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«L’Italia dovrebbe vincere con il potere dell’arte»

Artista, artigiano, musicista, musicologo, autore, compositore, interprete, showman: Marco Castoldi, in arte Morgan. Persona controversa. Altrimenti non si spiegherebbe come possa esser finito al centro di un inestricabile ingorgo amministrativo giudiziario sentimentale culturale, sfociato nel pignoramento della sua dimora-atelier. Ora, per sensibilizzare le autorità sulla vocazione dell’artista e sul legame tra la creazione e il posto dove questa si genera e prende forma, Marco Castoldi ha pubblicato per La nave di Teseo Essere Morgan – La casa gialla, primo libro di una trilogia, corredato di numerose illustrazioni, che si apre con una lettera al ministro dei Beni e delle attività culturali.

Sulla copertina si firma Marco Morgan Castoldi. Come devo chiamarla?

Come vuole. Morgan è il nome d’arte di un cantante autore performer pianista saltimbanco partorito da una persona che si chiama Marco e si occupa di spettacolo artistico, fatto di musica e parole.

Nella casa-atelier si realizza la sovrapposizione tra persona e artista: espropriarlo vuol dire impedirgli di creare?

Sicuramente nella casa avviene il concepimento e spesso la realizzazione dell’opera. Il posto dove abita l’artista è il posto dove abitano le sue idee. E le sue idee sono la sua arte. In questo periodo ripetevo che da trent’anni sto in quarantena, per cui non c’è nulla di nuovo. Ma siccome me l’hanno tolta, non ho più nemmeno la libertà di stare in casa mia.

Dove ha trascorso il lockdown?

In case a breve termine, piene di bagagli, senza i requisiti tecnici per la mia attività musicale. Case scomode. Case casuali.

Come si mantiene? Eravamo rimasti al pignoramento alla fonte dei suoi introiti, ci sono novità?

Nessuna. Sono rimasto completamente inascoltato sia come cittadino che come artista. Il ministero che dovrebbe occuparsi di beni e attività culturali e organizzare il rapporto tra l’artista, la società e il mercato non fa nulla. Neanche fa finta di farlo.

Il pignoramento e lo sfratto sono opera di Asia Argento per il mancato mantenimento della figlia o dell’Agenzia delle entrate per il mancato pagamento delle tasse?

Non ho quasi mai mancato di mantenere le mie figlie. In realtà le cifre corrisposte sono più alte di quelle richieste. Perché oltre l’assegno mensile, ho assolto alle spese per la scuola e per le attività sportive e ricreative. Ricordo che la bambina è cresciuta con me per quattro anni. Poi ho versato alla madre 3000 euro al mese. Direi tanti per mantenere una bambina. Perciò mi è venuto il dubbio di aver mantenuto anche il tenore di vita da star della madre.

Ma gli alimenti li ha sempre pagati?

Non sempre. Ho avuto problemi con i manager. Ci sono stati momenti in cui non venivo pagato. Ho chiesto di pazientare, assicurando che avrei risolto la situazione. Negli anni ho versato qualcosa come 350-400.000 euro. Va bene, era la risposta. Poi però arrivavano le lettere dell’avvocato. Comportamenti miseri. Non si dovrebbe arrivare a questo tra persone che si sono dette «ti amo». Invece, è successo. E poi ci si atteggia a paladina della battaglia contro la violenza sulle donne.

Era insolvente anche verso l’Agenzia delle entrate?

Tutto è partito da lì. Mi hanno imputato un debito e hanno subito iniziato a pignorare le mie entrate senza discutere di rateizzazione. Non potendo più pagare gli alimenti si è innescata la catena.

Ha presentato reclamo?

L’Agenzia delle entrate è un’entità kafkiana, irraggiungibile. Sono andato di persona per definire una contrattazione basata sui miei introiti. Impossibile. L’anima della burocrazia è questa: dammi la prova che esisti, un documento con marca da bollo. Non basta vederti qui davanti, serve il documento…

Il merito di questa situazione è del suo manager?

Sono passato per diverse gestioni, tutte similmente opache. I manager di artisti non esistono come categoria. Non ci sono regole. Sono autodidatti che pensano di farla in barba all’artista. Il quale è distratto perché pensa alla sua attività creativa.

Perciò non può lamentarsi…

Anch’io ho vissuto da ricco. Le canzoni producono ricchezza. Ho avuto 100, ma loro se ne sono presi 500. Mio compito non è frugare nelle carte dei commercialisti, ma creare una canzone dalla quale tutti traggano vantaggi. Se compongo un ritornello troppo lungo la canzone non incassa due milioni di euro. Se è giusto sì. La mia responsabilità è fare canzoni perfette. Poi, improvvisamente, arriva una notifica di 2 milioni di tasse da pagare.

Con questo libro, introdotto da una lettera all’allora ministro Alberto Bonisoli, contesta il comportamento dello Stato sostenendo che, anziché penalizzarla, dovrebbe sostenerla.

L’obiettivo è mettersi attorno a un tavolo per capire il ruolo dell’artista nella società moderna. E stabilire un sistema di norme affinché le sue creazioni siano vantaggiose per tutti: artista, Stato e mercato. Sono molto competente per ciò che concerne la dimora dell’artista. È una visione che si allarga allo stato dell’arte in Italia fino alla politica del nostro Paese.

In che senso?

Com’è possibile che l’Italia che possiede il più grande patrimonio artistico al mondo sia un Paese economicamente sottomesso e indebolito nella sua sovranità, come abbiamo visto anche durante questa crisi del coronavirus? Un Paese in possesso, temo ancora per poco, di tutta questa bellezza dovrebbe dominare il mondo. Abbiamo avuto Antonio Vivaldi, cioè il maestro di Bach, Mozart e Beethoven. Abbiamo avuto Piero della Francesca, cioè tutti gli Andy Warhol messi insieme. Potrei continuare. Dovremmo governare il mondo…

Invece?

Siamo indebitati perché chi governa è ignorante e non capisce il valore della bellezza. Questi politici vanno aiutati. Vanno condotti per mano perché possano comprendere quanto vale la ricchezza di cui disponiamo.

Nel suo libro parla dell’artista «al centro del reticolo sociale».

L’artista è al centro della comunità, non più fisica o geografica, ma mediatica e virtuale. L’artista aggrega. Che cosa ricordiamo della storia del nostro Paese? I grandi artisti come Leonardo da Vinci o Dante Alighieri. La storia la fanno i grandi creatori o i grandi distruttori. Leonardo e Ludovico il Moro, Picasso e Hitler: dipende da che parte stiamo.

La legge è uguale per tutti: se un musicista rimane senza lavoro è come se accadesse a un commesso?

Il commesso ha la mia stessa dignità. Né più né meno. Ma sul piano sociale è diverso. Sui social scrivono: chi ti credi di essere? Se mi togli la casa mi togli anche il lavoro. Al commesso resta il negozio. Se non lavoro io, si ferma tutto l’indotto delle mie canzoni. A un concerto ho 50.000 persone davanti, qualche decina lavora dietro e attorno al palco, altri guadagnano con i diritti d’autore, poi ci sono le case discografiche, gli uffici stampa… Io posso sostituire il commesso in negozio, lui non può sostituire me.

Intanto il ministro è cambiato. Ora è Dario Franceschini, concittadino di Vittorio Sgarbi, prefatore del libro.

Quindi, per campanilismo dovrebbe leggerlo. Poi mi auguro di incontrarlo.

In quasi tutte le sue ultime esibizioni sono successi casini.

Sono rappresentazioni artistiche.

Con Sky siete in causa per X Factor.

Per forza. Mi hanno promesso un cachet, la mia partecipazione ha portato ascolti, ma non mi pagano giustificando il fatto con le mie intemperanze.

Anche con Maria De Filippi non è finita benissimo.

Idem. Pensando a Maria De Filippi, faccio «Ah!».

Prego?

Ah! Un’esclamazione alla Al Pacino. Nel palazzetto dove si registrava Amici una sera mi è esplosa una paura pazzesca… Sono scappato. «Dove stai andando?», urlavano. «Basta, sono un comunista, sono un comunista». Sono scappato per i campi, nella nebbia, ancora con l’auricolare addosso.

Mi prende in giro? Sembra la scena di un film…

È successo davvero.

A Sanremo sappiamo com’è andata con Bugo.

È stata un’invenzione teatrale, un’iniezione di spettacolo. Sa quanto ha reso il video a YouTube? 23 milioni di euro, con oltre 15 milioni di visualizzazioni. Ma né io né la Rai abbiamo avuto niente.

