraddetti da prese di posizioni successive?

«Nessuna. Sono aspetti tattici di strategie che la politica conosce da sempre. Si dialoga pacatamente con l’avversario quando si ritiene conveniente esibire un volto moderato, salvo poi derubricarlo a nemico e attaccarlo duramente nelle situazioni in cui si vuole convincere l’elettorato dei “pericoli” che esso rappresenta».

Come valuta le critiche di Roberto Saviano che ha accusato la Meloni di usurpare la figura di Atreju, personaggio della Storia infinita di Michael Ende?

«È storia vecchia: riecheggia polemiche che si trascinano da quasi mezzo secolo sul diritto o meno dei giovani missini degli anni Settanta-Ottanta di sentirsi vicini alla visione che ispirava le opere di Tolkien, a partire dal Signore degli anelli. Accusarsi reciprocamente di appropriazioni indebite è un vezzo ideologico, nient’altro. Ben più preoccupante è l’apologia dell’odio per i “nemici politici” che Saviano ha recitato nella stessa occasione. Sembra di essere ritornati alla stagione che produsse l’orribile slogan “Uccidere un fascista non è un reato”, con le ben note conseguenze di quelle parole. Se a pronunciare quelle frasi fosse stato un esponente della destra, dal Quirinale fino alle piazze imperverserebbero le proteste più vigorose. Invece, tutto tace».

Esiste ed è credibile la svolta conservatrice di Fratelli d’Italia?

«Parzialmente. Molto più evidente, nel discorso di Giorgia Meloni e del suo partito, è il richiamo ad un nazionalismo che, pur declinato con la prudente etichetta di patriottismo, rischia di apparire – ed essere – anacronistico. La polemica antifrancese ne è un esempio. È difficile, poi, capire come questa visione possa sposarsi all’atlantismo e all’occidentalismo di cui Fdi si fa sempre più insistentemente alfiere. Può spiegarlo, ma non giustificarlo, solo il rapporto di collaborazione che il gruppo conservatore europeo che la Meloni presiede ha con i repubblicani statunitensi».

Che spazio c’è in positivo nel nostro Paese per una destra conservatrice che il più delle volte viene connotata solo in negativo come non sovranista e non populista?

«Ce ne sarebbe se quella destra scegliesse come suo obiettivo polemico principale quell’egemonia del politicamente corretto che si è abbattuta sul panorama culturale del cosiddetto Occidente e mette a repentaglio – come giustamente da più parti si sta facendo notare a cominciare, in Italia, dalle recenti critiche di Luca Ricolfi – la libertà di ricerca scientifica, di insegnamento e, ormai, anche di pensiero. Contrapporre, in questo campo, il conservatorismo al progressismo, con solidi argomenti e non solo con slogan, significherebbe anche dar voce a preoccupazioni diffuse negli strati popolari della società, dove mode intellettuali made in Usa come la teoria della fluidità di genere, l’attacco al presunto “privilegio bianco”, il separatismo etnico e così via sono tuttora viste come assurdità».

Giorgia Meloni è presidente del gruppo europeo conservatori e riformisti (Ecr) che risulta più moderato di quello cui aderisce Matteo Salvini. Questa contraddizione è risolvibile?

«È difficile dirlo, anche se in questa fase sia Fratelli d’Italia che la Lega sembrano prendere le distanze da quella mentalità populista che aveva fatto il successo del progetto di Salvini e che avrebbe potuto essere il terreno d’incontro dei due partiti. Convergere su temi più moderati li potrebbe però penalizzare, e non poco, dal punto di vista elettorale, specialmente se, una volta esaurita la pandemia, se ne dovranno pagare i costi economici e sociali».

Perché ritiene che sarà Silvio Berlusconi più ancora della sinistra a frenare il processo di legittimazione istituzionale di Meloni e Salvini?

«Perché Berlusconi non perdonerà mai né all’una né all’altro di averlo spodestato da quel ruolo di eterna leadership del centrodestra cui si riteneva predestinato. E anche perché, nel fondo, il presidente di Forza Italia non è e non è mai stato un uomo di destra. Lo ha rivendicato a più riprese, dicendosi sturziano e degasperiano».

Che cosa vuol dire esattamente che il nuovo capo dello Stato dev’essere un patriota?

«Mi pare una formula di comodo, un po’ improvvisata, e neanche troppo comprensibile per la pubblica opinione».

Patria è considerato un termine divisivo perché caro alla destra, in realtà dovrebbe essere inclusivo e richiamare un patrimonio comune?

«Le parole si trascinano dietro i significati che a esse vengono attribuiti in certi periodi. Il fascismo ha usato e abusato di questo termine, cercando di attribuirsene il monopolio, e le destre oggi ne pagano lo scotto. Non da oggi, la sinistra preferisce sostituirlo con “nazione”».

Per fissare subito dei paletti, Enrico Letta ha chiesto che il nuovo capo dello Stato sia europeista. I due elementi sono in contraddizione?

«Per come Giorgia Meloni aveva posto la questione, con l’attacco a Macron e alla Francia, sì. Letta sa che i rapporti con l’Unione europea sono una delle questioni che più chiaramente segnano, agli occhi dell’elettorato, la distinzione con il campo avverso, molto meno percettibile su altri terreni, e gioca su questo aspetto».

Quanto dobbiamo stare sereni se l’Europa a cui ci si richiama è quella che in nome dell’inclusività vorrebbe cancellare il Natale e i nomi della tradizione cristiana?

«Il problema è serio, e richiama in causa la questione del politicamente corretto, e quelle connesse dei pericoli della crescita dei caratteri multiculturali e multietnici delle società occidentali. Non è un caso che in Francia sia questo problema ad aver gonfiato le vele della candidatura alla presidenza dell’outsider Eric Zemmour».

Quanto è importante il pronunciamento di papa Francesco che ha sottolineato la necessità di salvaguardare le radici delle nazioni e messo in guardia dal dominio di entità sovranazionali?

«Non molto, visto che sono proprio quelle entità a promuovere fenomeni come l’immigrazione di massa extraeuropea, che il Papa instancabilmente difende dalle accuse dei suoi critici. È difficile salvaguardare le radici delle nazioni quando si contribuisce ad accrescerne l’eterogeneità sotto il profilo culturale e dei modi di vita».

Crede che il centrodestra riuscirà a essere determinante nella partita del Quirinale?

«Considerando l’insipienza strategica di cui i suoi leader hanno dato prova in passato, c’è da dubitarne».

Ha fatto bene Salvini a sollecitare per primo i leader di partito?

«È un modo come un altro per riguadagnare centralità mediatica, ma dubito che la mossa abbia effetti pratici. E difatti è già stata respinta al mittente».

Ritiene anche lei che la proroga dello stato di emergenza nasconda il tentativo di precludere a Mario Draghi la salita sul Colle più alto?

«Può essere, ma se l’interessato vorrà davvero raggiungere quel traguardo, non credo che questo sia un ostacolo insormontabile».

La candidatura di Berlusconi è davvero praticabile o rischia di riportare il Paese al clima di un decennio fa?

«Tutto può accadere, ma l’evento mi pare improbabile, e tutt’al più può risolversi in una sorta di omaggio formale degli alleati alla sua figura istituzionale».

Dopo il dibattito sul ddl Zan, ora il Pd sta alimentando il processo per l’approvazione della legge sull’eutanasia. Che scopo hanno queste campagne in questo momento politico?

