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Quanti conduttori dei talk smentiti dai loro ospiti

Tira un’aria strana, da qualche tempo, nei salottini trendy della tv de noantri. Un’aria mista d’incertezza e insicurezza, una latenza di precarietà. La si avverte quando ci si sintonizza sui talk show, il genere nel quale l’operazione propaganda è più esplicita (Corrado Formigli due sere fa: «Lo dico subito, io alla manifestazione promossa dal mio amico Michele Serra ci vado» – e adesso siamo più tranquilli). È una sensazione che promana dalle conversazioni di Otto e mezzo e di DiMartedì, programmi di punta di La7. Ma anche da certi talk di Rete4 dove si osservano zelanti corse al riallineamento (tendenza Marina).

Che cos’è successo?

La prima scossa si è registrata nel giugno scorso quando, con lo spostamento a destra dell’asse europeo, i grandi timonieri dell’Ue hanno preso una tranvata alle urne. Indifferenti all’avvertimento, Ursula von der Leyen, Emmanuel Macron e Olaf Scholz hanno fatto spallucce. E, con loro, si è messa a fischiettare anche gran parte degli anchorman di casa nostra. Cinque mesi dopo, con i riporti arancione di Donald Trump, è arrivato il terremoto vero e proprio.

Ora, mentre tutto cambia, per i rappresentanti del Teleconduttore unico, il kolossal resta invariato. Come se   Giovanni Floris, Lilli Gruber e David Parenzo fossero fermi al livello precedente del videogioco, dove i sessi non sono ancora tornati a essere due e il green deal è in auge. Chissà, forse bramano l’avvento di qualche Supereroe che pigi il tasto back e li svegli dal brutto sogno. Al momento non se ne hanno avvisaglie ed è netta la sensazione di assistere a due sport diversi, davanti a gente come Federico Rampini, Lucio Caracciolo, Michele Santoro o Massimo Cacciari.

Qualche sera fa, Floris faceva il portavoce della Von der Leyen: c’è l’emergenza, il pericolo, Putin ci attacca. E Santoro gli ha smontato il copione un pezzo alla volta: «Con questa emergenza stiamo facendo una delle cose che alla fine della Seconda guerra mondiale avevamo escluso: dare il via libera alla Germania per diventare di nuovo da sola una grande potenza militare, moltiplicando i pericoli». Floris voleva fargli dire che la Meloni si sta adeguando al modello trumpiano. «Nel mondo», ha spaziato invece l’ex conduttore di Annozero, «la politica conta sempre meno e conta sempre di più l’economia, la finanza. I grandi oligopoli che circondano Trump. In Cina, in Russia, in India, conta ancora la politica che controlla i cambiamenti. In Occidente, la ricchezza non la produce il lavoro ma i soldi». Questo sarebbe il ruolo dell’Europa? «L’Europa dovrebbe diventare un soggetto politico che influenzi l’andamento del mondo. Ma non può farlo mettendo regole sul cacao e sul parmigiano e altre stronzate. Soprattutto non può farlo partendo dall’esercito», ha chiuso Santoro.

Sebbene sembrino due partite diverse, la telesceneggiatura non cambia. Trump, nuovo dittatore globale, potrà mai favorire la pace in Ucraina con i suoi modi così brutali e quella tintura impresentabile? Vuoi mettere l’eleganza di Ursula e di Macron (sì, è vero, sono un po’ guerrafondai – ma che charme)? Ed Elon Musk, simbolo della tecnodestra? Uno che agita la motosega come quel diavolo di Javier Milei (sì, è vero, ha risollevato l’Argentina segando l’inflazione e facendo schizzare il Pil – ma sono bazzecole, e poi quei basettoni…).

Forse in quanto titolare di una striscia quotidiana, la primatista di sconfessioni in diretta è Dietlinde Gruber. Clamorose quelle del lapidario Lucio Caracciolo. Alla conduttrice che scalpitava contro Musk e il possibile accordo sulle telecomunicazioni, il direttore di Limes replicava: «La prospettiva che la Ue abbia un sistema in alternativa a Starlink entro il 2035 è un bluff. E le trattative con Elon Musk sono cominciate prima dell’arrivo di Meloni». Altra delusione un paio di giorni fa, firmata sempre Caracciolo, sull’amata Europa: «Per tutta la nostra storia noi europei ci siamo sparati tra noi. Negli ultimi 80 anni non l’abbiamo fatto anche per merito degli americani. Non vorrei che se gli americani se ne vanno ricominciassimo», l’ha gelata il direttore di Limes.

Smentita totale del Gruber pensiero anche quella siglata da Massimo Cacciari all’indomani del voto in Germania. Con Trump le destre si rafforzano anche in Europa, osserva Lilli. «Ma secondo voi le destre europee si continuano a rafforzare per colpa di Trump? E non perché c’è una certa politica sociale europea e non perché c’è una sinistra europea del cavolo? Se ci fosse stato Biden l’Afd non avrebbe preso il 20%?». Gruber: «Però diciamo che Elon Musk…». Cacciari: «Ma lasci stare Musk, ci sono tendenze di fondo. È il rappresentante di una nuova élite finanziaria… che ha vinto e adesso governa. Non è la barzelletta del saluto fascista». Gruber: «È l’uomo più ricco del mondo e appartiene all’amministrazione Trump che sta licenziando centinaia di dipendenti pubblici». Cacciari: «Questa è la politica di destra che piace anche ai governi di destra. Ma quando non vince, la destra continua a crescere e se la tieni fuori continua a farlo. Come siamo bravi che li teniamo fuori dal governo. Bravi: abbiamo impedito ai fascisti di andare al potere…». Balbettio generale.

Ogni volta che Federico Rampini si collega dagli States il copione dev’essere riscritto. Ne sa qualcosa Corrado Formigli, smentito quando gli ha chiesto se in America fosse in atto «un golpe mascherato». La magistratura sta fermando parecchi provvedimenti, il federalismo è un anticorpo istituzionale, la stampa fa il suo dovere e il New York Times dalla prima all’ultima pagina contesta l’amministrazione Trump. «Piuttosto», ha concluso il giornalista, raggelando anche Massimo D’Alema presente in studio, «stupisce che non ci siano manifestazioni e proteste di piazza come ci furono contro il Trump 1, perché l’opposizione non si è ancora ripresa, non ha capito le ragioni della disfatta e non ha fatto autocritica».

Il più spiazzato di tutti è David Parenzo. «Mentre attendevo il mio turno», ha premesso Rampini, «ho sentito dire che Trump c’entra anche con l’operazione Monte dei Paschi di Siena – Mediobanca. Tra un po’ se i treni arrivano in ritardo in Italia sarà colpa di Trump». Parenzo allargava le braccia. «Sull’immigrazione, certo, sta facendo sul serio. Incatenare i detenuti ripugna al nostro senso europeo dei diritti umani, ma in America è pratica comune per i criminali di qualunque nazionalità, anche se sono cittadini statunitensi. Quelle che troppi di voi chiamano deportazioni, e sono rimpatri con il consenso dei paesi di provenienza, a milioni sono già stati fatti dalle amministrazioni Biden e Obama di nascosto».

Dopo il confronto fra Trump e Zelensky, altro smacco per il povero Parenzo. «Se uno si guarda tutti i 45 minuti e non solo gli ultimi tre del faccia a faccia», ha scandito Rampini, «vede uno Zelensky molto aggressivo – anche perché aveva appena incontrato esponenti democratici – che ha fatto di tutto per costringere Trump a dire che Putin è il colpevole, l’aggressore, un criminale. Se si vuol avviare una trattativa queste espressioni non le devi usare».

Che strana aria tira nella rete dell’Aria che tira.

 

 

 La Verità, 15 marzo 2025

 

 

«Non ha alcun senso parlare di tecnodestra»

