Tag Archivio per: Discovery

Berlusconi jr: «Mediaset primo editore italiano»

Bianca Berlinguer e Myrta Merlino confermate. Il Grande fratello, promosso, rimandata L’Isola dei famosi. L’espansione di Discovery Warner Bros? «Mi sembra una televisione che guarda indietro. È curioso scoprire che si accende un ipotetico terzo polo con conduttori e format presi dalla Rai. Sì, hanno provato a portarci via Maria De Filippi con una super offerta, ma siamo strafelici che Maria sia rimasta con noi». Su TeleMeloni: «La Rai non dovrebbe inseguire il successo dell’audience con singoli programmi. L’allungamento di Affari tuoi, un giochino che non richiede nessuna competenza per vincere, non è in linea con la missione del servizio pubblico». Enrico Mentana? «Le nostre porte sono sempre aperte».
È un Pier Silvio Berlusconi che si concede a 360 gradi quello che annuncia ai giornalisti convocati a Cologno monzese per un bilancio sulla stagione 2023-2024 che «siamo il primo editore italiano». Da settembre a inizio giugno le reti del Biscione hanno raggiunto nelle 24 ore il 40,8% di ascolto medio sul target 15-64 anni, mentre la Rai si ferma al 31,2. Anche nel target complessivo, sempre nelle 24 ore, la tv commerciale supera la tv pubblica: 37,7 contro 36,8% di Viale Mazzini. L’unica fascia dove Mediaset non vince è quella che va dalle 20,30 alle 22,30, dove l’espansione di Affari tuoi è decisiva. Anche per questo «Antonio Ricci sta lavorando per rendere più moderna e competitiva Striscia la notizia».
Tuttavia, sottolinea Pier Silvio, per Mediaset «non sarà possibile mantenere il primato ora che arrivano gli Europei di calcio». Comunque, Canale 5 e Rete 4 resteranno accese tutta l’estate. «Dario Maltese condurrà Mattino 5 e Simona Brachetti Pomeriggio 5», annuncia Mauro Crippa, direttore dell’informazione, mentre la coppia composta da Roberto Poletti e Francesca Barra sarà al timone dell’access prime time di Rete 4. Niente fughe in avanti, però. «Dei nuovi innesti siamo soddisfatti», assicura Berlusconi jr «Myrta Merlino a Pomeriggio 5 ha fatto un buon lavoro e il prodotto è migliorato. Di Bianca Berlinguer siamo molto soddisfatti, il prime time va alla grande. Si sa che l’access prime time è difficile per Rete 4, ma siamo soddisfatti e stiamo lavorando a nuovi prodotti con Bianca. E non abbiamo motivi per non riconfermare questo Pomeriggio 5 con Myrta Merlino».
Se battere la Rai non è la mission principale, ciò che conta è il volume di contatti offerto agli investitori grazie al sistema integrato che combina tv lineare e digitale, radio e Web. Anche per questo nel primo semestre del 2024 si confermerà la crescita della raccolta pubblicitaria del 6% registrata nello stesso periodo del 2023. Per documentare i motivi di soddisfazione Berlusconi jr racconta: «In passato, quando incontravo gli investitori ne uscivo sempre un po’ contrariato perché sentenziavano immancabilmente che la tv generalista era morta. Stavolta ci hanno chiesto come abbiamo fatto a ribaltare questa previsione, a conquistare ulteriore centralità e consolidare i nostri fondamentali». Perciò da Cologno si guarda con fiducia crescente a Mediaset for Europe con Spagna e Germania. Ma restando al «piccolo e superaffollato mercato italiano, il sistema Mediaset batte i giganti del Web», sottolinea Pier Silvio, spiegando col direttore marketing strategico Federico Di Chio che il gruppo ha raggiunto una quota di spettatori settimanale di 95,9 milioni (YouTube è a 38 milioni, Netflix a 13,5). La Rai però ribatte e contesta le cifre fornite da Mediaset: «La Rai nei primi cinque mesi del 2024 si conferma primo editore televisivo in Italia, distanziando le reti Mediaset nell’intera giornata e nel prime time». E Ancora: «Considerando le reti generaliste, la Rai ha circa 5 punti di vantaggio su Mediaset nell’intera giornate e ben oltre 7 punti di vantaggio nella prima serata. Va evidenziato come sia aumentato il divario tra Rai 1 e Canale 5 nel prime time rispetto allo stesso periodo del 2023. Nel 2024 Rai 1 ha fatto registrare un +7,3% di share rispetto a Canale 5».

