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«I migranti cercano cibo e non vogliono integrarsi»

Per Ferdinando Camon la Francia è stata quasi una seconda patria. Fino a qualche anno fa la frequentava assiduamente. Andava a Parigi per presentare i suoi libri, sistematicamente tradotti dalla prestigiosa Gallimard. Il suo La malattia chiamata uomo è stato rappresentato per quattro anni in un teatro della Ville Lumière. Oggi che i lumi si spengono sotto la guerriglia delle terze e quarte generazioni d’immigrati, l’autore di Un altare per la madre, tutt’altro che un romantico dell’integrazione, è turbato dalle rivolte ma ribadisce la sua gratitudine al Paese che, forse, l’ha fatto più conoscere nel mondo: «Amo la Francia, la cultura, l’editoria, la vita francese. La considero una civiltà mondiale».

Il suo ultimo libro, Son tornate le volpi (Apogeo), indugia sulle difficoltà dell’integrazione e dei modelli multietnici perseguiti in Europa. Perché è scettico su questa possibilità?

«Le migrazioni che sono in atto in Italia e in Francia hanno un carattere più economico che culturale. Coloro che arrivano non vogliono integrarsi, vogliono mangiare, alimentarsi, avere cibo. Quindi, le integrazioni, in sostanza, non esistono».

Tutti i suoi libri sono stati tradotti in Francia dalla prestigiosa Gallimard, pensa che lo sarà anche questa raccolta di poesie?

«Lo vengo a sapere sempre dopo. La Gallimard è un’editrice molto stimata anche da me perché usa questo sistema: quando pensa di pubblicare un libro, francese o no, lo sottopone a tre consulenti, nessuno dei quali conosce gli altri due. Se tutti tre danno parere positivo viene pubblicato; se uno lo dà negativo e gli altri due positivo, lo prende in mano l’editore Antoine Gallimard, che ho avuto il piacere di conoscere».

Ma la pubblicazione?

«Non so se stiano esaminando questa raccolta. Finora hanno tradotto tutti i miei lavori, compreso Dal silenzio delle campagne, un’altra opera in versi. Sono molto grato a Gallimard non solo per le traduzioni puntuali, ma perché, nel mondo, un libro esiste quando viene pubblicato in Francia o in Gran Bretagna. In Canada o in Sudamerica mi leggono in francese, non accadrebbe lo stesso in italiano».

In una delle poesie intitolata Città multietnica tratteggia un capoluogo come potrebbe essere Padova, dove risiede, che si trasforma nelle 24 ore: «Di giorno la città è italiana… A mezzanotte si fa marocchina… Verso le 3 diventa albanese…».

«Con l’andare della notte escono persone che di giorno non si vedono».

Le varie etnie coesistono senza toccarsi?

«Sì, è così. Vedo davanti i supermercati sostare giovanotti accovacciati che non mi parlano e si parlano. Non so cosa facciano. La multietnicità ha a che fare con la separatezza».

Che cosa pensa della rivolta che si è scatenata in Francia a causa dell’uccisione di un ragazzo a Nanterre che non si è fermato a un posto di blocco della polizia?

«È una rivolta che stupisce il mondo, indizio chiaro di una non integrazione. Il problema è che la Francia chiama l’Algeria e la Tunisia “Territori d’oltremare” come fossero parte della nazione al di là del mare. In realtà non è così, algerini e tunisini non si sentono e non vogliono diventare francesi. Si considerano una società separata con proprie religioni, lingue e scuole. Dentro la società francese vogliono restare una società separata e ostile».

I francesi che spesso impartiscono lezioni sono ben disposti all’integrazione? Il loro modello di convivenza è fallito?

«La verità è che i francesi sentono queste persone come estranee. Penso che se dentro quell’auto ci fosse stata una persona bianca il poliziotto non avrebbe sparato. Ma io sono stato ufficiale degli alpini e so che se fai una professione che ti autorizza a portare una pistola 24 ore al giorno, il tuo cervello è catalizzato da quella pistola».

Questa volta gli scontri non si sono limitati alle banlieue, ma hanno invaso i centri delle grandi città.

«In Francia c’è il problema dei sobborghi, aree metropolitane abitate da immigrati che vivono per conto loro. In altri Paesi questa situazione non c’è e questo dà all’insurrezione francese un carattere nazionale, difficilmente comprensibile altrove».

