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La squadra che colorò di terra rossa gli anni ’70

È una notevole sorpresa che 46 anni dopo emergano tante curiosità e aneddoti e retroscena dalla memoria dell’unica Coppa Davis vinta nella Santiago del Cile del dittatore Augusto Pinochet. È noto che fu disputata superando le feroci polemiche della vigilia, ottenendo la liberazione di alcuni prigionieri politici, discutendo se danneggiava di più il dittatore il blocco delle esportazioni Fiat o della trasferta della nazionale di tennis. Chi c’era allora ricorda anche il Pci, già partito della fermezza e deciso a imporre il diktat dei migliori anche nel tempio della racchetta, sostenuto perfino da Domenico Modugno che canta contro la frenesia per l’insalatiera e Paolo Bertolucci che, solitamente serafico, si preoccupa: se ci si mette pure lui è finita. Alcune vicende si ricordano, ma Una squadra, la docuserie ideata scritta e diretta da Domenico Procacci, prodotta da Fandango, Sky e Luce Cinecittà (in onda sulla non visibilissima Sky Documentaries) è ugualmente un piccolo grande capolavoro. Una sceneggiatura naturale che l’intero nostro cinema stenta a produrre in anni di sforzi e impegno. Un film ricco di pregi. Il primo è raccontare un’epoca, i controversi Settanta, nella visuale parallela dello sport. È un’alternativa di sentimenti, di priorità e di traguardi rispetto alla memoria ufficiale quella che snocciolano i protagonisti, ottimi narratori, più generosi per indole e abitudine Adriano Panatta e Paolo Bertolucci di Corrado Barazzutti, Tonino Zugarelli e Nicola Pietrangeli, ma tutti ben disposti a ricordare e svelare particolari inediti dell’epopea. Ma è anche una strabiliante differenza cromatica a emergere dagli spezzoni degli archivi, nelle tinte degli anni di piombo, del bianco e nero dei telegiornali prima dell’avvento della tv a colori nel febbraio 1977, appena un mese dopo quella storica impresa. Così, nella ricostruzione dei filmati, il rosso della terra di quelle vittorie (e sconfitte) esplode nella sua brillantezza, diffondendo un sentore di alterità e ribellione al grigiore dell’ideologia imperante. La trasferta nel Sudafrica dell’apartheid per la semifinale persa del 1974 – allora, curiosamente nessuno protestò – con la scoperta che la camera dell’hotel non aveva la televisione perché non c’era in tutto il Paese, per evitare che i neri s’informassero e continuassero a restare segregati. O la storia di un’altra amara sconfitta nella finale in Cecoslovacchia del 1980, disputata tra le manifestazioni e i pugni chiusi e con arbitri che favorirono la squadra della nazione ospitante.

Chi ha avuto vent’anni in quel decennio deve evitare la trappola della nostalgia e del confronto con i sogni e le promesse di allora, di com’è andata e di come siamo oggi, anche tennisticamente parlando. Un altro dei pregi della serie è rammentarci che quella nazionale era composta dal numero 4, 7, 12 e 24 del mondo (nell’ordine, Panatta, Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli): classifiche che neppure oggi, in una delle nostre migliori stagioni, possiamo vantare. E che, sempre loro, in cinque anni arrivarono quattro volte a disputarsi la famosa insalatiera.

Nessun Eden però, nessun idillio o magica armonia avvolge lo spogliatoio, attraversato invece da rivalità, mutismi, attriti. Anche di Panatta con Pietrangeli, il campione dal quale eredita il testimone, e che la prima volta che lo vede giocare gli fa: «A regazzì, guarda che la palla corta l’ho inventata io». Battibeccheranno diverse altre volte sebbene Pietrangeli venga accolto come un salvatore dopo la gestione di Orlando Sirola che, come condizione per convocarlo, chiede a Panatta di tagliarsi i capelli. Figurarsi: niente Davis. Sei sicuro?, gli chiede suo padre. «Sì, gioco a tennis con i capelli o con la racchetta?». «E quindi, niente Davis?». «No, niente… Mio padre era uno che faceva le pause e pesava le parole. Dopo un po’ disse: “E se te lo chiedo io?”. Se me lo chiedi tu, va bene».

In realtà, il quartetto è composto da «una doppia coppia». «Io e Corrado, finito di allenarci, andavamo a casa, in famiglia» (Zugarelli), «Si erano sposati a ventun anni, peggio per loro» (Panatta). Erano stili e filosofie di vita opposte. Dopo un torneo di esibizione in Argentina, si deve tornare in Italia. Corrado sceglie un volo di linea, Panatta e Bertolucci passano da Parigi a salutare delle amiche e scialacquano il lauto premio per i biglietti del Concorde che però parte da Rio de Janeiro, giusto il tempo di rinforzare l’abbronzatura a Copacabana. Paolo e Adriano vivono insieme come Sandra e Raimondo, uno è lo chef l’altro rassetta. Invece, sul campo Paolo prepara il punto e Adriano lo chiude, prendendosi gli elogi del pubblico meno competente. Quando Panatta eccede con il suo egocentrismo, Bertolucci gli oppone un distacco che lo manda in tilt. Come durante una finale a Buenos Aires contro Guillermo Vilas, in uno stadio tutto per l’argentino, quando Paolo, l’unico che può sostenerlo, si becca gli insulti dell’amico che lo coglie distratto.