 

La Verità, 6 giugno 2024

 

L’asso nella manica della Rai: Mina a Sanremo

Il succo è questo. Mentre i dirigenti Rai sono alle prese con le tessere da rimpiazzare nel puzzle dei palinsesti e Urbano Cairo conta i risparmi del salvadanaio di La7, nella provincia televisiva italiana atterrano gli americani. La concorrenza, vien da dire, si fa un tantino più vivace. È la legge del libero mercato. Ma oltre che di risorse, un fattore tutt’altro che marginale, è questione di prospettive. Di orizzonti. Di ampiezza del pensiero. Forse è il caso di rimboccarsi le maniche e farsi venire qualche idea, come sembra stia avvenendo dalle parti di Viale Mazzini. Finora, con le piattaforme over the top c’era poco da duellare. Anche con loro il confronto era ìmpari. Ma, in fondo, si rivolgevano a segmenti di pubblico minoritario. I ceti più abbienti, le classi medio alte. Adesso no, gli americani di Warner Bros. Discovery sbarcano nella televisione generalista. Perciò, è stato facile buttarla in politica. Lo smantellamento della Rai. L’estinzione del servizio pubblico. TeleMeloni fa scappare le star. Ecco Fiorello, Federica Sciarelli, Sigfrido Ranucci già incolonnati dai giornaloni dietro ad Amadeus, il cui approdo a Discovery è stato ufficialmente annunciato ieri (collaborerà alla realizzazione di nuovi formati per l’intrattenimento e condurrà un programma di access prime time, forse I soliti ignoti, e due di prime time: un’operazione da 100 milioni di dollari in quattro anni). E poi, rastrellando qua e là, Barbara D’Urso, Belen Rodriguez eccetera. Insomma, una pesca a strascico tra i volti noti più o meno irrequieti del villaggio provinciale. Non è finita. Il gruppo cui fanno capo Nove, Real Time, Eurosport e alcune altre reti, sta anche per aprire la nuova sede a Roma per lanciare il polo dell’informazione, acquisendo La7 o arruolando Enrico Mentana.

Allarmismo e toni apocalittici hanno riempito paginate e ramificato nell’infosfera. Con il solito retropensiero: il governo delle destre fa crollare persino gli equilibri dell’etere. Ma questa narrazione ha conquistato il record di smentite. Fiorello: «Nessuno mi ha chiamato, il mio contratto è solo con il divano». Warner Bros. Discovery: «Non c’è alcuna trattativa in corso da parte del gruppo per l’acquisizione del polo giornalistico di La7». Mentana: «Non vado da nessuna parte. Non ho difficoltà a dire che il mio contratto scade il 31 dicembre del 2024. Quindici giorni dopo compio 70 anni, cosa mi metto a fare?». Quanto all’apertura della nuova sede, nella capitale Discovery ha già i suoi uffici attivi e funzionanti. Infine, a proposito dell’acquisizione di altre star, la pesca a strascico non è nello stile del gruppo. Semmai si ragiona su un innesto o una nuova collaborazione a stagione. Così è stato in passato con Barbara Parodi, Maurizio Crozza, Roberto Saviano, Virginia Raffaele. E poi un anno fa con Fabio Fazio, l’arrivo che ha impresso la svolta alla strategia del gruppo perché gli ascolti di Che tempo che fa hanno dimostrato che sul pianeta della tv generalista c’è vita e hanno convinto i dirigenti a proseguire nella politica di espansione. Ma «non è la rivoluzione d’ottobre», è solo mercato, «e lo dobbiamo vivere laicamente», ha suggerito il solito Mentana in un’intervista alla Stampa nella quale ha scremato la schiuma militante dalle cronache del caso.

Tuttavia, soprattutto vista da Viale Mazzini, una questione di prospettiva e di rilancio della tv pubblica esiste eccome. A breve dovrebbe avvenire il passaggio di testimone tra l’amministratore delegato Roberto Sergio e il direttore generale Giampaolo Rossi, si vedrà se semplicemente con uno scambio di ruoli. Si parla di un ritorno di Marcello Ciannamea alla distribuzione e di un accorpamento dell’Intrattenimento day time e prime time in un’unica super direzione, con il recupero alla gestione del prodotto di Stefano Coletta (scelta perfetta se si vuol rendere ancor più arcobaleno il palinsesto serale). Al di là di tutto, rimane sul tappeto la necessità di un progetto editoriale di ampio respiro. Come il caso di Amadeus insegna, le star non se ne vanno principalmente per una questione economica, ma perché cercano nuovi stimoli, nuove prove nelle quali cimentarsi. Per contro, non potendo vincere la guerra sul terreno dei cachet, la Rai dovrebbe provare a farlo sul fronte delle idee, dell’identità e dell’immaginazione. Nel 1987 quando in un colpo solo Pippo Baudo, Raffaella Carrà ed Enrica Bonaccorti migrarono a Canale 5, l’allora direttore generale Biagio Agnes chiamò Adriano Celentano affidandogli le chiavi del sabato sera di Rai 1. Chi c’era ricorda come andò. La Rai riconquistò il centro della scena e riprese a dettare l’agenda pubblica. Ma per farlo occorre un disegno editoriale. Che non è appena riempire le caselle lasciate vuote dagli abbandoni. Il problema di che cosa fare del Festival di Sanremo ci sarebbe stato comunque, anche se Amadeus fosse rimasto in Rai. Un conduttore di format preserale si può trovare. Un direttore artistico dopo cinque edizioni di successo con le ricadute sugli introiti pubblicitari, le case discografiche e la fruizione del pubblico giovane, è un filo più complicato. Serve un’idea, un guizzo, un colpo di teatro. Serve sparigliare il copione di un Festival a misura di disc-jockey ed emittenza radiofonica. Serve qualcosa che somigli all’irruzione di Celentano di oltre trent’anni fa. Nel 2019 l’allora amministratore delegato Fabrizio Salini aveva avuto la pensata giusta: Mina direttore artistico del Festival. Purtroppo non se ne fece nulla. Quando la signora della canzone italiana si disse disponibile a patto di avere carta bianca sullo spartito della manifestazione, i dirigenti Rai si dileguarono. Ecco. Pensare in grande vuol dire avere il coraggio di lasciare totale libertà di movimento all’artista più contemporanea di cui disponiamo. Un’artista che continua a studiare, ad ascoltare musica. Che, come dimostrano le collaborazioni della sua produzione recente, è aggiornata su tutte le novità della scena non solo italiana. Un’artista la cui (non) presenza all’Ariston sarebbe anche un grande colpo mediatico. In Viale Mazzini l’idea sta facendosi strada. Auguriamoci, stavolta senza retromarce.