Giacomo Lev Mannheimer è stato capo della policy per l’Europa meridionale di TikTok e poi di Apple ed è co-fondatore di FutureProofSociety, una startup che aiuta le imprese a fronteggiare le grandi trasformazioni. L’ultimo saggio, intitolato I mercanti nel palazzo, appena pubblicato dal Mulino, illumina i rapporti tra aziende, big tech e potere politico.
Dottor Mannheimer, la fotografia del palco di Capitol Hill all’insediamento di Donald Trump con Elon Musk, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg in prima fila è la perfetta rappresentazione del titolo del suo libro?
«Una rappresentazione plastica, direi. È la manifestazione estetica di un fenomeno che, come tutte le manifestazioni estetiche, ha radici profonde e complesse nel tempo».
È un titolo che richiama l’episodio evangelico di Gesù che caccia i mercanti dal tempio?
«Che avvenne non perché i mercanti vi facevano il loro lavoro, ma perché, con la venuta di Cristo, non era più necessario commerciare animali da sacrificare. Al contrario, quello che oggi i mercanti portano nel palazzo sono informazioni utili perché, senza quelle, il palazzo sceglie male».
Quali sono le radici del fenomeno?
«C’è un’aura di mistero sul lavoro dei lobbisti e sulle interazioni tra aziende e politica. Ma in realtà è un’attività normale, utile a tutti, perfino alla stessa democrazia perché allarga la possibilità per la società civile di portare alla politica dati, punti di vista e istanze».
L’Inauguration day è stata l’espressione della tecnodestra?
«No. Sicuramente Elon Musk non fa mistero della sua opinione politica ma, innanzitutto, sono mutevoli le categorie di destra e sinistra e, in secondo luogo, tutti gli altri pensano, com’è giusto che sia, principalmente ai loro interessi».
La convince di più il termine oligarchi?
«Nemmeno, non ci vedo niente di oligarchico. Semplicemente sta accadendo alla luce del sole ciò che accade da sempre: potere politico e potere economico si parlano di continuo e in modo approfondito».
Tuttavia, quel parterre non poteva non colpire: qual è il modo corretto d’interpretarlo?
«Trump si è accorto che è più intelligente portare dalla sua parte il potere dell’industria tecnologica rispetto a quello dell’industria tradizionale com’è sempre accaduto in passato».
Ha capito che i big tech sono strategici.
«È una vittoria di Trump più che di Musk, il quale avrebbe potuto influenzare anche l’amministrazione precedente».
Dobbiamo considerarlo come un plateale endorsement pro Trump?
«Sì, bravo Trump ad averlo ottenuto in modo così plastico. Ma non era diversa la situazione quando le piattaforme collaboravano quotidianamente con l’amministrazione Biden. La differenza è che Biden non ha saputo sfruttare a suo vantaggio quella collaborazione».
Federico Rampini ha sottolineato la velocità del nuovo riposizionamento.
«Specialmente durante la pandemia ci sono prove di contatti giornalieri fra le piattaforme e il governo americano per decidere cosa si potesse dire e cosa no. Il livello d’interazione era così intenso che come allora le big tech erano sintonizzate su quale dovesse essere il loro ruolo, così lo sono adesso, con la nuova presidenza».
Perché il bersaglio principale delle critiche è Elon Musk?
«Perché si espone politicamente in prima persona da uomo più ricco del mondo. In questo è diverso da Jeff Bezos, Mark Zuckerberg e gli altri».
Perché si stigmatizzano il presunto saluto romano, le interferenze sui governi europei e i conflitti d’interessi, mentre non si dice nulla su altre distorsioni come il transumanesimo, il ricorso all’utero in affitto e, in generale, il potere salvifico della tecnica?
«È un tentativo di framing, cioè di inquadrare una persona estremamente complessa dentro categorie note alla maggioranza su cui è più facile fare propaganda».
Lo si riduce in un ambito stretto omettendo inclinazioni più prossime al mainstream?
«Che lo renderebbero difficile da comprendere alle persone comuni».
È giusto allarmarsi se l’uomo più potente e l’uomo più ricco del mondo si alleano?
«Mi porrei piuttosto il problema della dipendenza dell’Italia e dell’Europa dal potere politico e tecnologico americano. Ma la responsabilità di questa dipendenza è nostra, non loro».
È giusto alzare il muro contro Starlink per proteggere la tecnologia europea?
«Con i soldi del superbonus avremmo potuto fare cinque Starlink per l’Italia».
La tecnologia europea è competitiva?
«Non lo è a causa di scelte compiute in passato. Bisognerebbe investire sulle tecnologie che determineranno i prossimi dieci o vent’anni».
Perché fino a ieri il cosiddetto allarme democratico non c’era?
«Per un fattore estetico: e qui torniamo alla brutale evidenza con cui quella foto ha reso esplicito il rapporto stretto fra poteri».
I motivi di allarme c’erano anche prima?
«A mio parere erano enormemente superiori. Perché i rapporti tra questi poteri erano non visibili e non trasparenti e avevano obiettivi prevalentemente di censura. Oggi hanno obiettivi di supremazia dell’economia americana».
Su questo fronte, come si è visto con l’intervento al Forum di Davos, i rapporti fra Trump e l’Europa sono destinati a inasprirsi?
«Trump fa gli interessi degli Stati Uniti, l’Europa dovrebbe imparare a fare i propri. A mio avviso non è nei suoi interessi alzare muri di leggi e regolamenti».
Che ruolo può avere Giorgia Meloni in questo scenario?
«Speriamo che faccia da àncora di salvataggio, colmando il vuoto lasciato dall’assenza di dialogo con le istituzioni europee».
Tornando al controllo dell’informazione, durante l’amministrazione Biden non si faceva che parlare di fake news.
«E questa veniva considerata un’azione meritoria. Ma come ha recentemente ammesso Zuckerberg si è trattato di un errore di valutazione».
I grandi media hanno ignorato la notizia delle pressioni dell’amministrazione Biden su Meta relative ai vaccini anti Covid e i loro effetti avversi.
«I media tradizionali sono abituati al controllo politico e l’idea che i social media possano liberarsene li spaventa perché potrebbe indirettamente indebolirli».
È una gara a censurare meglio?
«Nelle dirigenze dei media tradizionali si pensa che i social media dovrebbero essere sottoposti allo stesso trattamento cui sono sottoposti loro. Ma allo stesso tempo si pensa che è una cosa da non far conoscere ai cittadini».
Come va interpretato l’atteggiamento morbido di Trump verso TikTok?
«È una geniale operazione di marketing politico che non ha nessuna base sostanziale, ma aiuta Trump a posizionarsi come vicino agli utenti della piattaforma e ai giovani. Mi ha colpito che nelle 24 ore di blocco della piattaforma la schermata riportava esplicitamente la fiducia che Trump risolvesse la situazione».
Il riposizionamento delle big tech serve a ottenere un trattamento fiscale più vantaggioso da Trump?
«Non credo, perché paradossalmente il fisco non è uno dei principali problemi delle piattaforme. Lo è di più la possibilità di sperimentare modelli di business e uniformità di regole nei Paesi in cui operano. Un esempio è il limite allo sviluppo dell’intelligenza artificiale dovuto alle regole europee che è un ostacolo enorme al business delle piattaforme in Europa».
Come dobbiamo catalogare il silenzio che ha avvolto la notizia dei fondi Ue usati dall’ex vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans per pagare associazioni ambientaliste per le campagne a sostegno dell’agenda green?
«È un fatto gravissimo perché sono soldi pubblici, mentre il lobbing è fatto con soldi privati spesi legittimamente, fino a prova contraria».
Anche qui ritorna l’atteggiamento omertoso dei media.
«È molto grave perché, ripeto, si tratta di soldi pubblici usati per un’azione esterna al mandato istituzionale di Timmermans. Il silenzio dei media, con pochissime eccezioni, purtroppo ha una natura ideologica che dipende da un profondo imbarazzo».
Perché per lei la priorità non è difendere il palazzo dai mercanti, ma difendere i mercanti dal palazzo?
«Perché la politica sfrutta le lobby come capro espiatorio di mancate scelte, mentre più trasparenza sugli interessi privati costringerebbe la politica ad assumersi le proprie responsabilità».
Per esempio?
«Le vicende dei taxi e dei balneari su cui la politica rimanda, imputando la decisione alle categorie».
Fino a qualche mese fa i social media erano palestra e veicolo della cultura woke, del gender e del green deal, perché ora non lo sono più?
«Giocano un ruolo importante le regole interne alle piattaforme, mentre dal punto di vista politico e sociale un cambio di vento è visibile da qualche anno. Musk si è fatto interprete di questo cambio di vento. Sarà interessante vedere cosa arriverà in Europa, specialmente nelle aziende. È lì che sono cambiate le strutture, le politiche e le decisioni. In tante aziende non si sono potuti assumere uomini per anni».
Diverse aziende hanno sospeso l’adesione ai protocolli Die (diversity inclusion e equality).
«Non fanno notizia per ora e non sono sicuro che siano così tante. Infine, bisogna vedere come si concretizzerà questa sospensione».
«Niente è più forte di un’idea di cui sia giunto il tempo» è un’espressione attribuita dal politologo John Wells Kingdon a Victor Hugo. Sembra che in molte parti del mondo cresca il consenso verso posizioni conservatrici, com’è maturato il tempo di questa idea?
«È maturato dagli shock digitale, energetico e geopolitico che hanno aumentato l’incertezza diffusa e spinto le persone a tirare il freno e conservare il più possibile ciò che hanno sempre conosciuto e capito meglio».
Tuttavia, i dati economici e sociali indicano un maggior benessere rispetto a qualche anno fa. O forse si tratta più di benavere che di benessere?
«Quello che conta è la percezione e la percezione è di un mondo che va velocissimo e in cui le certezze sono sempre meno».
Ciò a cui stiamo assistendo è un cambiamento culturale, una ribellione all’establishment o una mutazione di tipo economico e geopolitico?
«Nessuna delle due. Credo sia il cambiamento in una direzione che è influenzata sempre meno dalla politica e sempre più dalle imprese».
Concorda con chi parla di fine della globalizzazione?
«No. Esiste una forte tensione tra reti digitali e fisiche sempre più globali ed esperienze e consumi sempre più individuali. Ma il mondo di per sé è molto più connesso di quanto la politica voglia far sembrare».
C’è da rallegrarsene?
«La connessione di per sé è un bene, ma ovviamente richiede grande consapevolezza e capacità critica».

 

La Verità, 25 gennaio 2025

«M» cita Trump e sostiene che il fascismo è tra noi

Avendo visto tutti gli 8 episodi, ripubblico l’articolo, scritto in occasione dell’anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, su M – Il figlio del secolo, la serie di cui da venerdì 10 gennaio sono visibili su Sky i primi due capitoli. 

Fumettistico. Eccessivo. Esagerato. Questo M – Il figlio del secolo, regia di Joe Wright, prodotto da Sky Studios e Lorenzo Mieli per The Apartment (gruppo Fremantle), presentato fuori concorso in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, è, a sua volta, figlio di un’ossessione, di un terrore che fa vedere il fascismo tuttora presente, risorgente, magmatico fiume carsico della politica e del suo fondo nero, paludoso e reincarnantesi ovunque negli autocrati, nei dittatori, nei leader sovranisti contemporanei (come paventa 2073, documentario dell’inglese Asif Kapadia, che annovera Putin, Berlusconi, Milei, Modi, Meloni e Bolsonaro tra i responsabili della prossima apocalisse planetaria). «Mi avete amato, mi avete odiato, mi avete ridicolizzato. Avete scempiati i miei resti perché di quel folle amore avevate paura, anche da morto. Ma ditemi», chiede ora il Duce rivolgendosi ai posteri dalla tomba al termine del prologo del primo episodio della serie: «A cosa è servito? Guardatevi attorno: siamo ancora tra voi». È la ragione sociale, si potrebbe dire militante, di questo lavoro in otto capitoli tratti dalla biografia firmata da Antonio Scurati, un nome una garanzia, che arriveranno in esclusiva su Sky e Now all’inizio del 2025: dire che il fascismo è eterno e che i fascismi ramificano tra noi, in tutto l’Occidente. Qui e ora.

Sebbene il capo degli sceneggiatori, Stefano Bises, neghi l’esistenza di una ragione sociale, poi fa riferimento a «un dato di fatto. Dovunque, nel mondo, si assiste al riemergere di questa realtà rimasta sommersa e che ora rispunta anche sotto forma di rifiuto dell’oppressione. Del resto, il fascismo è il brand più duraturo mai creato dall’Italia». All’incontro con i giornalisti compare anche l’ispiratore. «Credo che lo spettro del fascismo si aggiri ancora per l’Europa. Ma non sono io a evocarlo, sono altre forze a richiamarlo in vita», scandisce di sua sponte Scurati. Il riferimento suona ampio e generico. Oppure potrebbe riguardare il recente voto in Turingia e Sassonia. Chissà, nell’incertezza scoppiano gli applausi perché la chiamata all’antifascismo galvanizza sempre. Ne fa professione di fede anche Luca Marinelli che impersona il Duce abbondando in cantilena romagnola e difettando in alterigia. «Per approcciarmi al personaggio ho sospeso il giudizio nei suoi confronti per sette mesi, il tempo della lavorazione. Ma per me, che sono antifascista e vengo da una famiglia antifascista, è stata una delle esperienze più dolorose della mia vita».
Tuttavia, il suo Mussolini, figlio di un’ossessione, risulta inevitabilmente troppo. Tracimante, tracotante, chiacchierone, al limite del macchiettistico, soprattutto nei primi episodi che dal 1919 ci conducono alla Marcia su Roma e al contemporaneo incarico di governo affidatogli da Vittorio Emanuele III (Vincenzo Nemolato) dopo la rapida caduta di Luigi Facta. «Questo è un progetto partito sei anni fa», rivela Lorenzo Mieli, «quando Scurati ce l’ha sottoposto e noi abbiamo subito raccolto l’idea, scoprendo che al cinema e in televisione c’erano prodotti riguardanti gli ultimi anni del fascismo, ma quasi niente sulla genesi e la formazione di questa rivoluzione preoccupante e pericolosa». Così, vediamo un giovane Mussolini direttore del Giornale del popolo percorrere affannosamente cunicoli scuri, quasi inseguisse i fatti. Sempre eccitato, consuma amplessi a ritmo sfrenato. Sdraiato su un tavolo, fissa allucinato una bomba a mano che rotea all’infinito, mentre le camicie nere compiono le loro barbarie spaccaossa. Patisce il complesso di Gabriele D’Annunzio (Paolo Pierobon) e si fa guidare da Margherita Sarfatti (Barbara Chichiarelli) che rischiara la via con minimi ritocchi. «Noi vogliamo» al posto di «Noi chiediamo», in un editoriale del Giornale del popolo. E il Vate non è «un padre», ma «una spina nel fianco: da togliere», mettendo fine all’impresa di Fiume.
«Io sono come le bestie, sento il tempo che viene. E questo è il mio tempo», annuncia lui rivolto alla camera come Kevin Spacey in House of cards. Ma non è né una sottolineatura delle sue doti affabulatorie né un tentativo di psicanalizzarlo. «È il modo in cui parla direttamente allo spettatore, svelando i pensieri che ha sempre cambiato, ingannando famigliari, collaboratori, compagni», spiega Wright.
La nuova versione è: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene e questo non è ancora il mio». Ma arriverà il momento degli uomini forti e delle idee semplici. «La storia si fa con gli ultimi. Mettendogli in mano le bombe, le rivoltelle e, se occorre, le matite elettorali». Entrato finalmente in Parlamento, ecco la versione definitiva: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene, e non importa come, ma il mio tempo è arrivato. E pazienza se sono diventato l’uomo che odiavo da ragazzo. Io sono una bestia coerente, ho sempre tradito tutti, tradisco anche me stesso».
M – il figlio del secolo, «il più importante progetto realizzato da Sky», assicura Nils Hartman di Sky studios, è una serie contemporanea e pop, con la colonna sonora dei Chemical Brothers, notturna e cupa, splatter con le camicie nere, dalle tinte bellocchiane non solo quando compare  Ida Dalser, prima moglie che diede un figlio al Duce che la fa internare in manicomio (sul caso Marco Bellocchio diresse Vincere ndr). Così, il capopopolo dei prodromi si trasforma in «stratega», «prestigiatore», «trasformista», come avverte, anticipando le mosse allo spettatore. «Make Italy Great Again», dice a un certo punto un Mussolini trumpiano. Ma conservare il potere è più difficile che fare la rivoluzione. Ancora di più controllare la bestialità delle squadracce di Italo Balbo (Lorenzo Zurzolo). Affiorano i dissidi, si addensano i fantasmi, lo assediano le donne. A chi gli chiede come sia riuscito a raccontare insieme sia il Mussolini uomo che il Mussolini politico, il regista risponde: «Non è stato difficile perché sono inscindibili. Il fascismo è la politicizzazione della mascolinità tossica». E il cerchio si chiude.