La sceneggiatura naturale è la storia dei viveur campioni. Criticato dal pubblico per quanto avrebbe potuto dare se si fosse concentrato sullo sport, Adriano prende il centro del film. Una sera è al cinema seduto vicino a Loredana Bertè in minigonna inguinale e ginocchia piantate sullo schienale della poltrona davanti. Si accendono le luci dopo il primo tempo e dalla galleria si alza una voce: «A Panà, e grazie ar cazzo che non vinci mai». Invece, si sposa e comincia a vincere. Agli Internazionali di Roma batte il solito Vilas («Salvare al primo turno 11 match point per l’avversario e poi vincere il torneo non so se capiterà ancora»), mentre tra un set e l’altro Gianni Minà lo interroga su tattica e stato emotivo. A seguire conquista Parigi dopo aver sconfitto Bjorn Borg. La mattina della finale, però, in spogliatoio non si trovano le scarpe. Mancano poche ore all’inizio del match e in Francia non vendono le Superga. Telefonata all’amico di Roma, apertura del negozio, corsa a Fiumicino, consegna delle scarpe al caposcalo che le passa a un pilota in partenza… Alla fine, dopo un’altra sbruffonata, Panatta sconfigge Harold Solomon e sale al numero 4 della classifica mondiale. «Il giorno dopo», confida, «avevo una strana malinconia, perché l’appagamento dura poco e si pensa subito a un nuovo traguardo». Nel dicembre di quell’anno si va a Santiago del Cile… Panatta convince Bertolucci a indossare le magliette rosse per mandare un segnale. Vincono e tornano in Italia, ma dopo le feroci polemiche l’accoglienza è tiepida. Ricorda Barazzutti: «Sembrava avessimo sparato al gatto invece di aver vinto una Coppa Davis».

 

La Verità, 18 maggio 2022

«Contro la noia insegnerò il tennis di Federer»

Ripartire dalla provincia. Anche se si è uomini di mondo. Anzi, forse proprio per questo. Adriano Panatta ha girato il pianeta, è conosciuto e stimato ovunque. Eppure ha voglia di ricominciare da un maxicentro sportivo a Treviso, dove vive da qualche anno con la sua compagna, l’avvocato Anna Bonamigo. Il suo progetto imprenditoriale è decollato con l’asta pubblica nella quale ha rilevato il vecchio Tennis club di Bepi Zambon, pianificando un investimento di 3 milioni per il suo rilancio insieme con l’amico Philippe Donnet, Ceo del Gruppo Generali. E siccome, perdonate la nota personale, sono originario di Treviso e Bepi Zambon è stato il mio maestro di tennis, incontrare ora Panatta, idolo di gioventù, è chiudere un cerchio.

Dunque, si ricomincia a 69 anni?

«Inizio un’attività imprenditoriale che per tanti anni non ho preso in considerazione: avere una struttura sportiva e dirigerla. Da qualche tempo vivo a Treviso e questo è un modo per radicarmi di più nel territorio».

Lo chiamerà Tennis pof pof, dal celebre cameo nel film La profezia dell’armadillo?

(Ride) «No… ci sto pensando. Ho ancora un po’ di tempo per scegliere il nome».

Qual è stata la molla di questa decisione?

«Desideravo un’attività più stanziale, per non essere sempre in giro. Viene il momento in cui si ha voglia di fermarsi. A me piace molto lavorare e con gli anni alcune attività sono cambiate. Ma mi sento pieno di energie e ho trovato come partner una persona che mi tranquillizza in tutti i sensi. Philippe Donnet, Ceo mondiale del Gruppo Generali, è un grande amico, gli ho raccontato il mio progetto e la sua risposta è stata: “Se lo vuoi fare sto con te”. È stata la molla decisiva».

L’occasione è venuta dall’asta del vecchio Tennis Zambon.

«È andata deserta quattro volte. Bepi Zambon lo conosco dalla fine degli anni Settanta, quando organizzò l’esibizione con Borg al Palaverde. Un paio d’anni fa mi aveva detto: “C’è il mio circolo da rilanciare, facciamo una cordata”. Ma in quel momento avevo altri interessi. Poi ho visto che è una struttura che, con adeguati investimenti, può diventare molto bella».

Sarà un circolo nel quale insegnerà il tennis di una volta: stanco del troppo agonismo e della poca armonia che si vedono oggi?

