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«Se vince il politicamente corretto addio risate»

Ebbasta co’ sto politicamente coretto. Basta, ne abbiamo le palle piene, nun se ne pò più… Sta diventando ’na patologgìa». Era una tiepida sera di fine agosto e in piazza San Cosimato a Roma si parlava di Alberto Sordi e del suo cinema nel centenario della nascita. Dopo la proiezione de Lo scapolo (1955), il regista Francesco Zippel aveva chiesto a Carlo Verdone se secondo lui era più facile fare cinema negli anni Cinquanta e Sessanta o adesso.

E lei che cosa gli ha risposto?

«Che forse era più facile allora, per tanti motivi. Innanzitutto, perché il periodo storico offriva molti spunti. Uscivamo dal dopoguerra, iniziava il boom economico, poi ci fu l’avvento del terrorismo. Sordi era stato protagonista della rappresentazione del boom. Poi, con Un borghese piccolo piccolo, tratto da un romanzo di Vincenzo Cerami, lo diventava anche dei nuovi conflitti. Il cinema di Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman e Nino Manfredi poteva attingere alla narrativa… Piero Chiara, Ennio Flaiano, Carlo Emilio Gadda… Noi questa letteratura non ce l’abbiamo. In compenso, abbiamo un altro problema…».

Ovvero?

«Sembriamo sceneggiatori liberi e indipendenti. Invece, se diamo retta alle regole del politicamente corretto, proprio tanto liberi non siamo».

Racconti.

«In questo periodo sto scrivendo la sceneggiatura di Vita da Carlo, una serie in parte autobiografica in dieci episodi per Amazon Prime. Bene, ogni giorno con i miei collaboratori dobbiamo fermarci per qualche parola impronunciabile o qualche tabù inviolabile. È uno stillicidio. Spesso si riesce ad aggirare l’ostacolo, salvando la battuta magari un filo scorretta, ma che fa scaturire la risata. Altre volte non ci riusciamo… Questa pressione è un errore micidiale perché con l’andar del tempo faremo sempre meno ridere. Questo non si può dire perché s’incazzano quelli, quest’altro nemmeno perché s’incazzano l’altri. Ci dobbiamo continuamente autocensurare. È un fenomeno che arriva al cinema, ma attraversa tutta la società. Non c’è giorno che non resti basito per la protesta di qualcuno».

L’ultimo caso?

«L’altro giorno ho letto quello che è capitato alla popstar Adele in occasione del carnevale di Notting Hill (una tradizione londinese nata da cittadini di origine caraibica che quest’anno non si è festeggiata causa Covid ndr). Ognuno dovrebbe potersi mascherare come gli pare… Adele, che è dimagrita, ha postato una foto in bikini con i colori giamaicani e si è acconciata con le treccine. Prima si è beccata le proteste degli obesi, tipo: hai voluto dire che noi grassi siamo schiavi, non tutti hanno i soldi per il dietologo come te… Poi si sono scatenati quelli che difendono l’appartenenza culturale: con quell’acconciatura ti sei burlata della nostra etnia, ma tu sei bianca…».

Ha definito il politicamente corretto è una patologia. A quando risalgono i primi sintomi?

«Credo che tutto sia iniziato da Woman is the nigger of the world, una canzone di John Lennon e Yoko Ono del 1972. All’epoca era giusto cominciare a difendere le donne e pure mettere i puntini sulle i sul modo di chiamare i negri. D’accordo, li chiameremo in un’altra maniera: neri, colored…».

Ricordandoci che esiste anche la negritudine.

«Esatto. Il problema è che quelle istanze in partenza giuste sono state esasperate fino ad assumere toni dittatoriali».

Una dittatura che pesa molto nel cinema?

«Il Festival di Berlino ha abolito l’Orso d’argento per le interpretazioni maschile e femminile, istituendo il premio neutro-gender. Un cedimento incredibile, inventato per non offendere chi non si sente maschio o femmina. Questa è una nuova frontiera. Una mia amica progressista si è presa un pistolotto da una persona che lei aveva chiamato con il pronome she. In quanto polisessuale, si rifiutava di essere catalogata al femminile e pretendeva di essere chiamata con they. Capisce?».

L’anno scorso alla Mostra di Venezia Lucrecia Martel, presidente della giuria, contestò la presenza in concorso di Roman Polanski: i festival del cinema un tempo laboratori anticonformisti si stanno trasformando in luoghi di omologazione?

«Fortunatamente Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia, ha espresso molte perplessità nei confronti della decisione del Festival di Berlino. Mi sembra che tutto nasca da un atteggiamento post femminista estremo e non dialogante. Da un moralismo proveniente dall’America talmente radicale da paralizzare l’espressione creativa».

Restando in America, il cinema di Clint Eastwood meriterebbe più attenzioni?

«È un cinema che racconta un’anima autentica di quel paese. Eastwood sembrerebbe un conservatore, e sicuramente lo è, ma ben analizzati i suoi lavori mostrano più tolleranza di quelli di altri registi schierati. Credo che la stima nei suoi confronti sia unanime o quasi».

Perché questo moralismo trova terreno fertile nella critica cinematografica?

«Perché è una critica tendenzialmente radical chic, molto intellettuale, spesso espressa da donne con qualche frustrazione. Una conseguenza di ciò che è successo al povero George Floyd è stato censurare un film come Via col vento. Sono decisioni infantili, i film vanno contestualizzati. C’è la mamy di colore… Via col vento è una bandiera di Hollywood. Con questo criterio prendiamo le opere dei futuristi e le buttiamo al macero perché alcuni degli autori simpatizzavano per il fascismo. Oppure abbattiamo i monumenti fatti erigere da Diocleziano».

Da Un sacco bello a Benedetta follia: quali scene dei suoi film sono state contestate?

«Ricordo una volta, il trailer di Io e mia sorella. Io stavo sempre al telefono al posto di Ornella Muti. Nel trailer dicevo a un suo amante che lei non era in casa, ma quando usciva dalla vasca da bagno mi subissava: come parli? T’impappini che sembri un handicappato… o uno spastico; non ricordo bene. Fatto sta che arrivò la lettera di un’associazione di portatori di handicap che minacciava denuncia. Di notte, a tempo di record, prima che il film uscisse, cambiai la battuta e mi salvai».

Certi film oggi non riuscirebbe a farli?

«Forse Viaggi di nozze, di sicuro Gallo cedrone. Il rimorchiatore che guarda il culo di una ragazza e commenta “chi te l’ha scolpito quel fondoschiena, Michelangelo? Stava in forma quel giorno”, non passerebbe il vaglio di questi censori. Per il resto sono sempre stato rispettoso delle donne. Tutte le attrici che hanno recitato con me sono state valorizzate e hanno conquistato premi e riconoscimenti».

Il politicamente corretto è una questione che riguarda il linguaggio o il complesso di superiorità di certi ambienti?

«È un moralismo da salotto, un po’ costruito, frequente in ambienti alto borghesi. Invece di dire “cameriere” o “domestico”, dicono “l’indianinio” o “il filippinetto… te lo faccio portare dal filippinetto”».

Si teme di offendere certe minoranze?

«Una misura ci vuole, ci mancherebbe. Ma se iniziano a comandare certi ayatollah addio leggerezza. Oggi la scena di “lavoratori!” de I vitelloni non si potrebbe girare».

Quindi c’era molta più libertà creativa allora?

«Erano film al maschile, là sì la donna era l’oggetto del desiderio. Se si eccettuano Franca Valeri, Monica Vitti, Mariangela Melato e poche altre, in gran parte le attrici erano prese per quanto erano belle, e spesso cornificavano. Si rideva della nostra immoralità, del nostro sbracamento sentimentale».

Scoppiò una guerra di religione per La dolce vita che portò al licenziamento di suo padre da un giornale.

«Però fortunatamente intellettuali come Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Tullio Kezich si schierarono in difesa del film e un certo bigottismo democristiano polveroso non vinse. Tutti la vedevano Via Veneto, come si poteva definire pornografia pura La dolce vita? Anche nel mondo cattolico, padre Nazareno Taddei e il cardinale Giuseppe Siri lo difesero».

Che idea si è fatto del movimento #Metoo?