«Attrarre le componenti più a sinistra dell’ipotizzato campo largo della coalizione anti destre, che nel recente passato hanno criticato duramente la svolta moderata del Pd, con Renzi e dopo. Ma non sarà un’impresa facile».

Al centro vede un’intesa possibile tra Forza Italia, Carlo Calenda, Italia Viva, Coraggio Italia e Noi con l’Italia?

«Possibile lo è certamente, ma perché si verifichi occorrerebbero circostanze adeguate, come un equilibrio, nei sondaggi pre-elettorali, del peso numerico delle due coalizioni maggiori, per tentare di fare da ago della bilancia».

Pensa che terminata l’esperienza del governo Draghi, se alle elezioni dovesse vincere il centrodestra sarà pronto per guidare il Paese? E i poteri forti glielo consentiranno?

«Se l’elettorato dovesse esprimersi nettamente a favore del centrodestra, le alchimie istituzionali per impedirgli di governare avrebbero poche possibilità di successo. A meno che il fuoco di sbarramento non provenisse dall’interno della coalizione. E questa è un’eventualità tutt’altro che peregrina: Forza Italia e centristi sono mine vaganti».

La pandemia come ha modificato lo scenario politico italiano?

«Lo ha ingessato, grazie al clima emergenziale e allo sfruttamento che ne è stato fatto, ma non ne ha cambiato i connotati. Quando la nevrosi da virus si attenuerà, ce ne renderemo conto».

Pensa anche lei che rischiamo di diventare un Paese in parte autistico?

«Il rischio c’è, visto il clima psicologico degli ultimi due anni».

 

La Verità, 18 dicembre 2021

«Il politicamente corretto? Mi faccio una bella risata»

Mercoledì 23 giugno, ore 16,30.

Buonasera, signora Aspesi. Stamattina le ho mandato un messaggio…

«Sì, ha ragione. Ma non capisco perché vogliate intervistare una citrulla ex comunista come me».

Perché abbiamo stima dell’intelligenza e della curiosità.

«O perché volete farmi dire qualcosa contro i vostri avversari?».

Dirà quello che vuole.

«Ma il vostro giornale a dispetto della testata scrive solo bugie».

Tipo?

«Non starò a fare l’elenco. E poi si sa che i giornalisti inventano. Solo noi bacucchi fedeli al giornalismo ci atteniamo ai fatti».

Lei è la Regina madre del giornalismo. Se si fida di un semplice suddito, l’accompagnerò per mano e credo che alla fine si divertirà.

«Non sarà mica una cosa a sfondo erotico».

Si sa dove si comincia non dove si finisce.

«Adesso non posso perché sto scrivendo la rubrica per il Venerdì di Repubblica».

Imprescindibile.

«Mi chiami domani».

Giovedì, 24 giugno, ore 12.

Buongiorno signora, avevamo un appuntamento.

«Ha ragione, ma oggi è il mio compleanno, sono subissata…».

Allora auguri. Come festeggerà?

«In casa di amici. Faremo festa in terrazza, sono piena di fiori, ma non ho più vasi dove metterli».

Quale desiderio esprimerebbe in questo giorno?

«Vorrei andare alla Rinascente a comprarmi delle mutande, molto caste. E cose per la cucina, piatti, posate. La casa mi piace moltissimo».

Aveva detto che ci sarebbe andata finito il lockdown.

«Non ce l’ho ancora fatta perché mi stanca stare in piedi. Però adesso, tra molti regali, ne ho ricevuto uno bellissimo dal mio ex direttore Mario Calabresi. È un oggetto che si usa come un bastone e si tramuta in un seggiolino. Lo usano i giocatori di golf. Fantastico».

Le sono pesate le restrizioni?

«No, esco comunque pochissimo. Ricevo i film sul computer, volendo potrei non uscire mai. Ho sperimentato che stare sola alla mia età è bellissimo. Mi occupo solo di me, se non mi rompono le scatole i giornalisti».

Preferirebbe andare a cena con Mario Draghi, Al Pacino o Papa Francesco?

«Ovviamente con Draghi, un uomo meraviglioso da vedere».

Perché lo apprezza tanto?

«Mi piace che parli il necessario, come la Merkel. E che, sconvolgendo tutti, pur essendo considerato di destra, faccia politiche di sinistra. Se durasse potrebbe essere la salvezza del Paese, lo dico da ex comunista».

Da quando lo è?

«Da quando il comunismo non c’è più. In Cina, a Cuba… E neanche nello Stato di Kerala, in India».

Segno dei tempi?

«Nulla avviene per caso. Forse è il segno che la gente è diventata più egoista. Siamo disposti a fare la qualunque per un nuovo cellulare. Il mondo è peggiorato e quindi non si può più pensare al comunismo».

Che qualche danno l’ha fatto, da parte sua.

«Da noi no. Dobbiamo distinguere tra tirannia e comunismo. In Italia c’è stato un po’ di comunismo negli anni Settanta, che grazie a Dio ci ha portato lo statuto dei lavoratori. Della Russia non m’importa. Quella era una dittatura, tant’è che non c’era libertà di parola. Anche adesso, che non c’è il comunismo ma è al potere un ex dirigente del Kgb, i russi se non sono mafiosi stanno male».

È contenta che possiamo togliere la mascherina?

«Per me cambia poco perché esco raramente, data la decrepitezza. Alla mia età la mascherina dà fastidio.  Si sono sentite previsioni disperate di povertà. Invece, martedì volevo andare al ristorante con degli amici, ma non siamo riusciti a trovare un posto. Spero che i ristoratori paghino le tasse… A questo punto, i suoi lettori saranno disperati».

Sono opinioni sue. Si aspettava di finire nel mirino delle neofemministe?

«Direi di no, visto che sono più femminista di loro».

Che cosa le rimproverano esattamente?

«La mia generazione ha combattuto battaglie autentiche come la patria potestà, il divorzio, l’interruzione della gravidanza. E, con l’aiuto del Parlamento perciò anche degli uomini, le abbiamo vinte. Le femministe di oggi dovrebbero continuare, mentre vedo che si perdono sull’essere fluidi o binari, cose così».

Le rimproverano di aver scritto che è colpa anche dell’intransigenza islamica se Saman è finita male?

«La parola corretta non è colpa, ma responsabilità. Conosco l’islam solo in generale. So che in Pakistan il matrimonio forzato è reato. Perciò penso che questo delitto non sia dettato dalla religione ma da un clan. In Italia ci sono 150.000 pakistani e questa è la prima volta che accade. Mentre nelle famiglie italiane ammazzare le donne è normale».

Tra i pakistani non mi risulta sia la prima volta, quanto all’Italia è un crimine.

«Il delitto d’onore che consentiva ai mariti di ammazzare le mogli se traditi è stato cancellato solo nel 1981. In ogni Paese meraviglioso, compreso il nostro, resistono comportamenti orribili. Siamo troppo ignoranti per parlare di cattolicesimo e islamismo».

Le femministe le rimproverano di aver scritto che anche le mamme a volte uccidono?

«Ci sono processi e condanne. La madre di Cogne, la madre di Loris, in provincia di Ragusa, quella di Cosenza… L’infanticidio c’è sempre stato e c’era ancora di più finché non è arrivato l’aborto».

Resta da vedere se sia anch’esso soppressione di una vita umana.

«L’aborto è legge dello Stato, non riapriamo questa discussione».