«Stanco di una certa esasperazione. Non approvo l’insegnamento ai bambini concepito in modo estremo, parlo di impugnature e impostazione tecnica. Un conto sono i professionisti, un altro i ragazzini. La mia idea è promuovere il tennis classico, non vecchio di mezzo secolo. Più Federer e meno Nadal. Oggi il gioco è improntato sulle grandi rotazioni, solo se uno è forte fisicamente e mentalmente può andare avanti. Ma chi ha imparato e praticato il tennis così esasperato, molto spesso con l’avanzare dell’età, smette».

Mentre il tennis più classico è compatibile anche con over 50 e 60?

«Ho tanti amici che giocavano con me a livello di club e, anche se non hanno fatto la mia carriera, ancora oggi si divertono e non fanno solo fatica. Questo è il concetto. Le scuole di tennis vengono concepite come fabbriche di campioni, ma ne nasce uno ogni morte di Papa. I genitori li iscrivono perché pratichino uno sport e si divertano. Poi, certo, se si vedono doti di un certo tipo, allora si può e si deve intervenire in modo più specifico».

È vero che vieterà il rovescio a due mani?

«Nessun divieto. Certo, io preferisco quello a una mano. E, se devo dirla tutta, mi pare che nel circuito i rovesci migliori siano quelli di Stan Wavrinka, Richard Gasquet, Grigor Dimitrov e ovviamente Federer. Ma se ci sarà qualche ragazzino che non riesce a portarlo, gli insegneremo tranquillamente il rovescio a due mani».

Allevare dei campioni non sarà il suo obiettivo?

«Non principalmente. Vorrei che questo circolo diventasse una casa dello sport per le famiglie, per i quarantenni e cinquantenni, per le donne. Ci saranno i campi da tennis, ma anche di paddle, una grande piscina, il centro benessere, la palestra, un ristorante vero, una club house molto accogliente dove ritrovarsi con gli amici, per incontri di lavoro o semplicemente per trascorrerci una giornata».

Il circolo tradizionale è adatto ai ritmi della società contemporanea? Nelle grandi città si prenota il campo con le app, si va, si gioca, ci si fa la doccia e saluti…

«A lei piace? A me no. Io penso a un posto dove ci si possa rilassare e interrompere quella velocità. Mentre i figli frequentano i corsi, le mamme potranno fare pilates, andare al centro estetico, bere un caffè e leggere il giornale…».

Avrete anche attenzione all’aspetto educativo dello sport?

«Quello spetta innanzitutto ai genitori e alla scuola. Nel nostro piccolo faremo capire ai genitori e ai nonni che i ragazzini di 10 o 12 anni che cominciano a giocare benino non devono subito pensare alla prestazione e a diventare campioni. Intanto è importante praticare un’attività fisica e divertirsi, prima di crearsi false illusioni e inseguire la chimera del professionismo. Perché il 99% non diventano campioni, ma ingegneri, imprenditori, professori; e non c’è niente di male, anzi».

Una cittadina come Treviso è il posto giusto per un circolo tradizionale?

«Spero di sì».

Non le sta stretta?

«Per niente».

Roma non le manca per merito dell’amministrazione Raggi?

«Non mi manca perché ci vado quasi tutte le settimane. Certo, mi spiace vederla sporca, con le buche, in preda alla confusione del traffico. Con l’età non si ha più voglia, si è meno tolleranti… Per Roma nutro un amore sconfinato, è talmente bella che ti fa dimenticare il peggio, ma non sempre. Stamattina sono uscito per andare in un ufficio pubblico, ho trovato persone gentili e in mezz’ora ero di ritorno. Avessi dovuto andare all’Eur sarebbe servita mezza giornata».

Il tennis è lo sport individuale più complesso, drammatico e totalizzante che esista?

«È l’unico sport nel quale sei totalmente solo perché non c’è l’allenatore in campo. Te la devi sbrigare, devi trovare le soluzioni, venir fuori da situazioni complesse. Sai quando cominci, ma non quando finisci, fino all’ultima palla può succedere di tutto, anche se stai sotto 6-0 5-0. Ci sono la tensione, la tenuta nervosa… Ho visto tanti ragazzini giocare benissimo, ma non riuscire a sfondare perché non abbastanza solidi mentalmente».

Oggi per eccellere servono più doti temperamentali che ai suoi tempi?

«Sul piano del talento non credo che le cose siano cambiate molto. I giocatori sono alti due metri e tirano il servizio a 240 all’ora anche con l’aiuto dei nuovi attrezzi. Noi avevamo le racchette di legno, adesso con quelle nuove fanno a cazzotti. Se guardo Federer mi diverto, con altri meno, lo scambio dura finché uno dei due sbaglia. Essendo la palla più veloce, si ha meno tempo per pensare e si va d’istinto».

L’Italia ha due giocatori a ridosso della top ten come Fabio Fognini e Matteo Berrettini.

«A Fognini mancano un po’ di servizio e di tenuta mentale. Se sei in difficoltà, ma hai un servizio potente puoi venirne fuori. Su come gioca bene a tennis nessuno può dirgli niente, ha una mano eccelsa».

Berrettini?