 

La Verità, 6 settembre 2024

Non venero i cantautori, ma se si convertono…

Uffa, ancora i cantautori. È stata questa la mia reazione alla doppietta di interviste del Corriere della Sera a Francesco Guccini e Roberto Vecchioni. Un mese e mezzo prima c’era stata quella, un po’ diversa, a Jovanotti, da cui tutto è partito. Megainterviste, doppie pagine dense e ricchissime. Al netto del fatto che a un giornale come il nostro mai la concederebbero – non si sa se per snobismo o per pregiudizio ideologico – tuttavia continuo a chiedermi perché nella terza decade del Terzo millennio continuiamo a regalar loro cattedre magistrali. I cantautori storici, come Guccini e Vecchioni, hanno conquistato il successo in una stagione precisa, un decennio disgraziato di violenza e terrorismo, eppure pontificano tuttora su canzoni di mezzo secolo fa da pulpiti argentati: programmi tv, case editrici, testate giornalistiche, tutto molto chic.
Perdonerete la digressione: musicalmente, non sono mai stati la mia preferenza. In casa, con un fratello e una sorella maggiori, si ascoltavano di più Mina, Lucio (Mogol) Battisti e «i complessi». Poi, grazie a un amico, mi avvicinai al rock progressivo dei Jethro Tull e della Premiata Forneria Marconi da Impressioni di settembre in poi e, da lì, alla fusion e al jazz, sempre per il primato della musica sulle parole cariche di implicazioni ideologiche. E se qualcuno dei cantautori mi emozionò, fu il Lucio Dalla visionario ed esistenziale di L’ultima luna, Caro amico ti scrivo, Anna e Marco, prima della scoperta dell’intelligenza anarchica e abrasiva di Giorgio Gaber, tuttora attualissimo. In ogni caso, erano ascolti che non avevano nulla di assoluto. Perché buona parte di quel decennio lo trascorsi impegnato in altre faccende – frequentando da fuori sede e privo di attrezzature musicali dignitose, la facoltà di Scienze politiche di Padova, egemonizzata da Toni Negri – essendomi imbattuto, senza meriti, in una storia che aveva riferimenti ben diversi dai cantautori. Non essendolo stati allora, meno ancora li venero maestri oggi. Anche quando, nelle serate tra amici, qualcuno ci invita a riflettere su una frase di un loro brano con l’enfasi degna di una lirica lepoardiana, ne riconosco la qualità, ma senza riuscire a sperticarmi. Così come mi è accaduto leggendo le interviste di cui sopra.
Devo dire che Jovanotti non parlava da un po’, causa il grave incidente di cui è rimasto vittima. E chissà, forse per la travagliatissima esperienza, me l’ha fatto trovare diverso da come lo ricordavo. Meno allineato al mainstream. Più coraggioso su temi come fede e ragione: credere «è una scelta, ed è anche un lavoro, dettato dal destino. Sono un illuminista riluttante… Ho una formazione razionale. Ma lascio la porta aperta al mistero, anzi spalancata. E ci passa una corrente travolgente. Una volta Saviano mi invitò in una sua trasmissione a cantare Imagine. Dissi di no… Non voglio cantare un mondo in cui non esista la religione. Un mondo senza religioni sarebbe peggiore, perché la fede è la cosa più umana di te». Su papa Francesco: «Umanamente, Francesco mi piace, mi diverte, mi emoziona. Gli si vuole bene. Ma l’idea che la Chiesa si debba trasformare in una onlus non mi pare del tutto condivisibile». Su Donald Trump e la sinistra: «Trump è un fenomeno del nostro tempo, e come tutti i fenomeni, anche i più inquietanti, è un’occasione per distinguere cosa Trump non è, e farla fiorire. Ha vinto nettamente, e gli elettori meritano rispetto. Dall’altra parte gli altri non sono riusciti a darsi una leadership forte, che si occupasse dei temi che davvero interessano… Gli eccessi della cultura woke sono controproducenti». Jovanotti con quell’intervista è stato la molla delle successive perché ha avuto l’azzardo di dire che non lo convince «la distinzione tra cultura alta e cultura bassa. Gloria di Umberto Tozzi non ha nulla da invidiare alla Locomotiva di Guccini». Proprio questo non si perdona a Lorenzo Cherubini: la pari dignità alla cultura bassa rispetto a quella alta. Così le interviste successive sono nate per rimarcare la differenza di lignaggio. «Al Corriere stavamo pensando a una serie di interviste ai grandi artisti italiani, per farci raccontare la “loro” canzone. Inevitabile a questo punto cominciare da lei e dalla Locomotiva. Quali libri ci sono dietro?», ha stuzzicato Guccini, Aldo Cazzullo. Adombrato, il «maestrone» di Pavana, che pure iniziò come cantante e chitarrista di orchestrine da balera, ha evidenziato tutta la filigrana del suo inno all’anarchia. Ora non vi tedierò con un’altra raffica di citazioni gucciniane salvo quella in cui si stupisce che il cardinal Matteo Zuppi, presidente della Cei, sia «un amico, per quanto mi sembra impossibile avere un amico cardinale», con cui va persino in pellegrinaggio in Vaticano (ma questo al Corriere non l’ha detto). «Pensi se un giorno fossi amico di un Papa… Ma forse sarebbe troppo grossa», ha messo le mani avanti.
Vecchioni, invece, arrivato a stretto giro, ha condito con citazioni di Orazio Luci a San Siro e di Somerset Maugham e del Talmud babilonese Samarcanda. Ma la sua intervista è densa di rivelazioni dolorose, il suo alcolismo e il suicidio del figlio, affetto da sindrome bipolare, e bisogna inchinarsi davanti alla generosità di Vecchioni, forse in parte debitrice alla moda dell’oversharing, l’eccesso di condivisione, di cui sono fatte queste confessioni (lo dico da parte in causa, dedicandomi al genere) contenenti traumi ed esperienze drammatiche che non sempre si sa dove sfocino. Nel caso di Vecchioni, sembra in modo più esplicito e consapevole rispetto a Guccini, a uno sguardo di fede, che ha ben «tre motivi», e che l’ha portato qualche mese fa a tenere un concerto in piazza San Pietro, alla presenza di papa Francesco.
Ecco, curiosamente si finisce sempre lì. Tuttavia, la mia irritazione di partenza, lungi dallo sparire perché non amo la facile distribuzione di patenti magistrali della società dello spettacolo, è solo compensata da quello che sembra l’arrivo degli esponenti della «cultura alta» allo stesso approdo del più popolare e umile Enzo Jannacci. Il cantore dei perdenti e dei disperati che diceva che «abbiamo tutti bisogno della carezza del Nazareno» (la prima volta quando si parlava di Eluana Englaro).
Dunque, cari cantautori, benvenuti tra noi.
Post scriptum Se vi capita di andare su Spotify, provate ad ascoltare i podcast ricavati per Chora Media dalle lezioni di don Luigi Giussani

 

La Verità, 8 gennaio 2025

«Giovani ansiosi a causa del lavaggio del cervello»

Un osservatore autorevole della globalizzazione e delle sue storture: Federico Rampini le analizza dalla postazione privilegiata di New York, dove vive e lavora, dopo averlo fatto a Parigi, Bruxelles, San Francisco e Pechino. La stortura che in questo periodo lo motiva maggiormente è la denigrazione ad alta gradazione ideologica dell’Occidente, come spiega nell’ultimo libro: Grazie, Occidente! (Mondadori), appunto.

Che cosa ha sbloccato questo saggio?

«Vivo a New York nel cuore di una cultura conformista che processa l’Occidente come la civiltà più malvagia, e impone che ci si genufletta quotidianamente davanti al resto del mondo per le sofferenze che abbiamo inflitto. Nel corso di un viaggio in Tanzania, osservando le tribù dei Masai, ho visto da vicino questo paradosso: loro non hanno dubbi sui benefici che il nostro progresso gli porta. Ma c’è sempre qualche turista occidentale afflitto da snobismo imbecille, che storce il naso di fronte ai segni della modernità, rimpiange che i Masai non rimangano al loro stile di vita arcaico e romanticizza un passato segnato dalla fame e dalle malattie».

Un titolo con il punto esclamativo è una provocazione o la manifestazione del piacere di andare controcorrente?

«Siamo caduti in basso, se insegnare la storia vera diventa una provocazione. L’Occidente è stato protagonista di tre secoli meravigliosi in cui abbiamo accumulato una quantità sbalorditiva di scoperte, invenzioni – nella medicina, nelle tecniche di coltivazione, nell’industria – i cui benefici immensi sono stati diffusi all’umanità intera. Senza la nostra medicina che ha debellato la mortalità infantile ed ha allungato di decenni la longevità umana, senza la nostra agronomia che ha moltiplicato i raccolti, oggi non sarebbero vivi miliardi di cinesi, indiani, africani. Tutti i miracoli economici asiatici sono avvenuti copiando la nostra tecnologia, la nostra economia di mercato, e importando conquiste occidentali come l’istruzione di massa».

Perché l’Occidente «è l’imputato messo alla sbarra per avere soggiogato e impoverito le altre civiltà»?

«Da parte di alcune classi dirigenti, come la nomenclatura comunista cinese, c’è un calcolo geopolitico. Dopo avere copiato la modernità occidentale la Cina la usa contro di noi, aizza le classi dirigenti dei paesi emergenti in nome dell’anticolonialismo, oscurando il fatto che la stessa Repubblica Popolare è uno degli ultimi imperi coloniali, avendo soggiogato Tibet Xinjiang e Mongolia interiore. Ci sono oligarchie del Terzo mondo che accusano l’Occidente per nascondere le proprie ruberie e i propri fallimenti. Poi abbiamo l’antioccidentalismo di casa nostra, che ha una lunga storia e spesso si ricollega a tre grandi famiglie politiche ben rappresentate in Italia: comunismo, cattolicesimo, fascismo. Infine, c’è la variante più aggressiva, fabbricata dalle élite protestanti americane: i movimenti puritani di autoflagellazione, di espiazione collettiva delle proprie colpe, vere o presunte, sono una costante della storia americana dall’Ottocento».

Come spieghi che, sebbene vivano in una condizione di benessere, i nostri giovani siano «la generazione ansiosa»?

«Hanno subito un lavaggio del cervello. Quando gli si insegna la rivoluzione industriale è obbligatorio associarla con l’imperialismo coloniale, il razzismo, lo schiavismo, la distruzione del pianeta, l’inquinamento. Se si aggiungono le influenze di Hollywood, delle élite culturali, l’indottrinamento è a senso unico: la storia occidentale raccontata come un grande romanzo criminale. In questa versione si omette che le altre civiltà hanno praticato lo schiavismo quanto noi, che gli altri imperi sono stati oppressivi quanto i nostri; ma solo noi abbiamo inventato i vaccini e gli antibiotici. La Generazione Z dopo aver subito questo indottrinamento è segnata da punte di infelicità, ansia, depressione. Il mio libro è un antidepressivo».

Perché sembra che certi ambienti siano attraversati da un’isteria distruttiva?

«Pensano che denunciare la nostra cattiveria sia il segno di una moralità superiore. Le élite, in questo modo, perpetuano il proprio ruolo: ci sono caste intellettuali che devono la propria legittimazione a una missione sacerdotale, guidano le masse nei riti del pentimento collettivo. Magari sono atei e si credono modernissimi, in realtà ripetono delle liturgie medievali. Così come è oscurantista e antiscientifico un ambientalismo apocalittico che demonizza il progresso e annuncia la fine del mondo dietro l’angolo. Queste predicazioni fanatiche danno potere, culturale e politico, a chi le dirige».

C’è chi vede segnali di stanchezza della cultura woke: i campus universitari americani sono contendibili?

