Ferretti, il punk convertito non rilevato dai navigatori

Vive in un posto fuori dal mondo, ma ben dentro il mondo. Andare a trovare Giovanni Lindo Ferretti all’indomani del successo di Trump vuol dire regalargli una vittoria facile. Non tanto per l’esito del voto, quanto per la fragorosa sconfitta dei media. «La notte dei risultati guardavo la tv. Giornalisti e commentatori fissavano le loro macchinette, i loro tablet, e non dicevano niente. Erano allibiti. La corrispondente della Rai osservava la carta degli Stati: Hillary Clinton ha vinto in tutte le città, ma ha perso la Casa Bianca. Quando contano la quotidianità e la vita reale, la campagna esiste ed è in grado di scardinare luoghi comuni, sondaggi e analisi. Nel ventennio tra i Sessanta e gli Ottanta le nostre generazioni hanno sopravvalutato il potere salvifico della musica», ammette Ferretti. «Negli ultimi decenni abbiamo mitizzato i media e la tecnologia. Crediamo di essere connessi con il mondo stando davanti alle macchinette. Io credo che siamo più connessi guardando fuori dalla finestra, seguendo le stagioni, osservando il creato. Oggi piove e questo modifica il mio agire: lo so e lo capisco immediatamente, anche se ignoro le determinazioni del Protocollo di Kyoto».

Sessantenne, fondatore del gruppo punk Cccp – Fedeli alla linea e poi dei Csi (Consorzio suonatori indipendenti), uno che negli anni ’80 sfoggiava cresta viola, catene e stivali militari, dopo una lunga stagione filosovietica si è riavvicinato al cristianesimo. Fa ancora il cantante e il cantastorie, pochi concerti per mantenersi. Porta in giro gli spettacoli di «Teatro barbarico» con Marcello Ugoletti, «il signore dei cavalli», una ventina. Cerreto Alpi è un paese di 60 anime, adagiato a 1000 metri sui crinali dell’Appennino emiliano che digrada sulla Liguria. Un paese di pastori, battuto da venti ruvidi, il centro abitato più grosso si chiama Ventasso. Se lo digiti sul navigatore esce «corrispondenza non trovata». Eppure è un posto vitale, dove alcuni giovani hanno deciso di restare. È nata la Fondazione Giovanni Lindo Ferretti, «la più scalcagnata che esista», poi c’è la cooperativa che gestisce il Circolo sportivo e culturale, il bar e le feste d’estate, quando il Cerreto si popola. «Queste attività non derivano da un progetto, ma dalla vita che progredisce. Sono sempre più insofferente alle ideologie. M’interessa fare le cose, non discuterci sopra. Lavoro per la conservazione e la rigenerazione del vivere in montagna».

Giovanni Lindo Ferretti in concerto. Ne fa qualcuno al mese, per mantenersi

Giovanni Lindo Ferretti in concerto. Ne fa qualcuno al mese, per mantenersi

La casa dove Ferretti è tornato a vivere all’inizio dei Novanta è un rustico con stanze grandi e senza porte. «Dicendola in sintesi, io ho salvato questa casa e lei ha salvato me. I miei vecchi l’avevano modificata per rimuovere i ricordi della guerra, sebbene avesse una storia antifascista, cattolica e tradizionalista. C’erano le volte a crociera, i mobili di famiglia. Qualcosa sono riuscito a conservare, ma abbiamo perso molti pezzi. Qui c’era e c’è la cucina. Sotto, le stalle». Il piano superiore è un grande open space di legno con molti posaceneri – Ferretti fuma come un turco – e librerie fino al soffitto. «Ho uno spacciatore di libri usati e poi compro volumi di storia dell’arte e storia della Chiesa, di montagna, cavalli e pastorizia. Fu durante un viaggio in Mongolia che decisi di vivere qui, non solo di abitarci. Nel deserto dei Gobi avevamo preparato il campo per la notte. Era il tramonto, mi sono allontanato salendo su una collina. E ho realizzato che nelle case dei pastori dov’ero stato per due settimane avevo visto le stesse abitudini, gli stessi sorrisi, le stesse cose di quand’ero bambino. Allora, ho pensato che dovevo riscoprire la mia infanzia». Lei però viveva già qui da parecchi anni. «Sì, ma ero sempre in giro. Il buono è che con i concerti dei Csi avevo guadagnato un po’ di soldi. Mentre la casa cadeva a pezzi. Eravamo nel 1999, fine secolo e fine millennio. Ho mandato mia madre e mio zio al mare e, con un ingegnere e un architetto, abbiamo cominciato a lavorare. Dovevamo finire per novembre, ma l’inverno ci ha sorpresi. È piovuto per quattro giorni e quattro notti, abbiamo rischiato l’alluvione. Dormivo qui, non c’era il tetto, di notte mi alzavo a spalare la neve per non rimanere bloccato. Poco alla volta abbiamo rifatto il solaio… Mia madre è tornata il 24 di giugno, San Giovanni. Entrando predisse i commenti dei miei amici: “Cazzo, che bella casa!”, e quelli delle sue amiche: “Che casa di merda!”. Indovinò». Il meglio doveva ancora arrivare. «Dopo l’estate cominciai a star male. Un disagio che credevo psicologico, dovuto alla nausea dello stare sul palco. Mi dolevano le mani, pensavo fossero reumatismi causati da quell’inverno al freddo. Era un tumore alla pleura. Quando asportarono la massa tumorale i medici rimasero esterrefatti perché, nonostante il tabagismo, i polmoni erano perfettamente sani, immuni persino dal fumo passivo. Ebbi la conferma che la vita è qualcosa di misterioso. Ora quando mi dicono che fumo come un turco, rido. Penso di far parte di quel 25 per cento di esseri umani che non patisce conseguenze dalla frequentazione del tabacco».