«Ha cominciato da un anno a essere un giocatore forte, diamogli un po’ di tempo. Ma ha tante doti, solidità mentale, sta bene in campo, è un giocatore moderno di due metri e con un gran dritto, è un ragazzo educato. Infine, Vincenzo Santopadre, il suo allenatore, sa come si fa».

Se Fognini avesse maggiore solidità mentale sarebbe ai primissimi posti mondiali?

«Chi gioca di talento esprime un tennis difficile per cui la tenuta mentale è più importante rispetto a un giocatore potente. Fognini deve inventare tennis a ogni colpo. È un po’ quello che accadeva a me con Borg, per dare il massimo devi stare bene con la testa. Chi gioca sul ritmo e sulla regolarità ha un copione magari eccelso, ma più limitato. Non deve fare un ricamo ogni volta. Se mi passa il paragone, è la stessa differenza che c’è tra un programmatore informatico e un art director».

Le passo il paragone ma le faccio una provocazione.

«Facci pure, come diceva il grande Paolo Villaggio».

Questo circolo con il tennis classico è una cosa nostalgica e un po’ vintage?

«No, assolutamente. È una scelta da imprenditore in un campo che credo di conoscere bene perché ci sono nato. E, dal punto di vista affettivo, mi consente di stabilirmi a Treviso e di stare un po’ di più a casa con la mia compagna».

Perché ha scartato l’idea di una scuola competitiva che allevi ragazzi vincenti?

«Perché non m’interessa».

Perché per lei la vittoria non è mai stata tutto?

«Questo è vero, non era tutto. Ma il vero motivo è che voglio creare un posto dove stiano bene anche gli adulti, senza troppi stress. E dove chi gioca a tennis abbia voglia di migliorarsi, ma senza paranoie. Gli adulti vorrebbero migliorare, ma poi col maestro si accontentano di palleggiare. Per esempio, nel golf non è così. Vorrei che anche chi ha cinquant’anni avesse ancora lo stimolo a imparare per battere il collega di lavoro. Mi piacerebbe che le persone arrivassero al circolo con il sorriso perché sanno di entrare in un posto accogliente e ne uscissero con un sorriso ancora più grande. Questa è la mia unica missione. Se poi ci sarà un ragazzino particolarmente dotato, credo che me ne accorgerò e a quel punto vedremo cosa fare».

La vittoria non era tutto perché privilegiava i gesti bianchi o perché anche la conquista di uno slam non la appagava pienamente?

«Quand’ero in campo la vittoria era tutto. Infatti, dicevano che non sorridevo mai, ero “il Cristo dei Parioli”. Nessuno mi ha mai accusato di non lottare. Ma poi, quando avevo vinto, mi dicevo: beh, che avrò fatto mai?».

Ha avuto successo mondiale, popolarità, belle donne, è stato anche campione di motonautica: che cosa le manca per sconfiggere la noia?

«Sconfiggerla del tutto è impossibile. È la cosa che mi fa più paura. Questa nuova avventura è uno stimolo, c’è da pensare all’azienda. Va bene così».

 

La Verità, 20 ottobre 2019

 

«Quando il tennis era per dandy solitari, ma liberi»

Un’ossessione chiamata tennis. Un morbo. Una religione. Possibile? «Possibilissimo, altamente probabile», acconsente Matteo Codignola, autore di Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi). «Certo, c’è anche chi gioca un’ora a settimana. Per hobby, o per fare un po’ di movimento. Ma se lo si ama, il tennis può tramutarsi in una malattia». Che si vive alla morte. Da giocatore, da spettatore, da lettore e da scrittore. Come accade a Codignola, genovese, classe 1959, traduttore e curatore per Adelphi di Patrick McGrath, Mordecai Richler, Patrick Dennis e John McPhee. E come documenta questo che è qualcosa più di un libro: oggetto feticcio, raffinato album fotografico virato seppia, galleria di personaggi eccentrici, divagazione sulla natura di una disciplina patologica, di gran lunga il più completo e complesso sport individuale esistente. Coerentemente con la materia che tratta, anche la genesi di Vite brevi di tennisti eminenti è alquanto singolare, essendo che da un bel po’, ma invano, Codignola cercava l’innesco per un grande racconto sul tennis. Fin quando il suo amico Vincenzo Campo, editore della sofisticata Henry Beyle e habitué di mercatini, non rinvenne in quello di Cormano una valigia di cuoio, scrigno di una collezione d’immagini in buste ordinate per argomento: moda, cinema, ingegneria, tennis. Era il famoso spunto mancante. Tra gli oltre cento scatti di gesti bianchi e normalità a bordo campo, prima e dopo i match, sulla scaletta dell’aereo o in posa di gruppo, Codignola ne ha scelte 22 attorno alle quali stendere le sue torrenziali digressioni fitte di aneddoti, relative a una crème di giocatori dilettanti tra i Cinquanta e i Sessanta. Perché, dietro quelle immagini eleganti e bizzarre che danno l’idea di un ambiente un filo estetizzante, in realtà si celano «strane creature», baroni, dandy, zingari teatranti, coach inflessibili, invasati del funny game. «Di prezioso quelle foto avevano la casualità della vita quotidiana che mai avrebbe avuto una ricerca d’archivio».