 

La Verità, 19 aprile 2024

Seguendo i soldi con Fazio si indovina sempre

A seguire il flusso dei soldi non si sbaglia. Soprattutto se il beneficiario è Fabio Fazio, nativo di Savona. Nessun martirio, nessuna censura. Ci mancherebbe. L’addio alla Rai «dopo quarant’anni di onorata carriera», tra folle di vedove inconsolabili e sodali de sinistra in servizio permanente, è una faccenda di mercato editoriale. Una questione di danè. Altro che vittime della democrazia. Follow the money, recita il vecchio adagio. E nel caso del conduttore di Che tempo che fa è più che mai la pista giusta. Nella nuova casa della Warner Bros Discovery Italia, Fazio guadagnerà 2,5 milioni all’anno che, moltiplicati per quattro, fanno dieci milioni tondi tondi. Niente male. Rispetto al milione e 900mila percepito in Rai con l’ultimo contratto, si tratta di un incremento superiore al 30%. Il miglioramento è ancora più ragguardevole considerando la durata del nuovo accordo che la Rai di sicuro non avrebbe potuto garantirgli. Insomma, un contratto dorato solo stando a quello che lo riguarda personalmente. Cioè, senza contare quanto incasserà OFFicina, la società fondata nel 2017 e di cui ora è socio al 50% con Banijay. Nell’ultimo biennio, per la produzione delle trenta puntate del talk show di Rai 3 l’incasso è stato di 10,6 milioni. Se la percentuale d’incremento fosse la stessa, si sfiorerebbe la cifra di 14 milioni, sempre all’anno. Ma questa è solo un’ipotesi perché dipenderà dalle scelte di palinsesto di Nove, la rete sulla quale potranno continuare a vederlo i suoi affezionati telespettatori.

«Sono in Rai da quarant’anni, però non si può essere adatti a tutte le stagioni», ha detto lui domenica sera rispondendo al fervorino di Ferruccio De Bortoli («Oggi la notizia sei tu…»). «Io e Luciana (Littizzetto ndr) non abbiamo nessuna vocazione a sentirci vittime né martiri», ha assicurato, bontà sua, tentando poco convintamente di sedare i piagnistei della tifoseria desiderosa di buttarla in politica. «Siamo persone fortunatissime e avremo occasione di continuare altrove il nostro lavoro», ha ribadito. Invano. Lo stesso De Bortoli aveva chiosato: «Il fatto che te ne vai è una gravissima perdita per il servizio pubblico e un grande errore editoriale». Ieri, con il solito gioco di prestigio tra narrazione e fatti reali, i giornaloni fiancheggiatori hanno dato il meglio per pilotare sul conto del governo di Giorgia Meloni il clamoroso divorzio. «Rai a destra, Fazio lascia», ha titolato Repubblica. «Vergogna Rai. Fazio costretto all’addio», ha echeggiato La Stampa. In realtà, se di «grande errore editoriale» si tratta, è evidente che a commetterlo è stato l’ex amministratore delegato Carlo Fuortes che si è ben guardato dal presentargli una proposta di rinnovo del contratto. Come hanno sottolineato sia la presidente Marinella Soldi che i consiglieri Rai, nei mesi scorsi c’era tutto il tempo per farlo. Ma in quel modo non ci sarebbe stato nessun caso politico. E addio anche alle accuse di censura che stanno galvanizzando le milizie dem. Fazio non ha voluto aspettare che, giusto ieri, la nuova governance s’insediasse in Viale Mazzini e Roberto Sergio, amministratore delegato, e Giampaolo Rossi, direttore generale, prendessero possesso degli uffici, firmando il giorno prima con Discovery. Anche in questo caso la tempistica è rivelatrice. Aspettare avrebbe voluto dire valutare un’offerta verosimilmente al ribasso che lo avrebbe posto di fronte al bivio: i danè o la Rai? Meglio rompere prima gli indugi e non farsi scappare l’allettante offerta di Warner Bros. L’unica rimasta sul tavolo dopo che anche Urbano Cairo, patron di La7 con la quale il conduttore aveva già flirtato, si è defilato quando Fazio ha chiesto di contrattualizzare anche la squadra di autori e il gruppo di OFFicina. In fondo, con lui e «Lucianina», è un intero blocco di potere che si sposta. Che tempo che fa è una centrale di formazione del consenso, un crocevia di case editrici, produzioni cinematografiche, contenuti giornalistici, artisti, comici, ballerine e compagnia cantante. Ma per i bilanci controllatissimi del parsimonioso Cairo arruolare tutti avrebbe potuto essere un colpo mortale. Come quello che, nel 2001, portò alla fine precoce del tentativo di creare dall’ex Telemontecarlo di Vittorio Cecchi Gori ceduta a Roberto Colaninno l’agognato terzo polo tv. Anche allora c’erano Fabio Fazio e Luciana Littizzetto tra i volti della nuova emittente. Ma i debiti accumulati e il nuovo cambio di proprietà fecero abortire il progetto in poche settimane. Che, tuttavia, valsero a Fazio una liquidazione di 28 miliardi di vecchie lire, utili per prestigiosi investimenti immobiliari. Ci vollero due anni prima che il conduttore di Savona tornasse nella tv pubblica, nel 2003, ricominciando da Che tempo che fa.