«È stata una goccia che ha riempito ancora di più il vaso. Una vicenda traumatizzante. Da una parte lo appoggio perché qualcuno si è comportato molto, molto male. Dall’altra, alcune ragazze non potevano non sapere che certi produttori avevano determinate riprovevoli abitudini. Dopo le denunce delle prime, altre si sono accodate per avere risarcimenti e notorietà. Ora stiamo scoprendo che Jeffrey Epstein era peggio di Harvey Weinstein. Un attore del carisma di Kevin Spacey non può più lavorare perché ha la sfortuna di essere americano e non si è salvato nemmeno con la residenza britannica. Noi che siamo un popolo cattolico e viviamo in un Paese nel quale il Papa è seguito, abbiamo quasi santificato Pasolini».

Lei riabiliterebbe Spacey?

«Mi chiedo se sia giusto cancellare definitivamente un attore così a causa di azioni che hanno compiuto tanti altri. Tanti registi si portavano i ragazzi nello yacht. Se si legge Hollywood Babilonia non si salva nessuno. Ma quegli attori, registi e attrici non sono stati toccati, forse perché il politicamente corretto non era ancora in voga».

Alberto Sordi è la figura che l’ha maggiormente influenzata?

«Più ancora mi hanno influenzato i primi film di Fellini: Lo sceicco bianco, Il bidone, La dolce vita, I vitelloni. La messa in scena della coralità, i personaggi minori, caratteristi come Leopoldo Trieste mi hanno fatto amare presto il cinema. Credo che Fellini sia stato il più grande psicologo che il cinema abbia avuto».

Quando si è scoperto fotografo delle nuvole?

«Sono vent’anni che fotografo il cielo e metto tutto in un hard disk. Era un hobby privato. Quando Elisabetta Sgarbi ne ha letto in un’intervista e mi ha detto che voleva vederle per la Milanesiana, mi sono messo a riguardarle e gliene ho mandate venti. Ha insistito per vederne altre, le ha mandate a dei critici e alla direttrice del Museo Madre di Napoli, dove ora sono esposte. È una passione che nasce come reazione a un lavoro nel quale sono sempre in rapporto con le persone e inquadro continuamente dei volti. Qui rivolgo l’obiettivo verso l’alto, nel silenzio assoluto, da solo. Se qualcuno mi chiede dov’è la mia anima, lo invito a guardare quelle fotografie. Ci sono il cielo, le nuvole, il vento, i colori, la ricerca di Dio. Non sono immagini malinconiche, ma preghiere senza parole. Carezze».

Ci rivela un tic, un segreto, qualcosa che fa incazzare Carlo Verdone?

«Mi fa incazzare l’omologazione che avvolge i giovani. Sono tutti uguali: nei capelli, nei tatuaggi, nel gergo. Nessuno riesce a distinguersi davvero. Se oggi qualcuno volesse raccontare la cafoneria come ho fatto in Grande grosso e Verdone o in Gallo cedrone non riuscirebbe a causa del piattume generale. Poi la realtà mi ha ampiamente superato».

In cosa, per esempio?

«Certi personaggi che sembravano estremi ora sono normalissimi. Una volta all’anteprima di Viaggi di nozze Lietta Tornabuoni (storica critica cinematografica della Stampa ndr) mi venne incontro: “Film bellissimo, Carlo. Ma che esagerazione il ristorante con tutti quei cellulari che squillano”. “Vedrai Lietta, vedrai”».

Il film più bello visto di recente?

«Green book, affettuoso e pieno di grazia, con un Viggo Mortensen strepitoso. E poi Joker, con Joaquim Phoenix: nessuno ha mai interpretato così la follia».

La serie prediletta?

«Braeking beads».

Il libro?

«Durante il lockdown ho riletto Viaggio in Italia di Montesquieu, ritrovandoci ancora cose nuove sul nostro paese».

Che cosa trattiene del periodo di clausura?

«Molti miei amici sono ricorsi agli antidepressivi o agli ansiolitici. Personalmente, ho imparato a bastare a me stesso. Ne ho approfittato per sistemare il soggetto del prossimo film, scrivere la serie e ultimare il mio terzo libro».

Che s’intitolerà?

«Non ha ancora un titolo. Prende spunto dal ritrovamento di uno scatolone sigillato dal mio compianto segretario. Aprendolo, racconto fotografie, oggetti, lettere, intraprendendo un viaggio nel passato intrecciato a racconti del presente. Uscirà nel 2021».

Come Si vive una volta sola, il film rinviato a causa del Covid?

«Esatto. L’abbiamo stoppato e con Aurelio De Laurentiis abbiamo deciso di aspettare la riapertura dei cinema. I film sono fatti per uscire in sala».

Si vive una volta sola vuol dire?

«Non posso anticipare nulla perché il titolo è legato a un colpo di scena finale».

Come vede l’Italia al tempo della pandemia?

«Mi preoccupano alcune persone di governo inadeguate. Una sorte che ci accomuna alla Gran Bretagna, la Spagna, la Francia… Noi, con tutti gli errori che sono stati fatti per esempio a Bergamo e Brescia, ci siamo arrangiati. L’altra cosa che mi preoccupa è il futuro delle giovani generazioni, l’assenza di lavoro. Mi piacerebbe molto poter allenare il talento dei ragazzi. Temo che tra poco si troveranno a pagare le conseguenze di una crisi spaventosa».

 

La Verità, 5 settembre 2020

«Trovo intollerabile l’intolleranza dei buoni»

L’ultimo libro di Giuseppe Culicchia, E finsero felici e contenti. Dizionario delle nostre ipocrisie (Feltrinelli), è un saggio talmente lucido e godibile che andrebbe letto nelle scuole, corso di educazione civica, oppure adottato nelle facoltà di Scienze politiche e Scienze della comunicazione. Cinquantacinque anni, torinese, autore di Tutti giù per terra, da cui è stato tratto l’omonimo film con Valerio Mastandrea, da libraio Culicchia è diventato scrittore, saggista, traduttore dall’inglese e dal francese. La sua satira demolisce uno a uno i luoghi comuni dello storytelling da salotto, non necessariamente televisivo.

Cominciamo da lei, Culicchia: genitori?

«Mio padre, nato a Marsala, arrivò ventenne a Torino nel 1946. Essendosi innamorato della fidanzata di un suo amico, volle allontanarsi da quella storia. Mia madre era un’operaia tessile piemontese, figlia di un’operaia tessile. Si conobbero a metà degli anni Cinquanta e si sposarono».

Infanzia dura?

«Ero il figlio del barbiere meridionale. Diciamo che ho sperimentato sulla mia pelle una forma di razzismo senza peli sulla lingua. Ma ho avuto la possibilità di gustare gli agnolotti e il cous cous».

È vero che ha fatto il libraio prima di diventare scrittore?

«Per dieci anni. Ho scritto Tutti giù per terra nel 1994, ma fino al ’97 ho continuato a stare in libreria. Non ero sicuro di riuscire a mantenermi con le parole».

Era partito piuttosto bene.

«Sì, ma avrei potuto gestire meglio la situazione. A 28 anni ero già felice di aver pubblicato il mio primo libro. Non avevo un agente e non ce l’ho tuttora».

Formazione?

«Sono stato ventenne nel 1985, l’epoca dei paninari. Doveva ancora arrivare la prima ondata migratoria di nordafricani. Torino era molto diversa, c’era stata la marcia del 40.000 e si avvertivano i primi effetti della crisi».

Amici, politica?

«Frequentavo gli ambienti punk e i tifosi del Toro. Ascoltavo i Clash, i Sex pistols, creste verdi o rosso ciliegia».

Che cosa le ha ispirato questo libro?

«Ero in vacanza in Baviera nel 2005 e iniziavano a infastidirmi certi vocaboli che leggevo sui giornali. Le riforme del lavoro che in realtà erano controriforme. Le bombe intelligenti e le vittime civili chiamate danni collaterali. In alcune università americane fu bandito Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain».

Che lei aveva tradotto.

«La censura di Twain scattata per l’uso della parola “negro” era una follia. Twain era un abolizionista, si era arruolato nell’esercito sudista, disertando dopo due settimane. Mi tornò alla mente la profezia di George Orwell sulla neolingua».

Da allora, anni di raccolta di storpiature linguistiche e doppiopesismi?

«Adesso il tema è molto sentito. Quando Feltrinelli ha deciso di pubblicare il dizionario non erano accaduti fatti che l’hanno reso ancora più attuale».

Che cos’è l’ipocrisia?

«C’entra con il mestiere di attore, con la recita che inizia dopo che ci siamo guardati allo specchio e andiamo in ufficio. Per di più ora, ciò che un tempo si diceva al bar diventa di dominio pubblico tramite i social, che trovo molto antisocial. La signora che ha postato un vecchio scatto alle Maldive la incontriamo sotto casa; per cercare lavoro miglioriamo il curriculum. Tutti vogliamo mostrarci meglio di ciò che siamo».