Cosa pensa del fatto che in gran parte i rivoltosi siano ragazzi minorenni, figli e nipoti di immigrati?

«Indica la perpetuità di questa separatezza. Questi ragazzini quando saranno uomini saranno ancora separati e ostili».

Perché la sottoscrizione in favore della famiglia del poliziotto, ora in carcere, ha raccolto molti più fondi di quelli destinati alla famiglia della vittima?

«È un delitto molto grave. Gli immigrati hanno diritto di sentirsi traditi da uno Stato che li ammazza. Il poliziotto che ha sparato dev’essere giudicato. Ma bisognerebbe che la corte che lo processerà avesse componenti immigrati perché, diversamente, potrebbe giudicare in modo parziale».

L’entità della colletta a favore del poliziotto indica che i francesi non si fidano della giustizia?

«Significa che simpatizzano per il poliziotto e non per il migrante ammazzato».

Secondo alcuni autorevoli analisti le cause del malessere sono molteplici e non principalmente economiche e l’uccisione di Nahel è stata solo la miccia.

«Concorrono più cause. Fattori di natura economica, ma anche elementi religiosi, culturali e scolastici. Noi non abbiamo lo stesso problema in Italia, non sapremmo tollerarlo».

Che cosa pensa del fatto che il ministero degli Esteri algerino si è detto «preoccupato per la pace e la sicurezza di cui i nostri connazionali devono beneficiare nel Paese che li ospita»?

«In sostanza, chiedono che tra i giurati chiamati a decidere il destino dei poliziotti che hanno ucciso i migranti ci siano dei migranti. Questo perché Algeria o Tunisia non sono pezzi di Francia d’oltremare».

Prevale l’identità d’origine?

«Sì, non sono e non si considerano francesi, ma vogliono stare in Francia, dove mangiano, lavorano o studiano. E vogliono starci con tutta la loro civiltà, importata dal Paese madre. È questo il problema»

In Francia le diverse etnie vivono in enclave geograficamente separate più che da noi?

«Molto più che da noi. In Italia non abbiamo un problema analogo, gestito in modo analogo. Le banlieue erano posti dimenticati dallo Stato, dove entravano e vivevano i magrebini. Qualcosa di simile ho visto nei quartieri periferici di New York dove stanno i diseredati, i dimenticati. E dove, a una certa ora, è sconsigliato andare perché quei diseredati sono anche malavitosi. Quando esci dal metrò, sulle scale che portano in superficie sostano ragazzi che si alzano in piedi e ti impediscono di uscire ed entrare nei loro quartieri».

Però stavolta bersagli della guerriglia sono stati i municipi, i sindaci e i luoghi dei servizi ai cittadini.

«I rivoltosi vorrebbero che una porzione geografica del territorio fosse riservata a loro. Vivere nelle loro scuole, nelle loro moschee, nelle loro strutture. Questa non è integrazione, ma impianto di una civiltà separata e ostile in un altro territorio. Questo la Francia non lo vuole e da qui nasce lo scontro».

La Francia vuole assimilarli, ma loro non vogliono essere assimilati.

«Vogliono avere quello che hanno i francesi senza diventarlo».

Cosa pensa del fatto che Emmanuel Macron insiste ad accusare i social network?

«È un modo per dire che la protesta nasce dai social. Invece per me nasce dalla realtà».

Più che l’appartenenza all’islam la causa scatenante è l’identità geografica ed etnica delle seconde e terze generazioni?

«Io sono molto marxiano in questo. La causa scatenante è il malessere economico di questi sobborghi, la cui separatezza favorisce l’ostilità e la conflittualità».

Visitandoli durante le vacanze, questi ragazzi sono portati a idealizzare i Paesi di provenienza dei loro padri e nonni?

«Se ho capito bene, il periodo in cui avvengono gli scontri è al ritorno dalle vacanze perché il soggiorno nei Paesi d’origine aumenta la sensazione di diversità dal Paese ospitante».

Il loro legame con i Paesi d’origine è più fragile di quello dei padri e dei nonni, ma loro si sentono orgogliosamente algerini, marocchini e tunisini.

«Fino a qualche anno fa c’erano aree in cui le scuole erano regolate dalle norme del Paese d’origine, i programmi didattici arrivavano dal ministero dell’Istruzione dei Paesi d’origine».

Come giudica l’atto di bruciare pubblicamente il Corano come avvenuto qualche giorno fa in Svezia?