Insomma, a seguire il flusso del denaro s’indovina. E si scopre che, ai quarant’anni di onorata carriera in Rai di EffeEffe, bisogna sottrarne due di esilio e sommare 28 miliardi di vecchie lire. Quanto fa?

 

La Verità, 16 maggio 2023

«Faccio sport estremi, ma so bene cos’è la paura»

Tuta alare, paracadute, mountain bike, kayak, deltaplano, immersione, arrampicata… Poi Antartide, deserto, oceano, Himalaya… Tutto questo, e anche altro, è Danilo Callegari: 39 anni, friulano, «avventuriero estremo», come si definisce, protagonista di Extremes adventures Italia, 5 episodi tutti i giovedì su Dmax prodotti da Ballandi per Discovery Italia (e già disponibili sulla piattaforma). Biglietto da visita: «Grazie agli anni passati a servire il mio Paese nelle forze armate sono allenato alla disciplina e alla sopravvivenza in qualunque condizione».

In quali forze armate?

«Ho fatto quattro anni in alcuni reparti della Brigata paracadutisti. Nella Folgore, insomma».

Come mai quattro anni?

«Ero fisso, ho combattuto in Iraq. Poi, per un problema fisico, sono stato costretto a lasciare. Ma su questo non vorrei dilungarmi. Mi sono curato e ho riacquistato il 100% dell’efficienza. A volte si trovano le strade sbarrate anche se i problemi sono risolvibili».

Ha dovuto lasciare l’esercito.

«Con dispiacere sono uscito, ma si è aperta un’altra porta. Da ragazzino avevo due grandi sogni. Il primo era entrare in questi reparti, il secondo fare l’avventuriero di professione. Uno è un lavoro riconosciuto, con un iter definito e un percorso impegnativo».

L’altro?

«L’avventuriero è un lavoro che non esisteva. Andava inventato, costruito da zero, anche se già a 10-11 anni avevo fatto alpinismo, kayak, voli… Però, una volta finito il liceo, ho deciso di arruolarmi».

A che età è uscito dalla Folgore?

«A 24 anni».

Qualcuno le ha trasmesso la passione per gli sport estremi, magari i genitori?

«Non ho genitori appassionati di montagna o avventura. Sono figlio unico, è nato tutto da me».

Una volta sfolgorato?

«Nel 2008 ho iniziato un percorso. Il primo viaggio è stato in Islanda. Parlo delle prime esperienze da avventuriero di professione, non delle performance per la televisione».

Cosa vuol dire avventuriero di professione?

«Mi definisco un avventuriero estremo. Combino i tre elementi, aria terra e acqua, in un’unica avventura composta di discipline estreme outdoor. Perché di professione? Perché faccio business. Da queste performance ricavo una rendita più o meno alta. Vivo facendo l’avventuriero. Ho la partita Iva e una mia società. Faccio formazione aziendale, speech motivazionali e attività di team building».

Altre fonti di rendita?

«La tv e la comunicazione nelle sue varie forme. Questa su Dmax è la terza stagione di Extremes adventures».

Com’è riuscito a realizzare questa scelta?

«Era chiaro che per avere delle entrate dovevo vendere qualcosa. Crearmi una faccia, un curriculum, una credibilità. Per i primi anni ho sempre cercato lavori a tempo determinato, qualsiasi lavoro. E quello che guadagnavo lo investivo nelle spedizioni. Dovevo costruire un’esperienza per riuscire a vendere le mie idee».

Per esempio?

«Mi sono chiesto a chi potevo vendere un’ascensione sull’Himalaya. Un’azienda propone la propria immagine, i propri strumenti. Io posso proporre la mia faccia, la mia idea di avventura, il mio modo di scalare una montagna. Perciò dovevo trovare delle aziende che sposassero la mia idea che, poco alla volta, doveva diventare un marchio. Non è tanto importante dove vado, ma cosa racconto andandoci. È la comunicazione che conta. Un tempo le imprese estreme si vendevano attraverso dati, numeri, record. Oggi si vendono come storie».

Cosa vuol dire precisamente?

«Una volta l’alpinista che batteva un record andava sui giornali e restava nella testa della gente. Adesso il mondo va talmente veloce che l’ascesa di un 8000 o l’attraversamento dell’oceano a remi si dimentica nel giro di una settimana. È la storia che costruisci attorno alla tua impresa che rimane. È quasi più proficuo non raggiungere l’obiettivo ma raccontar bene la storia, che battere un record senza saperci costruire niente attorno».