Il femminismo storico mirava all’emancipazione della donna mentre quello di oggi si occupa soprattutto di questioni linguistiche?

«Penso che le donne abbiano ancora battaglie importanti da fare. È sbagliato limitarsi a protestare perché un uomo ci ha detto: “Stai zitta”. Basta replicare: “Stai zitto tu”. Non c’è più questa disparità. Quando avevo vent’anni e qualche maschione m’importunava per strada, mi arrestavo: “Lei ce l’ha troppo piccolo per infastidirmi”. Restavano terrorizzati e non mi seccavano più».

Ci si occupa di desinenze e di linguaggio schwa.

«Sono amenità. Amo l’italiano, che è una lingua meravigliosa da scrivere e da leggere. Dante non si occupava di queste cose. E anche oggi non lo fa nessuno, tranne due o tre invasati».

Però nei documenti pubblici si scrive genitore 1 e genitore 2.

«Abbiamo appena finito di dire che madri e padri uccidono i loro figli. Guardi anche quel bambino ritrovato in una scarpata del Mugello: voglio proprio vedere cosa viene fuori… Magari se aveva due papà o due mamme non capitava. Io sono cresciuta senza padre, tirata su da una madre e una zia, e sono cresciuta credo normale, per lo meno non infelice».

Perché scrivere padre e madre è discriminatorio?

«Sono sottigliezze inutili. Conta che ci siano buoni genitori. Se uno adotta un bambino è genitore di uno che non ha fatto lui. Se conta l’amore un bambino può essere cresciuto da tre zie o quattro fratelli».

Meglio da un padre e una madre. Secondo lei c’è troppo antagonismo tra i sessi?

«A volte manca la capacità di condividere le ragioni per essere una famiglia. Dopo un po’ la passione può diminuire, ma si continua ad amare quella persona perché è il padre dei tuoi figli, perché insieme si è costruito qualcosa di grande. Nel tempo, queste motivazioni contano più dell’essere innamorati. A volte mi sembra che questa responsabilità difetti e gli uomini vadano avanti per la loro strada».

Parlando del suo ruolo nel prossimo 007, l’attrice inglese Lashana Lynch ha detto che stiamo superando la mascolinità tossica.

«Cosa ce ne frega di un’attrice inglese, non stiamo mica parlando di Freud».

Anche Michela Murgia la usa spesso.

«Che brutte cose legge. I mariti che ammazzano figli e mogli non esprimono una mascolinità tossica?».

Cosa c’entra? Quelli sono squilibrati arrestati e condannati. Mascolinità tossica riguarda l’intero sesso maschile.

«È un discorso che non m’interessa, voglio parlare di argomenti importanti non di queste cagate».

Ha ripreso ad andare al cinema?

«Non me la sento ancora. Sono stata in Salento a riposare. Non so se ci andrò più, preferisco leggere i classici».

Gabriele Salvatores dice che il politicamente corretto ingabbia la libertà d’espressione.

«Non ci vuole Salvatores per dirlo. Il politicamente corretto mi fa ridere, io sono scorrettissima. In America c’è il puritanesimo, mentre in Italia per fortuna siamo cattolici e i peccati ci vengono perdonati».

Le tante minoranze stanno diventando troppo intransigenti?

«Basta non ascoltarle. Io sono molto insultata nei social, ma me ne frego e continuo a scrivere quello che voglio, nei limiti della legge».

Cosa pensa del fatto che Franco Nero ha chiamato Kevin Spacey nel film che sta girando a Torino?

«Penso che Spacey sia un bravissimo attore».

Discriminato dal #metoo?

«Non m’interessa. Rivederlo in un film, sia pure di Franco Nero, mi farà piacere».

Cosa l’aiuta a mantenere questa vivacità intellettuale?

«La curiosità mi ha consentito di lavorare pur non avendo studiato. Anche da bambina acquistavo le riviste femminili e collezionavo le foto delle attrici. La mamma mi accompagnava al cinema. Ho sempre desiderato uscire dalla mia vita e occuparmi della realtà. Leggo ancora quotidiani e settimanali stranieri, libri americani e inglesi. Da ragazza, facendo la cameriera a Losanna e a Londra ho imparato il francese e l’inglese, e la sera andavo a scuola. È stato un periodo divertente, con molti fidanzati».

Quando è scoccata la scintilla del giornalismo?

«Tornata a Milano, un ex fidanzato che lavorava alla Notte, ricordando le mie lettere, mi suggerì di provare a scrivere e mi mandò a una mostra di cani a Bellagio: “Tanto alla Notte pubblicano tutto”».

E da lì…

«Ho capito che scrivere mi piaceva. Provenendo da una famiglia miserevole il massimo dei miei sogni era lo stipendio per potermi comprare le calze anziché usare quelle smesse da mia sorella. Ho iniziato a scrivere per scherzo».

E ha proseguito sul serio. Le dispiace non aver avuto figli?

«Tutt’altro. Non li ho voluti. Intanto, non mi piacciono i bambini. Poi non so se sarei stata una buona madre e se avrei amato talmente i figli da non lavorare più. Ma lei deve riempire tutto il giornale?».

Siamo alla fine, le piace Enrico Letta?

«Mmmh, non posso dire che lo adoro. È una brava persona, ma sono stanca delle brave persone. Preferisco persone che incidano, anche se oggi la politica non conta nulla. Contano solo Amazon e queste cose qui. La grandiosità dei consumi decide tutto. È anche inutile dirsi di destra o di sinistra».

Cosa vuol dire oggi essere di sinistra?

«Purtroppo nulla perché la sinistra non c’è più. È stato un bel sogno, il sogno di aiutare la gente, di essere insieme, un po’ come il cristianesimo. Era una forma laica di religione. Oggi siamo sotterrati dalla finanza e dal consumismo. E ci dobbiamo barcamenare tra centro, centrodestra e destra estrema… Basta, sono stanca».

Click.

 

La Verità, 26 giugno 2021

In barba a tutto, scialuppa contro il correttismo

Finalmente, al termine della seconda puntata, Luca Barbareschi ha trovato qualcuno che sappia tenere la stecca in mano. È l’attrice Liliana Mele, ex miss Etiopia. Il conduttore l’ha invitata per chiudere In barba a tutto «con una nota di colore» e dunque le chiede se, nel suo mestiere, in questo momento, essere di colore comporti un privilegio. Il nuovo programma di Barbareschi è così, un contropelo al mainstream che regala qualche spicchio di originalità nella melassa dominante. Rispetto alla puntata d’esordio si registra un certo miglioramento. I tempi sono più precisi, il gioco di dispetti con la band di studio mostra più affiatamento, gli autori si devono essere messi a lavorare per fornire al conduttore domande da giornalista che per le interviste fanno sempre comodo. Il biliardo è lì per creare un’atmosfera e per non prendersi troppo sul serio, come del resto testimonia la faccia del conduttore, incline al sorriso beffardo. La Mele impugna la stecca e spacca il triangolo di palle. Vedi come sono superati certi schemi? Gli ospiti maschietti che l’avevano preceduta non ci avevano nemmeno provato.