Ha rotto con Sky, ha rotto con Mediaset e con la Rai ci siamo vicini?

Tutt’altro. La Rai la amo perché è super partes. Sogno di realizzare una trasmissione che valorizzi quello che so fare. Il programma di Enrico Ruggeri è stato un buon passo avanti. Spero venga il mio momento.

Tornerà al Festival nel 2021?

Amadeus è una persona seria, ironica e professionale. Forse l’idea migliore sarebbe che io e Bugo tornassimo come ospiti. Io ospite di Bugo e Bugo ospite mio… Ci pensa? Con l’utopia di fare pace sul palco. E con la strizza che, se non riesce, si ripeterà un altro fattaccio.

Per concludere, c’è qualcosa che la fa essere ottimista?

Penso che mi rivolgerò alla magia.

Chi è Morgan?

Un angelo che va sul palco. E può essere commovente o divertente.

 

Panorama, 20 maggio 2020

«Noi siamo romantici, ma Instagram ci inganna»

Confortevole e conformista, ma con un grande avvenire davanti. Però non è chiaro se dobbiamo rallegrarcene o no: perché il più attraente dei social, il più cool, nel verbo dei suoi adepti, oltre un miliardo, un po’ ci ruba l’anima. Ci seduce e banalizza, ma anche ci educa. E quindi difficile emettere una sentenza univoca. Lasciando perdere Tik Tok, prateria per adolescenti, Instagram è l’avanguardia, la frontiera del meglio, il club delle élite. A svelarne tutti i segreti è da poco in libreria Instagram al tramonto (La nave di Teseo), ultimo saggio di Paolo Landi, autorevole advisor di comunicazione che ha lavorato a lungo per Benetton e oggi cura l’immagine di Bologna fiere, Ovs e numerosi altri marchi. Nel 2006 il suo Volevo dirti che è lei che guarda te – La televisione spiegata a un bambino, pubblicato da Bompiani con prefazione di Beppe Grillo, preconizzava il declino della vecchia tv. Ora questo Instagram al tramonto è talmente anticipatore da risultare controintuitivo.

Quando l’ho visto in libreria mi ci sono tuffato.

«Pensi che il titolo originario era Instagram spiegato alla Ferragni».

Non male neanche questo.

«Già, ma avrebbe potuto risultare presuntuoso».

Perché Instagram al tramonto?

«È un titolo volutamente ambiguo. All’imbrunire, mentre si torna dal lavoro o si è da poco arrivati a casa, Instagram registra il picco di like perché tutti fotografano tramonti».

Il picco deriva dall’orario o dal soggetto?

«Le due cose coincidono. Al tramonto si postano suggestive foto di tramonti. A quell’ora Instagram è molto frequentato».

Instagrammer romantici?

«Molto, si direbbe».

Come Volevo dirti che è lei che guarda te anche questo saggio smonta la nostra illusione di essere protagonisti mentre siamo manovrati, orientati, addomesticati?

«Crediamo di usare un mezzo liberamente e invece ne siamo usati. Nel libro del 2006 intuivo che la televisione sarebbe stata superata da altri media. Instagram ha futuro, anche se potrebbero esserci evoluzioni e mutamenti».

Niente tramonto, quindi?

«Mi sembra presto, siamo ancora nella fase ascendente. Pochi anni fa Avatar, un film su Second life, fece il record d’incassi e sembrava che tutti dovessimo avere un alter ego virtuale. Oggi chi parla più di avatar? Credo che con Instagram dovremo fare i conti ancora per un po’».

Che vantaggio ne trarremo?

«Lo capiremo meglio più avanti. A un certo punto al cervello umano non son più bastate la scrittura e la televisione, la letteratura e il cinema, e ha ideato un modo di comunicare più veloce e istantaneo. Mi chiedo che cosa cerchiamo con queste innovazioni? Come le altre invenzioni hanno migliorato la nostra vita, spero che anche i social la migliorino».

Instagram sta per?

«Fonde i concetti di instant camera e telegram: un’immagine veloce pubblicata sul momento».

Il social dell’attimo fuggente?

«Il primato dell’istante».

Senza memoria?

«La sua forza è l’immagine usa e getta. Quando arriva un post nuovo quello precedente non si guarda più. Dopo 24 ore le storie si cancellano».

Niente archivio?

«Non si ritrova nulla. L’altro giorno avevo letto una frase che diceva… Un attimo che la cerco… L’avevo vista proprio su Instagram e adesso – a proposito di archivio inesistente – non riesco a ritrovarla. Eccola su Google: “Non dialogare mai con un idiota perché ti trascina al suo livello e ti batte con l’esperienza”. È Instagram».

Si dice «siamo» e non stiamo su Instagram o su Twitter: i social ci fanno essere e se non ci sei non sei?

«Ci costringono a essere qualcuno e ad avere un’identità».

Non esistono la contraddizione e il contrasto: in tempi in cui si parla molto di odio e di haters è un fatto positivo?

«Direi di sì, è un social borghese. Non mi pare che gli haters aiutino a illuminare il dibattito politico o sociale».

Invece Instagram è educato?

«Più di Twitter certamente. Anche se alcuni profili cattolici attirano odiatori e i commenti sono pieni di bestemmie».

Con il cristianesimo perde il suo aplomb?

«È un fenomeno strano. Sui profili dei testimoni di Geova o del Dalai Lama non è così. Solo la religione cattolica attira aggressività e blasfemia. È difficile capire le cause, il cattolicesimo innesca la bestemmia, che invece non esiste nelle religiosità orientali».

Perché sono più di moda?

«Le star di Hollywood non le vedo a recitare il rosario, mentre partecipano ai riti buddhisti tibetani. Forse è anche una forma di provincialismo, non so cosa c’entriamo noi italiani con il Dalai Lama».

Cosa vuol dire che Instagram «rende metafisica l’economia, la spiritualizza»?

«Per esempio omologa tutte le professioni. Un parrucchiere, un dogsitter, un avvocato, un blogger e un promotore finanziario sono tutti sullo stesso piano. Se il lavoro perde potere di distinzione siamo in un sistema economico diverso da quello vissuto finora. Il lavoro è dematerializzato».

Un social del superfluo?

«Tutto scorre in superficie, rapporti umani compresi. Ma la visione che dai di te stesso non è veritiera».

Non è troppo definire l’economia digitale la rivoluzione industriale del XXI secolo?

«Siamo ancora in una stagione pionieristica, non sappiamo bene cosa ci aspetta. Convivono le generazioni che hanno assistito al cambiamento e i nativi digitali. Possiamo intuire che il lavoro cambierà e cambierà anche il rapporto con i beni di consumo, dei quali ci si può appropriare molto facilmente. Se ti piace un abito, vai sul profilo di un influencer e lo compri pagandolo con lo smartphone, senza bisogno di strisciare la carta di credito».

Gli influencer cambiano il concetto di tempo, di prestazione d’opera e di competenza?

«Mentre tutti giocavano con i like, loro hanno capito che potevano fare i soldi, Chiara Ferragni per prima. Le modelle andavano nello studio fotografico, si vestivano, si truccavano, destinavano il loro tempo a quell’occupazione. L’influencer è insieme pienamente ozioso e pienamente occupato. È sé stesso quando si veste, viaggia, sorseggia un vino, indossa un orologio. La competenza non è richiesta, forse è utile un po’ di gusto. Anzi, molti non hanno nemmeno quello, cosa c’è di più opinabile del gusto?».

Dietro l’apparenza patinata si nasconde l’ipermercato di un capitalismo più sfumato e invasivo?

«È un ipermercato che vende merci ed emozioni insieme. Se clicchi su un bel tramonto spunta il resort dal quale goderselo, se clicchi sul sorriso di un bambino ecco il più soffice dei pannolini. Instagram fonde emozioni e merci e le vende insieme».

Anche gli spot lo fanno.

«Con gli spot guardi, ma non partecipi. Persuasione e acquisto sono due atti distinti. Su Instagram clicchi sul tramonto e compri subito la vacanza».

Perché non è ancora stato conquistato dalla politica?

«Perché non è adatto. La politica viaggia su Twitter perché richiede sarcasmo, intuitività, vis polemica. Instagram è soprattutto immagine e l’immagine dei politici non è così accattivante».

Riflettendo sui social, finora si è parlato di narcisismo ed esibizionismo. Perché lei insiste sullo snobismo?

«Si mettono i like per entrare in un club che non ci appartiene. È un meccanismo di ascesa sociale, se sono un tifoso di calcio vorrei che Ronaldo mi mettesse il cuoricino. Invece, anche se accadesse, non sarebbe di certo lui a farlo, ma chi cura il suo profilo. Instagram mantiene distinte le classi sociali».