«Tanti giovani non sono né stupidi né passivi e fra loro è cominciata una ribellione, la battaglia per ricostruire un pluralismo e una libertà di espressione anche nei campus universitari. Non sarà facile, però, perché nel frattempo si è sedimentata una mastodontica burocrazia woke, pagata per disciplinare, censurare, imporre le quote etniche e sessuali…».

Perché la Rivoluzione industriale e l’avvento dell’energia fossile sono viste solo in una luce negativa?

«Perché tanti che si autodefiniscono ambientalisti urlando nelle piazze non hanno mai aperto un manuale di chimica o di fisica. Nel libro cito grandi scienziati, il mio prediletto è Vaclav Smil, uno studioso canadese che è un vero ambientalista, convinto che il cambiamento climatico sia reale e che noi dobbiamo adoperarci per contrastarlo, mitigarlo, e adattarci. Smil spiega l’intera storia della specie umana collegandola ai diversi tipi di consumo di energia, di alimenti, di materiali. In questo contesto la Rivoluzione industriale segna il passaggio verso forme di consumo energetico meno distruttive di quelle precedenti. Se ci scaldassimo ancora con il legname produrremmo molta più CO2 nell’atmosfera, rispetto a quella generata da carbone, gas, petrolio. Demonizzare il progresso è una mania degli ignoranti, l’energia solare, eolica, lo stesso nucleare che stanno riducendo le emissioni di CO2, sono tutte tecnologie occidentali. La lotta al cambiamento climatico procede grazie alle scoperte avvenute in Occidente».

Uno dei temi della tua riflessione riguarda la gestione dell’immigrazione. I Paesi europei e il Nordamerica devono accogliere i migranti senza regolamentarne i flussi per espiare le colpe del colonialismo?

«All’origine c’è un’idea semplice, accattivante e sbagliata: che noi siamo ricchi perché abbiamo reso poveri gli altri. Questo luogo comune calpesta decenni di studi sulle vere cause del sottosviluppo. Ignora la realtà che il colonialismo lo hanno praticato altri più a lungo di noi: in Medio Oriente i turchi ottomani. Ignora che Singapore fu colonia inglese e divenne indipendente nello stesso anno di molti Stati africani, ma oggi ha un reddito più alto di quello britannico. Diffondere tra i migranti l’idea che hanno diritto a nutrire rancore nei nostri confronti e a rivendicare risarcimenti perpetui è la ricetta sicura per impedire la loro integrazione. Questa cultura del vittimismo sta sfasciando perfino l’America, che aveva avuto una società multietnica funzionante».

Perché le comunità islamiche sono più ostili di quelle di altre etnie verso gli Stati che le accolgono?

«La decadenza delle civiltà islamiche fin dall’Ottocento ha generato una cultura dell’invidia e del risentimento verso l’Occidente. I più recenti fallimenti delle loro classi dirigenti, da Nasser a Khomeini e Khamenei, da Gheddafi a Saddam, hanno alimentato la ricerca di un capro espiatorio nell’Occidente. In particolare, dopo il 1979 si è scatenata una concorrenza perversa tra iraniani e sauditi, i cui petrodollari hanno finanziato moschee e madrasse fondamentaliste nel mondo intero, dove si predicava l’odio verso l’Occidente. Una novità positiva è che di recente l’Arabia saudita si è chiamata fuori da questo gioco».

A Kamala Harris conviene parlare d’immigrazione nell’ultimo mese di campagna elettorale?

«Kamala Harris ha operato un voltafaccia, oggi promette una politica di duro controllo alle frontiere».

Le misure adottate dagli ultimi governi britannici, dalla Danimarca, dalla Germania di Olaf Scholz e dai governi svedesi e olandesi, anch’essi progressisti, confermano un nuovo orientamento sull’immigrazione?

«Buona parte della sinistra occidentale si accorge di avere sbagliato sull’immigrazione e sta operando una revisione drastica».

Pensi che la sinistra italiana, dal Pd ad Avs, tardi a prendere coscienza di questo cambiamento?

«Seguo poco la politica italiana. Però non mi pare di aver colto delle svolte nette come quelle di Kamala Harris, Keir Starmer e Olaf Scholz».

L’Occidente ha fatto solo cose buone?

«Ha commesso crimini orrendi. Come tutte le altre civiltà. Ma noi li riconosciamo, gli altri no. Non si è mai sentito un leader arabo chiedere scusa per la tratta degli schiavi africani».

Quando abbiamo voluto esportare la democrazia in Afghanistan, in Iraq e in Libia non è andata benissimo.

«Era andata bene in Germania e in Giappone. La democrazia deve maturare nei popoli e nelle culture locali, è una faticosa conquista. Richiede anche una battaglia contro oligarchie oppressive».

Per una ripresa della diplomazia in Medio oriente e in Ucraina, è più auspicabile una vittoria di Donald Trump o di Kamala Harris?

«Volodymyr Zelensky si muove per un negoziato subito dopo l’elezione Usa, quello che cambierebbe è il suo potere contrattuale, un po’ inferiore con Donald Trump alla Casa Bianca. In Medio Oriente il sostegno americano a Israele rimarrà bipartisan».

Un altro limite della civiltà occidentale è aver cancellato le sue radici greche, romane e cristiane?

«Siamo il frutto di influenze molto diverse, la filosofia greca è compatibile con l’ateismo; Roma ci ha dato la prima Repubblica e un’idea dello Stato di diritto; il cristianesimo è un credo egualitario. La rivalità Stato-Chiesa e la pluralità di attori geopolitici continentali ci hanno preservato dai grandi imperi verticali. È un mix di ingredienti miracoloso che ha consentito la nascita della liberaldemocrazia qui e non altrove. La distruzione delle radici l’abbiamo cominciata presto. L’università di Stanford, nel cuore della Silicon Valley, eliminò il corso sulla storia della civiltà occidentale nel 1962».

Rispetto ad alcuni anni fa alcune tue posizioni sono cambiate: che cosa ha prodotto questa mutazione?

«Il grande economista John Maynard Keynes diceva: gli eventi cambiano, io cambio le mie opinioni, e voi?».

 

La Verità, 28 settembre 2024

«Più combattiamo la Russia, più le somigliamo»

Marco Travaglio, difendi Povia e attacchi Matteo Renzi, cosa ti è successo?
«Sono sempre lo stesso. Renzi, vabbè… Riguardo a Povia, non capisco perché uno non possa cantare se è no-vax. Io ho fatto tutti i vaccini, anche se sono contrario agli obblighi perché il dogma dell’Immacolata Vaccinazione non mi risulta. In ogni caso, esiste anche il diritto di dire fesserie. Se inviti Povia e poi lo cacci perché ha idee diverse dalle tue, è censura bella e buona».
Che cosa non ti convince di Elly Schlein che abbraccia Renzi e del suo ritorno alla Festa dell’Unità?
«Non partecipando alla vita politica, non me ne importa nulla. Da osservatore, constato che chiunque si è fidato di Renzi è rimasto fregato. Calenda si è definito l’ultimo pirla ad averlo fatto. Ma in Italia i pirla sono sempre penultimi».
Pd e Italia viva si sono accordati anche in Liguria, il campo largo è spianato?
«Mai capito cosa sia. Le alleanze si devono fare tra forze politiche che hanno qualcosa in comune. Se uno vuole battere la destra non si allea con uno che vota quasi sempre e governa spesso con la destra. Sennò tanto vale prendersi direttamente la Meloni, che ha più voti».
Il sindaco di Nichelino che ha stracciato il contratto di Povia ha detto che non è per una questione politica.
«Invece, è “la” questione politica. I princìpi e i diritti si difendono anzitutto per chi non la pensa come te».
Cosa pensi dell’arresto dell’ad di Telegram, Pavel Durov?
«Ne so poco. Magari scopriremo che è il nuovo Barbablù e che l’arresto è legittimo. Al momento non vedo perché arrestare il padrone di Telegram e non anche Mark Zuckerberg e gli altri boss dei social, che fanno tutti più o meno le stesse cose».
Rivelando di aver censurato contenuti sgraditi all’amministrazione Biden, l’ad di Meta ha messo le mani avanti o si è riposizionato in vista del 5 novembre?
«Non saprei. Ma eticamente, rispetto a Durov, è molto più grave quel che ha fatto Zuckerberg censurando notizie. Con quale credibilità nominerà i famosi garanti contro le fake news visto che ne è un produttore industriale?».
Sorpreso che i grandi giornali italiani hanno glissato sull’argomento?
«Mi sarei stupito del contrario. Per loro la libertà di stampa e di social è tifare per i salotti buoni e democratici».
Il commissario Ue Thierry Breton ha inviato una lettera di avvertimento a Elon Musk colpevole di intervistare Donald Trump.
«Se avesse intervistato Kamala Harris riservandole un po’ della bava che le riserva la grande stampa internazionale, avrebbe avuto una lettera di encomio. Se non sbaglio, nelle democrazie occidentali l’unico leader escluso dai social è stato Trump».
Il caso Durov, Zuckerberg, la lettera a Musk, l’allarme di Gentiloni e i freni al free speech in Inghilterra evidenziano un problema di democrazia nell’Occidente democratico?
«Più combattiamo la Russia e più le assomigliamo».
Però la democrazia la esportiamo.
«E ora in casa scarseggia. In realtà, spesso esportiamo terrorismo, vedi Iraq, Afghanistan, Libia e Gaza». 
La situazione è seria o grave?
«Molto grave: siamo sull’orlo di una guerra mondiale e facciamo finta di niente».
Altro spin off dalla Francia: dopo aver trafficato con le desistenze per neutralizzare Marine Le Pen ora Macron rifiuta l’incarico a Lucie Castets, candidata del Nfp che ha vinto le elezioni?
«Sembra risorto Giorgio Napolitano».
In che senso?
«L’idea che, se uno vince le elezioni, dev’essere neutralizzato con giochi di palazzo è di Napolitano. Nel 2011, dopo le dimissioni di Silvio Berlusconi, escluse le urne per timore che vincessero i 5Stelle e apparecchiò l’inciucione con Mario Monti. Poi, nel 2013, i 5Stelle vinsero lo stesso e fece l’ammucchiata dei perdenti con Enrico Letta: Pd, Forza Italia e montiani. Rimasero fuori M5S, Lega e Fratelli d’Italia: i tre partiti che poi stravinsero le elezioni del 2018, 2019 e 2022. Credo che la stessa cosa succederà a Macron, che sta preparando l’Eliseo per Jean-Luc Mélenchon o per Marine Le Pen. Un altro genio».
Parliamo di cose serie: hai preso una cotta estiva per Giorgia Meloni?
«Ho raccontato mille volte che l’ho conosciuta 15 anni fa in treno quand’era ministro della Gioventù del governo Berlusconi. La trovai simpatica, anche se non condivido quasi nessuna delle sue idee, e rimanemmo in contatto. Non era difficile capire che era l’unico personaggio in ascesa del centrodestra e sarebbe arrivata dov’è ora. Quindi non capisco lo stupore per aver scritto che è una tipa sveglia e dunque mi stupivano le cavolate che diceva su complotti ai suoi danni».
Ha sciolto la riserva sull’invito alla Festa del Fatto quotidiano?
«Sì, non riesce a venire per altri impegni. Ma avremo comunque un rappresentante del governo».
Quanto questo governo è indigesto all’establishment?
«Poco o nulla perché con l’establishment internazionale e nazionale si è messo d’accordo, anche con eccessi di zelo che nascono proprio dal fatto che la Meloni è vista come un’intrusa».
Involuto come ragionamento.
«Per accreditarsi ha dovuto dare prove d’amore esagerate. Infatti, ogni volta che accenna a deragliare dalla retta via – voto sulla Von der Leyen, mancata ratifica del Mes, annuncio della tassa sugli extraprofitti bancari, critiche di Crosetto all’incursione ucraina in Russia – i salotti buoni le ricordano che è lì in prova».
Non votare per la Von der Leyen è stato un segno di discontinuità?
«Certo. Me ne aspettavo ben altri, da una come lei. Oltre al fardello del neo e postfascismo, la destra meloniana aveva tre pregi: era legalitaria, sociale e multilaterale in politica estera. Tutti sacrificati sull’altare del “primum vivere”».
Dall’Europa ci chiedono di allinearci sulla legge del conflitto d’interessi, come se a Bruxelles non ne avessero.
«In Italia conflitti d’interessi li hanno tutti o quasi: ecco perché la legge non l’ha fatta nessuno. Il Consiglio d’Europa ci chiede ancora di provvedere. Dopodiché l’Ue ne è piena. Da quello folcloristico della presidente del Parlamento, Roberta Metsola, che nomina il cognato di gabinetto – un “euro-Lollobrigida” che però non fa scandalo – a quelli ben più seri sui contratti della Von der Leyen per i vaccini, fino alle multinazionali delle armi che pilotano la politica bellicistica dell’Ue».
Il trattamento livoroso che riservano al governo i grandi quotidiani e i talk di La7 dove sei di casa dicono che la vittoria della destra non è ancora stata metabolizzata?
«La stessa cosa accadde quando vinsero i 5Stelle. C’è un establishment politico-mediatico che ritiene valide le elezioni solo se le vince il Pd. I 5Stelle, da Conte alla Raggi, furono trattati anche peggio della Meloni. Io sono contrario al suo governo non perché è di destra, ma per le cose che fa e non fa».
Norme per la natalità, taglio del cuneo fiscale e abolizione del Rdc non vanno bene?
«Ovviamente sono favorevole alle politiche per la natalità, che non è né di destra né di sinistra. Il taglio del cuneo fiscale è un’eredità dei governi precedenti. Mentre sono nettamente contrario all’abolizione del Rdc».
Gli indicatori economici sono positivi.
«Ma uno dei miei primi titoli sul governo fu “Buona la prima”, per il carcere duro ai boss. Non vedo l’ora di titolare “Buona la seconda” e la terza, ma non ne ho avuto l’occasione. I giornalisti non devono avere pregiudizi: solo post-giudizi».
L’ostilità del sistema mediatico è un sogno prodotto dal vittimismo delle Meloni sisters?
«Vedo una buona dose di vittimismo, ma soprattutto una sindrome di accerchiamento».
Ore di trasmissioni, paginate d’inchieste sul fascismo incombente e su TeleMeloni sono giustificate?
«Per me tutte le inchieste, se dicono la verità,  sono giustificate. E in tv tra Rai e Mediaset stravince il partito pro-governo. Altra cosa è quanto sia produttivo per l’opposizione insistere sul ritorno del fascismo. La gente non ci crede e chi vuole un’alternativa farebbe bene a combattere il governo sulle cose che fa, non sul ritorno di Mussolini. Che, malgrado siano riapparsi un sacco di fascisti, fa ridere i polli».
Alessandro Sallusti si è sognato tutto o, viste certe accuse ad Arianna Meloni di tirare le fila di nani e burattini, l’ipotesi di un’indagine della magistratura ha qualche plausibilità?
«Tutte le indagini che non esistono hanno la stessa plausibilità. Se poi verrà fuori qualcosa, valuteremo gli elementi. Sallusti è un ex cronista giudiziario e dovrebbe sapere cos’è il traffico di influenze: non fare le nomine, ma prendere soldi per segnalare qualcuno».
Che cosa pensi della variabile fratelli Berlusconi nella politica italiana?
«Il conflitto d’interessi berlusconiano è sopravvissuto al Cavaliere. Il fatto che la famiglia resti l’azionista di maggioranza di Forza Italia e che Mediaset abbia una bella quota del sistema tv sono due fattori in grado di condizionare il centrodestra e quindi il governo».
Hanno modificato il posizionamento di Forza Italia?
«Vedo che si agitano molto, anche dipingendo il padre come un paladino dei diritti civili. Ma il decreto per lasciare attaccata alle macchine Eluana Englaro, la legge contro la procreazione assistita e i Family day, al netto dei bunga bunga, chi li ha fatti?».
Salvo i bunga bunga, idee condivisibili.
«Eh, ma allora non mi dipingano Berlusconi come un precursore di Marco Cappato».
I grandi quotidiani intervistano a giorni alterni Renzi e Tajani perché tifano per l’ammucchiata progressista?
«Giocano a Risiko con la politica. Adesso vogliono far eleggere Kamala Harris, come se gli italiani votassero in America. E in Italia, sognano che Tajani, spinto dai Berlusconi, molli la Meloni e vada col Pd. E accreditano Renzi per spostare al centro la coalizione, facendo fuori i 5Stelle e la sinistra. Vediamo se gli elettori ci cascano».
Beppe Grillo sta invecchiando male?
«Temo di sì. E mi dispiace perché è un genio che, sia come artista che in politica, ha fatto cose inimmaginabili. Però gli manca la capacità di accompagnare la maturazione della sua creatura con la magnanimità e la generosità del padre nobile. Dovrebbe imparare da Prodi e da Bersani».
Qualche quiz finale da palla di vetro: Pier Silvio scenderà in campo?
«Penso che gli sia più comodo controllare il partito da fuori».
Francesca Pascale si candiderà nel Pd?
«Ne abbiamo viste tante, potremmo vedere anche questa».
Veltroni diventerà direttore del Corriere della Sera?
«Bisognerebbe essere nella testa di Urbano Cairo e nel fegato degli altri pretendenti, per saperlo».
Renzi continuerà a fare politica?
«Ma non si era ritirato nel 2016?».