Un ritrovamento che mise in moto la sua ricerca?

«Avevo una bella traccia. Non sono un feticista delle racchette di legno, quelle partite oggi ci annoierebbero. Ma sapevo che il tennis precedente all’era open, iniziata nel 1968, generava storie. Che il circo bianco dei dilettanti, equivalente grossomodo all’attuale circuito Atp, era un mondo cosmopolita e senza tabù, fatto di ragazzi molto amici o molto nemici fra loro, che si divertivano anche fuori dal campo. Finivano la carriera a 35 o 40 anni avendo girato il mondo. Aerei, navi, alberghi. Ma spesso dovevano inventarsi una vita perché venivano pagati a rimborso spese. A quel punto, aiutati da ghostwriter, pubblicavano autobiografie».

Fonti inesauribili.

«Tra una partita e l’altra, i tennisti di allora parlavano. Molto. Oggi tutto è deciso dagli sponsor, dai team, dai manager. Una gabbia impenetrabile. Ci sono il match e la conferenza stampa. Stop. Di Alexander Zverev o Stefanos Tsitsipas sai appena il paese d’origine e chi li allena. Io non penso si possa raccontare uno sport descrivendo solo l’evento agonistico. Allora tutto era più esotico e spontaneo. Se frequentavi i tornei potevi fare due chiacchiere con Rod Laver, stava seduto lì. I match fra John Newcombe e Ken Rosewall erano prima di tutto scontri tra due personaggi».

C’era più gossip?

«C’erano più storie. Anche nel calcio, della vita di Angelillo facevano parte la vita notturna, la nostalgia per l’Argentina… Della crisi di Novak Djokovic durata oltre un anno non sappiamo nulla. Si fanno delle supposizioni, ma non esce una parola».

Perché i tennisti sono una setta di perfezionisti paranoici pieni di tic?

«È un gioco solitario, che costringe a una vita anche più solitaria. Mentre pensi come anticipare meglio un rovescio, ti rendi conto che lo stai facendo in un tre stelle a Trebisonda o a Tashkent. Non è semplice né divertente, uno in qualche modo deve sfogarsi».

Björn Borg voleva la temperatura della camera a 12 gradi. Rafa Nadal ha la paranoia delle bottigliette. Tutti, anche se il tubo delle palle nuove è appena stato aperto, vogliono scegliere le due necessarie fra 3 o 4.

«La serie di cause alle quali un tennista può attribuire una sconfitta tende all’infinito. All’esterno è difficile da credere. Roger Federer, che è il più serafico, dopo un solo torneo con un nuovo modello di racchetta ha smesso di utilizzarla perché le striscioline di colore bianco introdotte nell’ovale nero lo distraevano».

Il rapporto del tennista con la pallina somiglia a quello dello scrittore con la parola?

«Non saprei fare un accostamento. Per alcuni scrivere è divertimento, per altri una sofferenza. Nel tennis la palla non è tutto. È importante, certo, tutto si decide lì, da come la colpisci… Ma poi ci sono tante altre componenti, i movimenti, la coordinazione, i segnali del corpo… Quando giochi, pensi forse più al resto che alla palla. Spesso sbagliando».

Perché il tennis può diventare un’ossessione?

«Un giocatore scopre sempre che ci sono più cose tra la linea di fondo campo e la rete di quante ne possa contenere la sua filosofia».

Parafrasando William Shakespeare…

«O era lui che parafrasava i tennisti del suo tempo?».

Potrebbe essere.

«C’è qualcosa, nel gioco, che non è mai cambiato, e non cambierà mai – a meno che non lo stravolgano, come stanno tentando di fare. La geometria delle linee, rassicurante in un certo senso, minacciosa in un altro, come le righe sulla tovaglia di Io ti salverò. E il tempo, tutto quel tempo vuoto tra uno scambio e l’altro. O anche durante gli scambi, a pensarci bene».

 Un tempo nel quale accadono un sacco di cose.

«Nel quale sei solo ed elabori un’infinità di pensieri, parole, dubbi. Una partita ti logora, alla lettera. Il campo è un luogo del delitto sul quale continueresti a tornare per correggere gli errori».

Cosa c’è dentro il tennis?

«Soprattutto il monologo continuo con sé stessi. Le coazioni e le psicosi che uno ha nella vita quotidiana, nella competizione si amplificano. Vince chi le controlla meglio».

Preferiamo l’artista della racchetta, ma spesso vince lo scacchista?

«Una volta ho chiesto a Ivan Lendl come aveva potuto perdere da Michael Chang al Roland Garros quella famosa partita in cui, a un certo punto, il tennista americano aveva battuto dal basso. Lendl rispose che ai massimi livelli le differenze tecniche sono irrilevanti, basta un minimo calo di attenzione e il giocatore più debole può vincere. Una partita dura 4 ore e si risolve in sette, otto secondi».