A forza di consumare continuamente, l’unica cosa che consumiamo consumiamo è Instagram stesso?

«La sua grande raffinatezza è di essere un prodotto, un brand. Come la Playstation. Crediamo di goderci le foto dei nostri amici, invece in quel momento qualcuno ci profila e ci inserisce in un database».

È il social più conformista e omologante?

«Mentre ti illude di essere libero di postare le foto che ti piacciono ti uniforma. E finisci per postare le foto che postano tutti. Di sera i tramonti, in spiaggia i piedi, quando ci si fa i selfie le linguacce. Instagram è un propulsore di conformismo».

L’ultimo dei 15 screenshot fotografati da Oliviero Toscani è il suo.

«Ci sono dentro in modo critico».

Pentito?

«No, ma medito di uscire».

Quindi è pentito?

«Se vivi nella contemporaneità devi usare ciò che la contemporaneità ti offre. Non demonizzo Instagram e non biasimo chi ama esserci, ma mi piace farne un uso consapevole. Mi chiedo chi sarà la nuova classe dirigente: la massa che sta lì a postare tramonti o qualcun altro? L’élite del futuro emergerà dagli Instagrammer o da qualche altra cosa che ancora non sappiamo? È un fenomeno massificante, ma finora tutti i media hanno favorito il progresso dalla specie umana».

Io continuo a diffidare, se ci si pensa un attimo prima di postare un’opinione o un sentimento alla fine non si posta. Le cose preziose restano fuori.

«Le cose che ritenevamo preziose, la pancia di tua moglie incinta, il neonato, sono corrotte dalle immagini che mettiamo su Instagram. Le custodivamo nel privato e ora sono schiaffate davanti a milioni di persone. Instagram appartiene al nostro tempo, ma non è obbligatorio».

Ce la faremo? O vincerà l’omologazione?

«È difficile capire come finirà. È come se Instagram ci educasse ad avere una dimestichezza digitale. Penso che alla fine ci sarà qualcuno che dirà che il gioco è finito e adesso fate quello che dovete fare, cioè comprare. Secondo me si arriverà a un sistema più raffinato di domanda e offerta dei bisogni. Indotti o meno».

 

La Verità, 15 dicembre 2019

 

«La letteratura di oggi è avvolta nel nichilismo»

Imprenditore tessile, politico o scrittore? Edoardo Nesi sceglie la busta numero tre: «Scrivere è il sogno che ho da quand’ero bambino. Sono stato fortunato». Pratese di 54 anni, sposato e padre di due figli, da suo padre, morto lo scorso anno, ereditò un’azienda manifatturiera che nel 2004 dovette cedere causa crisi. L’esperienza politica in Scelta civica e nel Gruppo misto, invece, è una parentesi chiusa nella scorsa legislatura.

Il suo primo libro, Fughe da fermo, è diventato film diretto da lui stesso. In Storia della mia gente (Bompiani) ha raccontato la rabbia e l’amore «di un industriale di provincia» vincendo il Premio Strega 2011. Il nuovo romanzo, La mia ombra è tua (La nave di Teseo) – citazione da Sotto il vulcano di Malcom Lowry: «Io non ho una casa, solamente un’ombra, ma tutte le volte che avrai bisogno, la mia ombra è tua» – narra il rapporto simbiotico tra lo scrittore di un solo libro, baciato dal successo mondiale, che vive in una casa sopra Firenze in compagnia della propria misantropia e dissoluzione, e un giovane laureato in lettere classiche, incaricato dalla casa editrice di sorvegliare la stesura del secondo, atteso romanzo, e di gestire la nuova epifania pubblica del genio. In mezzo, c’è una grande storia d’amore, anch’essa in stand by, e la riflessione sul tempo che passa, la nostalgia, l’incontro-scontro tra generazioni. Per decifrare il tutto si sono scomodati J. D. Salinger e Don Chisciotte e Sancho Panza. Anche La mia ombra è tua diventerà un film di Fandango.

Cominciamo dal sogno di diventare scrittore.

«Ho iniziato a scrivere racconti a 15 anni, ho smesso per un po’ e ricominciato dopo i venti. Leggevo soprattutto autori americani».

La svolta?

«Un giorno stampai quei racconti e li stesi a terra. E mi accorsi che c’era unità di tempo, di luogo e d’ispirazione. Ritornavano situazioni e personaggi che gravitavano attorno a Prato, come capitoli di un romanzo».

Lo è diventato?

«Fughe da fermo viene da quei fogli a terra. Un’altra cosa che mi ha aiutato molto sono state le traduzioni dall’inglese. Se hai la fortuna di tradurre grandi scrittori puoi vedere dall’interno le strutture narrative. Le traduzioni sono vere e proprie lezioni».

Fughe da fermo è diventato un film, La mia ombra è tua è già una sceneggiatura.

«Diciamo che succedono tante cose e che quando scrivo cerco sempre di vedere i miei personaggi. È un romanzo visivo e anche cinematografico».

Il protagonista, Vittorio Vezzosi, è un Salinger italiano?

«È un uomo che si mette in pausa. La sua grande aspirazione è ritrovare la donna perduta, ma se non la può riavere tanto vale che se ne stia in casa».

Ma quella donna compare dopo la metà del libro.

«È un colpo di scena. Volevo che la letteratura, l’altro grande amore del protagonista, fosse l’unica cosa che gli rimane dentro. Vive di letteratura, di cinema, di musica e di vini».

E di coca.

«Tutti surrogati per compensare quel vuoto».

È un romanzo di passioni molto accese.

«Volevo che i protagonisti rappresentassero solo loro stessi, non fossero echi di altri grandi scrittori. Vezzosi è un personaggio larger than life, espanso, che mi serviva per staccarmi dal racconto della realtà dei libri precedenti».

Come ha fatto a scrivere un romanzo forsennato e allegro come questo dopo che era morto suo padre?

«Me lo chiedo anch’io, forse è stata una reazione. Sentivo di scriverlo così e credo piacerebbe molto anche a lui».

È anche una storia di complicità tra due generazioni?

«Mmmh… non è che Emiliano e il Vezzosi diventino proprio amici. C’è troppa diversità. E, in fondo, non ci credo molto che la mia generazione possa essere complice dei venti-trentenni».

Come definirebbe Emiliano, l’assistente-spia pagato dall’editore, che ha la fortuna di vivere all’ombra del genio e nemmeno si prende la briga di leggerne il libro?

«Diciamo che esprime la difficoltà della sua generazione di accettare come fondativa l’esperienza dei padri».

È così dal Sessantotto, ora abbiamo una ragazzina di 16 anni che ci spiega come sistemare il pianeta: è difendibile Emiliano che non legge il romanzo del guru che gli dà da vivere e che tutto il mondo esalta?

«Non molto. Però ricordo che, quando da ragazzo tutti mi esortavano a leggere un libro, per non uniformarmi lo evitavo. E poi, forse, non leggerlo è l’ultimo meccanismo di difesa contro lo strapotere intellettuale del genio che, pian piano, comincia a piacergli».

I due protagonisti sono convinti che i libri salveranno il mondo?

«Io di sicuro, hanno salvato me. Da sempre, nei miei momenti peggiori, e ne ho avuti, ho trovato salvezza nei libri, nella musica, nel cinema».

Mi dica una lettura che le ha fatto compagnia in uno di quei momenti.

«La lettera che il console scrive a Ivonne in Sotto il vulcano di Malcom Lowry dopo 40 pagine di descrizioni del Messico racconta, con una lingua superba, l’amore che provava per quella donna. Potrebbe sembrare qualcosa di sentimentale ma, quando non riuscivo a trovare la mia strada, quella mi sembrava un’eccellenza cui aspirare. Ho sempre pensato che leggendo i grandissimi qualcosa mi sarebbe arrivato».

Il Vezzosi ha discoteche e videoteche sterminate: mondi consolatori?

«Forse. Ho da poco risistemato un vecchio stereo e ricominciato a sentire i vinili. È un altro mondo, un’altra qualità. Quando ascolti musica non puoi fare altro, mi metto in poltrona, nella penombra».

Invece il mondo dei social network lo sbertuccia…

«Non ho grande simpatia per un ambiente nel quale tutte le opinioni contano allo stesso modo. Non l’ho mai pensato e non lo penserò mai».

Prende in giro anche l’individualismo narcisista degli scrittori?

«L’unica cosa che ci assolve un po’ è che contiamo sempre meno».