Insomma, parlando di privilegi, oggi nelle fiction e al cinema dev’esserci sempre un protagonista di colore e quindi per una come lei, 37 anni che sembrano una decina di meno, è più facile lavorare. La Mele ammette, senza dimenticare la fortuna che le viene dal talento e che l’aiuta a riscattare anni di vita in salita, materia del prossimo libro. Di un altro libro si era accennato in apertura di serata con Luca Palamara, autore (con Alessandro Sallusti) di Il Sistema, che ha scoperchiato vizi e perversioni della magistratura. Si è pentito di essersi pentito?, gli ha chiesto Barbareschi, ottenendone un’arguta smentita. Il meglio della puntata però è stato nel dialogo con Paolo Rossi. «In passato eravamo su emisferi lontani, ma ora ci troviamo curiosamente vicini», l’ha presentato il conduttore. Perché, anche se si continua a «ridere per parrocchie», Destra e sinistra, citazione di un Giorgio Gaber d’annata, è uno schema superato. Durante il lockdown, Rossi ha continuato a recitare nelle periferie e nei cortili, incontrando un pubblico diverso, «paradossalmente c’è gente che fa il nostro mestiere e dice di amare il teatro che però non ama il pubblico».

In barba a tutto è un magazine veloce, nella seconda serata di Rai 3 (ore 23,15, share del 5,1%, quasi 800.000 telespettatori) che si candida a scialuppa di salvataggio per curiosi e irrequieti nella palude politicamente corretta. Ce n’è bisogno.

 

La Verità, 28 aprile 2021

«Siamo in missione contro il politicamente corretto»

Sono i Blues Brothers italiani. Provocatori. Sfrontati. Irriverenti. Pio D’Antini e Amedeo Grieco da Foggia, in arte Pio e Amedeo, coppia comica più dissacrante del bigoncio. Uno scafato e cicciottello, l’altro mimetico e allampanato, un po’ come il duo del leggendario film di John Landis. In quest’anemica primavera, la loro Felicissima sera, show con ospiti musicali e non, gag e monologhi travolgenti, si è rivelata felice anche per l’audience di Canale 5. Il momento sa di consacrazione perché questi trentacinquenni pugliesi mettono d’accordo grande pubblico e critica blasonata al punto che ci sarebbe quasi da insospettirsi…

Come siete diventati quello che vediamo in tv?

Pio: «È stata una bella cavalcata. Finalmente abbiamo il tempo giusto per esprimerci liberamente. Prima facevamo incursioni di pochi minuti, tranne in Emigratis, dov’eravamo tutti e due cattivi. Questo è un varietà diverso, antico ma futurista».

In che senso?

Pio: «Facciamo e diciamo cose che nessuno ha ancora fatto e detto».

Cosa vi davano da mangiare i vostri genitori?

Amedeo: «Quello che avevamo in casa, non c’era tanta scelta».

Pio: «Di solito, la sera quello che avanzava dal pranzo. Lo spaghetto diventava frittata di spaghetto».

La ricetta era la semplicità?

Amedeo: «La semplicità è il segreto di tutto, spettacolo compreso. Semplicità vuol dire proporre qualcosa di accessibile e comprensibile a tutti».

La semplicità deriva dalla povertà?

Amedeo: «Quella aiuta molto perché devi far funzionare l’immaginazione per ottenere quello che vuoi. Diciamo che in certe condizioni alleni bene la creatività».

Sempre parlando della gavetta, avete avuto qualche maestro nascosto?

Pio: «Foggia non ha una particolare tradizione comica. Siamo abbastanza genuini e originali».

Mai incrociato Checco Zalone da Bari?

Amedeo: «Abbiamo lo stesso produttore cinematografico. Non credo che Luca (Medici, vero nome di Checco Zalone ndr) sia incline a dividere la scena. Ci siamo professionalmente sfiorati, lui ha bisogno di un palco tutto suo».

Però la comicità è affine.

Pio: «Si fonda sulla scorrettezza e sulla verità. Il vero delle cose è la nostra madre ispiratrice. Checco ha sempre fatto cose finte, con un copione, al cinema e in tv. Noi vere fino in fondo: a Emigratis e Felicissima sera improvvisiamo situazioni non concordate con gli ospiti. Amiamo andare oltre il copione».

C’è stato qualche incontro di svolta nella vostra carriera, a parte quello recente con Maria De Filippi?

Amedeo: «Il primo. Eravamo ancora animatori turistici quando il direttore di Telefoggia, Attilio De Matteis, ci vide a una serata per festeggiare la promozione di una squadra di calcetto: “Perché non fate un programma in tv?”. Non ci avevamo mai pensato, il nostro sogno era il teatro. Quel primo spettacolo in tv ci ha portato fino alle Iene».

A scuola come andava?

Pio: «Io frequentavo ragioneria, Amedeo lo scientifico. Eravamo entrambi rappresentanti d’istituto. Organizzavamo finti scioperi per far incontrare ragazzi e ragazze».

I vostri professori erano esauriti?

Pio: «Abbastanza. Mi vanto di essermi candidato appositamente per sfinire il preside, che andò in pensione un anno prima. I professori erano esauriti da lui, un esaurimento a catena…».

I professori sono stati i suoi mandanti.

Pio: «In un certo senso. Ero un piccolo Che Guevara pugliese»

Da allora si è moderato.

Pio: «Ero una testa calda da ragazzino, ma ogni tanto l’indole riemerge».

Invece Amedeo?

Amedeo: «Mai stato rivoluzionario. Partecipavo agli scioperi per vedere le ragazze, era una rivoluzione opportunistica».

Parlando di scuola, per quanto tempo avete frequentato quella dei villaggi turistici?

Pio: «Sette-otto anni. I nostri amici ci andavano in vacanza, noi a lavorare. Abbiamo iniziato a 16 anni. Presto saremmo diventati una coppia. D’inverno mettevamo insieme le gag estive per gli spettacoli nei teatrini».

Dove nasce la sfrontatezza?

Amedeo: «Non abbiamo l’esigenza di piacere a più gente possibile, ma a noi stessi. Manteniamo questa onestà intellettuale anche sul palco, parlando come la gente comune perché siamo gente comune».

La vostra è la tecnica dell’altalena: il monello e il bravo ragazzo, uno accelera e l’altro frena?

Amedeo: «È un po’ un escamotage per poter dire tutto. In realtà, Pio fa finta di frenare».

E invece sottolinea ulteriormente?

Amedeo: «Pio fa il verso ai bravi presentatori. Siamo in missione contro il perbenismo. Il programma è come un film con una sceneggiatura, è uno show innovativo rispetto allo schema classico del comico e della spalla».

C’è una situazione o un momento della giornata che stimola maggiormente la vostra vena?

Pio: «Di notte ci vengono le gag più divertenti. Anche se, a volte, la mattina dopo ci chiediamo perché ci facevano ridere».

Il politicamente scorretto è un copione o ci credete davvero? Ci fate o ci siete?

Amedeo: «Ci siamo, perché ci piace dire le cose come stanno. C’è un conformismo che ha preso la strada del bavaglio: ormai non si può dire più niente. Come si può tenere a freno due come noi che hanno fondato tutta la carriera sulla scorrettezza?».

Il dubbio può venire perché passate dalla gag più insolente alla commozione, per esempio per la lettera a papà Federico nella quale si parlava della morte della mamma di Amedeo.

Pio: «Abbiamo scelto di spiazzare mettendoci a nudo davanti al pubblico con i nostri dolori personali raccontati da Maria. Così abbiamo iniziato la prima serata con la nostra storia. Per poi dedicarci solo a mettere in mezzo gli ospiti».