«È un atto incivile. Se entro in una moschea mi levo le scarpe perché rispetto la fede dei musulmani. Alcuni marine americani sono entrati con gli scarponi. Noi abbiamo un Dio incarnato, loro hanno un Dio incartato, che si è fatto carta. Il Corano è il loro Dio, non puoi sputacchiarlo o bruciarlo. Uno dei supplizi inflitti dai militari americani ai musulmani è pisciare sul Corano davanti a loro. Un islamico preferisce morire piuttosto che assistere a un atto del genere. Il loro Dio si è fatto carta, non puoi bruciarlo in segno di disprezzo. Non fa parte del consesso civile chi compie un gesto simile».

Che cosa mette al riparo l’Italia dalla possibilità che avvenga anche qui ciò che è accaduto in Francia?

«Il fatto che non abbiamo avuto un impero coloniale e quindi non abbiamo avuto lo stesso problema con Stati vasti numerosi e potenti che chiedono di proseguire questo rapporto. Con la Libia e la Somalia sono stati firmati dei trattati per i quali l’Italia manda insegnanti e docenti, per altro ben pagati, che seguono le norme ministeriali della Libia e della Somalia».

Con l’immigrazione clandestina in costante espansione non rischiamo niente?

«Certo che sì. I clandestini che arrivano oggi hanno bisogno di tutto e non possono dare nulla. Non vengono per una pacifica scelta o un capriccio. Vengono perché scelgono tra il vivere e il morie. Non sono favorevole all’immigrazione indistinta. È un problema che va affrontato, ma non lo affrontiamo. Va risolto, ma non lo risolviamo».

L’idea del ricollocamento in Europa sembra aver fallito, l’unica possibilità è realizzare accordi con i Paesi di provenienza?

«Nessuna parte dell’Europa vuole gli immigrati clandestini, anche perché non sanno fare niente. Ne ho parlato con un amico marocchino: se dai loro un martello e un chiodo ti chiedono che cosa sono. Se arrivassero sapendo fare i falegnami o i fabbri, mestieri che gli europei non fanno più, il problema sarebbe risolto. Ma non li sanno fare. C’è una fetta di umanità che sta male, il resto dell’umanità che sta meglio deve farsene carico. Usando la politica».

 

La Verità, 8 luglio 2023

Camon, lo straniero della globalizzazione

L’estate scorsa, quando andai a salutare Ferdinando Camon in un paesino della Val Zoldana dove ha una casa che guarda il Pelmo, lo trovai contrariato. Era il primo anno che non se la sentiva di guidare e, per andare a comprare i giornali, ricorreva all’autostop. Si metteva sul ciglio della strada e agitava la mano, gesto che i più scambiavano per un saluto, ma prima o poi qualcuno si fermava. Solo dopo qualche giorno di questa trafila si era rassegnato ai tempi della corriera. In questo buttarsi di slancio, quasi con la semplicità di un bambino anche a 87 anni, si origina molta della sua produzione letteraria. Per Camon il rapporto con la realtà è corpo a corpo, confronto senza mediazioni, non di rado conflittuale. Sempre, comunque, significativo. In quella casa di montagna l’autore padovano ritrova le condizioni propizie alla scrittura di cui il caldo della sua città lo priva. Poi c’è la sagoma del Pelmo: «Lei adesso mi vede vecchio e malandato», raccontò, «ma ho fatto il militare da ufficiale degli alpini su quella montagna. Per salire in vetta bisogna superare una cengia larga 35 centimetri, esposta su uno strapiombo. Si deve strisciare sulla pancia, perciò si chiama Passo del gatto. Si guarda la roccia che, fino a un paio d’anni fa, era tempestata di foto di ragazzini che non guardavano la parete ma l’abisso, e sono caduti. Passavi la cengia con il naso su quei volti…».

