«Ecco come funziona la mafia accademica»

È una ferita ancora aperta quella che Ferdinando Camon ha deciso di scoprire in Scrivere è più di vivere, il nuovo libro appena uscito da Guanda. Il capitolo che s’intitola L’urlo della mafia accademica è una denuncia in piena regola, nello stile del racconto autobiografico. Ma, sebbene siano trascorsi 45 anni dal fatto che ha deviato il corso della sua vita, la cicatrice è ancora dolente. Con La Verità, l’autore di Un altare per la madre ha scelto di circostanziare con nomi e cognomi tutta la storia, che rappresenta in modo clamoroso il sistema di assegnazione delle cattedre pilotate verso mogli, compagne, parenti. Un rapido sondaggio presso i suoi lettori su Facebook ha decretato a grandissima maggioranza che queste denunce vanno fatte.

Il libro inizia con un prologo significativo: lei, figlio di contadini, s’iscrive all’università, ma non ha i soldi per le tasse.

«Faccio il giro dei parenti, raccolgo il denaro e pago. Ma, nobilmente, l’università mi restituisce la somma perché il mio voto della maturità è alto. Resto ammirato. L’università mi esonera dalle tasse dei primi tre anni, non per il quarto».

Motivo?

«Dicono che non ho sostenuto l’esame di letteratura italiana. Quando mi presento in segreteria con il libretto, la segretaria capisce che il professore si è dimenticato di firmare il registro dei verbali e gli manda un sollecito con la firma del rettore».

A quel punto?

«Il professore invia a me una lettera minacciosa, dicendo che ho osato rimproverarlo: “Ci pensi per la sua vita e per il suo avvenire”. Un avvertimento che non capisco».

Chi era questo professore?

«Vittore Branca, un barone».

Una potenza. Dopo cosa accade?

«L’inevitabile cambio del docente di laurea innesca tutta la catena».

Ripercorriamola.

«La facoltà di lettere bandisce un incarico di letteratura italiana e io presento domanda. Siamo in due, ma io risulto primo perché l’altro, avendo un altro incarico, a norma di legge deve finire in coda».

Invece?

«La facoltà assegna l’incarico a lui: ero stupefatto».

Immagino.

«Il Senato accademico dichiara “illegittima” la delibera. La facoltà si riunisce nuovamente, ribadisce la sua scelta e il Senato la respinge per la seconda volta. Il rettore Luciano Merigliano mi tranquillizza. Ma la facoltà conferma per la terza volta la decisione e il Senato la invia al ministero della Pubblica istruzione. Mi presento a Roma in una sorta di ufficio reclami per i concorrenti universitari».

Situazione kafkiana…

«In una grande sala siamo un centinaio, forse di più. Quando tocca a me la funzionaria estrae da un cassetto la mia pratica. Io ho in mano la stessa delibera e vedo la sua capovolta, ma con una riga in più. Dico: “La sua fotocopia è falsa perché ha una riga in più”. Avevano fatto un altro originale. Mi aspettavo che la funzionaria riconoscesse il falso. Invece, ordina a tutti di uscire dalla sala, non vuole testimoni, chiude la fotocopia nel cassetto e mi intima di andarmene: “Non ho niente da dirle”».

Morale?

«Il ministero proteggeva la mafia».

Nome del ministro?

«Franco Maria Malfatti, un habitué della Pubblica istruzione».

Prova a contattarlo?

«Gli scrivo. Mi risponde cortese, ma sgusciante».

Si rassegna?

«No, intanto inizia l’operazione di allontanamento. Vogliono dirottarmi a Bologna».

Come?

«Preannunciato da una collega di francese, anche lei in attesa d’incarico, che avrà, a Padova, il preside del Dams, Benedetto Marzullo, mi convoca a un colloquio. La sua astuzia è creare un incarico di Letteratura di massa da affiancare a Comunicazioni di massa a condizione che io ritiri il ricorso al ministero».

Lei promette di farlo, ma…

«Non lo faccio e, appena se ne accorgono, smettono di pagarmi. Continuo a insegnare perché non voglio abbandonare la cinquantina di studenti che mi segue. Assisto agli esami il docente di Comunicazioni di massa, Martin Krampen, un tedesco che non sa esprimersi in italiano chiamato da Umberto Eco. Tutto gratis».

È una doppia sconfitta: né Padova né Bologna.