In una tv popolare c’è posto sia per la risata sgangherata che per la commozione?

Amedeo: «È un racconto sincero, si chiama varietà per questo. È un grande buffet nel quale ognuno prende quello che vuole, il dolce, l’amaro, il salato».

Anche davanti al video di Viva l’Italia vi siete commossi: siete così patriottici?

Pio: «Al di là di essere fieri italiani, quel video coglieva un sentimento particolare. Ognuno di noi ha vissuto una tragedia a causa del Covid. Il nostro era un pianto di rabbia perché non vediamo l’ora che si torni alla normalità. Noi italiani siamo giocherelloni, privarci della libertà è una sofferenza per tutti».

Nella prima serata una festa di matrimonio con balli, trenini e abbracci è stata un bell’assembramento: nessuno ha detto niente?

Amedeo: «Nessuno. Comunque, avevamo preso tutte le misure. È stata una scelta ponderata andare incontro a possibili critiche perché volevamo sottolineare il senso di normalità che manca».

Un varietà così ai tempi del Covid è un antidoto alle quarantene e alle facce cupe dei virologi e del ministro che smentisce il suo cognome?

Amedeo: «È una provocazione che vuole trasmettere un profumo di normalità. La gente è stanca di vedere queste facce e ascoltare previsioni che hanno perso credibilità perché ormai è chiaro che nessuno sa veramente come andrà a finire. Nel frattempo tutti abbiamo voglia di ricominciare a vivere».

Pio: «Noi siamo il bicchiere d’acqua durante una corsa affannosa e accaldata».

Dove vedete di più il politicamente corretto?

Amedeo: «In tv, ovunque».

Il record di correttismo?

Pio: «L’unico appuntamento fisso dello show è la parodia delle interviste di Fabio Fazio, una vera summa. L’ospite di ieri sera è stato Achille Lauro».

La prima cosa che gli avete chiesto?

Amedeo: «Pio gli ha fatto una domanda nel classico linguaggio faziano sul suo modo di vedere la sessualità tra le possibilità gender, fluid, trans… Al che io ho tagliato corto: a lei piace la figa sì o no?».

Pio: «Ovviamente io mi scandalizzo: questo non è il tipo di domande che di solito poniamo nel nostro programma, però ormai gliel’ha fatta, quindi risponda…».

E come se l’è cavata Lauro?

Amedeo: «È stato in difficoltà perché si è visto un triplo salto mortale sul concetto di trasgressione».

Concetto da revisionare?

Pio: «Assolutamente. La normalità è la cosa più trasgressiva. Abbiamo cancellato i tatuaggi di Lauro e cantato insieme una versione di Rolls Royce che si è intitolata Fiat Punto».

La vostra è una comicità qualunquista?

Amedeo: «Credo che sia l’ultima accusa possibile. Comunque, se qualunquismo vuol dire arrivare al grande pubblico lo considero un complimento».

Risparmiate i politici e vi concentrate sui vip.

Pio: «Ci adattiamo al momento. Non è più il tempo delle barche a vela a Gallipoli e delle nipoti di Mubarak. Adesso i politici fanno i simpatici, prima c’era una distanza che rendeva più accattivante la satira. Ora andiamo sui temi. Come il sistema fiscale italiano, l’appello per gli aiuti ai piccoli commercianti, il rapporto uomo-donna rivisitato da noi».

Dopo Tiziano Ferro e Gino Paoli chi saranno i prossimi bersagli?

Pio: «Ieri sera è toccato a Greta Thunberg e Celentano che si è esposto sull’ambiente. Poi c’è stato il processo di modernizzazione di Claudio Baglioni».

In vacanza su un’isola deserta con Michela Murgia, Lilli Gruber o Concita De Gregorio?

Amedeo: «Con Lilli Gruber perché voglio vedere com’è fatta dal mezzobusto in giù. Non sarà una figura mitologica come un centauro?».

Pio: «Anch’io con la Gruber, almeno mi dà qualche notizia. Nemmeno io l’ho mai vista in piedi…».

Come pensate di ripagare Maria De Filippi?

Amedeo: «Essendole riconoscenti a vita. È stata una mamma, una sorella, una compagna».

Chi è il comico che più vi ha fatto divertire?

Pio: «Massimo Troisi, ancora adesso».

Amedeo: «Dal vivo Gigi Proietti, gli bastava muovere un sopracciglio per far sbellicare. E Troisi, certo».

Prossimo progetto?

Pio: «Finire Belli ciao, il film che avevamo iniziato a girare prima dell’ultimo lockdown. L’abbiamo scritto con Gennaro Nunziante».

Il regista di tutti i film di Zalone, tranne l’ultimo.

Amedeo: «Gennaro è un maestro, andiamo molto d’accordo. Se tutto va bene uscirà il primo gennaio 2022, con Fremantle e Vision Distribution».

La storia?

Amedeo: «È una storia che anticipa quello che accadrà».

Pio: «Siamo due amici nati nello stesso paese, ma Amedeo è attaccato alle radici e rimane in Puglia, io sto a Milano per conquistare il mondo a ogni costo. Saremo uno contro l’altro».

 

La Verità, 24 aprile 2021

«La cancel culture è il nuovo oscurantismo»

La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto 65 anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare». Pierluigi «Pigi» Battista fa sua la riflessione di Jep Gambardella nella Grande bellezza di Paolo Sorrentino. Nato giornalisticamente a Epoca, poi alla Stampa di Paolo Mieli e Ezio Mauro, già vicedirettore del Corriere della Sera dopo esserlo stato di Panorama, due mesi fa, prepensionato dal quotidiano di Via Solferino, è atterrato all’Huffington post di Mattia Feltri con una rubrica intitolata «Uscita di sicurezza». È un collega, ci diamo del tu.

Cosa ti manca del Corriere della Sera?

«Senza essere sgradevole, niente. Non sono fuggito polemicamente».

Ma perché?

«Ho approfittato del prepensionamento per iniziare una nuova esperienza all’Huffington post».

Lasciare la carta stampata ti è pesato?

«No. Ero arrivato alla saturazione per il giornalismo politico».

Rigetto della politica o di come la raccontano i giornali?

«Rifiuto dell’overdose che ci infliggono tutti i quotidiani cartacei, non solo il Corriere. Trovo che 10 pagine di politica siano un numero esorbitante per chiunque. Sfido a trovare una persona sotto i trent’anni che le legga».

Provocano anche un senso d’impotenza?

«Quando ero ragazzo c’era il pastone che orientava il lettore, un’intervista e stop. Poi c’erano la terza pagina, le cronache, gli spettacoli. Oggi la politica è lottizzata: c’è la pagina dei 5 stelle, quella del Pd, quella dedicata alla Lega, a Forza Italia, con le interviste ai peones e ai portaborse dei peones. Il risultato è l’iperframmentazione e il senso d’impotenza».

La causa?

«La nascita di troppi governi bizzarri sotto l’egida della democrazia parlamentare. Per la quale il voto dei cittadini è una specie di delega che il partito spende come gli pare. Nella Prima repubblica si votava per la coalizione di governo o per l’opposizione. Nella Seconda c’erano l’Ulivo e il centrodestra. Dal 2011, quando Mario Monti ha sostituito Silvio Berlusconi, son dieci anni che i governi non corrispondono alla volontà degli elettori. I nostri giornali sono succubi di questa situazione».