Da questo sguardo ravvicinato scaturisce il realismo di Camon, la sua tempra. Sia che si esprima in prosa, nella saggistica, sui giornali o in poesia. Come nell’ultimo Son tornate le volpi. Come muore la nostra civiltà, pubblicato dalla Apogeo di Paolo Spinello e Sandro Marchioro. È una raccolta di una cinquantina di liriche, altrettante visioni scabrose, spigoli della quotidianità, lacerazioni del vivere al tempo della globalizzazione. Lontano dalla poesia ombelicale, tuffata nelle grotte della psiche, come pure da quella civile che si auto-investe della riparazione del mondo, i versi di Camon guardano fuori, si misurano con le pareti scoscese senza risparmiarsi il rovello del dubbio. Anzi, accettando tutta la complessità di questa verifica, foriera di moti di ribellione all’indifferenza, alla rassegnazione… Autore pasoliniano, quale si definisce – Pasolini scrisse la prefazione a La vita eterna, il suo primo romanzo, scritto per vendicare il destino dei partigiani contadini delle sue terre, fatti uccidere dal capo delle SS, scoperto in Germania proprio grazie a quel libro, appena tradotto in tedesco – Camon ama intervenire sui fatti di cronaca, soprattutto là dove si palesa la contraddizione. Sempre con quel marchio dell’incontro-scontro, impresso nel carattere fin da bambino: «Sono figlio di contadini poveri. In casa, io e i miei tre fratelli, mio padre e mia madre camminavamo a piedi nudi sulla nuda terra». Questo universo di povertà e carne viva, di asperità e attriti, Camon l’ha raccontato in Un altare per la madre, la sua opera più famosa (premio Strega 1978), tradotta in venticinque Paesi. Era, quello stesso libro, un monumento alla famiglia, alla madre e al padre che, lottando contro la morte, le eresse quell’altare. Invece, per causa di quel racconto, suo padre decise di diseredarlo. Si presentò con suo fratello, il notaio e due testimoni. E Camon firmò l’atto: «Li ho capiti, li capisco. Per loro, scrivendo della nostra povertà ho disonorato la famiglia, il nostro sangue. C’è la famiglia e c’è il resto del mondo. La famiglia è più importante di un libro».

Oggi che cambia tutto, il capitalismo, il cristianesimo, la società, come si fa a non essere tormentati? Camon è orfano della civiltà contadina, la cui scomparsa, per Charles Péguy, «è il più grande avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo». L’altro lutto che si porta dentro è la morte del vecchio cattolicesimo. Perciò, come osserva Emilio Manco nella prefazione di Son tornate le volpi, «qualunque cosa giudichi… sotto-sotto si vendica sempre del suo lutto», di questa doppia condizione di orfano, facendola pagare ai lettori. «Prima di tutti la pago io», ribatte. «Sono stato formato da piccolo per vivere tutta la vita dentro una verità, ma così non è. Patisco molto la metamorfosi del sacro». In quel sistema di giornate e stagioni scandite dalla fede si componeva anche la povertà: sublimata, trasfigurata. Per uno così sarebbe finzione credere alle chimere del pensiero corrente. Dunque, svelarne vuoti e tradimenti non è vendicarsi di una doppia privazione, ma un desiderare schietto, senza infingimenti. «Sono un narratore della crisi», dice di sé. «Racconto il prezzo del progresso». Del capitalismo darwiniano, della globalizzazione selettiva, del mercatismo finanziario. Che vagheggiano integrazioni, sempre incompiute. Sostenibilità inseguite, quasi sempre a vantaggio delle élite. Democrazie digitali stratificate. Il risultato sono scarti, frange di sconfitti, escrescenze criminali, metastasi di scorie…

In Son tornate le volpi le stazioni ferroviarie diventano ricoveri di un’umanità perduta. Fuori da Roma Termini o da Torino Porta Nuova ci s’imbatte nei barboni a terra. Camon se li porta nei pensieri. «Di sera i barboni/ s’addormentano di botto/ tra due cartoni,/ uno sopra e uno sotto./ Li leccano i cani/ con la lingua rosetta,/ li scansano i cristiani/ che vanno di fretta…». I drogati finiscono la giornata dentro vagoni-ospedale. «Di notte sui binari/ morti vanno i treni fuori servizio:/ senza il permesso dei funzionari/ vi salgono giovani perduti nel vizio:/ Bevono intrugli/ di lattine,/ birra,/ coca,/ rimasugli/ lasciati dai viaggiatori…».