Stiamo stabilendo che il talento è perdente?

«Oggi non basta più. Uno come Ilie Nastase si allenava quando e se voleva. Ma oggi se Djokovic non si presenta al meglio può perdere dal numero 195. Il concetto stesso di talento va aggiornato. Per esempio, Nadal è sicuramente un giocatore costruito, ma in tutto ciò che non riguarda la naturalezza dei colpi – tattica, intelligenza, agonismo –  è un talento smisurato. Di Federer si ammirano l’eleganza, la creatività, le angolazioni, senza pensare che la sua facilità di esecuzione deriva da una preparazione atletica fenomenale. E massacrante».

È la ricerca della perfezione la patologia del tennis?

«C’entra moltissimo. Nessuno lo ammetterebbe razionalmente, ma molti tennisti hanno l’idea della partita perfetta. Come del game perfetto: quattro ace senza che l’avversario tocchi la pallina. Non si vorrebbe sbagliare mai. Il primo errore rovina il match. Si vorrebbe appallottolare il foglio e ricominciare da capo».

Ogni partita è un romanzo perché si giocano tanti punti, ognuno dei quali può derivare da lunghi scambi e capovolgere l’andamento della sfida?

«Non ci sono mai due partite uguali. Devi cercare un punto di rottura tecnico o psicologico in quell’altro che sta oltre la rete. Oltre alla qualità dei colpi, conta anche la psicologia. È una guerra di nervi. Stai sempre a scrutare l’altro, ti chiedi se sta bene o se comincia a cedere».

Stando a Torben Ulrich, padre del batterista dei Metallica, secondo il quale il tennis è anche un fatto sonoro, ha ragione Adriano Panatta con il suo «pof», simbolo di stile?

«Torben era un eccentrico, e le sue battute possono sembrare mattane, ma non è così. Anche a livello amatoriale ci sono colpi che riconosci vincenti dall’impatto, dal suono della palla sulla racchetta. Certe volée, certe stop volley, certi dritti da fondo… Il “pof” di Panatta dice questo».

Perché il cinema sul tennis è meno credibile della letteratura?

«Perché deve competere con la cosa vera, già vista in tv e ripresa meglio. Il tennis è quello che succede in campo, se non puoi farlo vedere, o devi ricostruirlo copiandolo dagli originali su YouTube, sei fritto. In questo senso, la letteratura ha più armi a disposizione».

Mettendo insieme titoli come Tennis di John McPhee, Divina di Gianni Clerici, Il tennis come esperienza religiosa di David Foster Wallace e Open scritto da J. R. Moehringer per André Agassi si può parlare di genere tennistico?

«Open è un buonissimo romanzo sotto mentite spoglie, nel quale il tennis c’entra fino a un certo punto. A questa lista aggiungerei anche Tennis, tv, trigonometria, tornado in cui Foster Wallace, che è stato un ottimo giocatore, racconta la sua adolescenza nel ventoso Illinois, e il suo amore quasi fisico per il nemico numero uno di qualsiasi avversario: lo spaventoso vento del Midwest. Ci sono singoli titoli eccellenti come The Courts of Babylon, il classico di Peter Bodo sull’esplosione pop del tennis negli anni Settanta. E poi, certo, c’è Gianni Clerici. Che non è uno scrittore, ma un genere letterario, uno di quei fenomeni sempre in fuga, dietro i quali gli altri arrancano sui tornanti. Ma siamo solo agli inizi. Credo che i grandi libri di tennis, in realtà, siano ancora da scrivere».

 

La Verità, 9 dicembre 2018

Bertolucci: «Perché non avrei allenato Federer»

Lei aveva un braccio come quello di Fabio Fognini? «Direi che il suo è più veloce. Ma è difficile fare paragoni con quarant’anni fa perché oggi sono cambiati i materiali, le racchette, le palle. E questo, com’è avvenuto in tutti gli sport, ha portato anche il tennis a una versione più violenta e fisica, causa di un maggiore stress mentale». Incontro Paolo Bertolucci il giorno dopo il match in cui Fognini, genio e volubilità, ha annichilito Andy Murray, numero uno del mondo, con una lezione di ricami e fendenti, palle corte e accelerazioni folgoranti. Bertolucci lo chiamavano Braccio d’oro per la facilità a mettere la palla dove voleva con traiettorie chirurgiche, tanto più utili in doppio, quando il campo si restringe. In coppia con Adriano Panatta hanno battuto Vitas Gerulaitis e John McEnroe, Peter McNamara e Paul McNamee quand’erano al vertice del ranking, e i mitici australiani John Newcombe e Tony Roche. Nel 1976 con Panatta, Corrado Barazzutti e Tonino Zugarelli, Braccio d’oro vinse la Coppa Davis contro il Cile di Augusto Pinochet. Nel recente quarantennale si è ricordata quella contrastata trasferta con tanto d’interrogazioni parlamentari e di magliette rosse indossate durante il match. Bertolucci ha conquistato successi anche in singolo, fino a sfiorare l’ingresso nella top ten. Da commissario tecnico della Nazionale, nel 1998 raggiunse un’altra finale di Davis, persa a Milano contro la Svezia. Ora vive a Verona, ma al posto della racchetta impugna il microfono di commentatore per Sky. L’altra sera, durante il match di Fognini, Pasta kid, altro nomignolo affibbiatogli dal giornalista Bud Collins per giocare sulla sua passione per la buona cucina, ha accennato a qualche chilo di troppo del tennista italiano.