È una maschera che riguarda anche il pensiero?

«Ci si uniforma alle mode e ci si astiene da esprimere il proprio per non essere criticati».

L’omologazione è frutto di superficialità o del potere del pensiero unico?

«Il condizionamento è forte. Qualche anno fa nel quartiere Aurora di Torino alcuni cittadini pakistani si organizzarono in ronde per fronteggiare lo spaccio degli africani. Se fossero stati italiani, avremmo letto titoli sbrigativi. Invece, siccome erano pakistani si scriveva: poveracci, non possono avere gli spacciatori sotto casa. Un caro amico che vive in piazza Vittorio a Roma, modello d’integrazione, mi ha raccontato che poco alla volta la convivenza si è complicata e ora c’è un comitato antidegrado: “Mia moglie, appena vede qualcosa che non va, chiama la polizia: sarà mica diventata improvvisamente fascista?”. Ecco, mi sembra che gli slogan prevalgano sul tentativo di capire».

Di fronte a certi argomenti scatta il riflesso condizionato.

«Un gigantesco cane di Pavlov. Se Dolce e Gabbana, di sicuro non due omofobi, si dichiarano contrari all’utero in affitto cadono sotto la pubblica esecrazione. Chi non si allinea è fascista. Lo sarà anche Marco Rizzo, uno degli ultimi orgogliosi comunisti, per aver detto che la maternità surrogata è mercificazione del corpo della donna?».

Il personaggio meno ipocrita e quello più ipocrita di oggi.

«Il più ipocrita è sicuramente il premier olandese Mark Rutte che dice peste e corna dell’Italia e condona le tasse ai grandi marchi della new economy. Uno che non si è mai preoccupato di essere politicamente corretto è Sinisa Mihajlovic. Ha riscosso unanime solidarietà quando si è saputo che aveva la leucemia, ma appena ha detto che in Emilia romagna avrebbe appoggiato la candidata di Matteo Salvini è stato sommerso di critiche».

Un altro capolavoro è stata l’idea di Michela Murgia di sostituire patria con matria?

«E pazienza se esisteva già madrepatria. A volte l’ideologia ci fa coprire di ridicolo. Se dobbiamo chiamare assessora una donna, il mio dentista uomo devo chiamarlo dentisto?».

Per l’omicidio delle donne si parla di femminicidio perché è un fenomeno diffuso?

«Il trattamento linguistico specifico non è una questione di quantità. A questo punto adottiamolo per tutte le minoranze: migranticidio, gaycidio, lgbtqicidio, diversamentabilicido. Nelle intestazioni delle lettere tipo cari/e compagni/e c’è chi comincia a usare l’asterisco car* compagn*. Ma un conto è leggerlo, un altro pronunciarlo».

Per il sesso valgono mille sfumature.

«Una docente inglese ha raccontato sul Guardian di esser stata rimproverata da una sua apparente studentessa perché le si è rivolta con il pronome femminile “she”, mentre, siccome ha una personalità multipla, avrebbe dovuto usare il plurale, “them”. Alla fine ha dovuto scusarsi e spiegare che non voleva mancarle di rispetto. Ormai si cammina sulle uova… Ma c’è una cosa che mi preme dire…».

Prego.

«Non vedo nella sinistra lo stesso impegno per difendere i diritti civili anche nel promuovere i diritti del lavoro. Oggi, per un figlio che si è laureato si spera in uno stage da 400 euro al mese, 3 euro all’ora. Poi ci lamentiamo se i migliori se ne vanno all’estero. Su questi temi la sinistra è scomparsa. Anzi, sei contestato se ricordi che la legge che ha introdotto il precariato l’ha fatta il primo governo Prodi. L’Italia ha compromesso il futuro delle giovani generazioni, che cosa ne sarà tra vent’anni? In Germania lo Stato rimborsa alle famiglie tutto quello che hanno speso per la formazione dei giovani perché la loro istruzione riguarda il futuro del Paese».

Perché se si promuovono tutti, la scuola non deve lasciare indietro nessuno e i genitori 1 e 2 spianano la strada ai ragazzi aumenta il disagio adolescenziale?

«Forse sarebbe stato meglio pensarci prima di abolire il voto di condotta. Quando s’inizia ad andare a scuola si entra in un’istituzione pubblica e si compie il primo passo da cittadino. La messa in discussione del principio di autorità ha portato alla deriva attuale dell’uno vale uno. Ma qui ci vorrebbe un altro libro».

È davvero convinto che quando Martina Navratilova si dichiarò omosessuale c’era più tolleranza di oggi?

«Fu molto coraggiosa a esporsi, ma aveva vinto nove volte Wimbledon ed era una figura di riferimento. A confronto con l’ossessione attuale per la correttezza gli anni Settanta erano più liberi. C’era un giornale come Il Male che faceva vignette con il Papa in piscina. La satira era accettata. Di recente quando la Navratilova ha detto che le tenniste transgender sono avvantaggiate rispetto alle donne, una cosa scontata, è stata espulsa dalle associazioni Lgbt».

Con la cancel culture siamo oltre il politicamente corretto: cosa pensa del manifesto dei 150 intellettuali di Harper’s Magazine?

«Penso che ci voleva una presa di posizione così in America. E forse non solo lì. Cosa significa che chi non è di colore non può scrivere un romanzo sul razzismo? Se è esistito, di sicuro Omero non ha partecipato alla guerra di Troia. Isaac Asimov era un robot anche lui? Se la letteratura fosse solamente scrivere di sé sarebbe davvero triste, non tutti gli scrittori hanno la vita di Ernest Hemingway. Però Halle Berry non ha potuto interpretare il ruolo di un trans perché non appartiene a quella minoranza. E all’ultima Festa del cinema di Roma Martin Scorsese è stato accolto dalle proteste delle femministe perché nei suoi film non ci sono donne protagoniste. Trovo intollerabile l’intolleranza di chi si professa tollerante».

Nel suo libro nota che dire «ho anche amici gay» vuol dire essere omofobi: è indispensabile il ddl Zan per tutelare le persone omosessuali?

«Di sicuro l’Italia, paese mediterraneo, cattolico e legato a una certa idea di famiglia, non è tra i più tolleranti nei loro confronti. Non conosco il decreto nel dettaglio, ma una legge non può risolvere la questione alla radice perché chi si esprime in modo irrispettoso, certo non cambia modo di pensare perché sanzionato».

La parola chiave del nuovo conformismo è inclusività?

«Il paradosso sta nel fatto che da un lato si rivendicano le differenze delle minoranze, dall’altro, se dici che le differenze esistono vieni attaccato perché dobbiamo essere tutti uguali».

Com’è stata accolta dagli editori l’idea di questo dizionario?

«Senza problemi. Non hanno eccepito su nulla, ma si sono augurati che i lettori fossero dotati di autoironia. È un libro divertente, ma non accomodante. Credo che alcuni possano essere in disaccordo, ma anche che il confronto sia un’occasione di arricchimento. Vale aldilà del mio libro».

Non sarà troppo ottimista?

«Forse sì, il mio è un auspicio».

 

La Verità, 26 luglio 2020

 

«Ora il pensiero unico vuole spianare la storia»

Il politicamente corretto ha ucciso il buonsenso. E adesso si prepara a spianare anche la storia e l’arte. È il succo dell’allarme contenuto in Una pernacchia vi seppellirà. Contro il politicamente corretto (Castelvecchi editore), un agile libriccino scritto da Massimo Arcangeli, linguista, collaboratore dell’Istituto della Enciclopedia italiana e della Società Dante Alighieri. Arcangeli è anche curatore di saggi sul linguaggio dei politici (Il Renziario e Il Salvinario, prossimamente Il Berlusconario) e ideatore e organizzatore del Festival della lingua italiana che si tiene a Siena. Nel prossimo, dall’1 al 5 aprile 2020, verrà premiato con lo Zucchino d’oro chi, nell’ultimo anno, si è «distinto nell’applicare, contro il più elementare buonsenso, le regole imposte da una correttezza politica cieca e retroattiva». Il nome del vincitore sarà annunciato dopodomani, 26 novembre.

Professore, può anticiparcelo?

«Purtroppo no perché i nostri cinque giurati stanno ancora valutando. Se vuole, le posso dire il mio candidato preferito».

Prego.