Lo storytelling. Lei ha scelto l’avventura perché non ama la vita comoda?

«Tutt’altro, amo anche la vita comoda».

Perché rifiuta lo stress cittadino?

«Nemmeno. In questa dimensione ho trovato il mio benessere interiore. In fondo, sono sfide con me stesso. È chiaro che per fare determinate cose devi mettere in conto un certo grado di sacrificio e di sofferenza. Devi accettare una componente di rischio, prepararti a sopportare il caldo, il freddo, mille imprevisti. Però, amando queste emozioni, sai che questa sofferenza verrà ripagata alla grande e con gli interessi».

Come sono gli allenamenti?

«Si dividono in tre aree. Prima di tutto c’è un allenamento specifico, mirato sull’avventura che vado a fare».

La seconda area?

«È quella che chiamo dei livelli tecnici. Per esempio, anche se l’anno prossimo dovrò attraversare il deserto a piedi, essendo un alpinista e uno che va in kayak, devo mantenere una preparazione media anche nelle mie discipline di base».

La terza?

«Sono gli ambientamenti, cioè l’adattamento fuori dalle mie zone di conforto. Abituarmi a temperature estreme, stare in circostanze inusuali per mantenere una disciplina mentale che mi aiuti a gestire situazioni impreviste».

Quanti battiti cardiaci ha a riposo?

«Anche la frequenza cardiaca si modifica in base agli allenamenti e alle situazioni. Per esempio, se devo andare in mezzo al ghiaccio ho bisogno di aumentare la massa grassa e questo cambia anche il battito cardiaco».

Comunque, in media?

«Diciamo meno di 60».

Le è sempre andata bene? C’è qualcuno che conosceva che non è tornato?

«Di amici ne ho persi tanti in questi anni, dal parapendio al paracadutismo alle imprese sott’acqua…».

E queste tragedie non la fanno pensare?

«Certo che sì. Ma penso che la morte arrivi inevitabilmente, arrivi in modo inaspettato. Non credo che dovrei smettere di fare una cosa che mi fa stare bene per paura di un evento ignoto. Non è detto che perché ti cimenti in un’avventura sei più a rischio. Muore inaspettatamente anche chi fa una vita sedentaria».

Qual è la situazione più estrema in cui si è trovato?

«Difficile scegliere, ne dico tre. La prima è stata la discesa dal Manaslu, 8163 di altitudine, l’ottava montagna più alta della terra. Fu una prova molto rischiosa per la stanchezza estrema, l’assenza di visibilità e la neve abbondante che aveva coperto la traccia. Poi nell’Antartide, da solo a 50 gradi sottozero e con venti che soffiavano a 80/90 km orari».

La terza?

«La traversata dall’isola di Zanzibar alla costa della Tanzania, 50 km a nuoto. Lì è stata messa alla prova la tenuta psicologica. Ho nuotato tutta la notte, tutto il giorno e parte della notte successiva. È una zona di mare dove ci sono gli squali, per fortuna non li ho trovati se no non sarei qui».

Erano imprese finanziate?

«Da vari sponsor. Non pagano l’avventura, pagano me. Poi io realizzo una storia importante legata all’avventura che vado a fare».

Cosa vuol dire?

«Per esempio, un piano pubblicitario dell’azienda o un piano per i social. Le forme possono essere tante».

Il posto più estremo dov’è stato?

«L’Antartide, più del deserto e dell’estremo Nord».

La parola paura vuol dire qualcosa per lei?

«Assolutamente sì. È l’emozione più bella che un essere umano possa provare».

Addirittura.

«È lo stato d’animo che riesce a farti essere vigile e attento a ciò che stai per fare. Quindi è l’emozione più bella che ti può capitare».

Diciamo paradossalmente?

«Sì, perché si tende a confondere paura con panico».

Invece?

«Il panico è la perdita del controllo della paura».

L’aspetto positivo della paura sparisce?

«Se non la controlli la paura diventa panico. Se riesci a controllarla ti fa restare vigile e attento a quello che fai».

Ha mai commesso un grave errore?

«Gli errori di calcolo fanno parte del gioco. Quello grave è quando non torni a casa».

Cosa vuol dire che non si deve confondere la rinuncia con il fallimento come dice in un video?

«Quando non si raggiunge un obiettivo spesso ci si sente dire: quindi hai fallito? Io toglierei la parola fallimento dal vocabolario. Una persona che s’impegna per un obiettivo per me ha fatto il 60% del lavoro. Quando sei costretto a rinunciare a qualcosa a cui tieni, comunque, per arrivare lì hai profuso energia e compiuto tanti sforzi: non sarà mai un fallimento perché arrivare fino a lì ti ha insegnato tante cose. Rinunciare non ti fa perdere quello che hai imparato».

Dice che superare i propri limiti «è sempre un’avventura estrema».

«Più che superare preferisco usare il verbo spostare».

Cioè, mettersi sempre alla prova?

«Sì, e vale per tutti a tutti i livelli. Ognuno deve affrontare le proprie prove».

«I limiti esistono soltanto nella nostra testa» è il suo dogma?

«Sì, ma non confondiamo. È ovvio che ci sono prove che l’età o altri limiti impediscono. Ma la maggior parte delle volte chiunque, non solo un atleta, si blocca più per un aspetto mentale che fisico. Per un blocco psicologico. Spesso i problemi sono frutto della nostra mente».