 

La Verit, 31 agosto 2024

«Kamala ha già vinto? Kalma, film già visto»

Enciclopedico. Anarchico. Infallibile. Mauro della Porta Raffo, soprannominato Gran pignolo per la tendenza a correggere in punta di conoscenza gli errori della pubblicistica, è autore, appunto, di una Nuova enciclopedia americana (su Thescienceofwheremagazine.it), sorta di diario in preparazione alla rubrica sulle Elezioni Usa che tiene quotidianamente nel sito della Fondazione Italia-Usa di cui è presidente onorario.
In cosa consiste questa enciclopedia?
«Mandavo due o tre post al giorno, oltre 1500 in totale, sulla storia americana, i presidenti, i leader politici, gli uomini di spettacolo, i grandi attori, gli scacchisti… Lei sa che io so tutto, vero?».
Cosa vuol dire?
«Che posso spiegare, per esempio, perché la capitale amministrativa della Bolivia si chiama Sucre. Non perché significa zucchero, ma perché il condottiero degli indipendentisti che sconfisse gli spagnoli in territorio americano nella battaglia di Ayacucho del 9 dicembre 1824 si chiamava Antonio José de Sucre».
Da dove viene questa conoscenza?
«Dei miei 80 anni ne ho impiegati 78 a studiare perché ho imparato presto a leggere. E, siccome ricordo tutto quello che leggo, vedo e scrivo…».
Parliamo delle elezioni americane: Kamala Harris ha già vinto?
«Questo è ciò che dicono i sondaggi che non prevedono ciò che succederà il giorno delle elezioni, ma ciò che farebbero gli elettori nel giorno in cui vengono interrogati».
Danno vincente Kamala Harris anche Cnn, New York Times e Washington Post.
«I cui giornalisti sono come degli iscritti al partito democratico. Anzi, come dei sostenitori accaniti. Gli stessi che, fino a tre mesi fa, ne parlavano malissimo».
Attratti da New York e Los Angeles, rischiano di sottovalutare ancora una volta l’America profonda?
«È così. Non a caso gli Stati intermedi, con l’eccezione di Chicago e dell’Illinois, sono definiti fly over States, Stati sorvolati per andare da una costa all’altra. Gli europei vanno a New York e poi direttamente in California. Poi, quando gli Stati intermedi votano repubblicano, tutti rimangono sorpresi. Non basta documentarsi sul pensiero degli intellettuali nuovaiorchesi e delle star hollywoodiane».
Già nel 2016 sondaggisti e opinionisti ebbero questa svista.
«L’hanno sempre avuta. Il Partito democratico ha in mano i gangli del potere mediatico. L’inviato del New York Times e del Washington Post o della Cnn è un democratico. E, invece di informare, fa propaganda».
Però ci sono anche Fox News e Wall Street Journal.
«Che sono minoritari. Nessuno ascolta le radio conservatrici dell’Oklahoma o del Wyoming che sono molto seguite dalle persone in auto, sui pick-up… Indro Montanelli ripeteva che bisognava sintonizzarsi sull’opinione del lattaio dell’Ohio».
Uno degli stati decisivi.
«Io aggiungo che bisogna ascoltare la casalinga di Boise, capitale dell’Idaho, la quale, con ogni probabilità, è basca».
Perché è importante?
«L’Idaho è uno Stato completamente diverso dallo Stato di New York e dalla California. Dire che la casalinga di Boise è basca è uno sfizio, ma lì c’è una comunità di baschi molto numerosa».
Va bene, ma numericamente…
«Questa è la parola magica. Vincere a New York e in California porta molti voti. Ma non basta. Nel 2016 Donald Trump vinse prevalendo in Ohio, Pennsylvania, Wisconsin e Michigan, cioè nella Rust belt, la “cintura della ruggine”, dove la crisi industriale del 2008 era stata pesantissima e i bianchi della classe media avevano perso il lavoro. Le aziende avevano chiuso e i macchinari erano rimasti fermi nei capannoni a fare la ruggine. Nel 2020, tre di questi Stati, tranne l’Ohio, votarono per Biden».
È vero che Harris è in vantaggio negli swing States, gli Stati in bilico?
«Sono praticamente alla pari perché stiamo guardando a una situazione drogata dal fatto che Harris è una novità e le novità hanno sempre grande seguito. Quindi, calma».
Come è riuscita a ribaltare l’immagine di pessima vicepresidente che l’accompagnava?
«Non ha ribaltato nulla. Mi dica un’azione concreta che abbia fatto dopo essere apparsa come una star. Non poteva nemmeno, fare qualcosa. Le decisioni continua a prenderle Joe Biden».
Tuttavia, si parla d’inversione di tendenza.
«Nella propaganda di coloro che prima rappresentavano Harris al peggio. La narrazione prende il sopravvento sulla realtà, ma non significa che sia la verità».
Alla convention di Chicago, Barak Obama ha cucito il suo slogan del 2008 su Kamala: «Yes, she can», mentre Michelle ha detto che «è tornata la speranza» suscitando grande entusiasmo.
«Cos’altro avrebbero potuto dire? Se si guardano i dati reali e non la propaganda, quando Obama diviene presidente nel 2008, il Partito democratico è al massimo e ha i governatori di tutti i maggiori Stati. Nel 2012 perde voti e nel 2016 il partito è distrutto, con la metà dei governatori del 2008».
All’inizio erano tiepidi sulla candidatura di Harris, cosa li ha fatti cambiare idea?