Giovanni Lindo Ferretti, fumatore incallito nonostante abbia avuto un tumore alla pleura

Giovanni Lindo Ferretti, fumatore incallito nonostante un tumore alla pleura

La giornata di Ferretti è piuttosto atipica per una persona che sta nell’Appennino. Sveglia tra le 7 e le 8, colazione con lo zio novantenne. Un paio d’ore dedicate alla scrittura e alla lettura dei giornali. Dopo pranzo un po’ di riposo e ancora lettura e cura dei cavalli. «D’estate c’è molto più da fare. Da qualche anno ci siamo proposti di recuperare le feste tradizionali, il 24 giugno, la Festa del ritorno dalla transumanza, e il 9 settembre. Per le persone che stanno qui d’estate, in alternativa alle Notti bianche, abbiamo inventato la Notte oscura: per contemplare le stelle, ascoltarci, godere il silenzio. Abbiamo ideato degli spettacoli senza elettricità, con il fuoco e i cavalli. Così è nato il teatro equestre. Niente di forzato: mostriamo alla gente quello che Marcello è in grado di fare, attualizzando il patto di mutuo soccorso tra uomini e cavalli che risale alla notte dei tempi».

Algeria, Sudafrica, Jugoslavia, Mongolia, Russia, Gerusalemme: ha viaggiato parecchio, Ferretti, come ha raccontato, con scrittura ancestrale, nel bellissimo Reduce (Mondadori). «Io sono il terminale di un cammino e di una devozione lunghissima. Ho riabbracciato la mia storia, la tradizione. Come tanti giovani ho provato di tutto per trovare la mia strada. Il campionario delle mode culturali ti offre dal buddismo tantrico ai fiori di Bach per garantirti un benessere, più o meno artificiale. Ma nemmeno l’appagamento artistico e culturale possono rispondere alle domande di senso. Restava sempre un vuoto, una mancanza, che solo l’incarnazione del cristianesimo è riuscita a colmare. Più che un semplice fatto logistico, il ritorno a casa ha rimesso a posto il mio errare. Oggi vedo che c’è differenza tra una giornata in cui c’è spazio per la preghiera e una in cui non ce n’è. Quando assistevo mia madre malata di Alzheimer, a una certa ora la situazione peggiorava. Allora recitavamo il rosario, lentamente. Pian piano si calmava. Quel momento modificava la realtà, il resto non m’interessa. Le letture psicologiche, le obiezioni razionaliste: guardo tutto con ironia. Come guardo con una certa perplessità le esortazioni a essere un cristiano perfetto, missionario». Sta parlando del Papa? «Non precisamente. Però papa Francesco non mi piace. Il Papa è il Papa e non sono io a dire se va bene o no. Non mi piacciono le sue posizioni sull’immigrazione e le guerre mediorientali. È difficile ascoltare un Papa che usa il linguaggio di Hillary Clinton e dice l’esatto contrario di quello che dicono i patriarchi del Medio Oriente. Per fortuna non siamo nel campo della dogmatica. No, il mio non è un cristianesimo individualista e spiritualista. Credo che per essere cristiani non sia necessario essere santi o mistici. Abbiamo dimenticato la dimensione sociale della fede, la devozione comunitaria, che per me è molto importante. Ho un padre confessore, padre Maurizio, che mi accompagna. Sto con il salmista quando dice che “il mio peccato mi è sempre davanti”. Quando qualcuno sfoga le sue frustrazioni gli consiglio di andare a confessarsi. Perché non possiamo riconoscere la nostra colpa e accettarci come creature? Ci crediamo padroni del mondo. In pochi anni abbiamo vissuto una rivoluzione antropologica per la quale pretendiamo figli a nostra immagine e somiglianza anche se siamo omosessuali. E crediamo di governare gli Stati con gli algoritmi delle nostre macchinette. Poi si va a votare e vince Trump. E magari un campagnolo analfabeta l’aveva intuito meglio di tanti analisti del web».

È arrivata l’ora di risalire in macchina per tornare nel mondo rilevato dal navigatore.

 

La Verità, 13 novembre 2016