È poesia sociale e dell’irrisolto, del non sentirsi a posto. Solcando i margini della globalizzazione e scontornandone le contraddizioni, più che proporli, Camon allerta modi differenti di guardarle. E ci mostra scafisti albanesi che solcano il Mediterraneo con motori da 6.000 di cilindrata, suore arrestate per favoreggiamento della prostituzione, immigrate che spengono la cicca sul piede di un bimbo per farlo piangere quando si avvicina «un borghese dalla faccia cortese» che «ci casca e mette la mano in tasca». Accettare il cinismo, le derive e i soprusi per la sopravvivenza vuol dire razionalizzarli e perpetrarli? Ammettere la resa dei poveri e l’assenza di soluzioni dei ricchi vuol dire arrendersi alla sconfitta? Ci si dibatte tra pietà e giudizio, tra consolazione e accusa. Su tutto domina la paura: dell’estraneo, del diverso, dell’ignoto. Perché, finora, tra i bersagli mancati dal progresso c’è l’integrazione. La «città multietnica» di giorno «è italiana,/ operai, impiegati, studenti, donne./ Di sera diventa nigeriana,/ presidiata dai racket della prostituzione./ A mezzanotte si fa marocchina…». Alla lunga, osserva lo scrittore padovano, «questa integrazione sarà obbligata dal contatto e dalla convivenza». Ma non si dà pace che avvenga penalizzando la cultura di chi ospita: «Ormai negli ospedali/ ci son più mussulmani che cristiani,/ e l’associazione dei diritti umani/ alza la voce:/ via dalle stanze la croce». Così il paziente arabo s’inginocchia rivolto alla Mecca e invoca il suo Allah, mentre il paziente cristiano si volge alla parete vuota e vede la vernice più bianca dove manca il crocifisso: «Questo lo rende muto:/ è la prova che il suo Dio ha perduto».

Questa terza raccolta poetica, dopo Liberare l’animale (Premio Viareggio) e Dal silenzio delle campagne, entrambi con Garzanti, è stata presentata senza troppe illusioni alla prima edizione del Premio Strega Poesia. «Sono sempre andato allo sbaraglio, per di più non sono romano», dice. «E poi lo Strega l’ho già vinto. Quella volta con me c’era Piero Gelli, il direttore editoriale della Garzanti dell’epoca. Sapevo che Livio, che per me era quasi un fratello, era a Roma… Terminato lo spoglio, Gelli sparì cinque minuti e tornò con lui che se n’era rimasto nascosto in un bar poco distante. A mia moglie mostrò la prenotazione di due posti per una crociera ai Caraibi. Era il suo modo di compensare la probabile sconfitta. Invece… Indovini che cosa disse mia moglie, ridendo».

 

Poesia nuova serie n. 19, maggio/giugno 2023

«Con la neolingua viviamo già in un paramondo»

Ciao Tipo Verità». Ciao. «L’ultima volta che ci siamo parlati ho registrato il tuo numero in memoria, ma siccome mi era sfuggito il nome ti ho soprannominato: “Tipo Verità”».

A proposito di pseudonimi, Aldo Nove (foto di Dino Ignani) lo è di Antonio Centanin. Poeta, scrittore, traduttore, ex «cannibale» nato a Viggiù nel 1967, autore prolifico e irregolarissimo, l’ultima sua raccolta in versi pubblicata da Einaudi si intitola Sonetti del giorno di quarzo. Nel giugno scorso il governo Draghi gli ha concesso il vitalizio della legge Bacchelli, in passato accordato a «cittadini illustri» in stato di necessità come Alda Merini, Guido Ceronetti, Giorgio Perlasca. Lo pseudonimo deriva da «Aldo dice 26 x 1», il testo del telegramma diffuso dal Clnai (Comitato nazionale liberazione alta Italia) nell’aprile del 1945 per iniziare il giorno 26 all’una di notte l’insurrezione contro l’occupazione  nazista di Torino. Aldo è il nome contenuto nel messaggio e Nove è la somma di 2 + 6 + 1.

Stai ancora provando a cambiarlo?

«Sì, è un modo simbolico per liberarsi di sé stessi. Aldo Nove mi ha stufato. Ma la casa editrice con cui lavoro, al punto primo del nuovo contratto ha scritto che l’autore si firmerà Aldo Nove. Magari farò come Bhagwan Shree Rajneesh che, dopo morto, è diventato Osho».

Ti interessi di meditazione orientale?

«Anche occidentale, settentrionale e meridionale. Più che di meditazione, parlerei di mistica e spiritualità».

È difficile liberarsi di uno pseudonimo affermato.

«Basta “disaffermarlo”. Potrei chiamarmi Roberto D’Agostino 2».

Perché?