C’è chi, vedendo certe immagini, ha le piante dei piedi che gli friggono…

«Io parlo di un’altra cosa. Se una certa cosa mi fa paura e non la voglio fare, ok. Se invece mi dicessi che voglio farla, ma non ci riesco, allora ci si può lavorare».

Che rapporto ha con la natura, la montagna, il mare?

«La natura è il mio ufficio, il mio Dio. È la divinità che ci circonda, rappresenta tutto».

Non sempre è benevola.

«Per fortuna».

In che senso?

«Almeno ci insegna qualcosa».

Cosa ha pensato della tragedia della Marmolada?

«Il riscaldamento climatico incide su questi eventi, anche se non è stato prevedibile più di tanto. I ghiacciai si sciolgono in tempi lunghi, i seracchi si staccano all’improvviso. È stata una disgrazia enorme».

Cosa pensa di chi si fa i selfie sul cornicione di un grattacielo?

«Sono bravate senza senso. C’è differenza con il professionista che scala una parete e si è allenato mesi per farlo. Le nostre performance non sono una roulette russa, ma prove razionali alle quali ci prepariamo a lungo. All’inizio degli episodi di Extremes adventures si avverte che le attività contenute nel programma sono eseguite da professionisti: “Non imitateli”».

La sua prossima avventura?

«Non posso dire nulla. È un progetto molto delicato al quale sto lavorando. Sempre in solitaria».

 

La Verità, 16 luglio 2022

Senza diritti integrali la Rai ci manda sulle piattaforme

L’altra mattina, causa contemporaneità dei due quarti di finale dell’Italvolley e dell’Italbasket, la Rai ha giocato al rimbalzo di linea tra la partita di Osmany Juantorena e soci contro l’Argentina e quella della squadra allenata da Meo Sacchetti contro la Francia. È stata una scelta felice una delle poche fatte dal servizio pubblico in occasione delle XXXII Olimpiadi di Tokyo. Per usare una formula che soccorre in questi casi, si è fatta di necessità virtù. Ma lo stato di necessità, frutto stavolta di scelte sbagliate, se l’è procurato da sola la stessa Rai. Il rimbalzo di linea tra le schiacciate di Ivan Zaytsez e i canestri di Simone Fontecchio, purtroppo entrambi non sufficienti a garantirci il successo finale, fa sempre un bell’effetto su chi può stare davanti alla tv a metà mattina. Ma scontenta gli appassionati di pallavolo e di pallacanestro che vogliono vedere le partite per intero, possibilmente non intervallate da break pubblicitari. Rai 2, la cosiddetta «rete olimpica», fa quello che può, soddisfacendo i telespettatori di bocca buona. Ma l’errore è a monte, compiuto dai massimi dirigenti dell’azienda. La Rai dispone di un canale di Rai Sport che, come informa su Twitter il collega Claudio Plazzotta, non ha acquistato i diritti dei Giochi, e di Rai Play che avrebbe potuto acquisire da Discovery quelli per la trasmissione in streaming. Ma il servizio pubblico ha fatto una scelta al risparmio. E, per allargare la visuale, l’ha fatta anche Sky Italia, pur disponendo nella sua piattaforma dei due canali di Eurosport. Che invece sono visibili su Amazon, Dazn, TimVision e Discovery+. Quest’ultima piattaforma trasmette tutto in diretta, alcuni eventi con telecronaca e commenti, altri solo con le immagini live. Martedì sera, per esempio, ore 23,30 italiane, partiva la 10 chilometri di nuoto in acque libere, disciplina nella quale Rachele Bruni ha conquistato l’argento a Rio de Janeiro. Il circolo degli anelli, regolarmente in onda sulla rete olimpica, ci ha concesso fugaci finestre della gara mentre, come da copione, si commentavano i risultati della giornata già in archivio. Per seguire la prova sfortunata della nostra atleta, solo quattordicesima al traguardo, è toccato sintonizzarsi ancora su Discovery+. Dove per altro si ripara volentieri anche durante le competizioni di atletica leggera, volendo evitare gli eccessi esibizionistici di Franco Bragagna, un telecronista che non consente mai a chi lo affianca per il commento tecnico di completare una sola frase.

 

La Verità, 5 agosto 2021

Il baco nel «sistema Draghi» si chiama Soldi

Un baco nel sistema operativo dell’infallibile Mario Draghi. Un piccolo infortunio. Un intoppo nell’ingranaggio solitamente ben oliato della macchina di Palazzo Chigi. Da qualche giorno, a proposito delle designazioni dei candidati ai vertici Rai, nei salotti romani circola una battuta al fiele: «Collaboratori infedeli». O, volendo, addolcirla: «Collaboratori inetti». Riguarda i consiglieri del premier che si sono occupati delle nomine della tv di Stato. Infedeli o inetti, la sostanza non cambia. Difficile inquadrare diversamente l’incidente di percorso che riguarda la scelta dell’amministratore delegato nella persona di Carlo Fuortes, attuale Sovrintendente della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma, e del presidente in quella di Marinella Soldi, ex ad di Discovery Network e ora titolare di numerose cariche tra cui la presidenza della Fondazione Vodafone Italia. Se queste designazioni venissero confermate, il baricentro della Rai penderebbe così a sinistra da rischiare di farle perdere l’equilibrio. Non a caso Lega e Forza Italia, per non parlare di Fratelli d’Italia, si sono calate l’elmetto.