Raccontano minuziosamente i tatticismi delle forze politiche che quasi mai sfociano in qualcosa di significativo per i cittadini?

«Tra un governo e l’altro i cambiamenti sono ridotti: meno tasse per il centrodestra, più Stato per la sinistra. Il vero cambiamento è che la politica economica non è più nella disponibilità degli Stati nazionali. Quando diciamo che la legge di bilancio è sottoposta all’esame dell’Europa di cosa parliamo se non di questo? Questa cessione di sovranità significa minor democrazia perché la Commissione europea si forma fuori dalla logica elettorale. Il Ppe ha preso più voti, ma non governa».

Occhio che l’accusa di sovranismo è in agguato.

«Lo so bene, ma non c’entra. C’entra il fatto che il nesso tra volontà popolare e decisioni politiche è sempre più debole. Da qui nasce il mio totale disinteresse».

Voti e per chi?

«Ho smesso di fumare e di votare».

Eppure sei cresciuto nell’epoca del «tutto è politica».

«Era qualcosa di totalizzante. Adesso per capire ciò che passa nella testa delle persone è meglio andare al cinema, quando si poteva, leggere…».

Anche in famiglia tutto passava dalla politica?

«L’ho raccontato in Mio padre era fascista: per contestare l’autorità e contrappormi a lui usavo il linguaggio della politica. Oggi, a spanne, non credo che il conflitto tra padri e figli passi per la politica. Perché oggi un ragazzo dovrebbe iscriversi a Forza Italia o al Pd?».

Al Pd perché lo farà votare già a 16 anni?

«Ma quando mai. Tutti sanno che, almeno in questa legislatura, il voto a 16 anni è pura chimera. Come lo ius soli. Quando il Pd alza queste bandiere si sa che sono solo parole».

A sinistra si pensa ancora che tutto sia politica?

«A sinistra si pensa che la politica determini l’antropologia. Esistono due categorie di italiani: quelli di sinistra, buoni, generosi, che non parcheggiano in seconda fila, pagano le tasse e leggono i libri, e quelli di destra, populisti, prepotenti, ignoranti, evasori e che non rispettano le regole».

I giornali perdono copie per troppa politica o perché lontani dalla vita reale?

«Per entrambi i motivi. Ma anche perché sta finendo l’era gutenbergiana a vantaggio di altri linguaggi, l’immagine, la vocalità. Ai quali corrispondono altrettanti social media, i podcast e gli audiolibri. Il nuovo social è Clubhouse fatto di stanze dove si commentano i fatti e tutto si autodistrugge. Puro effimero».

Preferisci l’ipercomunicazione di Conte o la non comunicazione di Draghi?

«Non era ipercomunicazione, ma ufficio propaganda che con la pandemia è diventato Istituto Luce Casalino. Detto questo penso che, con la comunità provata dalla paura, serva una comunicazione istituzionale che dia certezze».

Si sono resi conto di aver commesso un errore bloccando Astrazeneca?

«Dobbiamo capire perché lo hanno fatto. Compito delle istituzioni è rassicurare spiegando le ragioni delle decisioni. Invece, si è finito per alimentare la paura. Tanto più nel contesto di un’informazione apocalittica».

È ancora così?

«Dal primo gennaio c’è un crollo dei contagi nel personale sanitario perché i vaccini funzionano, ma nessuno lo scrive. Invece, un caso di trombosi ferma tutto. Hai voglia a chiamare il povero generale Figliuolo. Sui vaccini e sulle varianti si diffonde solo allarmismo. Vogliamo dire che la variante sudafricana in Sudafrica è stata sconfitta?».

O che in Australia e Nuova Zelanda si convive tranquillamente con il Covid come hanno dimostrato le immagini dell’America’s cup?

«Senza andare così lontano, perché non si dice che, seguendo i protocolli dell’azienda nazionale del farmaco, Boris Johnson sta completando la vaccinazione? Siccome c’è la Brexit non va bene. In Israele hanno fatto la cosa giusta, copiamoli. Ora ci svegliamo con l’idea di produrre il vaccino in casa, ma ci vorranno sei mesi».

Che fiducia si può avere?

«Si continua a ripetere che è tutto complesso. Non è vero: è tutto semplice. Abbiamo poche terapie intensive? Si fossero fatti i bandi in maggio in settembre le avremmo avute. L’alternativa non è un governo diverso, ma la trasparenza. Biden ha detto: vaccineremo 100 milioni di persone in 100 giorni. Bisogna dare un obiettivo. Il sistema del lockdown non regge, non si vedono più pattuglie che fanno rispettare le restrizioni. Personalmente, giro con due mascherine, ma mi chiedo con che faccia rampognamo i giovani per gli aperitivi quando sui vaccini abbiamo fatto tutti questi casini».

Che riscontri ha la tua rubrica?

«Eccellenti. Ma, al di là dei numeri, che sono diversi rispetto a quelli della stampa su carta, mi piace aver creato un appuntamento quotidiano. Online c’è meno fedeltà alla testata e più ai singoli autori. Quando un lettore mi chiede perché la domenica non esce la rubrica mi fa piacere».

Il politicamente corretto è il nuovo catechismo radical chic?

«Con la cancel culture c’è stato un salto di qualità. Il piagnisteo, molto molesto, non era arrivato ad abbattere le statue, a cancellare Shakespeare nelle università e Egon Schiele nei musei. Nel cinema western i buoni erano i cowboy, poi arrivò Soldato blu a mostrarci che i pellerossa erano un popolo. Quello era il politicamente corretto. La cancel culture vuole che i western siano eliminati dalle cineteche. Come pure Peter Pan e Dumbo, ci rendiamo conto? È fanatismo maoista che abbatte ciò che non si conforma. È un nuovo oscurantismo che, sbagliando, abbiamo preso per una bizzarria».

Invece ingabbia la creatività, l’arte, il cinema?

«E favorisce un nuovo conformismo perché intimidisce. Nessuno vuol passare per sessista o razzista. Nel libro di Guia Soncini L’era della suscettibilità c’è un capitolo intitolato “Pensa oggi”. Pensa cosa accadrebbe se Lucio Dalla scrivesse oggi 4 marzo 1943, se qualcuno facesse un apprezzamento sulla minigonna di Alba Parietti, se Vasco Rossi scrivesse Colpa d’Alfredo: “È andata a casa con il negro, la troia”. Non si tratta di elogiare la parola offensiva, è un diritto non essere insultati, ma deve valere per tutti».

Invece?

«L’indignazione si ferma quando viene colpito l’avversario. Si dà del nano a Renato Brunetta o dello psiconano a Berlusconi. Non registro crociate contro le frequenti offese a Giorgia Meloni».

Ingabbia anche il linguaggio?

«Parlare di normalità è proibito perché stabilisce il primato della norma sull’anomalo e offende chi non rientra nei canoni. Siamo nel regno della stupidità universale. A confronto, Robespierre aveva una sua grandezza. Come diceva Carlo Marx, la storia da tragedia si trasforma in farsa».

Il trionfo del correttismo è nelle candidature agli Oscar?

«Adottano il manuale Cencelli delle minoranze. Non ci si chiede più se un film è meritevole o no. Ci sono le donne, i neri, i gruppi sociali marginalizzati e allora è ok. Se ha per protagonista un maschio bianco eterosessuale di una famiglia tradizionale di Manhattan è tagliato fuori».

Zitti e buoni i Maneskin hanno cambiato il testo di Zitti e buoni per allinearsi alle regole dell’Eurovision.