In che senso?

«Hanno perso fascino. Oggi scrivono tutti e quindi, nell’idea generale, le differenze si elidono. Le persone invidiate sono altre. Quella dello scrittore è una vita poco glamour: si sta in casa, si lavora, si fanno le presentazioni con venti persone».

Un altro tema saliente è la nostalgia con la quale sembra avere un rapporto ambiguo. 

«Per me c’è una nostalgia sana e una malata. Alla Milanesiana di qualche anno fa ho avuto la fortuna di essere allo stesso tavolo di Zygmunt Bauman quando presentò Retrotopia e diceva che la nostalgia è un sentimento negativo che, di per sé, ti fa guardare indietro e ti paralizza. Però se viene a Prato non c’è un solo pratese convinto che oggi si viva meglio di ieri».

E quindi?

«Bisogna distinguere, è come se l’Italia fosse divisa in due. Nelle grandi città, con la globalizzazione, non si è perso granché, nella provincia e al Sud si è perso molto. Il sistema delle piccole industrie che accompagnavano dalla culla alla pensione, si è definitivamente inceppato. Se uno prima lavorava e ora non lavora è comprensibile che sia nostalgico. Così come è comprensibile la nostalgia privata, se uno ha perso il proprio padre o una persona cara… Invece, non approvo la nostalgia come tentativo di restaurazione politica».

Nel passato non c’è nulla da salvare?

«Mi piaceva una certa idea di progresso che davano le macchine di casa, la lavatrice, la lavastoviglie, la tecnologia, il computer e il cellulare. Il futuro era sinonimo di miglioramento. A un certo punto si è fermato tutto. Oggi i nuovi dispositivi sono sempre più esigenti e gli aggiornamenti chiedono dedizione totale».

Tornando agli scrittori, con tutta la loro fama e la devozione dei lettori restano persone infelici?

«Succede spesso. Mentre salvano la vita a noi non riescono a salvare la propria».

Per questo ha composto quella lista di scrittori suicidi con le circostanze in cui si sono tolti la vita?

«Ho voluto andarci dentro e capire com’era davvero successo, che età avevano, il come e il dove. Ho pensato che le modalità fossero una sorta di dichiarazione letteraria. Come scrivere l’ultimo, tragico, libro, con il quale spiegarsi definitivamente».

Il mondo letterario contemporaneo è avvolto nel nichilismo?

«È una condizione che attanaglia molti e che vedo in tanti miei colleghi, ma che personalmente cerco di sconfiggere».

In una lettera a Bernard-Henri Lévy, Michel Houellebecq scrive: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora». Che cosa ne pensa?

«È una rivelazione molto interessante. Una cosa simile la dice anche il protagonista di Zelig di Woody Allen quando lo ipnotizzano e ripete: “Io voglio essere amato”. Credo sia dolorosamente vero ciò che dice Houellebecq».

Il bicchiere di latte che Marcello Mastroianni procura ad Anita Ekberg per il gattino nella notte romana della Dolce vita che lei mette sul finale simboleggia la tenacia dell’uomo, il dono della grazia o una sfida vinta?

«Forse simboleggia la condizione maschile: dobbiamo riuscire a trovare questo bicchiere di latte in una città deserta. Provare a spremerci un po’ di più. Si vive in una mediocrità che rischia di attaccarsi anche a noi… È una bella domanda, tutte e tre le risposte sono giuste. Il dono della grazia mi piace: il latte è un liquido, sacro come il sangue per tenere in vita quel gatto. Il premio è vedere quella donna meravigliosa nella fontana».

Lei ha partecipato alla Leopolda del 2017, ci tornerà anche quest’anno?

«Con la politica attiva ho chiuso. Mi ero candidato perché tante persone avevano letto Storia della mia gente e mi avevano esortato a portare quei contenuti in Parlamento. Però non funziona così. Se posso dare un contributo lo farò attraverso la scrittura».

Che cosa le dà speranza?

«I miei figli, un maschio e una femmina, che studiano a Londra e stanno facendo una bellissima carriera studentesca».

Come la figlia del Vezzosi.

«Già».

 

La Verità, 13 ottobre 2019

L’uomo che ascoltava papà Sgarbi

Non era uno scrittore della sua generazione, ma della nostra. I suoi racconti del passato riguardano il presente. Si sa com’è, i vecchi hanno una memoria asimmetrica, ricordano con nitidezza i fatti lontani e scordano quelli recenti. Era come se guardasse la realtà con il binocolo rovesciato, rimpicciolendo le storie. Gli sembrava tutto normale e non lo era per niente. Io lo invitavo a rimettere il binocolo dalla parte giusta, per ingrandire le immagini. La guerra, la campagna di Grecia, il viaggio a Tirana, 600 chilometri a piedi e in treno per recuperare un po’ di sigarette per i commilitoni, il compleanno da solo sul lungomare, il ritorno a casa. Poi l’alluvione del 1951, l’apocalisse che distrusse quel poco che la guerra aveva lasciato in piedi o che aveva appena ricostruito gente come la Nena, l’unica donna che riusciva ad attraversare la piena col suo barchino, portando in salvo chi era in pericolo. Ascoltavo quei racconti e assistevo a un’epopea, come in certi film di Bernardo Bertolucci. La sua memoria mi affacciava su un emisfero ignoto: quella civiltà contadina che noi, figli della società industriale e tecnologica, non abbiamo vissuto». Giuseppe Cesaro, giornalista, editor che presto pubblicherà Indifesa, il suo primo romanzo per La nave di Teseo, è stato per cinque anni il confidente, lo scrivano, il collaboratore silente di Giuseppe Sgarbi, detto Nino. Lo scrittore di quella estrosa famiglia di farmacisti, critici d’arte, editori. Il capostipite riservato. Il custode di tutto, rimasto nell’ombra fino a 93 anni, quando ha ceduto alle insistenze della figlia Elisabetta, convinta, a ragione, che le sue memorie avessero dignità letteraria. Ora che Nino è scomparso, novantasettenne, poco prima che fosse pubblicato il suo quarto libro, Il canale dei cuori (Skira), vien da chiedersi come si aiuta uno scrittore esordiente ultranovantenne che, siccome ci vede poco, ha bisogno di dettare? Che tipo di affinità s’instaura tra il protagonista di quei racconti e chi li trasferisce sulla pagina?

 

Giuseppe Sgarbi, morto nel gennaio scorso

Giuseppe Sgarbi, morto nel gennaio scorso

«Quella mattina nella casa di Ro Ferrarese c’era solo la Rina, sua moglie», riprende Cesaro. «Vittorio si è sempre visto ai suoi orari. Elisabetta era al lavoro a Milano. La conoscevo da una decina d’anni. “Mio papà è una miniera di storie”, mi aveva confidato. “Ho bisogno di una persona che sappia ascoltare, a cui possa affidare i ricordi senza timore di effrazioni nel suo mondo”. Così, eccomi lì, davanti a questo signore tranquillo, riservato, gran lettore, che citava a memoria poeti su poeti. E che mi scrutava, mentre io facevo finta di nulla e gli davo rispettosamente del lei, per non violare le regole della sua sensibilità. Sedevamo in giardino: “Qui tutti mi chiamano Nino, ma in realtà il mio nome è Giuseppe, come lei”, disse. Allora gli raccontai che mio padre aveva la sua età ed era nato a Badia Polesine, pochi chilometri distante dalla sua Stienta. E lui mi chiese, titubante: “Ma lei è proprio sicuro? Elisabetta insiste tanto…”. “Proviamo, vediamo che cosa viene fuori”, incoraggiai».

Finora, son venuti fuori quattro libri di memorie. Ai primi tre, Lungo l’argine del tempo, Non chiedere cosa sarà il futuro e Lei mi parla ancora, struggente lettera alla moglie scomparsa, si è aggiunto Il canale dei cuori, uscito postumo, e dedicato al cognato Bruno Cavallini, fratello di Rina, intellettuale raffinato, il vero maestro di Vittorio. Nei cassetti di Cesaro, però, c’è materiale per altri due mémoires. «Uno dovrebbe intitolarsi Dietro il banco e raccogliere i ricordi di farmacista di Nino. Si sa com’era una volta: insieme al prete, al sindaco e al medico, nei piccoli paesi il farmacista era un’autorità. A quei tempi spesso i medicamenti venivano preparati su misura, come fa il sarto con gli abiti. L’ultimo libro dovrebbe intitolarsi Il viaggio non è finito e raccontare il rapporto con il tempo, con la vita e la morte, attraverso il fiume, il suo fiume, che è stato la culla dei ricordi. Io ho sempre fatto attenzione a rispettare la sua riservatezza, le sue reticenze, la volontà di non violare l’intimità che aveva costruito con la Rina. Era una donna pirotecnica. Lo prendeva in giro, gli diceva che era veneto, falso come tutti i veneti, e lo chiamava ancora “il mio bambino”. Ma quando non c’era, si sentiva persa. Era anche gelosa e un pochino snobbava il suo nuovo impegno letterario». Nel Canale dei cuori lui la racconta così: «O scrivi o vivi. Credo sia impossibile fare le due cose insieme. Farle bene, voglio dire. Per una questione di attenzione, più che di tempo. Bisogna scegliere a cosa dedicare le energie migliori. La vita è come la pagina: le devi stare dietro con la testa, altrimenti è un disastro. E finché c’era la Rina…».