«È il regista Leo Muscato che, per dare un segnale contro i femminicidi, ha capovolto il finale della Carmen di Bizet. Nel libretto originale l’eroina muore pugnalata da Don José, nell’edizione di Muscato, andata in scena al Maggio musicale fiorentino, è lei che uccide lui. Solo che per due volte la pistola vendicatrice si è inceppata. E la vittima, trasformata in carnefice, non è riuscita a sparare, scatenando il riso del pubblico».

Per la beffa dell’intoppo, oltre che per il danno della licenza artistica?

«Esatto. Ma l’episodio è significativo oltre il suo lato comico».

Perché?

«Per la retroattività. La retroattività di queste censure introduce un salto qualitativo. Per proteggere una qualche minoranza, si annulla la distanza tra il presente e un’epoca passata. Si depurano opere di sette o otto secoli fa in base a standard attuali».

Altri esempi?

«C’è solo da scegliere. Ero a Bruxelles quando un’associazione culturale, consulente dell’Onu, propose di non leggere più nelle scuole il XXVIII canto della Divina commedia perché considerato anti islamico in quanto Maometto, divisore della cristianità, è rappresentato squartato in due per la pena del contrappasso, con le viscere penzolanti. In Francia, un organismo che si prefigge d’instaurare l’uguaglianza tra uomini e donne, ha proposto di sostituire l’ultima parola del motto francese fraternité con solidarité o adelphité. Poi c’è il mondo della pubblicità: sulla scia di un autore ha riscritto in chiave parodica le fiabe classiche, sull’altare del buonismo lo spot della Brondi ha fatto andare d’amore e d’accordo Cappuccetto rosso e il lupo. Ad Ascoli Piceno alcune scuole medie hanno declinato l’invito per l’anteprima di Così fan tutte di Mozart perché considerato inadatto a un pubblico di adolescenti. In materia di sesso, la lista è ricca di casi comici».

Tipo?

«La censura operata da Facebook della Sirenetta di Copenaghen per i suoi seni troppo sexy. O, per lo stesso motivo, la celebre Fontana delle tette di Treviso».

La città di Treviso è piuttosto bersagliata da Facebook.

«Nel 2018 il social ha rifiutato le inserzioni della storica concessionaria d’auto Negro, intimandole di rimuovere l’offesa. Ma era il nome di famiglia».

Colpa dell’algoritmo?

«Gli ingegneri di Facebook avevano promesso che avrebbero trovato una soluzione, ma siamo ancora in attesa. Con la tecnica si possono fare miracoli. Almeno creare un algoritmo in grado di distinguere tra un’offesa e un marchio commerciale».

I codici di certi sacerdoti del perbenismo sono più gravi della rigidità di un algoritmo?

«Li metto sullo stesso piano. Non possiamo attribuire a un algoritmo la responsabilità di una regia che non ha previsto la differenza tra il David di Michelangelo e qualcuno che fa dell’esibizionismo. Distinguere è faticoso, l’omologazione di massa preferisce uniformare».

Il conformismo non ha un’origine culturale?

«Certo. Se a un certo punto si decide che padre e madre non vanno più bene e si decide di usare genitore 1 e genitore 2, oppure matria al posto di patria, sono scelte che personalmente non condivido. A quel punto, però, scatta il confronto, si dissente e si controbatte. Ma se si applica il politicamente corretto al Mercante di Venezia di William Shakespeare perché contiene espressioni anti ebraiche e si decide di non rappresentarlo a teatro o non studiarlo nelle università, qui siamo nel campo della pura imbecillità».

La quale è a sua volta la propaggine estrema della dittatura del politicamente corretto?

«O del pensiero unico. Si sa che qualcuno vuole imporlo, ma ciò che più mi preoccupa è l’omologazione generalizzata, l’assenza di resistenza al conformismo. Ancor più quando è retroattivo. Nelle scuole vedo molti insegnanti disarmati di fronte a questa deriva. La accettano supinamente. Invece, è proprio nell’istruzione che deve iniziare un’educazione critica, partendo dal linguaggio. Pensiamo ai dizionari: poniamo di accettare di espungere la parola negro perché ritenuta offensiva. Ma se la togliamo anche dai testi del Settecento o dell’Ottocento operiamo una mistificazione, falsifichiamo la nostra cultura, nascondiamo la verità a chi verrà dopo di noi».

C’è una corrente di pensiero che identifica il politicamente corretto con il bon ton e un maggior uso di mondo.

«Siamo ben oltre, l’espressione giusta è massificazione culturale. Se leggere a scuola il canto di Maometto di Dante o brani del Mercante di Venezia o postare sui social il quadro di Paolo e Francesca nudi di Ary Scheffer crea problemi si finisce per rinunciare. Ma così si perde, accettando una grande privazione perché, poco alla volta, quei canti e quelle immagini smetteranno di circolare. Lascio a lei valutare la gravità di questo impoverimento».

La portavoce delle levatrici inglesi ha dovuto dimettersi per aver detto che i figli li partoriscono le donne. La sua associazione l’ha sconfessata perché con quell’affermazione ha discriminato la comunità Lgbt e perché in Gran Bretagna, in questi casi, al posto di lady si usa il termine menstruator. Siamo alla creazione della seconda lingua di orwelliana memoria?

«È così. La lingua diventa uniforme perché trasmette il pensiero unico. Pensiamo di difendere le minoranze, in realtà le omologhiamo con un linguaggio neutro, asettico. Qualcuno, per fortuna, comincia a reagire».

Chi?

«In America da qualche anno molti gay hanno preso a definirsi orgogliosamente froci. Rifiutano l’edulcorazione del termine gay e rivendicano la loro identità trasformando l’offesa nell’orgoglio della differenza».

La seconda lingua preconizzata da Orwell finge di proteggere le differenze mentre le conforma?

«Uno degli esempi più lampanti è l’handicap. Chi ha vissuto con un disabile sa che vuole essere chiamato sordo o cieco. Dagli anni Settanta in poi, di eufemismo in eufemismo e staccandosi progressivamente dal reale, si è passati da portatori di handicap a diversamente abili, a differentemente abili, a ipovedenti, ipoudenti… Oggi una guida all’inclusione scolastica s’intitola La speciale normalità».

Per non dire anziani si dice diversamente giovani: siamo tutti diversamente qualcosa?

«Diversamente alto, diversamente magro… Nano è spregiativo, grasso anche, così ci sono le modelle curvy, ingentilito dall’inglese. Dobbiamo essere tutti belli, giovani e prestanti. Eliminando la parola che contraddice lo stato di grazia, ci illudiamo di viverlo».

Di che cosa è figlio il «cieco moralismo mortale» che tratteggia nel suo pamphlet?

«Della cultura di sinistra. Da quando alla fine degli anni Ottanta nelle università americane sono stati inventati gli speech codes, i regolamenti che disciplinavano i comportamenti verbali nei campus, la sinistra puritana e bigotta ha esteso questi codici al linguaggio universale. Facendoli diventare un nuovo catechismo acritico e intransigente. Siamo arrivati all’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo… In Europa abbiamo ereditato in modo aproblematico gli aspetti peggiori di questa ideologia».

Che cosa pensa dell’ultima lezione di superiorità di Corrado Augias?

«Mi spiace che si sia espresso in quel modo perché è un amico. Ma non posso condividere quel linguaggio in perfetto sinistrese che esprime un manicheismo nel quale destra è sinonimo di istintualità e volgarità culturale e sinistra di intelligenza, profondità e impegno. Proprio in un momento in cui queste categorie stanno cadendo».

Lei ha scritto Il Renziario: qual è la principale innovazione nel linguaggio di Matteo Renzi?

«Renzi è il più obamiano dei nostri politici. Barack Obama ha portato i social network nella vita politica, Renzi li ha resi una finestra sul quotidiano».

E, parlando del Salvinario, qual è la novità della comunicazione di Matteo Salvini?

«Se nella Seconda repubblica i cittadini hanno cominciato a immedesimarsi nei politici, ora sono i politici che giocano a fare i cittadini comuni. Quando Salvini si mostra in boxer in spiaggia o si fa ritrarre sulla copertina di un settimanale a torso nudo con la cravatta dice agli italiani “sono uno di voi”. Se paragoniamo questi messaggi a ciò che fanno i leader della sinistra vediamo la differenza abissale».

Qual è l’argine critico alla melassa del pensiero unico?

«È la ricerca delle sfumature tra parole, concetti, pensieri diversi. Il linguaggio del politicamente corretto e del pensiero unico è uniformante. Al contrario, il pensiero critico favorisce le differenze e le specificazioni».