«Mi piace Roberto D’Agostino… La sua barba bianca, il look tra il dandy e il trasandato. Poi mi piace Dagospia perché è pieno di tette. Ah… tette si può dire nel 2023 o è maschilista? Però anche gli uomini le hanno…».

Vuoi dire che c’è una tendenza alla censura?

«Delle parole minimamente sensibili. Magari fra dieci anni “tette” sarà vietata. Ho letto che un grande editore americano ha ritirato le copie di Biancaneve e i sette nani per correggerlo in Biancaneve e i sette piccoli amici. Sembra il titolo di un porno».

Anche sul principe è caduta la riprovazione perché il bacio a Biancaneve non è consensuale.

«Sono forme di delirio che m’interessano come espressione di patologie sociali».

Siamo alla neolingua?

«George Orwell prendeva da Aldous Huxley. Siamo nella Fabian society: più che essere profetici, dicevano il programma in corso di attuazione».

La sinistra senza marxismo è diventata neopuritana?

«Anche il liberalismo lo ha fatto, come cantava Giorgio Gaber qualche decennio fa. Senza marxismo, sembra che la sinistra parlamentare si occupi solo di obbedire».

A chi e a che cosa?

«A chi sta sopra di noi. Corrado Malanga dice che sopra un certo livello non si sa chi c’è davvero. Forse gli alieni».

Chi è Corrado Malanga?

«Un ex docente della Normale di Pisa che s’interessa di ufologia. Un ricercatore che sposa il pensiero etico con la fisica quantistica».

Stento a seguirti.

«Di recente il governo degli Stati Uniti ha abbattuto nei cieli entità che non si conoscevano… Non ha senso chiedere se si crede o no agli Ufo. Non è una religione».

Perché sei andato a vivere a Palmi?

«Venni a presentarci un libro… Da tempo non sopportavo la metropoli e sentivo il bisogno di trovare un posto pacifico, con bella gente. Amo profondamente il sud e penso che il futuro del mondo possa sorgere dalla grande cultura mediterranea e della Magna Grecia».

Che cosa pensi della tragedia di Cutro che si è consumata lì vicino e delle polemiche successive?

«Le polemiche non le sento. Sento la vicinanza con chi ha vissuto quella tragedia. Si vedrà se ci sono delle responsabilità. Ciò che resta purtroppo è il fatto accaduto. Mi tocca molto la terribile sacralità della cosa. La materialità dei fatti sono persone morte».

Cito un verso da Poemetti della sera (Einaudi): giochi «a nascondino con Dio»?

«Da Eraclito in poi e fino al concetto di anima, il mondo è gioco di bambino. Anzi, l’anima è una bambina che gioca. La purezza del femminile, quando è tale, è assolutamente altra rispetto alla pesantezza del potere».

Come impieghi il tempo a Palmi?

«Passeggio, studio, scrivo. Studiare vuol dire amare. Mi consolo con i grandi del passato, me ne alimento».

In questo momento cosa stai scrivendo?

«Un romanzo nuovo. E sto curando per Il Saggiatore le edizioni italiane delle ultime conferenze di Sri Nisargadatta Maharaj. L’ultimo grande mistico indiano che, siccome era analfabeta, non ha mai scritto niente, ma le sue parole sono tradotte in tutto il mondo».

Cito un’altra poesia: «L’accelerazione che tutto oggi domina non concerne il Creato, ne è la parodia in forma grottesca di mercato».

«La poesia s’intitola Rivolta contro il mondo contemporaneo e cita a sua volta un’opera di Julius Evola, un autore oggi innominabile».

Palmi è una presa di distanza dal paramondo?

«È più cose, una critica alla smaterializzazione. Qui è più lenta la perdita di rapporto con la “cosalità”, le cose. Non con i servizi che vengono erogati e che sono ciò su cui si regge quest’idea di nuovo mondo, quello che Klaus Schawb chiama Quarta rivoluzione industriale».

Un tuo post rilanciato da MowMag e Dagospia contestava la comunità Lgbtq.

«Esiste davvero? I miei amici omossessuali non si riconoscono in queste etichette».

Scrivevi che le battaglie per i diritti civili sono fuffa.

«Anche Arcilesbica le contesta. Conosco molti omosessuali infastiditi dall’ideologia fluida. Con chi trombi sono cavoli tuoi senza bisogno di rivendicarlo in piazza. Zygmunt Baumann parlava di società liquida e di amore liquido, ma quell’aggettivo era il perno di una critica. Ora è diventato positivo perché è funzionale alla cancellazione dell’identità effettiva».