«È ciò che ho detto finora: Kamala non è la stella nascente che viene rappresentata».
La sua è una candidatura veramente democratica?
«Una specie di successione dinastica. Come se il Partito democratico fosse una monarchia assoluta, nella quale Biden designa il successore».
Il collante dell’unità dei democratici è l’antitrumpismo?
«Ed è grave per un partito di questo livello. Nella convention di Chicago si doveva discutere la platform. Non basta dire: dobbiamo evitare che Trump diventi presidente, ma cosa si vuol fare una volta al governo».
Trump stenta a rimodulare la sua azione sulla nuova antagonista?
«Stenta perché è cambiato tutto. Stava affrontando un uomo in declino fisico e psichico invece ora c’è una donna; una persona di due etnie diverse, mentre Biden era bianco; un avversario più giovane. Infine, Biden era un cattolico sia pure a suo modo, e Kamala è di un’altra confessione».
È importante?
«In Europa siamo a-religiosi, mentre in America, soprattutto in certi Stati, la religione conta. Kamala Harris è protestante, con venature ancestrali indù. Queste componenti entrano nelle urne, soprattutto negli Stati con una forte presenza di evangelici».
I toni offensivi di Trump sono dovuti a questo spiazzamento e al nervosismo conseguente o sono le sue modalità abituali?
«Era gentile con Hillary Clinton nel 2016? È il suo modo di essere. Molti osservatori che seguono i comizi di Trump si scandalizzano, ma in campagna elettorale un candidato punta a consolidare i propri elettori e a tentare di convincere gli indipendenti. Non perde tempo a fare le fusa alla controparte. Anziché scandalizzarsi, l’inviato democratico del New York Times dovrebbe capire se lo slogan di Trump, che gli fa ribrezzo, è efficace a convincere il lattaio dell’Ohio».
Che peso ha la scelta dei vicepresidenti, JD Vance da una parte e Tim Walz dall’altra?
«Vance è un personaggio notevole, autore di Elegia americana secondo la titolazione italiana, ma “Elegia degli zoticoni”, da cui Ron Howard ha tratto un film, sarebbe stato più aderente all’originale. Insomma, Vance rappresenta i deplorables di Hillary Clinton, quei bianchi impoveriti della “cintura della ruggine”».
E Walz?
«È il suo contraltare, la rappresentazione del sogno americano come lo vogliono vedere. Proviene da una famiglia modesta, ha seguito la strada ideale del progressismo e del politicamente corretto diventando governatore del Minnesota. Naturalmente, nessuno dei due ha carisma presidenziale».
Parlando del programma di Harris, sono punti di forza reali la decisione di introdurre un tetto ai prezzi e di battersi per il diritto all’aborto?
«Tenere fermi i prezzi è un’ovvietà. Chi direbbe: voglio aumentare i prezzi? Invece, la questione dell’aborto è molto divisiva. Trump ha indicato che siano i vari Stati a decidere. C’è una scelta più democratica di questa? Le camere dei singoli Stati sono state elette dal popolo. È questo il senso anche della sentenza della Corte suprema del giugno del 2022 che confermò l’indicazione di Trump».
Che nella Corte suprema aveva nominato giudici conservatori.
«Durante la sua presidenza, il democratico Frank Delano Roosevelt ne nominò ben nove».
L’idea di detassare le pensioni di Trump è praticabile?
«Ci sono idee che hanno valenza elettorale e idee di efficacia governativa. Un grande politico sa gestire al meglio questa differenza, ma qui, in entrambi gli schieramenti non vedo grandi politici. La detassazione delle pensioni è un’ottima idea che gli economisti ritengono impraticabile. Se qualcuno trova una previsione degli economisti che si avvera me la segnali. Perciò, quando li sento dire che un’idea è impraticabile, per me diventa auspicabile».
Come può influire nel voto la questione dell’immigrazione alla luce dell’amministrazione Biden?
«Una dimostrazione della cattiveria di Biden è proprio la delega del dossier immigrazione a Kamala Harris. Il problema dell’immigrazione dal Messico esiste dagli anni Cinquanta, ai tempi di Eisenhower e in 70 anni non si è cavato un ragno dal buco. Ricordiamoci che l’America è nata dall’immigrazione. I repubblicani sono più severi riguardo all’immigrazione clandestina, direi giustamente. I democratici più liberali. Come influiranno questi orientamenti lo scopriremo il 5 novembre».
Altra variabile: lo schieramento sulle guerre in Ucraina e in Israele.
«Trump può dire che con lui alla Casa Bianca non c’è mai stata una guerra senza temere smentite. Ha cercato di dialogare persino con il bravo ragazzo che governa la Corea del Nord. I presidenti democratici non possono dire altrettanto, basta guardare la storia del Novecento e oltre. Eppure vengono presentati come pacifisti. Credo che questo argomento peserà perché molti elettori vedono che ingenti fondi sono impegnati su queste due guerre proprio mentre situazioni interne drammatiche non vengono affrontate per carenza di denaro».
Quanto potrebbe favorire Trump il ritiro di Robert Kennedy jr.?
«Robert Kennedy jr. si ritira ora che ha esaurito le scorte di denaro e il suo consenso è sceso ai minimi. Credo possa incidere pochissimo, quasi niente».
Quanto possono influire Taylor Swift ed Elon Musk?
«Anche loro molto poco. Nel 1964, John Wayne era all’apice del successo e si schierò apertamente con Barry Goldwater, il candidato repubblicano che sfidava Lindon Johnson. John Wayne era il re di Hollywood, ma Goldwater subì una delle sconfitte più sonore della storia delle presidenziali americane».

 

La Verità, 24 agosto 2024

«L’ideologia fa vomitare anche più della Senna»

Insieme a Federico Palmaroli, in arte @lefrasidiosho, firma del Tempo e di Porta a Porta, proviamo a impaginare l’album fotografico dell’estate.
Il primo scatto è l’intervista al Corriere della Sera di Marina Berlusconi che sui diritti civili si confessa vicina alla sinistra di buon senso. Un fulmine a ciel sereno?
«Credo che Marina Berlusconi raccolga un lascito degli ultimi anni del padre. Ricordiamo la sua vicinanza con Francesca Pascale e gli incontri con Vladimir Luxuria. La Pascale l’ha sensibilizzato e lui forse si è fatto trascinare. La figlia ne raccoglie l’eredità. Berlusconi è stato criticato per i suoi comportamenti verso le donne e oggi la sensibilità dei figli su questi temi può sorprendere. Ma forse ce lo racconta meglio di come lo ricordiamo».
Da qui alla cena di Marina e Pier Silvio con Antonio Tajani il passo è breve?
«Tra lo spostamento a destra o a sinistra di Forza Italia vedo più il secondo. Non mi stupirei di trovarla vicino al Pd, anche perché tutti si affollano in un unico campo largo, larghissimo. Certo, il partito fondato da Silvio Berlusconi in una coalizione di centrosinistra stride parecchio, ma il riposizionamento di Matteo Renzi su quell’asse fa riflettere».
Altro tassello: il dramma estivo è la separazione tra Paola Turci e Francesca Pascale?
«Davero. Fa impallidire le vicende dell’Ucraina e di Israele».
Ora che ha più tempo libero, Pascale sogna l’alleanza tra Forza Italia e Pd.
«Lo dicevamo, è da sempre focalizzata sui diritti civili, presente ai pride. Il povero Silvio era terrorizzato che svelasse pure la sua fede interista. Ricordando cosa dicevano nel Pd delle donne che circondavano il Berlusca dei tempi d’oro, non sarebbe male vederla candidata con la Schlein».
Che Massimo Cacciari invita a tenersi pronta perché Giorgia Meloni sarebbe agli sgoccioli.
«Su questo Cacciari ha l’attendibilità della veggente di Civitavecchia. O di Piero Fassino quando profetizzò: “Se Grillo vuol far politica fondi un partito, vediamo quanti voti prende”. Ecco, s’è visto…».
Anche Cacciari scambia un suo desiderio per realtà?
«Può darsi. Ma non credo riescano a mettere insieme tutte le anime della sinistra, compresa quella renziana, considerando che stanno raccogliendo le firme per abrogare il jobs act. Mi sembra un bel miraggio».
Però alla Partita del cuore Elly e Matteo stavano avvinghiati.
«Sicuramente hanno dimostrato di avere buona intesa in campo, estromettendo Giuseppe Conte, che per altro si defila di suo, dal tridente d’attacco. Quando Elly è andata a segno su assist di Matteo, il gol è stato annullato per fuorigioco. Diciamo che l’alleanza nasce viziata all’origine».
Sapevi che Renzi rimbalzava Obama al telefono?
«No, l’ho appreso dai giornali. Ricordo quella cena alla Casa Bianca, c’erano pure Bob Benigni e Bebe Vio. Si vedeva Michelle che illustrava le meraviglie dell’orto alla moglie di Renzi, magari le avrà proposto di portarsi ’na cassa de pomodori. Comunque, sembravano amiconi e Renzi aveva sottolineato più volte il legame fortissimo con Obama. Se vede che la realtà era n’antra».
Cosa ti ha destato Ilaria Salis che debutta al Parlamento europeo con Mimmo Lucano e Carola Rackete?
«Associarla all’estate me la fa andare di traverso, la assocerei di più all’inverno. Per carità, sono contento che Ilaria Salis non sia più in catene in Ungheria. Ma mi chiedo cosa sarebbe accaduto se il centrodestra avesse candidato un già condannato come lo era lei. Così come, vedendo l’inchiesta di Fanpage sui giovani di Fratelli d’Italia, mi chiedo cosa si scoprirebbe se si approfondissero le frequentazioni di Ilaria Salis».
In quella foto mancava Aboubakar Soumahoro?
«Dev’essere molto risentito con Nicola Fratoianni perché avrebbe dovuto candidare sua moglie o sua suocera. Le quali, per altro, non sono ancora state condannate».
Un altro neo-europarlamentare, il generale Roberto Vannacci, pensa di fondare un suo partito a destra della Lega.
«Sospendo il giudizio, ma se potessi dargli un consiglio, gli suggerirei di evitare certe esternazioni, tipo il video con la x della Decima Mas, che possono essere strumentalizzate dalla sinistra. Vannacci è una persona strutturata, si capisce da come replica alle tante obiezioni, e io stesso amo la beffa, ma la provocazione è già stata candidarlo e farlo eleggere. Continuando su questa linea si rischia di trasformarsi in macchiette».
A Piero Fassino concederesti il patteggiamento del furto del profumo con 500 euro?
«Certamente, perché qui non si parla della bravata di un ragazzotto, ma di un problema serio. Non posso pensare che Fassino, un parlamentare, faccia un furto per risparmiare qualche centinaio di euro. Non voglio parlare di cleptomania perché non sono un medico, ma fossi stato il titolare del duty free avrei evitato la denuncia. Il cazzeggio ovviamente è lecito, ma le conclusioni sul caso sono altre».
Altra foto storica: l’attentato a Donald Trump, vivo per una questione di millimetri.
«È un fatto che crea molti dubbi, visto che i cecchini appostati sul tetto erano stati avvertiti. Poteva essere il colpo definitivo su Joe Biden. Per me la sua uscita di scena è una botta micidiale pari a quella di Gigino DI Maio».
Perdi un filone fecondo?
«Eccome. Non che Trump non offra spunti, anzi. Ma com’è che l’America non riesce a produrre due candidati migliori di questi?».
Il ritiro di Biden ha oscurato l’attentato a Trump.
«Subito dopo l’endorsement di Elon Musk che ha promesso 45 milioni di dollari al mese a Trump, Biden ha cominciato a cercare qualcuno che gli sparasse a un orecchio. Adesso non è facile per The Donald rimodulare la campagna su Kamala Harris».
Qual è il segreto di Temptation islands, evento tv dell’estate?
«Premesso che non l’ho mai visto…».
Manco io.
«Nessuno sfugge ai confronti fra innamorati, gelosie, tradimenti, sospetti… A tutti i livelli di censo e istruzione le problematiche sentimentali sono quanto di più democratico ci sia al mondo».
Parlando ancora di tv cosa pensi di Matteo Salvini e Giorgia Meloni che litigano sui vertici Rai?
«Le bizze nel centrodestra ci sono sempre state. Salvini lo conosciamo, quando è al governo fa un po’ l’uomo delle istituzioni e un po’ il leader d’opposizione. Lo si vede anche sull’Ucraina. Però credo che alla fine prevalga il buon senso delle scelte condivise che è uno dei punti di forza del centrodestra».
L’evento globale invece sono le Olimpiadi. Per quale foto verranno ricordate? Sergio Mattarella e gli altri capi di Stato lasciati sotto l’acqua?
«Quella è stata una disattenzione grave».
L’avesse fatto Orbán?
«Sarebbe stata una mancanza di rispetto voluta, invece si è stemperato tutto con un sorriso. Forse il Trattato del Quirinale dev’essere perfezionato perché troppo al ribasso per l’Italia, al posto dell’ombrello prevedeva ’a pellicola pe conservà ’a lasagna».
La parodia dell’Ultima cena?
«Non mi sono scandalizzato tanto perché anch’io sono un iconoclasta cui piace giocare con le immagini sacre. Piuttosto, mi faceva rabbia che negassero fosse la rappresentazione dell’opera leonardesca. Ricordo anni fa quando una freccia accese il braciere a Barcellona e la grandezza di altre inaugurazioni delle Olimpiadi. Mi vien da dire Olimpiadi, ma forse il Papa parlerebbe di frociadi…».
E se la parodia fosse stata di un soggetto islamico?
«Memori di Charlie Hebdo hanno evitato d’incorrere in altri problemi».
Gli atleti che vomitano dopo aver nuotato nella Senna?
«È l’ideologia che provoca il vomito. Al di là della sindaco che ci ha fatto il bagno e adesso si starà cagando sotto in tutti i sensi, e dello stesso Macron che aveva promesso di farlo ma se n’è guardato bene, è evidente che la Senna non era adatta. Il mio Macron si rammarica: “Se Parigi avesse lu mere gli atleti non li avremmo fatti ammalere”. Per quanto scenografica basta guardare il colore dell’acqua per dire che la Senna non è bandiera blu».
La partecipazione al torneo di boxe femminile dell’atleta intersessuale algerina Imane Khelif?
«Altra questione delicata. Certo, il fatto che siano andate in finale due atlete dal sesso controverso come lei e Li Yu Ting forse fa capire che c’è un problema da affrontare».
Un problema enfatizzato dalla destra italiana e dalla guerra ibrida di Putin contro Macron?
«Anche da sinistra si è ricordato che Khelif era stata esclusa ai Mondiali 2023 e poi ammessa alle Olimpiadi. Poi, sarà pure nata donna, ma se i cromosomi ti danno una spinta in più… L’ha detto anche Anna Paola Concia che è una competizione non equa. Parliamo solo del fatto agonistico, non è un discorso sociale o di costume. Riconoscere che c’è qualcosa di strano non vuol dire essere omofobici, transfobici o intersessuofobici. È solo la difesa dell’equità nello sport».
Un altro momento topico è stato il pianto di Novak Djokovic dopo la conquista della medaglia d’oro?
«È un’immagine su cui non ho ironizzato perché vedere un campione che ha vinto tutto emozionarsi in quel modo ha commosso anche me. Dà il segno di ciò che rappresentano le Olimpiadi per un atleta. Djokovic è stato oggetto di tante critiche, perciò sono contento per lui».
Thomas Ceccon che dorme sul prato del parco?
«Indica la grande disorganizzazione di questo evento. Coloro che si sono lamentati del Villaggio olimpico, per l’assenza dell’aria condizionata, per i letti di cartone e il cibo scadente, persino dei vermi nel pesce, non sono camerati influenzati dalla fasciosfera, come si è letto. Sbandierano l’ecosostenibilità e la scelta green e poi fanno fare le gare di nuoto nel fiume inquinato?».
Quest’estate abbiamo imparato intersessuale e fasciosfera, qualche mese fa avevamo imparato eco-ansia, poi prima del voto che poteva premiare Marine Le Pen tra gli intellò francesi è spuntata la demo-ansia. Il vocabolario si arricchisce?
«Ormai ogni questione viene ideologizzata e si cerca di mettere un’etichetta a tutto, al punto da coniare un lessico militante. Aridatece petaloso».