Come bisognerebbe fare nel caso della commissione Segre?

«Se servisse a circoscrivere l’antisemitismo nuovamente montante, soprattutto nel Nordeuropa, la commissione sarebbe utile. E può esserlo anche come sensibilizzazione contro l’intolleranza. Ma se si trasforma in un contenitore che fa di tutta l’erba un fascio per mettere la museruola al dissenso, allora non mi trova concorde. Tanto più considerando che, in materia di antisemitismo e razzismo, esiste già un ricco corredo legislativo al quale ricorrere».

 

La Verità, 24 novembre 2019

 

L’Assedio della Bignardi nasce e muore nei social

Primo ospite il sindaco di Milano Beppe Sala, con L’Assedio, programma diverso nel titolo ma clone dei precedenti Le invasioni barbariche e L’era glaciale, mercoledì sera è tornata in tv Daria Bignardi. Lo ha fatto dai canali di Discovery (Nove, Real Time e altri) con un ascolto in simulcast di 598.000 telespettatori (2.8% di share totale, 1.4% su Nove). Dunque, Beppe Sala: per un suo seguace sui social, «il politico italiano più cool». «A lei piace essere cool?», chiede Bignardi. Risposta: «Sinceramente? Ma sì, va…». «Questo è il vero clima dell’Assedio», esulta la conduttrice.

Il vero clima dell’Assedio è il medesimo dei programmi clonati: salottino manierato dei migliori, bon ton ad uso delle élite della gente che piace, punteggiato dalla risatina compiaciuta o dalle sopracciglia aggrottate della padrona di casa. Con un paio di accentuazioni dovute all’ultimo aggiornamento del politicamente corretto, come la citazione più ossessiva del numero di follower che l’ospite può vantare. Post e cinguettii vari sono infatti la fonte regina delle domande oltre che al sindaco di Milano, anche a Luciana Littizzetto, al rapper Massimo Pericolo eccetera. Non solo, i social sono anche il luogo della critica finale perché due osservatori, una scrittrice e un giornalista, inviano un commentino all’intervista via WhatsApp. Così il cerchio si chiude: l’intervista nasce dai social e va a morire nei social. Che bello. Per il resto, l’uso di giornalisti e scrittori molto cool è un must del vero clima dell’Assedio. Per dire: alla presentazione romana del libro di Giulia De Lellis, influencer da milioni di follower, non si poteva che mandare un altro scrittore (Stefano Sgambati), perché non chiamarlo storyteller?

Il secondo ospite della puntata è Giorgia Linardi, portavoce di Sea watch, presentata come «una delle donne più attaccate d’Italia». In questo caso, citati i tweet degli haters più truci, entra in campo il secondo aggiornamento del politicamente corretto: l’accoglienza senza se e senza ma. Con lo scoop finale: la presenza in studio di Anna Duong, rifugiata politica scappata su un boat people nel 1979 dal Vietnam comunista e salvata, insieme ad altre migliaia di persone, dalle navi della Marina militare partite appositamente dall’Italia. Qui però si abbandona il mood cool del format mainstream e si va dritti sull’ideologia, anch’essa mainstream, stabilendo la sovrapposizione tra rifugiati politici di 40 anni fa e disperati di oggi. Sovrapposizione indebita perché solo in parte i migranti attuali fuggono da un Paese in guerra come la Libia. Ma questo è il vero clima dell’Assedio. Di chi e a chi?

 

La Verità, 18 ottobre 2019

«Aspetto il film dopo La corazzata Potemkin»

Abbronzato, capello arioso e pantalone informale, Enzo Carra porta con ironia i suoi 75 anni. Non ci vediamo dal tramonto della Prima repubblica, quand’era capo della comunicazione della Democrazia cristiana e influenzava elegantemente giornali, giornalisti e nomine Rai. Per recuperare il tempo perduto c’incontriamo in un ristorante vicino a Montecitorio, prima di spostarci nel suo pensatoio: travi a vista, scrivania in cristallo, riviste di filosofia e politica.

Che cosa fa oggi Enzo Carra?

«Sto finendo di scrivere un libro».

Argomento?

«Dalla fine della Prima repubblica, attraverso la Seconda e la Terza, a quello che verrà. Sono convinto che gli italiani siano migliori di come li immaginiamo. Più resistenti».

In che senso?

«Resistono ad avversità di fronte alle quali altri popoli soccombono. Nel Novecento alla fame, alle ideologie, al terrorismo; di recente ai governi sbagliati e al senso del ridicolo. In soli 15 anni l’Italia è passata dalla fine della guerra al boom economico, costruendo l’Autostrada del Sole in cinque anni. O estinguono la razza o è difficile liberarsi di noi».

Titolo ed editore?

«Si chiamerà Domani e conterrà memorie, documenti e vissuto raccontati con la passione del notista politico, la mia vera professione. L’editore ancora non c’è».

Com’è la sua giornata?

«Comincia con la meditazione e la preghiera, prosegue con la lettura dei giornali italiani e stranieri fino alle 10. Poi scrivo fino all’una. Dopo un riposo pomeridiano, mi dedico a tre libri: uno di storia, un saggio e, dopo cena, la narrativa».

C’è molta disciplina.

«Cerco di non farmi prendere dall’emozione di un libro che mi piace più di altri. Sono disordinato su altre cose. A un certo punto della vita ho recuperato insegnamenti e pratiche giovanili, scandendo la giornata, secondo la migliore lezione del monachesimo».

I libri in lettura ora?

«I Saggi di Michel de Montaigne, M di Antonio Scurati e Il castello interiore di Teresa d’Avila».

Quanto le manca la politica in Parlamento?

«Mi manca la politica vera, non il chiacchiericcio del Transatlantico, anche perché quelli che chiacchierano oggi… Mi mancano la riflessione e il confronto senza infingimenti e diplomazie. La politica è soprattutto dialogo e contrapposizione. È una risorsa squisitamente italiana fin dai tempi dell’Impero romano».

Nel 2000 fu tra i fondatori della Margherita che poi confluì nel Pd.

«Fui l’unico a votare contro. Temevo che la semplice somma degli eserciti non avrebbe garantito la qualità della proposta. Come avvenne».

Dieci anni dopo entrò nell’Udc di Pier Ferdinando Casini.

«Uscii dal Pd per un richiamo identitario che andò deluso perché non c’erano le condizioni per ricostruire un partito di centro. Così come ora si è visto che non ci sono neanche per un partito a sinistra del Pd».

Nel 2013 fu Mario Monti a non ricandidarla?

«Non chiesi e non l’ho mai capito. Seppi da Casini che c’erano difficoltà e lo mandai a quel paese».

Non lottò abbastanza?

«D’accordo con lui avevo lavorato per un’altra lista centrista. Quando mi fece sapere che sarebbe entrato in Scelta civica i rapporti si raffreddarono. Non volevo rincorrere posti e posizioni che non condividevo. Si è visto com’è finita Scelta civica».

Lei è ricordato per le immagini dell’ingresso nell’aula del Tribunale di Milano con gli schiavettoni. Come si è spiegato che quel fatto avvenne tre mesi dopo l’approvazione della legge che vietava di mostrare gli imputati con le manette?

«Quando vieni arrestato da Antonio Di Pietro non hai la lucidità per appellarti alla legge appena approvata. Mi portarono in aula dopo tre ore di attesa nelle segrete del Tribunale. Il maresciallo aveva detto ai carabinieri di prendermi sotto braccio e quando ricevette una telefonata che impose di applicarmi gli schiavettoni eseguì l’ordine con visibile disappunto».

Da chi era partita la telefonata?

«So solo che la decisione fu difesa dalla Procura di Milano. Ho un’idea, ma non la dirò».

Di Pietro disse che non c’entrava.

«Ci fu la sollevazione dei giornalisti. Di Pietro entrò nella gabbia, mi fece togliere gli schiavettoni e sedere davanti al banco della corte vicino agli avvocati. Piercamillo Davigo disse che tutti i giorni i marocchini venivano tradotti con le manette e nessuno obiettava. Solo dopo appresi di una legge che tutelava la dignità dell’imputato».

Che riflessione ha fatto quando è divampata la polemica per la per mancanza di rispetto nei confronti di Cesare Battisti per il video del suo accompagnamento fatto girare dal ministro Alfonso Bonafede?

«Riparlare 25 anni dopo dei miei schiavettoni nel contesto del trattamento riservato a Battisti è quasi una pena accessoria. Può darsi che le manette facciano bene a un criminale che ha ammazzato la moglie o a un mafioso pluriomicida. Dopo il mio caso, l’arresto per falsa testimonianza o reticenza può avvenire solo dopo il giuramento in aula e non più durante l’interrogatorio».