Riguarda le sessualità non binarie.

«Invito a tornare alla concretezza della materia, non si può sublimare tutto nel virtuale. Il fatto che si abbia un pene o una vagina è un fatto. Poi ognuno ne fa ciò che vuole. Questo differenzia l’uomo dalla macchina, la quale non ha sesso e non è binaria».

Con Elly Schlein guida del Pd i diritti civili saranno prioritari?

«Spazzatura ne vedo già molta. Se qualcuno vuole aggiungerne faccia pure. Personalmente tengo alla mia ecologia mentale».

Molti esultano perché Schlein dice cose di sinistra.

«La sinistra sono i diritti Lgbtq? Un tempo c’entrava con i diritti dei lavoratori, cose concrete. Si dovrebbe occupare di chi oggi si fa il culo 15 ore al giorno a 3 euro all’ora in condizioni di schiavitù, invece… È esistita fino al crollo del Muro di Berlino e al conseguente scioglimento dell’Urss. C’erano il pensiero liberale e il pensiero socialista. Tutto questo è entrato in un tritacarne di valori… Devo pensare che la questione ambientale sia un’idea di sinistra? Cioè: quelli di destra fanno i buchi nell’ozono e quelli di sinistra li chiudono? Non mi ritrovo in una sinistra che ha sostituito Carlo Marx con Greta Thunberg».

Cosa non ti piace della predicazione ecologista?

«Che sia una religione. L’ecologismo trasformato in culto estremo».

È il primo dogma dell’Unione europea.

«Chi ha i soldi si compra le macchine elettriche e chi non li ha è di destra perché usa la macchina a benzina? Un paradiscorso raccapricciante».

Non è giusto che a sinistra si esulti perché con Schlein la gradazione ideologica è aumentata?

«Per come la vedo io il Pd non è sinistra, ma potere».

Il vero potere è la grande finanza?

«Soprattutto. Quando un’agenzia di rating determina le sorti del mercato siamo in pieno neoliberismo. Un sistema nel quale i mercati sono un’astrazione. Per questo vorrei che si tornasse alle cose, alla materialità. A me sembra di vivere respirando, mangiando. Voglio dire: si parla del Metaverso, ma poi tutti i giorni ho a che fare con un patrimonio organico e biologico concretissimo».

Un paio d’anni fa dicevi che Meloni «ha un’ottima dialettica, ma voglio vederla al potere, sotto le pressioni della Bce». Come sta andando?

«Fa quello che può, non è data altra possibilità. La cosiddetta coalizione di centrodestra aveva molte ambizioni… Poi quando arrivi al potere molli, se no ti tolgono. Berlusconi ci aveva provato, ma è arrivato l’uomo forte Mario Monti».

Berlusconi è irrequieto?

«È il più stravagante. Anche le sue ultime dichiarazioni hanno creato imbarazzo alla Meloni. Ogni tanto gli scappano delle verità politicamente scorrette. Credo sia più un fatto caratteriale che politico».

Per perseguire percorsi alternativi servono molta visione e molto carisma.

«Serve che si alzi il livello di consapevolezza del popolo».

Non facile né rapido.

«Non ho idea delle tempistiche, possono esserci anche elementi di imprevedibilità. Se si stabilisce una narrazione in cui, ad esempio, si decide che una guerra sia nata nel 2022 mentre c’è dal 2014 è difficile contrapporsi. Una guerra tragica e spaventosa non può essere argomento da tifoserie calcistiche. Alzare la consapevolezza del popolo vorrebbe dire prendere atto che non si può arrivare alla pace continuando a mandare armi a una parte, ma sedendosi a parlare».

Partendo dal cessate il fuoco.

«Appunto, lo stop alle armi dev’essere la primissima cosa. Da lì inizia un processo di pace».

Perché sul suo profilo WhatsApp ci sono i dorsi dei libri di San Bernardo?

«È dove mi colloco io spiritualmente in questo momento, nel Medioevo».

L’età dell’oscurantismo?

«La si definisce così a causa del capovolgimento diabolico instaurato dall’illuminismo».

Prediligi i grandi mistici e i padri della Chiesa, non segui nessuno dei contemporanei?

«Joseph Ratzinger è contemporaneo. Ho divorato il suo Escatologia».