«Sono sufficientemente anziano per ricordare che anche Dalla fu costretto a cambiare il testo per esibirsi a Sanremo. Era una forma di oscurantismo censorio premoderno e così lo chiamammo. Del resto si spaccia per rivoluzionario Achille Lauro, 40 anni dopo Renato Zero».

Il libro più bello degli ultimi anni?

«Quelli di Michel Houellebecq. Apprezzo anche il modo in cui scrive. Serotonina è fondamentale per capire la frattura tra la provincia e le élites urbane».

La serie?

«Ho scoperto da poco Le bureau, già alla quinta stagione. Una bellissima spy story con un’ugualmente bella storia d’amore».

Il tuo prossimo libro?

«Sarà un po’ come Mio padre era fascista, la storia romanzata di una famiglia italiana del Novecento».

Un maestro che ti manca?

«Lucio Colletti, un grande liberale. Le sue lezioni erano di una chiarezza e di un coraggio assoluti. Quando sento certe fregnacce, mi chiedo cosa ne direbbe lui. E poi mi manca Philip Roth, anche lui sferzato dal politicamente corretto».

 

La Verità, 20 marzo 2021

«Se vince il politicamente corretto addio risate»

Ebbasta co’ sto politicamente coretto. Basta, ne abbiamo le palle piene, nun se ne pò più… Sta diventando ’na patologgìa». Era una tiepida sera di fine agosto e in piazza San Cosimato a Roma si parlava di Alberto Sordi e del suo cinema nel centenario della nascita. Dopo la proiezione de Lo scapolo (1955), il regista Francesco Zippel aveva chiesto a Carlo Verdone se secondo lui era più facile fare cinema negli anni Cinquanta e Sessanta o adesso.

E lei che cosa gli ha risposto?

«Che forse era più facile allora, per tanti motivi. Innanzitutto, perché il periodo storico offriva molti spunti. Uscivamo dal dopoguerra, iniziava il boom economico, poi ci fu l’avvento del terrorismo. Sordi era stato protagonista della rappresentazione del boom. Poi, con Un borghese piccolo piccolo, tratto da un romanzo di Vincenzo Cerami, lo diventava anche dei nuovi conflitti. Il cinema di Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman e Nino Manfredi poteva attingere alla narrativa… Piero Chiara, Ennio Flaiano, Carlo Emilio Gadda… Noi questa letteratura non ce l’abbiamo. In compenso, abbiamo un altro problema…».

Ovvero?

«Sembriamo sceneggiatori liberi e indipendenti. Invece, se diamo retta alle regole del politicamente corretto, proprio tanto liberi non siamo».

Racconti.

«In questo periodo sto scrivendo la sceneggiatura di Vita da Carlo, una serie in parte autobiografica in dieci episodi per Amazon Prime. Bene, ogni giorno con i miei collaboratori dobbiamo fermarci per qualche parola impronunciabile o qualche tabù inviolabile. È uno stillicidio. Spesso si riesce ad aggirare l’ostacolo, salvando la battuta magari un filo scorretta, ma che fa scaturire la risata. Altre volte non ci riusciamo… Questa pressione è un errore micidiale perché con l’andar del tempo faremo sempre meno ridere. Questo non si può dire perché s’incazzano quelli, quest’altro nemmeno perché s’incazzano l’altri. Ci dobbiamo continuamente autocensurare. È un fenomeno che arriva al cinema, ma attraversa tutta la società. Non c’è giorno che non resti basito per la protesta di qualcuno».

L’ultimo caso?

«L’altro giorno ho letto quello che è capitato alla popstar Adele in occasione del carnevale di Notting Hill (una tradizione londinese nata da cittadini di origine caraibica che quest’anno non si è festeggiata causa Covid ndr). Ognuno dovrebbe potersi mascherare come gli pare… Adele, che è dimagrita, ha postato una foto in bikini con i colori giamaicani e si è acconciata con le treccine. Prima si è beccata le proteste degli obesi, tipo: hai voluto dire che noi grassi siamo schiavi, non tutti hanno i soldi per il dietologo come te… Poi si sono scatenati quelli che difendono l’appartenenza culturale: con quell’acconciatura ti sei burlata della nostra etnia, ma tu sei bianca…».

Ha definito il politicamente corretto è una patologia. A quando risalgono i primi sintomi?

«Credo che tutto sia iniziato da Woman is the nigger of the world, una canzone di John Lennon e Yoko Ono del 1972. All’epoca era giusto cominciare a difendere le donne e pure mettere i puntini sulle i sul modo di chiamare i negri. D’accordo, li chiameremo in un’altra maniera: neri, colored…».

Ricordandoci che esiste anche la negritudine.

«Esatto. Il problema è che quelle istanze in partenza giuste sono state esasperate fino ad assumere toni dittatoriali».

Una dittatura che pesa molto nel cinema?

«Il Festival di Berlino ha abolito l’Orso d’argento per le interpretazioni maschile e femminile, istituendo il premio neutro-gender. Un cedimento incredibile, inventato per non offendere chi non si sente maschio o femmina. Questa è una nuova frontiera. Una mia amica progressista si è presa un pistolotto da una persona che lei aveva chiamato con il pronome she. In quanto polisessuale, si rifiutava di essere catalogata al femminile e pretendeva di essere chiamata con they. Capisce?».

L’anno scorso alla Mostra di Venezia Lucrecia Martel, presidente della giuria, contestò la presenza in concorso di Roman Polanski: i festival del cinema un tempo laboratori anticonformisti si stanno trasformando in luoghi di omologazione?

«Fortunatamente Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia, ha espresso molte perplessità nei confronti della decisione del Festival di Berlino. Mi sembra che tutto nasca da un atteggiamento post femminista estremo e non dialogante. Da un moralismo proveniente dall’America talmente radicale da paralizzare l’espressione creativa».

Restando in America, il cinema di Clint Eastwood meriterebbe più attenzioni?

«È un cinema che racconta un’anima autentica di quel paese. Eastwood sembrerebbe un conservatore, e sicuramente lo è, ma ben analizzati i suoi lavori mostrano più tolleranza di quelli di altri registi schierati. Credo che la stima nei suoi confronti sia unanime o quasi».

Perché questo moralismo trova terreno fertile nella critica cinematografica?

«Perché è una critica tendenzialmente radical chic, molto intellettuale, spesso espressa da donne con qualche frustrazione. Una conseguenza di ciò che è successo al povero George Floyd è stato censurare un film come Via col vento. Sono decisioni infantili, i film vanno contestualizzati. C’è la mamy di colore… Via col vento è una bandiera di Hollywood. Con questo criterio prendiamo le opere dei futuristi e le buttiamo al macero perché alcuni degli autori simpatizzavano per il fascismo. Oppure abbattiamo i monumenti fatti erigere da Diocleziano».

Da Un sacco bello a Benedetta follia: quali scene dei suoi film sono state contestate?

«Ricordo una volta, il trailer di Io e mia sorella. Io stavo sempre al telefono al posto di Ornella Muti. Nel trailer dicevo a un suo amante che lei non era in casa, ma quando usciva dalla vasca da bagno mi subissava: come parli? T’impappini che sembri un handicappato… o uno spastico; non ricordo bene. Fatto sta che arrivò la lettera di un’associazione di portatori di handicap che minacciava denuncia. Di notte, a tempo di record, prima che il film uscisse, cambiai la battuta e mi salvai».