Paolo Bertolucci con Pietrangeli, Panatta e Barazzutti al ritorno dal Cile

Paolo Bertolucci con Pietrangeli, Panatta e Barazzutti al ritorno dal Cile

Il paragone è inevitabile: anche per lei il peso era un problema.

«Per me era un problema costante. Per Fognini è stato un ostacolo nel 2016 quando, dopo un infortunio, era cresciuto di quattro chili. Lui ha qualità fisiche eccezionali e una mobilità che non ha nulla da invidiare ai migliori del circuito».

La verità è che voi non vi allenavate. Almeno non quanto avrebbe voluto Mario Belardinelli.

«Non ci fosse stato lui l’avremmo fatto molto meno. In quell’epoca, quando non si parlava quasi di preparazione fisica, fummo pionieri. Il centro di Formia era all’avanguardia, venivano dall’estero per copiarci. Si collaborava con le federazioni di altre discipline. Con i pesisti trascorrevamo ore in palestra, guadagnando forza ma perdendo esplosività. Con i mezzofondisti avevamo un gran fiato, ma poca velocità. Con gli ostacolisti trovammo la strada maestra».

Avreste potuto vincere molto di più: rimpianti?

«Se avessimo avuto un maggiore know how avremmo trovato subito la strada giusta».

Ma un cruccio, una cosa rimasta sul gozzo?

«Forse avremmo potuto vincere un’altra Coppa Davis. Abbiamo disputato quattro finali, tutte fuori casa. Ma quella del 1976 rimane tuttora l’unica. L’avventura di quattro ragazzi cresciuti insieme, il cui sogno era prima indossare la maglia azzurra, poi passare un turno, poi arrivare in finale…».

Un altro rimpianto, forse, non aver allenato Roger Federer?

«Una decina d’anni fa ero entrato in una rosa di possibili candidati. Poi lui fece altre scelte. E anch’io le avevo fatte. Non è un rimpianto perché non fui mai direttamente contattato. Comunque, a malincuore, avrei declinato. Ritenevo che il mio tempo d’allenatore fosse passato».

Con Panatta vi sentite ancora? Vivete anche vicini, lui a Treviso lei a Verona.

«Certo. Lui mi copia sempre. Sebbene dicesse di non amare i toscani ne sposò una e si trasferì a Forte dei Marmi. Quando sono andato a vivere a Verona, dopo un po’ anche lui è venuto in Veneto».

Come mai Verona?

«Questioni di cuore. E poi si sta da Dio, si mangia e si vive bene. C’è cultura, spettacolo, qualità della vita. È comoda per chi come me va spesso a Milano. E la montagna è vicina».

Con Panatta ok. E con Barazzutti?

«Nessun rapporto e non so perché. Quando una volta gli feci i complimenti per una vittoria in Federation Cup (la Coppa Davis femminile, ndr) mi disse: “Se non mi saluti più mi fai un favore”. Da allora silenzio, ma dormo bene lo stesso».

Vi capiterà d’incrociarvi ai tornei.

«Anche nelle occasioni del quarantennale della vittoria in Davis organizzate dalla Federazione ci siamo ignorati. Sky Sport aveva realizzato uno speciale, ma io e Adriano eravamo a Milano, mentre Barazzutti e Zugarelli sono rimasti a Roma».

Come si spiega questo gelo?

«Fatico a spiegarmelo. Forse ha a che fare con la scelta per la presidenza della Federazione per la quale preferimmo candidati diversi. Mi sembra una cosa assurda».

Zugarelli è sparito dai radar?

«Credo lavori in un circolo di Roma. È molto riservato».

Si fa mai prendere dalla nostalgia?

«No, sono stagioni bellissime. A 32 o 33 anni, quando si smette, si ha tutta la vita davanti. Ho fatto il tecnico delle giovanili, poi della Nazionale di Davis. Quando mi hanno proposto di commentare le partite l’idea mi è piaciuta. Scrivo anche commenti per La Gazzetta dello sport. Mi piace parlare dell’unica cosa della quale ho una certa conoscenza. Ho sempre detestato i tuttologi».

Gianni Clerici si dice annoiato dal tennis moderno

Gianni Clerici si dice annoiato dal tennis moderno

Di recente, in un’intervista alla Verità, Gianni Clerici ha confidato che il tennis moderno lo annoia perché dominato dai materiali e da racchette troppo potenti. Cosa ne pensa?