 

La Verità, 10 agosto 2024

«Se il Pd ignora i doveri i diritti restano un’illusione»

Luciano Violante è un uomo delle istituzioni, uno studioso, un ex magistrato capace di ascolto e di confronto. Esemplare raro nello scenario politico contemporaneo. In La democrazia non è gratis – I costi per restare liberi (Marsilio) l’ex presidente della Camera si chiede se «con tutto il suo carico di storia, di cultura, di innovazione per il benessere dell’umanità, l’Occidente deve rassegnarsi alla sconfitta o alla marginalità?».

Presidente Luciano Violante, nel suo libro esprime preoccupazione per le sorti della democrazia a livello mondiale: che cosa la mette in pericolo in modo particolare?

«Il fatto che non ce ne stiamo curando. La democrazia non è un bene che si trova in natura. È sempre costata lotte, guerre, morti e lutti. Va costruita e difesa giorno per giorno, altrimenti deperisce. Oggi in Occidente non lo stiamo facendo».

La democrazia è lo stato perfetto, l’Eden della convivenza politica?

«È un processo continuo basato sul rispetto tra le persone, tra le persone e le istituzioni, tra le persone e le cose. Mira alla non discriminazione, riconoscendo i bisogni e i meriti».

La democrazia ha anche dei limiti, per esempio la lentezza delle decisioni?

«Certamente, perché prevede il confronto e il confronto rallenta, ma consente di giungere a decisioni utili alla comunità. Senza confronto si decide prima, ma molto spesso peggio. È necessario cambiare le vecchie procedure, e farlo rapidamente. Le soluzioni esistono».

Quando si parla di democrazia non è il caso di aggiungere l’aggettivo reale come si faceva per il socialismo?

«Parlerei  di democrazia effettiva più che reale. La democrazia effettiva è un bilanciamento tra rappresentanza e decisione. Anni fa fui criticato quando parlai di democrazia decidente, ma trovo che sia l’espressione giusta perché indica una democrazia capace di decidere e che non si limita a rappresentare».

T. S. Eliot diceva che spesso gli uomini «sognano sistemi così perfetti da non aver più bisogno di essere buoni». È un’espressione che somiglia a quella da lei citata del presidente americano James Madison: «Pensare che una forma di governo garantisca la libertà o la felicità senza alcuna virtù nella popolazione, è una chimera».

«Innanzitutto, la democrazia si considera imperfetta, mentre  le tirannie si  presumono perfette. Detto questo, la democrazia è un processo di continuo movimento, un andare avanti… anche se a volte si va indietro. Tornando a Madison, essa ha bisogno non solo di classi dirigenti democratiche, ma pure di cittadini democratici, che rispettino i propri doveri».

A proposito delle tirannie elettive lei segnala i pericoli di quelle capeggiate da Vladimir Putin, Viktor Orbán e Recep Tayyp Erdogan, non sarebbe corretto parlare al plurale anche delle democrazie, così diverse in Germania, in Francia o in Gran Bretagna?

«Infatti. Le tirannie sono tutte uguali, le democrazie sono tutte diverse».

La democrazia decidente è un compromesso tra le tirannie elettive e le democrazie solo rappresentative?

«Non è un compromesso, ma è la vera democrazia. È un sistema  che ascolta al fine di decidere; non è un sistema che ascolta al fine di ascoltare».

L’obiettivo è governare.

«E quindi decidere. Che vuol dire scegliere, ovvero sacrificare alcuni interessi e favorirne altri».

Il presidenzialismo o un forte cancellierato potrebbero essere la soluzione?

«Il presidenzialismo, nelle sue varie forme, era un buon sistema fino a vent’anni fa, quando le società erano pacificate e non avevano bisogno di arbitri. Questo perché il presidenzialismo è un sistema duro: chi vince governa, chi perde va a casa. Oggi probabilmente non è più adeguato. Pensi al sistema americano dove alle camere si dovrebbe realizzare il bilanciamento dei poteri rispetto al Presidente. Invece  al Senato si istruisce il processo a Donald Trump mentre alla Camera la maggioranza repubblicana vuole processare Joe Biden o suo figlio. In Francia il presidente Emmanuel Macron ha tutta la società contro. In Brasile abbiamo avuto il caso di Jair Bolsonaro, un tipico esempio di presidenzialismo populista. Trovo che il cancellierato su modello tedesco sarebbe il sistema migliore anche per l’Italia».

In Germania c’è una legge elettorale proporzionale, dovremmo recuperarla anche noi?

«Si può anche fare, non c’è un sistema migliore degli altri. Il proporzionale favorisce il rapporto tra i partiti e la società e nella nostra attuale situazione potrebbe essere utile. Con partiti forti è più efficace il maggioritario, con partiti deboli quello proporzionale».

Lei indica l’assalto dei trumpiani a Capitol Hill e la rivolta dei seguaci di Bolsonaro come esempi di azioni antidemocratiche. Sono episodi estemporanei o vere minacce per la democrazia?

«Sono manifestazioni proprie delle  società non pacificate».

Quindi episodi contingenti?

«Bisogna attendere. Non sappiamo che effetti avrà sulla società americana il processo a Trump. Non sappiamo quali conseguenze avrà la ribellione a Macron, il cui governo ha superato la mozione di sfiducia per soli nove voti».

I vari populismi e l’affermarsi di partiti e movimenti sovranisti sono una reazione alla presunzione di superiorità delle élites?

«Distinguerei tra sovranismo e populismo. Il populismo individua problemi giusti offrendo soluzioni sbagliate. Mentre il sovranismo è la tendenza a rendere prioritari fattori nazionalisti. Così facendo degenera spesso nell’autoritarismo».

Le élites hanno responsabilità in queste evoluzioni?

«Le élites sono necessarie. L’importante è che non siano elitiste, cioè che vivano il loro essere élites come una responsabilità e non come un privilegio».

Non c’è un po’ di ingenuità in questa fiducia? Parafrasando Giulio Andreotti, chi ha il potere se lo tiene stretto.

«Le élite ci sono dappertutto, nella politica, nel giornalismo, nella ricerca scientifica… Non necessariamente esercitano un hard power. Spesso si tratta di soft power, di capacità d’indirizzo e di orientamento. L’importante è che le élites non si sentano tali e quindi non si mettano al vertice di una scala gerarchica. A quel punto sono solo oligarchie».

Resto scettico guardando a ciò che accade nel nostro Paese.

«Dovremmo saper distinguere tra élites e oligarchie».

Quanto è sottile la linea di separazione?

«Trovo che ci sia un confine solido: l’élite persuade, l’oligarchia comanda».

Sempre in linea teorica.

«La teoria è indispensabile per la pratica».

Le spinte populiste sono state prima un segnale e ora una reazione all’illusione della globalizzazione a guida occidentale?

«L’assalto alla Camera dei militanti trumpiani e l’invito dei “bolsonari” all’insurrezione delle forze armate in Brasile sono la conseguenza della mancata cura della democrazia. Di diversa natura è il tema della presunzione dell’Occidente di guidare la globalizzazione. È in corso la sostituzione della globalizzazione tradizionale, fondata sui mercati, con una nuova globalizzazione fondata sull’alta tecnologia».

La chiama «reintermediazione». Quanto è temibile per la democrazia il potere degli algoritmi e dei grandi marchi digitali come Apple, Microsoft, Amazon?

«Le regole europee cercano di regolare  questi oligopoli».

Per l’esercizio della democrazia è da considerare più subdolo il capitalismo o il totalitarismo della sorveglianza?

«La sorveglianza è di per sé un rischio. Ma l’esperienza ci dice che c’è più libertà nei paesi  con economie di carattere capitalistico, che in Cina o in Russia».

Nei sistemi occidentali la qualità della democrazia andrebbe correlata anche con la composizione del potere che controlla i media?

«La libertà dei mezzi di comunicazione è essenziale per il funzionamento della democrazia. Non a caso i primi poteri che i sistemi autoritari attaccano sono quello dei media e della magistratura, ovvero i poteri di controllo».

Come giudica il fatto che il rapporto di Worlds of Journalism Study (Columbia University Press, 2019) ha evidenziato che l’Italia ha i giornalisti più orientati a sinistra di tutta Europa?

«Segno che  la sinistra ha fatto un buon lavoro».

Lei cita l’instabilità dei governi italiani come fattore di debolezza democratica. Cosa si può dire del fatto che per un decennio, salvo l’anno del Conte 1, il Partito democratico ha sempre governato pur avendo perso le elezioni?

«Evidentemente è un partito capace di costruire le alleanze. Non dico che governare senza vincere le elezioni sia un fatto positivo, ma nelle democrazie parlamentari può accadere».

In questo caso élite e gruppo di potere coincidono?

«A volte coincidono, ma non sempre; le élites tendono a persuadere, non a prevaricare».

La persuasione si riscontra nel voto.

«Per governare, oltre al voto, serve la capacità di costruire alleanze».

Qual è il suo pensiero sui primi passi della neo segretaria Elly Schlein?

«È ancora presto per giudicare. Sta revisionando la macchina, non ha ancora cominciato a guidarla».

Però la segreteria l’ha composta.

«Quella è la macchina».

 E com’è?

«Le macchine si giudicano quando corrono, non quando stanno ferme».

Con Elly Schlein la trasformazione del vecchio Pci in partito radicale di massa profetizzata da Augusto Del Noce sarà più rapida?

«Non ho mai condiviso quella definizione anche perché a volte il Pd è stato un partito moderato di massa».

Con Matteo Renzi, per esempio, ma poi ha ripreso la direzione dei diritti civili: ora potrebbe accelerare?

«Un grande partito deve parlare anche di doveri senza i quali non c’è comunità. Se non bilanciati dai doveri, i diritti diventano un’illusione».