«Un amico, Giorgio Tinazzi, docente di Storia del cinema, mi convince a portare l’università a processo. Scelgo come legale il presidente dell’Associazione degli avvocati di Padova. Quando arriviamo al Tar di Venezia, competente in materia di lavoro, il presidente della corte osserva: “Non avete ancora capito che la facoltà non lo vuole?”».

Sensazioni a parte, qual è la sentenza?

«Una settimana dopo l’udienza mi chiama l’avvocato: “Lei non mi deve nulla perché il Tar ha condannato la facoltà di lettere a pagare tutte le spese processuali comprese le mie, ma non ha cambiato la delibera”».

Fine della storia?

«Sì. Ma qualche tempo dopo, quando Pier Vincenzo Mengaldo, importante italianista e critico letterario, si fa nominare commissario d’esame per assegnare una cattedra al fratello della sua compagna, mi lamento sul giornale locale indicando il conflitto d’interessi. Mi risponde sullo stesso giornale il preside di Lettere, Oddone Longo, sostenendo che un professore che assegna una cattedra al fratello della sua compagna è una faccenda privata».

Diceva la stessa cosa che diceva lei senza vederci il reato?

«Non capiva che il concorso per una cattedra universitaria è un atto pubblico, regolato per legge, e non un fatto privato. La stessa circostanza che ha visto protagonista Alberto Asor Rosa».

Anche lui?

«Da presidente di commissione ha assegnato la cattedra alla sua compagna. Asor Rosa è certamente persona scrupolosa e attenta, come lo è Mengaldo. Ma nelle nostre università vige il metodo della cooptazione. Il professore, il ricercatore non vale in sé, ma in quanto accolto nel cerchio dei potenti».

È una forma di elezione, di elevazione?

«È una sorta di ordinazione sacramentale. Un’affiliazione che conta più delle regole della legge. Non vige il criterio della produzione scientifica – sono andato in cattedra perché ho scritto tre opere su Giovanni Verga – ma mi ha messo in cattedra il professore tal dei tali. Cooptandolo, il potente consacra un sottoposto».

È un sistema tuttora attivo?

«In tutte le facoltà. La mafia accademica è più estesa, coinvolgente e insinuante di quanto immaginiamo».

Non lo vedono come un sistema mafioso?

«Per il mafioso la mafia è un’istituzione positiva, che fa il bene».

Le raccomandazioni ci sono sempre state.

«È qualcosa di più. Il potere del protettore si capisce dal valore del protetto. È un potere che cresce e si perpetua su sé stesso. Poi ci sono le compagne: in molti casi il matrimonio arriva dopo che si è trovata la cattedra per lei».

Perché ha impiegato così tanto prima di raccontare questa storia?

«Mi avevano restituito le tasse, avevo una venerazione per l’università. E poi, un po’ alla volta, mi è parso si fossero pentiti».

Che cosa glielo fa dire?

«Qualche anno dopo, nel 1978, pubblico Un altare per la madre. Del libro si parla molto, è rapidamente tradotto in una decina di lingue, concorro allo Strega. Mi chiama Cesare De Michelis e mi trasmette un’ambasciata che suona così: se vado a casa di Vittore Branca a Venezia, mi consegna la sua scheda con il voto allo Strega. “Ringrazialo, ma non vado a casa di nessuno a raccogliere le schede dei votanti”. Passano altri anni e Franco Sartori, il professore di storia greca con il quale mi sono laureato, mi manda dei complimenti e chiede di venire a cena con la moglie. Ha da poco avuto un infarto e, negli ultimi suoi anni, vuole mostrarle che ha seminato bene. Il fatto mi commuove».

Altri segnali?

«Un anno fa la regione mi ha conferito il premio Leone del Veneto, l’anno prima era andato ad Andrea Zanzotto. Per consegnarmelo con tutti gli onori scelgono proprio la Sala dei Giganti della facoltà di lettere».

Più incrociato Branca?

«Una volta a un ricevimento siamo in piedi, con il piatto… Mi sfiora, mi urta, sembra inavvertitamente. Io faccio finta di nulla».

La sua è stata una battaglia donchisciottesca?

«Sì, l’ho capito dopo. Ma ho lottato, vincendo e perdendo. Il mio compito nella vita consisteva nel cercare di capire la realtà e di contribuire a migliorarla. Scrivendo».

 

La Verità 6 aprile 2019