«Clerici è un maestro della provocazione. Si annoiava anche ai miei tempi, quando c’erano Jimmy Arias e José Higueras. In ogni epoca ci sono giocatori spettacolari e carismatici. Ma sono tre o quattro, mentre i tabelloni si fanno con 64 giocatori e anche quelli che non hanno il braccio d’oro, possiedono doti mentali e fisiche per raggiungere le prime posizioni. Non nasceranno nuovi Rafa Nadal o Roger Federer, ma altri giocatori che prenderanno il testimone da questi. Il tennis evolve perché si gioca in tutto il mondo. Magari i prossimi numeri uno arriveranno dalla Nuova Zelanda o dal Marocco».

Clerici auspica il ritorno alle racchette di legno: lei che viene da quell’epoca cosa ne pensa?

«Come si può tornare alle racchette di legno? Qualcuno ipotizza il ritorno al salto con l’asta in bambù? O al ciclismo con le biciclette di Fausto Coppi e Gino Bartali? Il mondo va avanti, cambiano gli attrezzi e i materiali. Cambiano i metodi di allenamento e l’alimentazione. Ai miei tempi mangiavamo filetto e insalata, la pasta era proibita, e dopo due ore eravamo sotto il sole a correre. Oggi si fa il contrario».

Se si riguardano i match di trent’anni fa sembra che i giocatori camminino, lo stesso avviene con le vecchie partite di calcio.

«Trent’anni fa un giocatore di un metro e 85 era un atleta alto e prestante. Oggi Alexander Zverev e Juan Martin Del Potro sono 1 metro e 98 e si muovono come quelli di 1 metro e 80. È così dovunque: nel basket uno di due metri fa il play maker, una volta era il pivot».

Premesso che il tennis è lo sport individuale più completo ed esigente, c’è vita oltre il tennis?

«I giocatori di oggi non hanno molto tempo. Sono circondati dall’allenatore, dal manager, dal fisioterapista, a volte dall’addetto stampa e dall’accordatore. Vivono in team. C’è una certa esasperazione, devono stare sul pezzo 24 ore al giorno. Anche perché ci sono in ballo tanti soldi e in pochi anni possono risolvere i propri problemi e quelli dei propri figli».

E per lei c’è vita oltre il tennis?

«Certo. L’impegno come commentatore televisivo mi assorbe per 15 settimane all’anno. Poi mi dedico a tutt’altro».

Per esempio?

«Amo e seguo molto l’arte contemporanea. La famiglia della mia compagna è proprietaria del Byblos Art Hotel, fuori Verona, premiato come miglior albergo d’Europa di arte contemporanea. Appena posso viaggio, visito le mostre, conosco le vite degli artisti. Anche quando giocavo cercavo di superare il monopolio che il tennis avrebbe voluto avere sulla mia vita. Ma all’epoca si poteva».

Segue la politica?

«La seguo, ma non mi ha mai interessato direttamente. Vivo con apprensione questo momento sempre più complicato. Se non avessi gli affetti in Italia sarei andato altrove. Non perché qui si stia male, ma per aumentare le mie conoscenze».

Keith Haring. Bertolucci ama l'arte contemporanea

Keith Haring. Bertolucci ha visitato la sua mostra a Milano

Legge?

«Quando giocavo portavo sempre in valigia un libro di Wilbur Smith. Anche la Settimana enigmistica non mancava mai nelle lunghe trasferte. Ora, confesso, leggo un po’ meno, ma appena posso vado a qualche mostra. A Palazzo Reale a Milano ho da poco visto quella di Keith Haring. Mi piacciono Basquiat, Anish Kapoor, andrò alla Biennale».

Perché i giocatori italiani sono raramente all’altezza del loro talento?

«È una questione di mentalità. Il tennis è uno sport globalizzato, per 40 settimane all’anno i giocatori girano il mondo. Servono impegno, determinazione, volontà. Noi italiani abbiamo ancora un approccio tra il provinciale e l’artigianale».

È soprattutto carenza di determinazione?

«Certi ventenni stranieri sembrano più maturi dei nostri trentenni. Anche nel calcio ci sono i Cassano e i Balotelli».

Quando un nostro giocatore tornerà nella top ten come ai tempi di Nicola Pietrangeli e Panatta?

«Ci vogliono tempo, maestri e il circolo virtuoso giusti».

E quando un italiano scriverà un libro come Open di Agassi?

«Beh, anche lui è stato molto aiutato dal premio Pulitzer J. R. Moehringer».

Chi è il più grande di sempre?

«Roger Federer, senza dubbio. Lo dicono tutti i giocatori del presente e del passato. Ma tutto il tennis continua a emozionarmi. Resto ammaliato quando vedo certi colpi perché conosco le difficoltà che comportano. Pochi giorni fa ho intervistato Nadal a Montecarlo: ero come un bambino a Disneyland».