Bertolucci: «Perché non avrei allenato Federer»
Lei aveva un braccio come quello di Fabio Fognini? «Direi che il suo è più veloce. Ma è difficile fare paragoni con quarant’anni fa perché oggi sono cambiati i materiali, le racchette, le palle. E questo, com’è avvenuto in tutti gli sport, ha portato anche il tennis a una versione più violenta e fisica, causa di un maggiore stress mentale». Incontro Paolo Bertolucci il giorno dopo il match in cui Fognini, genio e volubilità, ha annichilito Andy Murray, numero uno del mondo, con una lezione di ricami e fendenti, palle corte e accelerazioni folgoranti. Bertolucci lo chiamavano Braccio d’oro per la facilità a mettere la palla dove voleva con traiettorie chirurgiche, tanto più utili in doppio, quando il campo si restringe. In coppia con Adriano Panatta hanno battuto Vitas Gerulaitis e John McEnroe, Peter McNamara e Paul McNamee quand’erano al vertice del ranking, e i mitici australiani John Newcombe e Tony Roche. Nel 1976 con Panatta, Corrado Barazzutti e Tonino Zugarelli, Braccio d’oro vinse la Coppa Davis contro il Cile di Augusto Pinochet. Nel recente quarantennale si è ricordata quella contrastata trasferta con tanto d’interrogazioni parlamentari e di magliette rosse indossate durante il match. Bertolucci ha conquistato successi anche in singolo, fino a sfiorare l’ingresso nella top ten. Da commissario tecnico della Nazionale, nel 1998 raggiunse un’altra finale di Davis, persa a Milano contro la Svezia. Ora vive a Verona, ma al posto della racchetta impugna il microfono di commentatore per Sky. L’altra sera, durante il match di Fognini, Pasta kid, altro nomignolo affibbiatogli dal giornalista Bud Collins per giocare sulla sua passione per la buona cucina, ha accennato a qualche chilo di troppo del tennista italiano.
Il paragone è inevitabile: anche per lei il peso era un problema.
«Per me era un problema costante. Per Fognini è stato un ostacolo nel 2016 quando, dopo un infortunio, era cresciuto di quattro chili. Lui ha qualità fisiche eccezionali e una mobilità che non ha nulla da invidiare ai migliori del circuito».
La verità è che voi non vi allenavate. Almeno non quanto avrebbe voluto Mario Belardinelli.
«Non ci fosse stato lui l’avremmo fatto molto meno. In quell’epoca, quando non si parlava quasi di preparazione fisica, fummo pionieri. Il centro di Formia era all’avanguardia, venivano dall’estero per copiarci. Si collaborava con le federazioni di altre discipline. Con i pesisti trascorrevamo ore in palestra, guadagnando forza ma perdendo esplosività. Con i mezzofondisti avevamo un gran fiato, ma poca velocità. Con gli ostacolisti trovammo la strada maestra».
Avreste potuto vincere molto di più: rimpianti?
«Se avessimo avuto un maggiore know how avremmo trovato subito la strada giusta».
Ma un cruccio, una cosa rimasta sul gozzo?
«Forse avremmo potuto vincere un’altra Coppa Davis. Abbiamo disputato quattro finali, tutte fuori casa. Ma quella del 1976 rimane tuttora l’unica. L’avventura di quattro ragazzi cresciuti insieme, il cui sogno era prima indossare la maglia azzurra, poi passare un turno, poi arrivare in finale…».
Un altro rimpianto, forse, non aver allenato Roger Federer?
«Una decina d’anni fa ero entrato in una rosa di possibili candidati. Poi lui fece altre scelte. E anch’io le avevo fatte. Non è un rimpianto perché non fui mai direttamente contattato. Comunque, a malincuore, avrei declinato. Ritenevo che il mio tempo d’allenatore fosse passato».
Con Panatta vi sentite ancora? Vivete anche vicini, lui a Treviso lei a Verona.
«Certo. Lui mi copia sempre. Sebbene dicesse di non amare i toscani ne sposò una e si trasferì a Forte dei Marmi. Quando sono andato a vivere a Verona, dopo un po’ anche lui è venuto in Veneto».
Come mai Verona?
«Questioni di cuore. E poi si sta da Dio, si mangia e si vive bene. C’è cultura, spettacolo, qualità della vita. È comoda per chi come me va spesso a Milano. E la montagna è vicina».
Con Panatta ok. E con Barazzutti?
«Nessun rapporto e non so perché. Quando una volta gli feci i complimenti per una vittoria in Federation Cup (la Coppa Davis femminile, ndr) mi disse: “Se non mi saluti più mi fai un favore”. Da allora silenzio, ma dormo bene lo stesso».
Vi capiterà d’incrociarvi ai tornei.
«Anche nelle occasioni del quarantennale della vittoria in Davis organizzate dalla Federazione ci siamo ignorati. Sky Sport aveva realizzato uno speciale, ma io e Adriano eravamo a Milano, mentre Barazzutti e Zugarelli sono rimasti a Roma».
Come si spiega questo gelo?
«Fatico a spiegarmelo. Forse ha a che fare con la scelta per la presidenza della Federazione per la quale preferimmo candidati diversi. Mi sembra una cosa assurda».
Zugarelli è sparito dai radar?
«Credo lavori in un circolo di Roma. È molto riservato».
Si fa mai prendere dalla nostalgia?