Le procedure dell’azione giudiziaria sono così flessibili perché imputati e condannati vengono esibiti all’interno di logiche politiche?

«Diceva Montaigne: “Sopra ogni altra cosa bisogna guardarsi, se si può, dal cader nelle mani d’un giudice nemico, vittorioso e armato”. Questa situazione definisce il pericolo della politicizzazione della giustizia».

Con il M5s al governo c’è un ritorno giustizialista?

«Non ho questa impressione. Il gesto delle manette del senatore Mario Giarrusso è stato sconfessato dai suoi stessi compagni di partito».

Che idea si è fatto di Roberto Formigoni in galera?

«Sono addolorato, ma per l’amicizia che gli porto non ho la lucidità necessaria per esprimermi. La dilatazione dei tempi della giustizia non è mai giusta. Tempi più rapidi gli avrebbero permesso di difendersi meglio».

La legge «Spazzacorrotti» che equipara i reati contro la pubblica amministrazione a quelli per mafia e cancella le pene alternative è costituzionale?

«Sono convinto che da alcuni decenni viviamo in un sistema di leggi emergenziali che sono l’anticamera di quelle eccezionali che non si sa dove possono portarci. La legge “Spazzacorrotti” è certamente materia per la Corte costituzionale».

Si aspettava lo tsunami delle elezioni di un anno fa?

«Sì. Il segnale era stato l’affondamento della riforma costituzionale di Renzi. Non averlo capito ha creato le premesse per il ribaltone. Se non ti accorgi che il clima del Paese è un sentimento diffuso di protesta, di aspirazioni e di rabbia, sei destinato a perdere perché non hai le armi per difenderti».

Quindi la responsabilità è del Pd di Matteo Renzi?

«È di chi governava allora. Un partito che vive i suoi congressi solo per eleggere con le primarie il suo capo non è un partito, ma una tribù primitiva. Portavamo i pantaloni corti e già si parlava di riforma della Costituzione. Il M5s ha scelto la strada della democrazia del click: è giusto chiedersi che ne facciamo delle persone che per strada vediamo piegate sui propri smartphone».

Per un anno si è parlato del Senato mentre larghi strati della popolazione stentavano ad arrivare a fine mese.

«Ci si è illusi che la riforma dei rami alti bastasse a dare risposte, invece i rami alti cascano come i pini di Roma. È strano che chi ha avuto quella intuizione non abbia saputo cogliere il disagio reale e la paura del momento».

Forse perché la paura è immotivata e artificiale?

«Un conto è dire che c’è l’industria della paura e un altro che la paura è un’invenzione. Si passa dal modo aggressivo di affrontare certi temi all’ipocrisia di rimuoverli. Questo è il nostro problema attuale».

Ingigantito dal politicamente corretto: è l’ideologia emergente?

«Lo è. Come il buonismo, il dover apparire non cinici, non scettici, non duri di cuore. Ma questa ideologia ne trascina un’altra, anzi lo spero: il cattivismo. Se togli la scorza vedi che c’è un cuore anche lì sotto. Alla fine, non credo né ai buoni né ai cattivi. Ma che, salvo i criminali e i santi, sia soprattutto un gioco delle parti, una recita…».

Tuttavia non crede che la narrazione dei media maggioritari, delle case editrici, del cinema e della tv modaioli sia innervata da questa nuova ideologia?

«Nella cultura, nello spettacolo e nel cinema di provenienza americana è così. Un ruolo, non eccessivo, ce l’ha anche la voce indipendente della Chiesa attraverso papa Francesco. Però vedo che sta emergendo anche una narrazione diversa. Manifesti degli intellettuali e marce per i diritti civili ce ne sono meno rispetto a un tempo. Anche le case editrici contano meno».

Ne è convinto?

«Mi pare di sì. Rispetto ai blocchi di destra e sinistra avanzano voci più libere e isolate che ridiscutono la mappa tradizionale. Una faccia di sinistra come quella di Marco Minniti è quasi sovrapponibile a quella di Matteo Salvini che fa, più o meno, lo stesso lavoro. Purtroppo il dibattito pubblico anche in tv si limita agli stessi ospiti tutte le sere. Si va da Vittorio Sgarbi a Massimo Cacciari: credo che nella realtà ci sia più varietà. La tv e la rete dovrebbero scoprire e valorizzare questa ricchezza».

Il populismo supplisce la mancanza di concretezza dei partiti tradizionali?

«Non ricordo negli ultimi trent’anni una discussione nella politica tradizionale che partendo da uno stimolo sia arrivata a una sintesi utile e operativa. Al massimo, chi ha avuto il potere ha imposto una soluzione: se andava bene, ok, altrimenti il perdente veniva accantonato per qualche giorno».

Ogni riferimento è casuale. Come si trovava nel Pd quando il dibattito interno concerneva le unioni civili e il ruolo della grande finanza?

«Non mi ci trovavo. Chi non è contrario al femminicidio? Questi temi, sacrosanti, hanno allontanato dalla massa, dagli strati disagiati. Ci si è chiusi in una élite benpensante. Così è arrivato chi, in modo semplice e diretto, ha urlato cos’è veramente La corazzata Potemkin. Ora si comincia a capire che interrompere un film è più facile di scrivere la sceneggiatura di uno diverso, mandarlo in sala e trattenere gli spettatori che hanno già dimenticato la proiezione precedente».

Lo chiamano governo del cambiamento…

«Stiamo ancora aspettando che inizi il primo tempo. Ogni giorno ci dicono che il film è pronto, però ancora non partono le immagini. La Tav è l’emblema di questo continuo rinvio».

Il M5s sconta la difficoltà del passaggio da forza d’opposizione a forza di governo.

«Ma io sono un cittadino che paga le tasse, sto seduto in sala e dopo aver visto il film deciderò se mi è piaciuto o no. Finora vedo una signorina che chiede di pazientare perché il proiezionista sta sistemando la pizza. Qualcuno se ne va, qualcuno strepita, altri aspettano. È passato meno di un anno, ma almeno datemi il trailer».

Il reddito cittadinanza e quota cento.

«Sono i trailer. Se ci sono i soldi il reddito di cittadinanza va bene. La corsa al pensionamento la capisco meno».

Dovrebbe servire a far entrare i giovani.

«Per i giovani serve il film intero».

Quali sono i programmi o i volti televisivi ai quali è più fedele?

«Seguo Otto e mezzo di Lilli Gruber, qualche volta Nicola Porro, mentre Maurizio Belpietro, che rappresenta un pensiero altro, ora interviene meno. La crisi del talk show non so se sia la causa o la conseguenza della povertà del dibattito. Quello tra i candidati alla segreteria del Pd che dicevano la stessa cosa ne è stato un esempio».

La Rai è riformabile?

«L’unico modo è lasciare una rete di servizio pubblico e privatizzare le altre. Solo così potremo evitare d’interrogarci sul grado di lottizzazione in atto. A ogni stagione cambiano gli attori, non il copione della commedia».

Nel libro intitolato Roma non perdona, Carlo Verdelli scrive che «la Rai è la torta nuziale» di chi vince le elezioni. Si può non ingolosirsi o restare a lungo a dieta?

«Una volta la Rai era suddivisa in tre aree politiche. Nei giorni scorsi è stato scritto che Salvini si è impossessato di due reti su tre. Non frenando l’ingordigia, a un certo punto la torta potrebbe sparire, gli ascolti calare, il ruolo stesso della Rai diventare opaco, come sta accadendo. La metafora della torta è giusta, ma la torta non è eterna».

Durante la Prima repubblica lei è stato portavoce di Arnaldo Forlani e capo ufficio stampa della Dc. Cosa pensa di chi è venuto dopo? Partiamo da Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi.

«Berlusconi non delegava nulla soprattutto nella comunicazione. Bonaiuti è stato più un amico, un consigliere di Berlusconi».

Michele Anzaldi, portavoce del Pd e di Renzi.

«Non è un comunicatore, ma una persona che sta sempre all’opposizione di chi fa a sua volta comunicazione. Ha grande carica, uno simile a lui era Michele Bonatesta di An».

Filippo Sensi, portavoce di Palazzo Chigi con Renzi e Paolo Gentiloni.

«Lo conosco bene, è di grande intelligenza e cultura, mai volgare».

Rocco Casalino, portavoce di Giuseppe Conte.