Andando oltre gli schieramenti, soprattutto l’indicazione della Soldi si è rivelata un tremendo autogol strategico. Nonostante le smentite di rito, è stata lei, prima di trasferirsi al gruppo Vodafone, a condurre la trattativa con la Arcobaleno tre, la società di Lucio Presta, manager di Matteo Renzi, per l’acquisto di Firenze secondo me, il documentario in quattro puntate condotto dall’ex premier e andato in onda sul Nove del gruppo Discovery tra il dicembre 2018 e il gennaio 2019. Il contratto tra l’agente e Discovery è ora finito sotto la lente d’ingrandimento della Procura di Roma che vuole capire come si giustifica il versamento di 700.000 euro dalla Arcobaleno tre a Renzi, 400.000 per la realizzazione del documentario e la parte restante per due format rimasti a livello progettuale. «È tutto rigorosamente tracciato e legittimo», ha replicato l’ex premier in attesa dei controlli della Guardia di finanza.

Al di là di quando e come si concluderanno le indagini, un’ombra sinistra è calata sull’ex numero uno di Discovery nata a Figline Valdarno (Firenze), poco distante da Rignano, cresciuta a Londra, in possesso di un curriculum internazionale e considerata presidente in pectore da tutti. Invece, questo fastidioso baco costringe al ricalcolo. Perché, adesso, particolarmente per il ruolo di presidente i giochi si riaprono. Tanto più considerando il fatto che poi, in Commissione di Vigilanza, servirà la maggioranza dei due terzi (27 voti su 40). Ora più che mai, dunque, Palazzo Chigi avrà interesse a precisare che, mentre spetta al governo, formalmente al ministero dell’Economia e finanza guidato da Daniele Franco, scegliere l’amministratore delegato, la presidenza «di garanzia» compete al Cda Rai. Il quale è, a sua volta, in via di formazione. Ai tre consiglieri già nominati – Fuortes, Soldi e, in rappresentanza dei dipendenti di Viale Mazzini, Riccardo Laganà – vanno aggiunti i quattro scelti da Camera e Senato su indicazione dei partiti. Sono le complesse incombenze di questi giorni, influenzati dal calendario dei lavori parlamentari e dagli umori nella maggioranza, scossa dai contraccolpi del dibattito sul ddl Zan e sulla riforma della giustizia.

Finita la ricreazione per la vittoria agli Europei, le attenzioni di Draghi sono tornate sull’agenda del Recovery fund e la gestione dell’uscita dall’emergenza sanitaria. Di certo le nomine Rai non gli hanno mai tolto il sonno, motivo per cui il relativo dossier è finito sui tavoli dei «collaboratori»: il capo di gabinetto Antonio Funiciello e il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera. Sui quali hanno avuto buon gioco le pressioni dei potenti uomini di sottogoverno romano, da Goffredo Bettini al consigliere del ministro Dario Franceschini, Salvo Nastasi, decisivo nelle nomine di teatri e sovrintendenze, fino allo stesso Gianni Letta, sempre molto influente quando si tratta di tessere tele e indirizzare cariche. Per dire, nel pomeriggio del 6 luglio Bettini è stato avvistato a Palazzo Chigi. Difficilmente per incontrare il premier in persona. Eppure, qualche giorno dopo, ha potuto esultare con un whatsapp che aveva il tono della rivendicazione: «La proposta di Carlo Fuortes per la Rai assicura una professionalità di grande valore alla più importante azienda culturale italiana. Nel 2003, in qualità di presidente dell’Auditorium, proposi al consiglio di amministrazione di nominarlo amministratore delegato. Ho avuto, così, con lui straordinari anni di collaborazione e di amicizia». Per altro testimoniati dalla foto allegata nella quale, vicino ai due, s’intravede anche Letta zio.

Per la Soldi, invece, oltre ai buoni uffici di Renzi, si sussurra di un interessamento del ministro per l’Innovazione Vittorio Colao, per un decennio ad di Vodafone e nel giugno scorso estensore del Piano di rilancio degli Stati generali dove, in molte pagine dedicate alla comunicazione e alla digitalizzazione la Rai non è mai citata. Chissà perché, si chiedono le solite malelingue romane, una come la Soldi che tra Vodafone, Nexi, Italmobiliare e Ariston Thermo assembla un budget che sfiora i due milioni, dovrebbe accontentarsi di un assegno di 200.000 euro l’anno.

 

La Verità, 15 luglio 2021

Se le suore sono meno conformiste delle bad girl

Inutile girarci intorno, la vera sorpresa sono le suore. Pazienti ma ferme. Rigorose ma amorevoli. Non moraliste e non disposte a soccombere con l’alibi dei limiti ampiamente e ripetutamente oltrepassati. Del resto, oggi, sono più anticonformiste delle monache che hanno fatto voto di povertà, castità e obbedienza o delle «cattive ragazze» votate al lusso, alla moda e allo sballo più o meno sfrenato? Il confronto degli opposti avviene in Ti spedisco in convento, quattro episodi di un’ora abbondante girati nel monastero «La Culla» di Sorrento, visibili sulla piattaforma Discovery+ e presto su Real time. Più spinto del Collegio, più estremo della Caserma, questo docu-reality, adattamento Fremantle del format Bad habits, Holy orders, è la frontiera dell’«esperimento sociale».