Identificare i desideri con i diritti può essere una minaccia alla corretta gestione del bene comune?

«I desideri interessano i singoli; i diritti investono la comunità e le sue istituzioni. Perciò i desideri non possono diventare automaticamente diritti».

Che sorte avranno a suo avviso i cattolici in questo Pd?

«Non sono cattolico, ma penso che  la cultura cattolica democratica è essenziale perché ci sia il Pd; altrimenti ci sarà un partito diverso».

La priorità che Elly Schlein sta dando ai diritti civili è la strada giusta per «riconnettersi con chi non ce la fa» come auspicò Enrico Letta subito dopo lo spoglio elettorale?

«In alcuni casi, come le madri che devono crescere i figli in carcere, la risposta è positiva. Ma le comunità che chiedono diritti sociali sono più ampie e più profonde rispetto a quelle che chiedono più diritti individuali. Io penso alla centralità della formazione delle giovani generazioni per una politica capace di rispondere ai bisogni e valorizzare i meriti».

 

 La Verità, 14 aprile 2023 

 

 

«La probabilità di guerra nucleare supera il 50%»

Un eretico: si definisce così Nicola Piepoli. Sondaggista creativo, imprenditore dinamico, fondatore di ben due istituti di ricerche, il Cirm prima e, nel 2003, quello che porta il suo nome e tuttora presiede, Piepoli è soprattutto uno che custodisce le lezioni della storia. Dobbiamo parlare della guerra in Ucraina? Per prima cosa elenca i suoi maestri: «Il francese Gaston Bouthoul, l’inventore della polemologia; Franco Fornari, insigne psicologo e autore di Dissacrazione della guerra. Dal pacifismo alla scienza dei conflitti; Luigi Pagliarani, anche lui psicologo, convinto che l’unico modo per combattere la guerra è innamorarsi continuamente della vita».

Lei è innamorato?

«Io sono tra i pochi che ha un rifugio antiatomico».

Prego?

«L’ho comprato in Svizzera dove ho un appartamento di 64 metri quadrati dotato di rifugio antiatomico».

Pensa che le servirà?

«Potrebbe. La possibilità di una guerra nucleare è superiore al 50%».

Non una bella prospettiva.

«Tre giorni fa Vladimir Putin ha dichiarato che di fronte a sanzioni eccessive ricorrerà alle armi che possiede. Siamo in una guerra guerreggiata. Credo che a Mariupol si arrenderanno, ma questo paradossalmente rischierà di coalizzare ulteriormente i Paesi occidentali».

Perciò intravede la guerra nucleare?

«Non penso che Putin possa vincere con armi normali. La Russia ha una superficie doppia di quella degli Stati Uniti e un Pil come quello della Spagna, perciò non può combattere a lungo. Se non si vuole precipitare nella guerra nucleare è necessario diminuire l’aggressività del nemico, come dicevano Bouthoul e Fornari».

Come si fa?

«Studiamo la Guerra fredda. Ottobre 1962: John Fitzgerald Kennedy negozia con Nikita Kruscev il disarmo dei missili della Nato in Turchia e ottiene lo smantellamento di quelli sovietici a Cuba. Scoppia la pace, cioè la Guerra fredda. Successivamente vinta dall’America quando crolla il Muro di Berlino e l’Urss si scioglie».

Il nemico principale è la guerra o Putin?

«La guerra porta sempre distruzione. Perciò la vince chi non la fa. Tra il 1989 e il 1992 l’America ha vinto senza fare un morto. Perché la Russia rinasca servono quattro o cinque generazioni. Se Putin vuole anticipare la rivincita e l’Occidente lo vuole soffocare con le sanzioni, potrebbe ricorrere alle armi nucleari. Credo si debba lenire il suo orgoglio. Concedergli qualcosa, trattarlo da cristiano non da mostro».

La bomba atomica è fatta apposta per non essere usata?

«A dieci anni ho visto Hiroshima. I documenti fotografici di quella sciagura mi hanno terrorizzato per tutta la vita. La bomba atomica è fatta per non essere usata fino a quando non c’è qualcuno che osa usarla. Dipende dalla psicologia del capo che la detiene. E che magari si sente in pericolo».

È vero che in Italia cresce la preoccupazione per le conseguenze economiche del conflitto?

«Sì, ma resta marginale. Nella mente della gente c’è ancora la fine del Covid. Il sentimento prevalente assomiglia a quello del Dopoguerra. La gente vuole ricominciare a vivere, andare a cena, lavorare, viaggiare, pensare al futuro. La guerra in Ucraina è in secondo piano rispetto all’euforia di non avere il Covid e della fine delle restrizioni. Questo sentimento fa aumentare i consumi anche se l’inflazione ci frena».

Gli italiani sono egoisti perché poco interessati alle sorti della popolazione ucraina?

«La risposta è sì, ciascuno s’interessa di sé stesso. Adam Smith diceva che l’economia si basa sull’egoismo, non sull’altruismo. Il panettiere pensa ai suoi clienti non al futuro del Paese».

Il premier Mario Draghi ha posto l’alternativa pace o aria condizionata: quella espressione ha spostato il sentimento della popolazione riguardo alla guerra?

«No, della guerra all’Ucraina si interessano soprattutto i media».

E la gente?

«Se ne interessa meno perché è lontana».

Quella frase ha influito sulla popolarità del premier?

«È stata ininfluente. Draghi rimane attorno a un indice di 60, dietro Mattarella che è a 70. Nel febbraio 2021 anche Draghi era a 70, poi è sceso fino a 52 a maggio, risalendo oltre 60 a fine ottobre e fino a tutto gennaio 2022. Adesso si è assestato sul 60. Crollerebbe se ci facesse entrare in guerra».

Che consenso hanno le sanzioni alla Russia?

«Non ho rilevamenti. Dal mio punto di vista sono una stupidaggine perché danneggiano più noi della Russia».

Perché non abbiamo risorse alternative?

«Perché è un errore rompere rapporti internazionali che producono ricchezza. Inoltre, le sanzioni mostrano che noi vogliamo la guerra e hanno fatto imbufalire Putin, provocando il contrario dell’esito sperato».

Si percepiscono come un boomerang sulla nostra economia?

«La gente non pensa a questo, ma a godersi la vita. Claudio, il patrigno di Nerone, non è stato il più intelligente degli imperatori, ma durante il suo regno non si sono combattute guerre. Il simbolo del potere non è fare la guerra, ma non farla. Ai senatori Claudio disse che per avere il popolo devoto bisogna dare panem et circenses, cibo e giochi. La gente s’interessa dei successi dell’Inter o della Juventus. Noi organizziamo le Olimpiadi di Cortina».

È vero che decresce la preoccupazione per l’allargamento del conflitto? Se non è deflagrato in due mesi…

«Bisognerebbe studiare la mente di Putin. Nel 2014 quando ha preso manu militari la Crimea, molti prevedevano una rapido ritiro. Io ero sicuro del contrario perché l’avevo studiato. Putin ragiona in maniera paranoide».

Cioè?

«Vive la gente come nemici. Non è un merito né un demerito. Una mente paranoide ce l’ha il 25% degli italiani».

Nel 2014 Henry Kissinger scriveva che l’Ucraina appartiene all’anima russa e non può essere un avamposto dell’Occidente o di Mosca, ma dev’essere un ponte tra loro.

«Ragionando psicanaliticamente, bisogna evitare di toccare le corde che provocano una guerra. L’ideale è che Russia e Ucraina si combattano tra loro e gli altri stiano a guardare. Eviterei l’ampliamento e il nostro coinvolgimento nel conflitto».

Da chi dipende l’ampliamento in atto?

«Dalla Russia e dall’America. Joe Biden è un creatore di guerra, parla creando il nemico non l’amico. Da eretico dico che Donald Trump mostra di capire di più di polemologia. Lodare il nemico diminuisce la conflittualità, fa calare l’animus».

Il minor timore del peggioramento della guerra è suffragato anche dal contrasto all’invio delle armi all’Ucraina?

«Sono cose diverse. Gli italiani sono pacifisti, lo erano anche nel 1914 e nel 1940. E lo sono anche adesso, abbiamo il Papa tra noi. E il Papa influenza».

Anche se non è molto seguito?

«Io non sono un’anima religiosa, un cattolico praticante, sebbene sia battezzato e mi sia sposato in chiesa. Eppure, ieri mattina sono andato in chiesa a pregare Dio che ci aiuti in questo momento particolare».

Che cosa pensano gli italiani delle alleanze internazionali?

«La maggioranza non se ne interessa, viviamo nel nostro Paese. Se chiede alle persone per strada la storia della Russia molte si domandano dov’è. Quanti hanno letto Guerra e pace? Forse duecentomila persone, compresi gli studenti che lo leggono per forza».

Gli italiani sono pacifisti, ma i media non rispecchiano questa tendenza. Com’è la fiducia nel sistema dell’informazione?

«È sempre la stessa. La gente segue distrattamente l’informazione politica».

Il distacco tra popolazione ed élite è in aumento o in calo?

«È lo stesso che c’era già nel 1914 e nel 1939. In un saggio intitolato L’opinione degli italiani al tempo del fascismo la storica Simona Colarizi ha rivelato che Mussolini aveva creato un ufficio statistico servendosi di 84 responsabili, uno per provincia, che dovevano informare quotidianamente Palazzo Venezia sul sentimento dell’opinione pubblica. Da questa ricerca risulta che nel 1938-’39 gli italiani erano contrari alla guerra. Divennero favorevoli solo per un breve periodo quando sembrava fosse facile vincerla, in concomitanza della presa di Parigi da parte dei nazisti. Poi tornarono pacifisti».

Perché la serie tv con Volodymyr Zelensky nella parte di un professore che diventa presidente trasmessa da La7 in Italia è stata un flop e altrove un successo?

«Perché sono più saggi i telespettatori italiani di quelli degli altri Paesi. Non può essere capo di Stato uno che è stato un personaggio televisivo. Il diritto internazionale dice che un capo dello Stato è responsabile delle morti nel suo territorio. Ovviamente, lo stesso vale anche per Putin. Sa qual è la verità?».

Me la dica lei.

«Sia Putin che Zelensky sono due criminali di guerra perché hanno violato il diritto internazionale e fatto uccidere i loro sudditi. Ne dovranno rispondere, come accadde a Norimberga per i gerarchi nazisti. Hitler si sottrasse al processo suicidandosi. Il diritto vale anche in guerra: né Putin né Zelensky l’hanno dichiarata».

Putin non l’ha fatto perché l’invasione dell’Ucraina è la prosecuzione della guerra civile nel Donbass?

«Ed è un altro dei motivi per cui non sono ottimista».

L’Occidente ha la tendenza a colpevolizzarsi: in questa vicenda è innocente?

«George Bush senior ha violato i patti. Dopo la caduta del Muro aveva promesso a Michail Gorbaciov che non gli avrebbe creato grane in quella zona. Invece, sono entrati un minuto dopo».

Dissolta l’Urss e sciolto il Patto di Varsavia bisognava sciogliere anche la Nato?

«Oppure invitare la Russia e i Paesi dell’ex Urss a entrare nella Nato? Con un presidente come Trump una guerra come questa non sarebbe deflagrata».

Invece si vuole ancora esportare la democrazia.

«Questo è il modo in cui la vendiamo. Che cosa se ne faccia la Cina confuciana della democrazia mi riesce difficile capire. Credo si dovrebbero imparare ad accettare le rispettive diversità».

Dopo i missili su Kiev durante la visita del segretario dell’Onu Antonio Guterres gli spazi per la trattativa si sono ulteriormente ridotti.

«Si parla di de-escalation, ma accade il contrario. Putin e Biden agiscono per alimentare la guerra non per fermarla».

Ormai è uno scontro tra super potenze sulla pelle degli Ucraini.

«Al quale collabora Zelensky, sacrificando il suo popolo. Ai vicini di casa di un leader paranoide è consigliata prudenza. Henri Guisan era il comandante dell’esercito svizzero durante la Seconda guerra mondiale. La Svizzera: tra Germania, Italia e Francia. Gli hanno eretto un monumento equestre in bronzo con questa dedica: il generale che non ha mai combattuto. Una statua così non l’avranno né Zelensky né Putin».

 

La Verità, 30 aprile 2022