«Quando penso a Nino», continua Cesaro, «mi viene in mente George Harrison che faticava a convincere John Lennon e Paul McCartney a inserire nei dischi qualche suo brano. Appena i Beatles si sciolsero, con tutte le canzoni rimaste nel cassetto incise All Things Must Pass, un album triplo che ebbe enorme successo. Nino ha aspettato che il tempo rallentasse, che la piena scendesse e finalmente, dopo aver ascoltato e letto una vita, ha cominciato a ricordare e a scrivere».

Non dev’essere stato facile rispettare il suo linguaggio, così originale. «Si esprimeva in una lingua molto personale. Un lessico che in parte mi era familiare, perché somigliava al dialetto di mio padre. Ma il suo era un italiano più complesso e sfaccettato. Era stato mandato a scuola a Camerino, ospite di un fratello del papà. Poi le superiori ad Ancona, dove aveva cominciato a leggere e dov’era rimasto affascinato dagli idrovolanti. La guerra lo aveva portato in Grecia e in Liguria. Aveva un vocabolario ricco, come una lingua di foce che raccoglieva tanti affluenti».

Giuseppe Sgarbi con la figlia Elisabetta

Giuseppe Sgarbi con la figlia Elisabetta

Come lavoravate? «Vivo a Roma, appena avevo qualche giorno libero mi trasferivo a Ro. Ci vedevamo al mattino, lo ascoltavo per un paio d’ore. Registravo e prendevo qualche appunto per ricordarmi la sequenza degli argomenti. Dopo pranzo si lavorava un’altra oretta, poi andava a riposare. Io controllavo date e riferimenti geografici e la sera gli facevo una specie di riassunto. Il giorno dopo, a volte, ripeteva ciò che aveva già detto e quando glielo facevo notare annuiva: “Sì, però non ti avevo detto quest’altro”. Così la storia si arricchiva di nuovi dettagli. Era come un lungo filò davanti al camino, che cercavo di riordinare, facendone un montaggio coerente. Una volta sbobinato il materiale glielo rileggevo e lui si stupiva: “Davvero ho scritto questo?”. Magari correggeva qualcosa. Alla fine mandavo tutto a Elisabetta che rileggeva a sua volta e rispediva per l’ultima lettura di Nino, con una grossa lente su caratteri enormi».

Avete avuto discussioni sui contenuti? «Vittorio avrebbe voluto racconti più intimi. Ma lui ripeteva: “L’arte è di tutti, la vita è di quelli che l’hanno vissuta”. Mi sentivo come l’ospite che aspetta l’invito del padrone per oltrepassare la soglia di casa. Una volta entrato, ero come un’ostetrica che aiuta la memoria a spingere fuori i ricordi. Citava i suoi poeti, Petrarca, Pascoli, Leopardi, le letture di gioventù, i francesi, Emilio Salgari… Se qualche volta gli mancava un verso glielo trovavo su internet. Oppure con Google maps lo riportavo nei posti dov’era stato tanto tempo fa. Riconosceva la piazza di Camerino, i viali di Ancona, le strade di Sanremo. Ricordava e tornava bambino. Io guardavo lui che guardava il computer. Anche sulla soglia dei cent’anni gli occhi sono l’unica cosa che non cambia di un uomo. I suoi erano uno spettacolo».

 

Panorama, 15 marzo 2018

 

 

«Chiedi chi era Etty Hillesum morta nel lager»

In una foto scattata qualche anno fa da Giuseppe Pino ed esposta nella sua casa a due passi dal Corriere della Sera per il quale ha scritto una vita, Edgarda Ferri somiglia a Audrey Hepburn. Eppure sul web circola un testo in cui scrive: «A sedici anni volevo essere bionda e provocante come Brigitte Bardot». Niente di più distante. Oggi Edgarda Ferri è un’elegante signora dai capelli bianchi e lo sguardo brillante come l’intelligenza di certe ragazze interpretate da Audrey Hepburn nei film di Blake Edwards e William Wyler. Per lavoro ha viaggiato, letto e scritto. Attualmente collabora con La Repubblica. È autrice, tra numerose altre pubblicazioni, di biografie di donne importanti, da Giovanna la pazza a Caterina da Siena, da Matilde di Canossa a Letizia Bonaparte. L’ultima, appena uscita per La nave di Teseo e intitolata Un gomitolo aggrovigliato è il mio cuore, è dedicata a Etty Hillesum, giovane donna ebrea e figura di culto non solo in ambienti cattolici. Durante la guerra, Etty andò spontaneamente nel campo di transito olandese di Westerbork dove, prima di essere trasferita ad Auschwitz e morirvi men che trentenne, tenne dei folgoranti diari.

Allora, signora Ferri, ho letto su internet che a 16 anni voleva essere bionda e provocante come Brigitte Bardot.

«È un testo inventatissimo, nel quale è sbagliata persino la data di nascita. Dovrei andare da un avvocato per farlo cancellare, ma sono distratta su ciò che mi riguarda. In realtà, volevo diventare bianca come mia madre e mia nonna. Per noi i capelli bianchi sono un segno distintivo».

Edgarda Ferri in uno scatto di Giuseppe Pino

Edgarda Ferri in uno scatto di Giuseppe Pino

Anche lei vittima delle fake news. Come isolare i vantaggi della rivoluzione digitale tralasciandone gli effetti collaterali?

«Lo so che ci sono dei vantaggi, ma mi fanno orrore gli svantaggi, come il fatto di mettere in piazza tutto. Mi chiedo perché certe cose vanno in giro? Non è la macchina che lo fa. È l’uomo che si fotografa davanti a un piatto di pasta, o mentre sgozza un povero innocente. Sono i bulli che postano un compagno di scuola che infila la testa di un altro nella tazza del water».

Perché ha scritto tante biografie, soprattutto di donne?

«Perché le ho sempre lette con passione. Mio padre ne aveva un’intera biblioteca: Otto von Bismark, Klemens von Metternich, Francesco Giuseppe. Io andavo a cercare le donne. All’inizio mi sono dedicata alla saggistica. Ho scritto Il perdono e la memoria, mi ha sempre incuriosito il tema del perdono. Andai a trovare una donna che nella strage di Bologna aveva perso marito, figlia, nuora e nipotini. Era una pollivendola di Como che si era fatta suora di clausura. Le ho parlato attraverso la grata. Un’altra era sopravvissuta all’eccidio di Marzabotto sotto una montagna di morti. Aveva 11 anni. Quando il comune di Marzabotto indisse un referendum per uno sconto di pena a Walter Reder, votò sì solo lei. Scoprii che era anticlericale, atea e comunista. E che aveva perdonato per stanchezza. Poi mi sono dedicata alle donne che hanno a che fare con il potere».

Etty Hillesum però no. Perché l’ha scelta?

«Mi chiedevo quale storia ci fosse dietro quegli aggrovigliati diari. Volevo conoscere questa ragazza che si era prefissa di testimoniare la vita dentro il campo di Westerbork e che, prima di partire “per la Polonia”, non sapendo che la meta era Auschwitz, aveva consegnato le sue riflessioni a un’amica. Per documentare non solo le vessazioni dei nazisti, ma anche i soprusi e la corruzione nella comunità ebraica».

Come ci ha lavorato?

«Sono andata ad Amsterdam. Ho fatto le sue strade e contato i suoi passi. Recuperato fotografie, pezzi di diario, lo spartito del fratello con i disegni. Purtroppo non ho potuto entrare nella casa di piazza Rijksmuseum. Dove c’è una targa e vive una coppia che non apre mai perché è stanca di mostrare la casa. Ma grazie a due ragazzi italiani che hanno una pizzeria e abitano nello stesso edificio ho potuto vedere da sopra il terrazzino, l’albero…».