«Credo che essersi fatto beccare con gli sms e i messaggi ai giornalisti debba farlo riflettere. Il portavoce del premier dovrebbe far comprendere che i giornalisti vanno trattati adeguatamente».

Perché nella Seconda repubblica politici come lei, Marco Follini e Paolo Cirino Pomicino non hanno più trovato casa? Forse solo Enzo Scotti e Casini ci sono riusciti in posizioni defilate.

«Ognuno ha pensato che mettersi in proprio alternando le alleanze garantisse la sopravvivenza. Scotti si è rifugiato negli studi e fa l’influencer del M5s. Casini è partito da Occidente per finire a Oriente… Avrebbe potuto traghettare la Dc negli anni Novanta, ma si è staccato da Mino Martinazzoli per fare il Ccd con Follini e Lorenzo Cesa e poi dividersi anche da loro».

Il confine tra i due poli tagliò in due la balena bianca.

«Dalla fine della Prima repubblica a oggi sono passati più anni che dal fascismo al boom economico. Capisco che inizialmente entrarono in scena la sinistra di Achille Occhetto e Berlusconi. Però già nel 1994 arrivò Lamberto Dini. Un intero popolo si smarrì. Oggi quella formazione si vede in Sergio Mattarella al Quirinale, per certi versi in Renzi, in Clemente Mastella. Oltre alle persone però servono le idee e il famigerato amalgama. Ma se a ogni stagione si cambiano le alleanze…».

Come vedeva la supplenza attuata dalla Conferenza episcopale italiana?

«Come un errore, a prescindere dalla qualità dei loro presidenti. Per la Chiesa si può parafrasare ciò che John Fitzgerald Kennedy diceva dell’America: anziché chiederci che cosa può fare per noi cattolici, chiediamoci che cosa possiamo fare noi per la Chiesa».

Frequenta ancora Forlani?

«Certo, ha un’età veneranda, ma è pienamente attivo e lucidissimo. Ci vediamo da buoni amici. Lunga vita a Forlani. Frequento anche Ciriaco De Mita e lo stesso Scotti, persone con le quali si ragiona bene sull’attualità».

Lei che fu l’ultimo a intervistarla che ricordo ha di Madre Teresa di Calcutta?

«È stato un incontro che mi ha cambiato la vita. La vidi l’ultima volta un mese prima che morisse nel 1997. La prima ero andato a Calcutta quand’era già malata. Mi avevano detto che non avrei potuto né vederla né parlarle. Però mi suggerirono di andare nella cappella. Dove mi vidi sfiorare da un velo, un soffio di vento. Si fermò, mi salutò in inglese, mi fece sedere vicino a lei, mi chiese della mia vita, mi concesse di filmare le case dove prestava la sua opera, mi fece sapere che sarebbe andata nella Casa degli orfani. Filmai anche un altro colloquio all’esterno».

Che andò in onda?

«Su Rai 3 per Mixer di Giovanni Minoli».

Diceva che le ha cambiato la vita.

«Fu una grazia. Quando vivi un periodo particolarmente pesante come stava accadendo a me e ti imbatti in una personalità come Madre Teresa e in una realtà come quella della Casa dei morenti non puoi che rivedere tutto con altri occhi».

 

La Verità, 17 marzo 2019

Una Compagnia del cigno senza centro narrativo

Da L’amica geniale a La Compagnia del Cigno il salto è notevole. In basso, purtroppo. Siamo su Rai 1 e dietro c’è sempre Rai Fiction, ma le uguaglianze finiscono qui. La serie diretta da Saverio Costanzo era tratta da un bestseller, quella scritta e diretta da Ivan Cotroneo è nata per la tv. Però, chissà, forse la differenza principale, causa di tutte, è proprio quella che intercorre tra Costanzo e Cotroneo. Se si ha l’ambizione di introdurre nella fiction di Rai 1 linguaggi e formule nuove come il musical e il fantasy catartico, tanto più bisogna essere impeccabili nella narrazione elementare. Là dove, invece, La Compagnia del Cigno evidenzia qualche debolezza, la principale delle quali è la modica quantità di coinvolgimento del telespettatore (lunedì, ore 21.30, share del 24.03% nei primi due di dodici episodi).

Nel conservatorio Giuseppe Verdi di Milano l’esageratamente severo maestro Luca Marioni (Alessio Boni) sta tentando di creare un’orchestra con gli allievi più promettenti. Al gruppo in cerca di affiatamento si aggiunge strada facendo Matteo (Leonardo Mazzarotto), violinista di talento proveniente dalla terremotata Amatrice. Ospite dello zio gay (Alessandro Roja) cui l’hanno affidato il padre e la madre separati (Stefano Dionisi e Giovanna Mezzogiorno), il nuovo arrivato viene aiutato a integrarsi nell’orchestra dalla «compagnia del cigno» (in omaggio a Verdi, il Cigno di Busseto), composta da sei ragazzi scelti dal tenebroso maestro. Intanto s’intrecciano le storie sentimentali di giovani e adulti.

Finalmente ambientata al nord dopo tante storie romane e napoletane, La Compagnia del Cigno ha anche il pregio di indagare il rapporto tra il talento e la necessità di una disciplina che comporta sacrifici per corrispondere alle ambizioni. L’idea di affidare a piccole dosi di musical il racconto degli stati d’animo è congeniale alla narrazione fluida di moda. Tuttavia, a causa del lungo prologo necessario a tratteggiare i profili dei coprotagonisti, finora priva di un centro affettivo, la storia stenta a decollare. Alla coralità dei ragazzi si contrappone il maestro soprannominato «il bastardo», nel tentativo di farne l’antagonista sblocca trama. Con questa serie Cotroneo, navigato autore di programmi (Parla con me, Stasera casa Mika) e di fiction, nonché regista al cinema, esordisce dietro la cinepresa anche in tv, frequentando i temi prediletti come i rapporti omosessuali più o meno metabolizzati (È arrivata la felicità, Una grande famiglia, Io e lei) e l’integrazione del diverso. Temi politicamente corretti, cari alla Rai renziana.

 

La Verità, 9 gennaio 2019

«Titanic Italia? No, vedo un lento decadimento»

Professore, in Italia si può cambiare posizione politica senza essere etichettati come traditori? «Sì, si può a due condizioni. La prima è che non si traggano vantaggi personali dal proprio cambiamento, perché allora sarebbe un cambiamento tacciabile di opportunismo. La seconda è che si spieghino le ragioni del proprio mutamento». Qualche mese fa Ernesto Galli della Loggia, storico ed editorialista principe del Corriere della Sera, autore di interventi di grande lucidità sul momento della nostra Italia, ha mandato in libreria per Il Mulino un saggio intitolato Credere, tradire, vivere. È un’articolata riflessione, in parte autobiografica, che prende le mosse dalla parabola vissuta dalla generazione protagonista del ’68, nella quale molti, lui tra questi, dopo aver idealmente ucciso i padri sostituendoli con nuovi maestri, sono rimasti delusi dalle loro lezioni, oltre che dagli eventi della storia, e hanno deciso di allontanarsi dalle rive della sinistra comunista, chi avvicinandosi alla fede, chi scegliendo altre appartenenze.

In questi giorni Galli della Loggia sta invece preparando l’introduzione a un nuovo saggio in uscita da Marsilio che si concentrerà sugli ultimi vent’anni, per analizzare la crisi delle identità politiche e ideologiche, le nuove emergenze sociali, etiche e ambientali, la perdita dei legami tradizionali.

Da qualche tempo stiamo assistendo all’avverarsi della profezia del filosofo Augusto Del Noce che sosteneva che il vecchio Pci si sarebbe trasformato in un «partito radicale di massa». Sembra anche a lei che oggi la sinistra persegua traguardi di natura etica più che di equità sociale?

«È ciò che sta avvenendo. Ma va detto che, all’epoca, a Del Noce potevano sfuggire alcuni aspetti dell’evoluzione sociale italiana. Oggi non ci sono più gli operai e per i partiti di sinistra votano pensionati, professoresse della Cgil, strati dei ceti medi. Tuttavia, quel che resta del Pd mantiene un minimo collante sociale. Se dovessimo cercare una profezia sulla destra non sapremmo a chi rivolgerci. L’idea di rappresentare il popolo delle partite Iva si è rivelata un’illusione. La destra ha un elettorato, ma non sa esattamente quale sia».

Il filosofo Augusto Del Noce

Il filosofo Augusto Del Noce

Forse perché non ha più un partito perno come qualche anno fa?

