«La letteratura di oggi è avvolta nel nichilismo»
Imprenditore tessile, politico o scrittore? Edoardo Nesi sceglie la busta numero tre: «Scrivere è il sogno che ho da quand’ero bambino. Sono stato fortunato». Pratese di 54 anni, sposato e padre di due figli, da suo padre, morto lo scorso anno, ereditò un’azienda manifatturiera che nel 2004 dovette cedere causa crisi. L’esperienza politica in Scelta civica e nel Gruppo misto, invece, è una parentesi chiusa nella scorsa legislatura.
Il suo primo libro, Fughe da fermo, è diventato film diretto da lui stesso. In Storia della mia gente (Bompiani) ha raccontato la rabbia e l’amore «di un industriale di provincia» vincendo il Premio Strega 2011. Il nuovo romanzo, La mia ombra è tua (La nave di Teseo) – citazione da Sotto il vulcano di Malcom Lowry: «Io non ho una casa, solamente un’ombra, ma tutte le volte che avrai bisogno, la mia ombra è tua» – narra il rapporto simbiotico tra lo scrittore di un solo libro, baciato dal successo mondiale, che vive in una casa sopra Firenze in compagnia della propria misantropia e dissoluzione, e un giovane laureato in lettere classiche, incaricato dalla casa editrice di sorvegliare la stesura del secondo, atteso romanzo, e di gestire la nuova epifania pubblica del genio. In mezzo, c’è una grande storia d’amore, anch’essa in stand by, e la riflessione sul tempo che passa, la nostalgia, l’incontro-scontro tra generazioni. Per decifrare il tutto si sono scomodati J. D. Salinger e Don Chisciotte e Sancho Panza. Anche La mia ombra è tua diventerà un film di Fandango.
Cominciamo dal sogno di diventare scrittore.
«Ho iniziato a scrivere racconti a 15 anni, ho smesso per un po’ e ricominciato dopo i venti. Leggevo soprattutto autori americani».
La svolta?
«Un giorno stampai quei racconti e li stesi a terra. E mi accorsi che c’era unità di tempo, di luogo e d’ispirazione. Ritornavano situazioni e personaggi che gravitavano attorno a Prato, come capitoli di un romanzo».
Lo è diventato?
«Fughe da fermo viene da quei fogli a terra. Un’altra cosa che mi ha aiutato molto sono state le traduzioni dall’inglese. Se hai la fortuna di tradurre grandi scrittori puoi vedere dall’interno le strutture narrative. Le traduzioni sono vere e proprie lezioni».
Fughe da fermo è diventato un film, La mia ombra è tua è già una sceneggiatura.
«Diciamo che succedono tante cose e che quando scrivo cerco sempre di vedere i miei personaggi. È un romanzo visivo e anche cinematografico».
Il protagonista, Vittorio Vezzosi, è un Salinger italiano?
«È un uomo che si mette in pausa. La sua grande aspirazione è ritrovare la donna perduta, ma se non la può riavere tanto vale che se ne stia in casa».
Ma quella donna compare dopo la metà del libro.
«È un colpo di scena. Volevo che la letteratura, l’altro grande amore del protagonista, fosse l’unica cosa che gli rimane dentro. Vive di letteratura, di cinema, di musica e di vini».
E di coca.
«Tutti surrogati per compensare quel vuoto».
È un romanzo di passioni molto accese.
«Volevo che i protagonisti rappresentassero solo loro stessi, non fossero echi di altri grandi scrittori. Vezzosi è un personaggio larger than life, espanso, che mi serviva per staccarmi dal racconto della realtà dei libri precedenti».
Come ha fatto a scrivere un romanzo forsennato e allegro come questo dopo che era morto suo padre?
«Me lo chiedo anch’io, forse è stata una reazione. Sentivo di scriverlo così e credo piacerebbe molto anche a lui».
È anche una storia di complicità tra due generazioni?
«Mmmh… non è che Emiliano e il Vezzosi diventino proprio amici. C’è troppa diversità. E, in fondo, non ci credo molto che la mia generazione possa essere complice dei venti-trentenni».
Come definirebbe Emiliano, l’assistente-spia pagato dall’editore, che ha la fortuna di vivere all’ombra del genio e nemmeno si prende la briga di leggerne il libro?
«Diciamo che esprime la difficoltà della sua generazione di accettare come fondativa l’esperienza dei padri».
È così dal Sessantotto, ora abbiamo una ragazzina di 16 anni che ci spiega come sistemare il pianeta: è difendibile Emiliano che non legge il romanzo del guru che gli dà da vivere e che tutto il mondo esalta?
«Non molto. Però ricordo che, quando da ragazzo tutti mi esortavano a leggere un libro, per non uniformarmi lo evitavo. E poi, forse, non leggerlo è l’ultimo meccanismo di difesa contro lo strapotere intellettuale del genio che, pian piano, comincia a piacergli».
I due protagonisti sono convinti che i libri salveranno il mondo?
«Io di sicuro, hanno salvato me. Da sempre, nei miei momenti peggiori, e ne ho avuti, ho trovato salvezza nei libri, nella musica, nel cinema».
Mi dica una lettura che le ha fatto compagnia in uno di quei momenti.