Che cosa le piace di Etty Hillesum?

«La vivacità e l’amore per la vita. Muore giovane, ma la sua è una storia vitale. È andata a Westerbork per condividere il destino del suo popolo. È una ragazza che sta in piedi nonostante tutto quel che le accade: la malattia, la morte di uno degli uomini più amati, la deportazione della famiglia. Tutto ha sempre una rivincita. Quando muore Julien Spier, colui che le apre gli occhi sulla tragedia e che la conduce verso un percorso ignoto, afferma che, entrando nella sua stanza ha dovuto fare l’espressione di circostanza perché il suo istinto sarebbe stato di dire che “la vita è bella, nonostante tutto”».

Oggi si parlerebbe di resilienza.

«Resilienza e resistenza. Ogni martedì partivano i convogli per Auschwitz e anche lei viveva nella paura. Si chiedeva come aiutare chi era nella lista dei partenti. “Fino a che punto si può resistere a questo dolore”, scriveva. “Posso solo sedermi al loro fianco, a volte anche una mano sulla spalla può essere pesante”».

Etty Hillesum mostra che c’è più vita nella nostra interiorità che fuori.

«Prima di partire anche lei decide di liberarsi delle cose che ha. Lo zaino può contenere poco, meglio un libro che un maglione. Straccia le lettere e le fotografie dei suoi cari e scrive: “Li ho già appesi alle pareti del mio cuore”».

Etty Hillesum morì a 29 anni ad Auschwitz

Etty Hillesum morì a 29 anni ad Auschwitz

Ha un ampio club di cultori, dall’Associazione Vidas, che assiste malati terminali, al professor Eugenio Borgna, alla scrittrice Marina Corradi. Che cosa dice Etty Hillesum al nostro tempo?

«Borgna mi ha scritto una lettera struggente per questo libro. Marina è figlia di Egisto Corradi, grande inviato e scrittore, oltre che amico. Ci sono molti gruppi di studio su Etty, cattolici più che ebrei. Anche se non è una figura catalogabile, il suo senso del perdono è profondamente cristiano. Etty perdona non perché è buona, ma perché s’immedesima nell’altro. Di fronte a un giovane soldato che la maltratta si domanda che storia abbia, se ci sia della sofferenza dietro l’apparente rigidezza. Nella religione ebraica il perdono non esiste. Solo Gesù perdona. Per noi uomini non è facile, vorrei raccontarle un fatto».

Prego.

«Lavoravo come inviato al Corriere d’Informazione, stesso palazzo del Corriere della Sera. Un giorno o l’altro scenderai di un piano e verrai al Corriere, mi dicevano i colleghi. Io me l’auguravo. A un certo punto alcuni di noi erano effettivamente scesi di un piano, mentre io ricevetti la lettera di licenziamento. Il giornale chiudeva. Da quel momento, per certi colleghi con i quali avevo condiviso stanze d’albergo e situazioni drammatiche divenni invisibile. Una volta sul tram incontrai Egisto Corradi, lui era già con Montanelli al Giornale, e gli confidai il dolore per l’assenza di solidarietà. Mi rispose: “Da quando ho partecipato alla ritirata di Russia e ho visto abbandonare fratelli morenti nella neve non mi meraviglio più di niente”».

Etty Hillesum si chiede se «dobbiamo odiare tutti i tedeschi?». Viene in mente Abramo che chiede a Dio se sterminerà tutta Sodoma anche se ci vivono solo dieci giusti.

«È una domanda che trovo ancora più attuale in tempi in cui abbiamo a che fare con l’islam. Siamo portati ad avere paura di tutti i musulmani, senza essere capaci di distinguere».

Per molti osservatori il germe della violenza è nel Corano.

«Già. Ma dovremmo conoscerlo meglio, anche per controbattere a chi sostiene che è una religione di pace. Nel campo di Westerbork Etty riconosceva che esistevano ebrei cattivi. Era addolorata per le liti tra ebrei olandesi ed ebrei tedeschi».

A chi le chiede le ragioni del suo «altruismo radicale» risponde: «Sì, vedi: io credo in Dio». Che Dio è quello di Etty Hillesum?

«Non un Dio di pace e d’amore, ma un Dio crudele, indifferente. Non a caso, in una lettera in cui lo chiama “Signor Dio”, scrive che lo perdona. L’amore per la vita di Etty scaturisce dalla bellezza della natura che la apre al trascendente. In questo la sento molto vicina. Quando ho intervistato l’atea Margherita Hack mi ha confidato che quando scrutava la meraviglia del firmamento anche a lei veniva la tentazione di credere. Ecco: io questa realtà la chiamo immediatamente Dio».

Però questo Dio non basta a perdonare.

«Infatti è Etty che dice a Dio: “Ti perdono”. Nel campo di concentramento si batte per difendere il pezzetto di eternità che c’è dentro ognuno di noi. E che è l’inizio della salvezza».

Dove ritrova un Dio così?

«Lo cerchiamo. Nel dolore, non certo nelle sale da ballo. Quando avverto che c’è amore vero, che non è la bontà, allora ci vedo Dio. A volte basta un gesto».

Pensa che le persone del secolo scorso siano più profonde dei millennial?

«Il millennio ha cambiato molte cose: le tecnologie, l’atteggiamento di fronte alla vita, sono aumentate le guerre. Il denaro e l’apparire vengono prima di tutto. Noi del Novecento, che avevamo nonni dell’Ottocento, ci consideriamo parte di una scia lunghissima. Non è che ho paura di confrontarmi con i millennial. Ma abbiamo linguaggi diversi. I sentimenti no, quelli sono uguali, ci sono ragazzi generosi, che hanno ancora dei valori. È il linguaggio che è diverso. Spesso, per farla breve, diciamo che la società è peggiorata. Ma dicevano così anche i nostri nonni: è la nostalgia. Vorrei vivere ancora a lungo per vedere come si mette. Spero che un giorno o l’altro arrivi un nuovo San Francesco. Certo, abbiamo già il Papa. Ma nei miei sogni vedo un giovane Francesco che cammina sulle rovine».

La Verità, 18 giugno 2017

 

 

Papà «Nino» Sgarbi, rivelatosi grande scrittore a 96 anni

È una storia curiosa quella di Giuseppe «Nino» Sgarbi. Una vicenda singolare. In una famiglia di persone iperattive e tempestose come il figlio Vittorio (critico d’arte, politico, polemista e tutto il resto), la figlia Elisabetta (regista, editrice, fondatrice di La Nave di Teseo e anima della Milanesiana) e la moglie Caterina «Rina» Cavallini dalla quale discendono quei temperamenti vulcanici, lui amava la pesca e la poesia. Il capostipite è uno spirito contemplativo e mite, un uomo tenero e pacato. All’alba dei 93 si è scoperto scrittore e ora che, oggi 15 gennaio, di primavere ne compie 96, si sta godendo il successo del suo terzo libro, Lei mi parla ancora (Skira), lunga e struggente lettera alla moglie morta un anno e mezzo fa. Giuseppe Cesaro che, a causa della cecità incipiente, glieli scrive sotto dettatura, dice che Nino Sgarbi gli fa venire in mente George Harrison, il Beatle che non riusciva a convincere Lennon e McCartney a incidere un suo brano. Appena la band si sciolse, però, pubblicò da solista All Things Must Pass, un triplo che riscattava le canzoni rimaste troppo a lungo nel cassetto. Nessuno ha compresso la vena letteraria di papà Sgarbi – il contrario – ma la sua trilogia sulla famiglia di farmacisti che in realtà sono critici, editori e scrittori è perfetta per trarne un film o una fiction (avrei anche il nome del regista adatto). Anche le location si presterebbero. Nella casa di Ro Ferrarese, paesino addossato all’argine del Po, la vecchia farmacia confina con il salotto dalle pareti foderate di quadri e dipinti e dai tavoli affollati di sculture, busti, volti, statue. In totale 4.000 opere che abitano e riempiono una trentina di stanze, appartenenti alla Fondazione Cavallini Sgarbi, molte delle quali vanno e vengono di continuo dalle mostre. Sulle porte, invece, sono incorniciati gli articoli e le interviste di Vittorio ed Elisabetta. Qui c’è quella travolgente fame di vita della madre e di Vittorio, che percorre la prosa rarefatta ed elegante di Nino. La seconda casa di questa saga, nel centro storico di Ferrara, dove Nino Sgarbi e Rina Cavallini si sono conosciuti e amati, ha invece il carattere di Elisabetta. Che l’ha, per così dire, «rieditata» con targhe in ottone, suddividendola in quattro appartamenti intitolati ognuno a un componente della famiglia, intestandoli complessivamente «Le case Cavallini Sgarbi».