Truccatissime e scortate da trolley traboccanti di scarpe, minigonne e biancheria sexy, le cinque sgallettate arrivano ignare all’Istituto Bambino Gesù delle suore Oblate, congregazione fondata nel 1672 per dedicarsi a ragazze in difficoltà. È solo il primo della serie di traumi nei quali s’imbatteranno, sicurissime come sono di non essere «in difficoltà». Emy, 22 anni, cubista, chiede un po’ di ritmo alle monache per mostrare cosa fa nella vita e, al battere delle mani, inizia a dimenarsi e a twerkare. «Gli uomini vanno traditi… Sono sbandata e felice così», assicura. Valentina, 19, studentessa snob: «Di ragazze belle come me ne ho viste poche. Cosa non voglio fare? Stare senza trucco». Sofia, 22, è prossima al matrimonio: «Il mio motto è lusso e libertà. L’anello di fidanzamento? Sotto i cinque carati non è amore». Martina, 22, punk addicted dei social: «Tassativamente mi devo alzare all’ora di pranzo». Stefania, 23, regala l’istantanea della situazione: «Io sono l’anti tutto questo», riferito al posto in cui si trova. Avrà pane da mordere. «Non vado in guerra per perdere», confida suor Monica, la badessa che legge il regolamento della casa declinato in 50 norme, obiettivamente tante e destinate a essere infrante. «Sembra di stare in galera», è il benevolo commento. Ma le suore non si scoraggiano: «Dobbiamo interagire nel limite del possibile, senza tanto opprimerle». Appena si parla di felicità o del rapporto con il padre, sempre assente, emergono sofferenze e ferite profonde. Ottimo il lavoro degli autori, soprattutto nel sintetizzare in poche parole la tempra delle svalvolate. Quanto alle monache hanno posto come condizione che «il programma dovesse essere completamente vero, se no non avrei collaborato», ha giurato suor Daniela, madre generale dell’ordine. «A me interessavano le ragazze. Ci siamo rifiutate di fare le attrici».

 

La Verità, 14 marzo 2021

L’Assedio della Bignardi nasce e muore nei social

Primo ospite il sindaco di Milano Beppe Sala, con L’Assedio, programma diverso nel titolo ma clone dei precedenti Le invasioni barbariche e L’era glaciale, mercoledì sera è tornata in tv Daria Bignardi. Lo ha fatto dai canali di Discovery (Nove, Real Time e altri) con un ascolto in simulcast di 598.000 telespettatori (2.8% di share totale, 1.4% su Nove). Dunque, Beppe Sala: per un suo seguace sui social, «il politico italiano più cool». «A lei piace essere cool?», chiede Bignardi. Risposta: «Sinceramente? Ma sì, va…». «Questo è il vero clima dell’Assedio», esulta la conduttrice.

Il vero clima dell’Assedio è il medesimo dei programmi clonati: salottino manierato dei migliori, bon ton ad uso delle élite della gente che piace, punteggiato dalla risatina compiaciuta o dalle sopracciglia aggrottate della padrona di casa. Con un paio di accentuazioni dovute all’ultimo aggiornamento del politicamente corretto, come la citazione più ossessiva del numero di follower che l’ospite può vantare. Post e cinguettii vari sono infatti la fonte regina delle domande oltre che al sindaco di Milano, anche a Luciana Littizzetto, al rapper Massimo Pericolo eccetera. Non solo, i social sono anche il luogo della critica finale perché due osservatori, una scrittrice e un giornalista, inviano un commentino all’intervista via WhatsApp. Così il cerchio si chiude: l’intervista nasce dai social e va a morire nei social. Che bello. Per il resto, l’uso di giornalisti e scrittori molto cool è un must del vero clima dell’Assedio. Per dire: alla presentazione romana del libro di Giulia De Lellis, influencer da milioni di follower, non si poteva che mandare un altro scrittore (Stefano Sgambati), perché non chiamarlo storyteller?

Il secondo ospite della puntata è Giorgia Linardi, portavoce di Sea watch, presentata come «una delle donne più attaccate d’Italia». In questo caso, citati i tweet degli haters più truci, entra in campo il secondo aggiornamento del politicamente corretto: l’accoglienza senza se e senza ma. Con lo scoop finale: la presenza in studio di Anna Duong, rifugiata politica scappata su un boat people nel 1979 dal Vietnam comunista e salvata, insieme ad altre migliaia di persone, dalle navi della Marina militare partite appositamente dall’Italia. Qui però si abbandona il mood cool del format mainstream e si va dritti sull’ideologia, anch’essa mainstream, stabilendo la sovrapposizione tra rifugiati politici di 40 anni fa e disperati di oggi. Sovrapposizione indebita perché solo in parte i migranti attuali fuggono da un Paese in guerra come la Libia. Ma questo è il vero clima dell’Assedio. Di chi e a chi?

 

La Verità, 18 ottobre 2019