«No, sono stagioni bellissime. A 32 o 33 anni, quando si smette, si ha tutta la vita davanti. Ho fatto il tecnico delle giovanili, poi della Nazionale di Davis. Quando mi hanno proposto di commentare le partite l’idea mi è piaciuta. Scrivo anche commenti per La Gazzetta dello sport. Mi piace parlare dell’unica cosa della quale ho una certa conoscenza. Ho sempre detestato i tuttologi».
Di recente, in un’intervista alla Verità, Gianni Clerici ha confidato che il tennis moderno lo annoia perché dominato dai materiali e da racchette troppo potenti. Cosa ne pensa?
«Clerici è un maestro della provocazione. Si annoiava anche ai miei tempi, quando c’erano Jimmy Arias e José Higueras. In ogni epoca ci sono giocatori spettacolari e carismatici. Ma sono tre o quattro, mentre i tabelloni si fanno con 64 giocatori e anche quelli che non hanno il braccio d’oro, possiedono doti mentali e fisiche per raggiungere le prime posizioni. Non nasceranno nuovi Rafa Nadal o Roger Federer, ma altri giocatori che prenderanno il testimone da questi. Il tennis evolve perché si gioca in tutto il mondo. Magari i prossimi numeri uno arriveranno dalla Nuova Zelanda o dal Marocco».
Clerici auspica il ritorno alle racchette di legno: lei che viene da quell’epoca cosa ne pensa?
«Come si può tornare alle racchette di legno? Qualcuno ipotizza il ritorno al salto con l’asta in bambù? O al ciclismo con le biciclette di Fausto Coppi e Gino Bartali? Il mondo va avanti, cambiano gli attrezzi e i materiali. Cambiano i metodi di allenamento e l’alimentazione. Ai miei tempi mangiavamo filetto e insalata, la pasta era proibita, e dopo due ore eravamo sotto il sole a correre. Oggi si fa il contrario».
Se si riguardano i match di trent’anni fa sembra che i giocatori camminino, lo stesso avviene con le vecchie partite di calcio.
«Trent’anni fa un giocatore di un metro e 85 era un atleta alto e prestante. Oggi Alexander Zverev e Juan Martin Del Potro sono 1 metro e 98 e si muovono come quelli di 1 metro e 80. È così dovunque: nel basket uno di due metri fa il play maker, una volta era il pivot».
Premesso che il tennis è lo sport individuale più completo ed esigente, c’è vita oltre il tennis?
«I giocatori di oggi non hanno molto tempo. Sono circondati dall’allenatore, dal manager, dal fisioterapista, a volte dall’addetto stampa e dall’accordatore. Vivono in team. C’è una certa esasperazione, devono stare sul pezzo 24 ore al giorno. Anche perché ci sono in ballo tanti soldi e in pochi anni possono risolvere i propri problemi e quelli dei propri figli».
E per lei c’è vita oltre il tennis?
«Certo. L’impegno come commentatore televisivo mi assorbe per 15 settimane all’anno. Poi mi dedico a tutt’altro».
Per esempio?
«Amo e seguo molto l’arte contemporanea. La famiglia della mia compagna è proprietaria del Byblos Art Hotel, fuori Verona, premiato come miglior albergo d’Europa di arte contemporanea. Appena posso viaggio, visito le mostre, conosco le vite degli artisti. Anche quando giocavo cercavo di superare il monopolio che il tennis avrebbe voluto avere sulla mia vita. Ma all’epoca si poteva».
Segue la politica?
«La seguo, ma non mi ha mai interessato direttamente. Vivo con apprensione questo momento sempre più complicato. Se non avessi gli affetti in Italia sarei andato altrove. Non perché qui si stia male, ma per aumentare le mie conoscenze».
Legge?
«Quando giocavo portavo sempre in valigia un libro di Wilbur Smith. Anche la Settimana enigmistica non mancava mai nelle lunghe trasferte. Ora, confesso, leggo un po’ meno, ma appena posso vado a qualche mostra. A Palazzo Reale a Milano ho da poco visto quella di Keith Haring. Mi piacciono Basquiat, Anish Kapoor, andrò alla Biennale».
Perché i giocatori italiani sono raramente all’altezza del loro talento?
«È una questione di mentalità. Il tennis è uno sport globalizzato, per 40 settimane all’anno i giocatori girano il mondo. Servono impegno, determinazione, volontà. Noi italiani abbiamo ancora un approccio tra il provinciale e l’artigianale».
È soprattutto carenza di determinazione?
«Certi ventenni stranieri sembrano più maturi dei nostri trentenni. Anche nel calcio ci sono i Cassano e i Balotelli».
Quando un nostro giocatore tornerà nella top ten come ai tempi di Nicola Pietrangeli e Panatta?
«Ci vogliono tempo, maestri e il circolo virtuoso giusti».
E quando un italiano scriverà un libro come Open di Agassi?
«Beh, anche lui è stato molto aiutato dal premio Pulitzer J. R. Moehringer».
Chi è il più grande di sempre?
«Roger Federer, senza dubbio. Lo dicono tutti i giocatori del presente e del passato. Ma tutto il tennis continua a emozionarmi. Resto ammaliato quando vedo certi colpi perché conosco le difficoltà che comportano. Pochi giorni fa ho intervistato Nadal a Montecarlo: ero come un bambino a Disneyland».