Giuseppe «Nino» Sgarbi con la figlia Elisabetta e la moglie «Rina» nella farmacia di Ro Ferrarese

Giuseppe Sgarbi con la figlia Elisabetta e la moglie «Rina» nella farmacia di Ro Ferrarese

Dottor Sgarbi, Lei mi parla ancora sarà il suo ultimo libro o la saga continua?

«Guardi che io non sono mica uno scrittore… E, comunque, non vorrei scrivere più niente. Proverò a resistere agli inviti a continuare».

Da dove le arrivano?

«Da Vittorio. Vorrebbe che scrivessi un libro su Gnocca, che è un paese qui vicino, sul Po, dove andavo a pescare con il fratello della Rina. Ci sono tre paesi attaccati, prima c’è Oca, poi Gnocca e infine Donzella. Vedremo. Però non ho tanta voglia».

Il titolo è… stimolante. Suo padre e anche Vittorio hanno sempre frequentato la bellezza femminile.

«Le belle donne ci sono sempre piaciute, a cominciare da mio padre che ha avuto una vita piuttosto attiva in questo senso. Mia madre era una santa donna, oltre che molto bella. A Stienta avevamo il mulino e una volta toccò a lei portare un campione di frumento da esaminare a mio padre. Lui prese il grano e trovò moglie».

E lei ha mai fatto ingelosire la Rina?

«Non era gelosa se apprezzavo qualche bella donna. Mi lasciava dire, senza irrigidirsi. Non credo di averla mai fatta indispettire. Era una donna di notevole intelligenza e cultura. Si era laureata in farmacia con 110 e quando partecipò a un concorso a Milano con 90 candidati per sei farmacie ne vinse una. All’esame trovò anche il modo di correggere il professore di matematica che aveva commesso un errore. Così per molti anni abbiamo avuto due farmacie, questa di Ro e quella di Milano. La Rina stava lì, io andavo ad aiutarla qualche giorno e poi tornavo qui».

Parlando del vostro rapporto ha scritto: «Ci univa la differenza, non l’identità».

«Se si è uguali si può andare meno d’accordo. Io mi occupavo della farmacia e m’interessavo di caccia e pesca. Lei si dedicava ai figli e seguiva le attività artistiche di Vittorio, soprattutto partecipando alle aste. Però se un’opera le piaceva era pronta a superare il limite massimo che lui le aveva dato».

Diceva che si è interessato di caccia e pesca…

«Mio padre era un gran cacciatore. Possedeva bellissimi fucili per il tiro al piccione. Da ragazzo lo seguivo e mi sono appassionato. Poi, quando conobbi la Rina, suo fratello mi iniziò alla pesca e tradii la caccia. La pesca è una passione che ti seduce e conquista. Ti entra nel cervello… Poi qui siamo addosso al Po, può ben immaginare quante occasioni».

Com’è accaduto che si è scoperto scrittore a 93 anni?

«Da tanto tempo Elisabetta insisteva perché scrivessi qualcosa sulla mia vita. Detto oggi e ridetto domani, ho provato. Il risultato è piaciuto molto a lei e anche a Vittorio finché l’hanno fatto pubblicare».

Quando e come scrive?

«Lo sa che non ci vedo quasi più? Dètto i miei pensieri a un amico paziente».

Com’è la sua giornata?

«La mattina mi alzo piuttosto tardi. Poi vado al cimitero a Stienta, 25 chilometri da qui. Nella tomba di famiglia sono sepolti mio nonno e mia nonna, i miei genitori, le mie sorelle e mia moglie. Quando torno, pranzo e poi vado a dormire un paio d’ore. Dopo cena sto alzato fino a molto tardi, guardo la televisione, spesso c’è Vittorio».

Giuseppe Sgarbi con il figlio Vittorio: «Vuole che continui a scrivere, proverò a resistergli»

Giuseppe Sgarbi con Vittorio: «Vuole che continui a scrivere, vedremo»

Segue la politica?

«No. Di politici di valore non ne abbiamo più. Io ho visto De Gasperi e Andreotti. In televisione guardo soprattutto Rai Storia, sono appassionato delle cose della guerra. Ho fatto la campagna di Grecia, a Giannina. Siccome ero cacciatore mi misero al mortaio. Mi sono congedato col grado di sottotenente. Qualche volta, alla sera, Edera, la mia infermiera, mi fa vedere dei filmati su quella tavoletta, come si chiama… Vede che sto perdendo anche la memoria?».

Il tablet.

«Ecco sì, un oggetto portentoso. L’ho conosciuto da poco…».

L’altra sua passione è la poesia?

«Leopardi, soprattutto. “Che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai silenziosa luna? Sorgi la sera e vai…” E La vispa Teresa la conosce? Da giovane ho letto tanto. Anche i libri che Mussolini proibiva. Anatole France era uno dei miei preferiti: “La nostra vita è un viaggio nell’inverno e nella notte. Noi cerchiamo il nostro passaggio nel cielo, dove niente risplende”».

A proposito di memoria: vorrei essere come lei a 96 anni…

«La ringrazio. Mi restano in mente molti versi, credo che l’espressione in poesia sia una delle più perfette che esistano. Poi ricordo L’Idillio dell’Orlando di Ariosto che incontra una donna che l’amerebbe se lui “a Macon credesse” e lui “si diede e per un bacio rinnegò la fede”. Questi versi son cari a chi crede poco. Me li insegnò l’ingegner Orengo che dopo la guerra s’innamorò di mia zia Eliduina. Molti anni dopo scoprii che Ariosto era nipote di Brunoro Ariosti, l’antico proprietario della casa di via Giuoco del pallone dove conobbi la Rina».

Come avvenne?

«Avevo prestato dei libri di chimica a un amico che li affidò a sua volta a una ragazza. Quel giorno incrociai quella ragazza all’università, la quale mi disse che sarebbe andata a studiare a casa di una sua amica e li avrebbe lasciati lì. Mi presentai in via Giuoco del pallone e la vidi».

In quella casa è sbocciato il vostro amore.

«Ci incontravamo lì per studiare, nella sala del grande camino. A Rina bastava leggere una volta il testo ed era in grado di ripeterlo. Io avevo bisogno di più tempo, perciò qualche volta restavo a ripassare a casa mia per non annoiarla. Studiavamo fianco a fianco, i gomiti si sfioravano, si toccavano, lei non si ritraeva. Quando ebbi la certezza che ricambiava la mia passione scrissi una lettera di commiato alla fidanzata di allora, un’insegnante di Bergamo, amica di mia sorella. Lei comprese e accettò. Suo padre meno, e venne fino a Stienta per biasimare il mio comportamento. Non aveva tutti i torti, ma non potevo farci nulla. La prima volta che avevo visto la Rina, quando mi aprì la porta di casa in quel pomeriggio, capii che il mio futuro sarebbe dipeso dai suoi occhi».

Giuseppe e Rina Sgarbi si sposarono nel 1950: «Vado a trovarla tutti i giorni al cimitero»

Giuseppe e Rina Sgarbi si sposarono nel 1950: «Vado a trovarla tutti i giorni al cimitero»

Così lei ha avuto tre grandi passioni: due contemplative come la pesca e la poesia e una travolgente come la Rina. È così?

«È così. La Rina ha riempito la mia vita, era una donna speciale, di una bellezza speciale, piena di idee e iniziative. L’anima della famiglia».

Una famiglia di farmacisti che in realtà sono tutti artisti.

«Sì, un paradosso. La Rina seguiva Vittorio nella sua attività, a volte era lei che dettava i suoi articoli ai giornali. Elisabetta ha fatto l’editrice, ha fondato La Nave di Teseo, fa la regista».

E adesso è arrivato lo scrittore. Va tutti i giorni al cimitero?

«Sì, tutte le mattine. Quando, nel fine settimana, viene anche Elisabetta qualche volta leggiamo alla Rina un articolo di Vittorio. Lui invece capita qui di notte, lancia qualche idea, parla con Alessandro delle mostre e riparte. Lì, a Stienta, abbiamo una cappellina. Se non fa troppo freddo, come in questi giorni, entro e mi fermo una decina di minuti. Chiamo al telefono Elisabetta e recitiamo insieme un Padre nostro e un’Ave Maria. Poi torno a casa».

La Verità, 15 gennaio 2017

Sgarbi: «Ma l’Europa è vivace e propositiva»

Elisabetta Sgarbi è regista e scrittrice, ma soprattutto editrice. Dopo essere stata per anni direttrice editoriale di Bompiani, a fine 2015, dopo l’annuncio della vendita di Rcs libri ha fondato con altri autori La Nave di Teseo.