«Credo che la causa principale sia la mancanza di argomenti. Oltre l’idiosincrasia nei confronti degli immigrati non riesce ad andare. Anche la promessa di abbassare le tasse è illusoria finché persiste questo mostruoso debito pubblico».

La nuova emergenza sono i temi etici: eutanasia, nuove genitorialità, uguaglianza a tutti i livelli delle coppie dello stesso sesso. Il pensiero unico che sostiene l’emergenza etica è il politicamente corretto?

«Il politicamente corretto è un’ideologia che riguarda una minoranza della popolazione. Forse un milione di persone tra addetti alla comunicazione, intellettuali, strati colti. Dopo il caso del ristoratore di Lodi, ho visto un servizio in tv su una sezione del Pd di Bologna. Bene, gli iscritti erano tutti a favore della libertà di sparare per difendersi. Un’opinione che non differiva in nulla dalle posizioni leghiste. Per il resto, sì: il politicamente corretto è la nostra ideologia ufficiale, non lo è in Francia e Gran Bretagna. Italia e Germania sono politicamente corrette perché devono farsi perdonare il loro passato scorretto».

Non trova che su questi temi il punto di vista dei cattolici sia sottorappresentato?

«I temi etici non possono essere presi in blocco. Anche la Chiesa concorda con la necessità di ridurre l’accanimento terapeutico. Tutt’altra faccenda è l’utero in affitto, una mostruosità che va avversata e punita. Come mostruosa è stata la sentenza di quel tribunale che ha tolto la figlia ai genitori perché ritenuti troppo anziani».

In tema di adozione per le coppie omosessuali i nostri tribunali sono sordi al pronunciamento della Corte di Strasburgo che ha stabilito la necessità di un legame biologico.

«La nostra magistratura opera con l’idea di tutelare i diritti, sostituendosi ai legislatori. È una scimmiottatura del diritto anglosassone per il quale il giudice, anziché applicare la legge come prescrive il diritto romano, difende e instaura dei diritti in modo creativo. Agli intellettuali e ai giornalisti bisognerebbe aggiungere i giudici tra le categorie politicamente corrette».

A destra sembra che si pensi che la risposta al correttismo siano i modi spicci, un certo massimalismo negli argomenti, anziché il discernimento. Concorda?

«Al tuo partito preso contrappongo il mio. L’importante è non affrontare il merito delle questioni. I talk show sono la messa in scena di questi radicalismi simmetrici utili a innalzare gli ascolti. La destra non riesce a organizzare una proposta che vada oltre il rifiuto degli immigrati e il rifiuto delle tasse. Questo la candida a essere votata solo come anti sinistra, non come portatrice di un discorso propositivo autonomo».

Possono essere i populismi la risposta al politicamente corretto?

«Non mi convince il modo in cui viene usata questa parola. Essendo governo del popolo ogni democrazia è in un certo senso populista. È questione di misura, certo. La xenofobia, l’isteria anti islamica e il nazionalismo sono sbagliati. Anche l’uso del termine sovranismo va precisato. La nostra Costituzione dice che la sovranità appartiene al popolo. Da parte leghista si tende a confonderla con la difesa dei confini. La sinistra manifesta disprezzo per i cosiddetti sovranisti, ma quando difende la nostra autonomia dalle ingerenze di Bruxelles, il governo di sinistra si mostra sovranista, e giustamente. In generale, la gente desidera essere padrona a casa propria e governata da persone che parlino la propria lingua. Non mi sembrano esigenze antidemocratiche».

Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg

Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg

Che cosa pensa dell’affinità elettiva tra il renzismo e i marchi della new technology?

«Parlerei di innamoramento culturale. I grandi marchi americani hanno visto in Renzi il loro portabandiera in Europa. Ma il recente viaggio in California dell’ex premier è sembrato la gita di un ragazzo di Firenze. Che i vari Jeff Bezos, Mark Zuckerberg e George Soros siano i profeti del futuro è una favola che fa sorridere. Come fa sorridere questa ideologia universalistica in cui siamo tutti pacifisti, animalisti, vegani, propugnatori delle nuove genitorialità e degli uteri in affitto, un po’ new age, il cristianesimo ci fa schifo… È una poltiglia buonista che nasconde certi inferni che si vivono nel mondo. A cominciare da quello delle miniere del Congo, dove in condizioni di schiavitù, si estrae il silicio che arricchisce i big della Silicon Valley. E sul quale il nostro ex premier dovrebbe avere informazioni sufficienti».

Tra ideologia del politicamente corretto da una parte e popolazione poco ascoltata dall’altra che ruolo può avere la Chiesa di papa Francesco?

«Avendo radici sudamericane, Bergoglio non ha lo stesso rapporto drammatico con il Vecchio Continente che aveva il tedesco Ratzinger. In Europa, che crede ormai scristianizzata, Francesco si fa portavoce delle istanze dei poveri del mondo. Le origini sudamericane si notano anche nella critica al capitalismo di sapore anti yankee».

Sui temi etici però sembra allineato con la cultura di Obama…

«Ha scelto una posizione non contrappositiva. Dobbiamo ricordarci che Bergoglio è un gesuita e i gesuiti sono maestri del “caso per caso”. Francesco applica questo spirito gesuitico, non inquisitoriale. Con la possibilità che alla fine risulti vincente nel dialogo con parti importanti della società. La Chiesa ha uno sguardo più lungo, ragiona con i secoli. I cattolici tradizionalisti dovrebbero leggere più libri di storia e riflettere sulla sconfitta del Risorgimento, in cui si è visto che contrapporsi alla modernità e ai valori liberali può essere catastrofico».

A volte certe espressioni di papa Francesco lasciano perplessi.

«Perché parla spesso a braccio. “Chi sono io per giudicare” ha messo in discussione secoli di magistero. Se la sua apertura al dialogo e la sottolineatura della centralità delle periferie porteranno a un concordato con la Cina e il suo miliardo e mezzo di abitanti, avrà avuto ragione lui. Capisco che una parte dei cattolici europei sia in imbarazzo, ma dobbiamo ricordare che la partita si gioca nel mondo intero».

Papa Francesco in una sua tipica espressione

Papa Francesco in una sua tipica espressione

Proviamo a proiettarci nel futuro. Come vede quello di Renzi?

«Ci vorrebbe la sfera di cristallo. Se il 30 aprile vincerà le primarie, avrà davanti la sfida più difficile. Cioè, superata la salita del Pd ne troverà una più ripida. Mi chiedo: alle prossime elezioni il candidato sarà lui o Gentiloni? Infine, bisognerà prendere un voto in più del M5s».

Berlusconi riuscirà a ricompattare il centrodestra?

«Berlusconi è un genio della comunicazione. Con la foto al McDonald’s nella quale leggeva con attenzione il menù, ha parlato a chi frequenta i fast food, agli investitori pubblicitari, a chi guarda la tv. Berlusconi conosce il suo pubblico, ma non sempre il pubblico vota per lui. Però a destra non si vede nessuno che possa essere suo concorrente. Nonostante gli sconfinamenti a Napoli, un leader nazionale non parla come Salvini».

Moriremo grillini?

«Tutto sembra convergere in quella direzione. Anche se in Italia ci sono sempre le intercettazioni…».

Cosa vuol dire?

«Che ci sono tante incognite».

Che cosa pensa dello scambio di favori tra Pd e Forza Italia nel voto sulla mozione di sfiducia al ministro Lotti e per la decadenza da senatore di Augusto Minzolini?

«È evidente che il Pd e Forza Italia sono destinati a governare insieme. Le alleanze si costruiscono anche così, non mi scandalizzo. Detto questo, c’è una faziosità nella politica italiana che spesso impedisce una riflessione approfondita. I grillini non applicano lo stesso criterio quando le indagini riguardano qualche loro esponente. Lotti era in una situazione oggettivamente complicata e anche se non è automatico che scattino sempre le richieste di dimissioni, credo che avrebbe fatto bene a fare un passo indietro. Come in passato fecero i ministri Annamaria Cancellieri, Federica Guidi e Maurizio Lupi».

Ci sono margini di ripresa per il nostro Paese?

«Sono pessimista».

Titanic Italia?

«Non vedo un iceberg, ma una decadenza progressiva. Stiamo già uscendo dal gruppetto di testa delle potenze mondiali in cui pensavamo di stare per diritto. I nostri marchi storici sono preda degli stranieri. Nessuno si occupa dell’assetto idrogeologico del Paese che sta fisicamente sgretolandosi. Ponti, argini…».

 

La Verità, 19 marzo 2017