«La lettera che il console scrive a Ivonne in Sotto il vulcano di Malcom Lowry dopo 40 pagine di descrizioni del Messico racconta, con una lingua superba, l’amore che provava per quella donna. Potrebbe sembrare qualcosa di sentimentale ma, quando non riuscivo a trovare la mia strada, quella mi sembrava un’eccellenza cui aspirare. Ho sempre pensato che leggendo i grandissimi qualcosa mi sarebbe arrivato».
Il Vezzosi ha discoteche e videoteche sterminate: mondi consolatori?
«Forse. Ho da poco risistemato un vecchio stereo e ricominciato a sentire i vinili. È un altro mondo, un’altra qualità. Quando ascolti musica non puoi fare altro, mi metto in poltrona, nella penombra».
Invece il mondo dei social network lo sbertuccia…
«Non ho grande simpatia per un ambiente nel quale tutte le opinioni contano allo stesso modo. Non l’ho mai pensato e non lo penserò mai».
Prende in giro anche l’individualismo narcisista degli scrittori?
«L’unica cosa che ci assolve un po’ è che contiamo sempre meno».
In che senso?
«Hanno perso fascino. Oggi scrivono tutti e quindi, nell’idea generale, le differenze si elidono. Le persone invidiate sono altre. Quella dello scrittore è una vita poco glamour: si sta in casa, si lavora, si fanno le presentazioni con venti persone».
Un altro tema saliente è la nostalgia con la quale sembra avere un rapporto ambiguo.
«Per me c’è una nostalgia sana e una malata. Alla Milanesiana di qualche anno fa ho avuto la fortuna di essere allo stesso tavolo di Zygmunt Bauman quando presentò Retrotopia e diceva che la nostalgia è un sentimento negativo che, di per sé, ti fa guardare indietro e ti paralizza. Però se viene a Prato non c’è un solo pratese convinto che oggi si viva meglio di ieri».
E quindi?
«Bisogna distinguere, è come se l’Italia fosse divisa in due. Nelle grandi città, con la globalizzazione, non si è perso granché, nella provincia e al Sud si è perso molto. Il sistema delle piccole industrie che accompagnavano dalla culla alla pensione, si è definitivamente inceppato. Se uno prima lavorava e ora non lavora è comprensibile che sia nostalgico. Così come è comprensibile la nostalgia privata, se uno ha perso il proprio padre o una persona cara… Invece, non approvo la nostalgia come tentativo di restaurazione politica».
Nel passato non c’è nulla da salvare?
«Mi piaceva una certa idea di progresso che davano le macchine di casa, la lavatrice, la lavastoviglie, la tecnologia, il computer e il cellulare. Il futuro era sinonimo di miglioramento. A un certo punto si è fermato tutto. Oggi i nuovi dispositivi sono sempre più esigenti e gli aggiornamenti chiedono dedizione totale».
Tornando agli scrittori, con tutta la loro fama e la devozione dei lettori restano persone infelici?
«Succede spesso. Mentre salvano la vita a noi non riescono a salvare la propria».
Per questo ha composto quella lista di scrittori suicidi con le circostanze in cui si sono tolti la vita?
«Ho voluto andarci dentro e capire com’era davvero successo, che età avevano, il come e il dove. Ho pensato che le modalità fossero una sorta di dichiarazione letteraria. Come scrivere l’ultimo, tragico, libro, con il quale spiegarsi definitivamente».
Il mondo letterario contemporaneo è avvolto nel nichilismo?
«È una condizione che attanaglia molti e che vedo in tanti miei colleghi, ma che personalmente cerco di sconfiggere».
In una lettera a Bernard-Henri Lévy, Michel Houellebecq scrive: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora». Che cosa ne pensa?
«È una rivelazione molto interessante. Una cosa simile la dice anche il protagonista di Zelig di Woody Allen quando lo ipnotizzano e ripete: “Io voglio essere amato”. Credo sia dolorosamente vero ciò che dice Houellebecq».
Il bicchiere di latte che Marcello Mastroianni procura ad Anita Ekberg per il gattino nella notte romana della Dolce vita che lei mette sul finale simboleggia la tenacia dell’uomo, il dono della grazia o una sfida vinta?
«Forse simboleggia la condizione maschile: dobbiamo riuscire a trovare questo bicchiere di latte in una città deserta. Provare a spremerci un po’ di più. Si vive in una mediocrità che rischia di attaccarsi anche a noi… È una bella domanda, tutte e tre le risposte sono giuste. Il dono della grazia mi piace: il latte è un liquido, sacro come il sangue per tenere in vita quel gatto. Il premio è vedere quella donna meravigliosa nella fontana».
Lei ha partecipato alla Leopolda del 2017, ci tornerà anche quest’anno?
«Con la politica attiva ho chiuso. Mi ero candidato perché tante persone avevano letto Storia della mia gente e mi avevano esortato a portare quei contenuti in Parlamento. Però non funziona così. Se posso dare un contributo lo farò attraverso la scrittura».
Che cosa le dà speranza?
«I miei figli, un maschio e una femmina, che studiano a Londra e stanno facendo una bellissima carriera studentesca».
Come la figlia del Vezzosi.
«Già».
La Verità, 13 ottobre 2019