Elisabetta Sgarbi ha lasciato Bompiani e fondato La Nave di Teseo

Elisabetta Sgarbi ha lasciato Bompiani e fondato La Nave di Teseo

Elisabetta Sgarbi, che cosa pensa del servizio di acquisti online di Amazon? Perché in questo caso si vedono solo i lati positivi della globalizzazione?

«Ne penso benissimo, sono cliente di Amazon di Ibs e delle librerie tradizionali. Lo sono in veste di autore, editore, lettrice. Proprio per questo conosco bene i punti di forza dell’e-commerce: senza entrare negli aspetti più tecnici, basta pensare alla disponibilità di una piattaforma logistica comune a diversi paesi, e l’accesso a una vetrina virtuale di milioni di clienti. Le librerie online hanno un catalogo infinito e sono aperte 24 ore su 24, le librerie di quartiere hanno un assortimento più personale e forniscono il supporto del libraio, che è una figura insostituibile. Per questo credo fermamente che i due canali non siano alternativi, ma complementari, perché offrono servizi e opportunità diversi, e un buon lettore ha bisogno di entrambi».

Di fronte alla forza dei grandi marchi digitali non sono un po’ anacronistiche le nostre diatribe interne sulle fusioni editoriali?

«Non penso. Sono discussioni mosse da principi importanti, per entrambe le parti».

Perché in Europa non nasce e non si afferma un Bill Gates o un Mark Zuckerberg? Siamo limitati dal punto di vista del talento o della legislazione?

«Abbiamo avuto tanti Gates e Zuckerberg. Pensi ad Alberto Mantovani e a quello che il suo gruppo di ricerca ha fatto».

L’Europa sembra aver culturalmente abdicato. Si può dire che sia in atto una sorta di colonizzazione al contrario?

«Mi sembra una semplificazione. La situazione non è esattamente così, anzi, vedo in Europa i segni di una grande vivacità intellettuale. Non sono io a dirlo, ma citerò due autori pubblicati dalla Nave di Teseo. Nicola Porro, nel suo libro La disuguaglianza fa bene, ricorda il fondamentale contributo dato al pensiero economico dagli studiosi europei: dalla Scuola di Francoforte, agli austriaci, ai ricercatori italiani. L’ex ministro delle finanze greco Yanis Vaorufakis, di cui pubblicheremo il 27 ottobre il nuovo atteso libro, che pure è molto critico nei confronti delle istituzioni europee, è altrettanto fermo nel segnalare i pericoli di inseguire ciecamente le politiche economiche americane, rivalutando un’alternativa europea».

La Verità, 1 ottobre 2016

Concentrazioni contro spacchettamenti, vince l’America

Spacchettamento: è uno dei vocaboli più alla moda nel milieu culturale di tendenza nel nostro Paese. Si contrappone al termine nemico: posizione dominante. O all’altra parolona tabù: concentrazione. Vade retro. Antitrust e authority vigilano, accigliate. Guai a favorire posizioni dominanti, concentrazioni, accorpamenti editoriali. Ordunque, in questi giorni si è realizzato l’auspicato spacchettamento: nella fusione in atto tra Mondadori e Rizzoli è stata scorporata la Bompiani che non poteva confluire anch’essa nella casa di Segrate. Ceduta alla Giunti per 16,5 milioni e quasi tutti contenti. Com’è noto, nel frattempo, Elisabetta Sgarbi ha ulteriormente spacchettato, creando La Nave di Teseo, portandosi dietro buona parte degli autori. Anche Marsilio è uscita dalla concentrazione ed è rimasta ai suoi fondatori, la famiglia De Michelis. Il caso di Bompiani, però, è particolarmente significativo perché sul marchio aveva allungato le sue mire nientemeno che Amazon. Invece, spacchettamento è compiuto e almeno il pericolo di vedere una sigla tra le più prestigiose della narrativa confluire sotto l’ombrello del gigante del web è scongiurato. Sarebbe stata una beffa se la preoccupazione di evitare concentrazioni domestiche ne avesse favorita una internazionale a scàpito della nostra storia.

Il logo della casa editrice Bompiani, spacchettata dalla fusione tra Mondadori e Rizzoli per decisione dell'Antitrust

Il logo dell’editrice Bompiani, spacchettata dalla fusione Mondadori-Rizzoli per decisione dell’Antitrust

Perché, ormai, il rischio ricorrente è questo. Mentre noi spacchettiamo, i colossi digitali inglobano, assorbono, acquisiscono. Si allargano a tutti i settori, moltiplicano le piattaforme, estendono i territori del business. Per stare alle ultime manovre, Google sta provando a mettere le mani su Twitter, mentre Apple ha appena annunciato l’interesse per la McLaren, storica casa britannica produttrice di prototipi da competizione, ritenuta utile all’avanzamento del progetto di auto senza pilota. Qualche tempo fa, invece, il colosso di Cupertino aveva mosso i primi passi sul fronte televisivo, per la produzione di nuove serie, nell’intenzione dichiarata di far concorrenza alla solita Amazon che sul terreno della fiction era già sbarcata nel 2014.

La faccenda che fa pensare è la seguente. Queste notizie sono quasi universalmente accompagnate da «ooohhh» estasiati, da esclamazioni di meraviglia. I brand della new technology fanno moda, tendenza, contemporaneità. E, dunque, tutto ciò che viene da lì o passa da lì è, per definizione, bello, positivo, cool. Tra qualche giorno a Napoli Lisa Jackson, vice presidente Apple, inaugurerà il centro europeo per lo sviluppo delle app della Mela e, ovviamente, avrà al suo fianco il ministro per l’Università Stefania Giannini. Le cronache che annunciano l’evento trasudano enfasi. Per non parlare della fibrillazione che circonda la prossima visita a sorpresa, dopo quella del gennaio scorso, di Tim Cook, invece assente all’inaugurazione di cui sopra.

Un magazzino Amazon, marchio leader di e-commerce interessato a Bompiani

Un magazzino Amazon, marchio leader di e-commerce interessato a Bompiani

I guru dell’high-tech sono ormai di casa in Europa e in Italia, in particolare. Tutti ricordiamo l’accoglienza regale che ha accompagnato a fine agosto la visita di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, ricevuto anche da papa Francesco. Qui non si tratta di disconoscere i vantaggi e l’enorme miglioramento della qualità della nostra vita determinato dalle innovazioni introdotte dall’era digitale. Né, tantomeno, al netto del rispetto delle leggi fiscali (la Ue ha appena chiesto ad Apple il rimborso di 13 miliardi di tasse non versate per accordi illegali con il governo irlandese), di frenare l’onda anomala della globalizzazione trincerandosi dietro antistorici protezionismi. O di ostacolare lo scambio d’informazioni e di know how tra le sponde dell’Atlantico. Il problema, semmai, è che più che di scambio, dobbiamo parlare di flusso a senso unico, ovvero dagli States all’Europa e non viceversa. Facendola breve, perché in Europa e in Italia non si affermano guru delle tecnologie digitali? Perché, nonostante gli scopritori del web fossero un belga e un britannico e, dunque, all’origine di questa soria ci fosse il Vecchio Continente, Bill Gates, Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e Larry Page tanto per citare i soliti nomi, sono tutti americani? Perché un marchio come Nokia, che fino a qualche anno fa era tra i leader mondiali della telefonia, è desaparecido tra nuvole molto poco tecnologiche? Domande, solo per capire, e senza risposte preconfezionate. A naso, però, vien da dire che il ritardo europeo in materia non sia principalmente dovuto a limiti intellettuali o di talento creativo. Forse, la questione è più complessa. E potrebbe aver a che fare con l’assetto legislativo del Vecchio Continente. Con le sue griglie amministrative, gli antitrust e le authority che, a differenza dell’economia digitale d’Oltreoceano, vedono come tabù le joint venture e le fusioni editoriali, rendendoci inevitabilmente più lenti nei movimenti e più scettici rispetto alla possibilità di affermare un’idea, realizzare un progetto, lanciare una app. Così, non resta che rassegnarci e accogliere i Ceo di Apple e di Facebook come nuovi messia. E mentre sui giornali scriviamo la nostra avversione alle concentrazioni e teorizziamo gli spacchettamenti editoriali, con l’iphone ordiniamo su Amazon l’ultimo romanzo di Jonhatan Franzen o la biografia di Zuckerberg.

La Verità, 1 ottobre 2016