Certi film oggi non riuscirebbe a farli?

«Forse Viaggi di nozze, di sicuro Gallo cedrone. Il rimorchiatore che guarda il culo di una ragazza e commenta “chi te l’ha scolpito quel fondoschiena, Michelangelo? Stava in forma quel giorno”, non passerebbe il vaglio di questi censori. Per il resto sono sempre stato rispettoso delle donne. Tutte le attrici che hanno recitato con me sono state valorizzate e hanno conquistato premi e riconoscimenti».

Il politicamente corretto è una questione che riguarda il linguaggio o il complesso di superiorità di certi ambienti?

«È un moralismo da salotto, un po’ costruito, frequente in ambienti alto borghesi. Invece di dire “cameriere” o “domestico”, dicono “l’indianinio” o “il filippinetto… te lo faccio portare dal filippinetto”».

Si teme di offendere certe minoranze?

«Una misura ci vuole, ci mancherebbe. Ma se iniziano a comandare certi ayatollah addio leggerezza. Oggi la scena di “lavoratori!” de I vitelloni non si potrebbe girare».

Quindi c’era molta più libertà creativa allora?

«Erano film al maschile, là sì la donna era l’oggetto del desiderio. Se si eccettuano Franca Valeri, Monica Vitti, Mariangela Melato e poche altre, in gran parte le attrici erano prese per quanto erano belle, e spesso cornificavano. Si rideva della nostra immoralità, del nostro sbracamento sentimentale».

Scoppiò una guerra di religione per La dolce vita che portò al licenziamento di suo padre da un giornale.

«Però fortunatamente intellettuali come Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Tullio Kezich si schierarono in difesa del film e un certo bigottismo democristiano polveroso non vinse. Tutti la vedevano Via Veneto, come si poteva definire pornografia pura La dolce vita? Anche nel mondo cattolico, padre Nazareno Taddei e il cardinale Giuseppe Siri lo difesero».

Che idea si è fatto del movimento #Metoo?

«È stata una goccia che ha riempito ancora di più il vaso. Una vicenda traumatizzante. Da una parte lo appoggio perché qualcuno si è comportato molto, molto male. Dall’altra, alcune ragazze non potevano non sapere che certi produttori avevano determinate riprovevoli abitudini. Dopo le denunce delle prime, altre si sono accodate per avere risarcimenti e notorietà. Ora stiamo scoprendo che Jeffrey Epstein era peggio di Harvey Weinstein. Un attore del carisma di Kevin Spacey non può più lavorare perché ha la sfortuna di essere americano e non si è salvato nemmeno con la residenza britannica. Noi che siamo un popolo cattolico e viviamo in un Paese nel quale il Papa è seguito, abbiamo quasi santificato Pasolini».

Lei riabiliterebbe Spacey?

«Mi chiedo se sia giusto cancellare definitivamente un attore così a causa di azioni che hanno compiuto tanti altri. Tanti registi si portavano i ragazzi nello yacht. Se si legge Hollywood Babilonia non si salva nessuno. Ma quegli attori, registi e attrici non sono stati toccati, forse perché il politicamente corretto non era ancora in voga».

Alberto Sordi è la figura che l’ha maggiormente influenzata?

«Più ancora mi hanno influenzato i primi film di Fellini: Lo sceicco bianco, Il bidone, La dolce vita, I vitelloni. La messa in scena della coralità, i personaggi minori, caratteristi come Leopoldo Trieste mi hanno fatto amare presto il cinema. Credo che Fellini sia stato il più grande psicologo che il cinema abbia avuto».

Quando si è scoperto fotografo delle nuvole?

«Sono vent’anni che fotografo il cielo e metto tutto in un hard disk. Era un hobby privato. Quando Elisabetta Sgarbi ne ha letto in un’intervista e mi ha detto che voleva vederle per la Milanesiana, mi sono messo a riguardarle e gliene ho mandate venti. Ha insistito per vederne altre, le ha mandate a dei critici e alla direttrice del Museo Madre di Napoli, dove ora sono esposte. È una passione che nasce come reazione a un lavoro nel quale sono sempre in rapporto con le persone e inquadro continuamente dei volti. Qui rivolgo l’obiettivo verso l’alto, nel silenzio assoluto, da solo. Se qualcuno mi chiede dov’è la mia anima, lo invito a guardare quelle fotografie. Ci sono il cielo, le nuvole, il vento, i colori, la ricerca di Dio. Non sono immagini malinconiche, ma preghiere senza parole. Carezze».

Ci rivela un tic, un segreto, qualcosa che fa incazzare Carlo Verdone?

«Mi fa incazzare l’omologazione che avvolge i giovani. Sono tutti uguali: nei capelli, nei tatuaggi, nel gergo. Nessuno riesce a distinguersi davvero. Se oggi qualcuno volesse raccontare la cafoneria come ho fatto in Grande grosso e Verdone o in Gallo cedrone non riuscirebbe a causa del piattume generale. Poi la realtà mi ha ampiamente superato».

In cosa, per esempio?

«Certi personaggi che sembravano estremi ora sono normalissimi. Una volta all’anteprima di Viaggi di nozze Lietta Tornabuoni (storica critica cinematografica della Stampa ndr) mi venne incontro: “Film bellissimo, Carlo. Ma che esagerazione il ristorante con tutti quei cellulari che squillano”. “Vedrai Lietta, vedrai”».

Il film più bello visto di recente?

«Green book, affettuoso e pieno di grazia, con un Viggo Mortensen strepitoso. E poi Joker, con Joaquim Phoenix: nessuno ha mai interpretato così la follia».

La serie prediletta?

«Braeking beads».

Il libro?

«Durante il lockdown ho riletto Viaggio in Italia di Montesquieu, ritrovandoci ancora cose nuove sul nostro paese».

Che cosa trattiene del periodo di clausura?

«Molti miei amici sono ricorsi agli antidepressivi o agli ansiolitici. Personalmente, ho imparato a bastare a me stesso. Ne ho approfittato per sistemare il soggetto del prossimo film, scrivere la serie e ultimare il mio terzo libro».

Che s’intitolerà?

«Non ha ancora un titolo. Prende spunto dal ritrovamento di uno scatolone sigillato dal mio compianto segretario. Aprendolo, racconto fotografie, oggetti, lettere, intraprendendo un viaggio nel passato intrecciato a racconti del presente. Uscirà nel 2021».

Come Si vive una volta sola, il film rinviato a causa del Covid?

«Esatto. L’abbiamo stoppato e con Aurelio De Laurentiis abbiamo deciso di aspettare la riapertura dei cinema. I film sono fatti per uscire in sala».

Si vive una volta sola vuol dire?

«Non posso anticipare nulla perché il titolo è legato a un colpo di scena finale».

Come vede l’Italia al tempo della pandemia?

«Mi preoccupano alcune persone di governo inadeguate. Una sorte che ci accomuna alla Gran Bretagna, la Spagna, la Francia… Noi, con tutti gli errori che sono stati fatti per esempio a Bergamo e Brescia, ci siamo arrangiati. L’altra cosa che mi preoccupa è il futuro delle giovani generazioni, l’assenza di lavoro. Mi piacerebbe molto poter allenare il talento dei ragazzi. Temo che tra poco si troveranno a pagare le conseguenze di una crisi spaventosa».

 

La Verità, 5 settembre 2020