C’è del buono anche oggi. Susanna Tamaro cosa ti suscita?

«Le voglio bene, mi piace molto il suo spirito libero».

Giovanni Lindo Ferretti?

«Amore».

Ferdinando Camon?

«Cosa mi ricordi… Ho amato molto alcuni suoi vecchi lavori come Liberare l’animale, poi l’ho perso di vista. Allora era veramente rivoluzionario. Ho trovato in rete una primissima edizione di Fuori storia edito da Neri Pozza. Potrei recitare a memoria alcune sue poesie».

Carlo Freccero?

«Affinità centrata. Mi piace anche Diego Fusaro, dice cose interessanti in un linguaggio desueto, un pregio».

Parlando di Maurizio Costanzo, Freccero ha detto che ha anticipato i social e il privato che diventa mercato.

«In pratica, Chiara Ferragni. Molto lucida e cinica nello sfruttare questa evoluzione. Un grande talento. Orrido sul piano morale, gradevole sul piano fisico. Ho visto sue foto in cui leccava Il capitale di Marx, ammiccava con Vogliamo tutto di Nanni Balestrini e La società dello spettacolo di Guy Debord. Perversamente abile».

 

La Verità, 4 marzo 2023

«L’Occidente ha perso cancellando le sue radici»

Ferdinando Camon fa l’autostop. «Non guido più e qui i mezzi pubblici sono sporadici», confida. L’ho raggiunto in un paesino della Val Zoldana, dove ha una casa che guarda il Pelmo, per parlare di Occidente, il romanzo-saggio sul terrorismo pubblicato la prima volta nel 1975 da Garzanti e ora riproposto in una nuova versione dalla vivace Apogeo di Adria. Ma il racconto della vita quotidiana di questo scrittore appartato, dallo sguardo lucido ma non cinico, che la moglie Gabriella Imperatori chiama Dino, è anch’esso interessante.

A 86 anni è pieno di risorse.

«Mi metto sul ciglio della strada e agito la mano. Qualcuno lo scambia per un saluto e tira dritto, qualcun altro capisce e si ferma».

Starà qui tutta l’estate?

«Finché Padova sarà torrida. Con il caldo non riesco a scrivere bene, qui mi ossigeno e recupero la lingua».

Cosa sta scrivendo?

«Ho appena risistemato Occidente ed è abbastanza per un po’, non crede? Scrivo per i giornali. L’altro giorno quelli del Mattino di Padova si sono rivolti alla Questura perché il cellulare era irraggiungibile e si erano preoccupati… L’isolamento telefonico di una vallata è inammissibile. Per fortuna il bar del paese ha un buon wifi».

Comunicazione e trasporti ridotti a parte, ci sta bene?

«Sono le mie montagne. Adesso mi vede vecchio e malandato, ma ho fatto il militare da ufficiale degli alpini lì, sul Pelmo. Per salire in vetta bisogna percorrere una cengia larga 35 centimetri, esposta su uno strapiombo. Bisogna strisciare sulla pancia, infatti si chiama Passo del gatto. L’ho fatto guardando la parete della montagna che è costellata di foto di ragazzini che non guardavano la parete ma l’abisso e sono caduti. Passavi la cengia con il naso su quei volti… Ricordo la foto del primo, con le parole dei genitori disperati… Da un paio d’anni le foto non ci sono più, il presidente del Cai le ha fatte togliere perché pareva un cimitero. Perciò mi chiedo che senso aveva per me e i miei soldati rischiare la vita in quel passaggio. Ora l’hanno chiuso, dopo che tre anni fa tre turisti tedeschi sono caduti e sono morti».

Cosa pensa del crollo della Marmolada?

«Che non doveva essere accessibile, su quel costone si rischia, andava chiuso. La natura è insensibile, fa stragi nella più totale imperturbabilità».

Il riscaldamento globale non c’entra?

«Con l’aumento della temperatura media le fessurazioni dei ghiacciai sono più frequenti. Perciò bisogna prevenire. I morti erano nel canalone dove scendeva quella massa di ghiaccio e detriti. La montagna è bella, però va rispettata. Mio figlio ha trovato una frase di Friedrich Nietzsche: “Se tu guardi a lungo dentro l’abisso, anche l’abisso guarda dentro di te”».

L’abisso è anche quello che ha raccontato in questo libro?

«La Padova degli anni Settanta era una città violenta, avevano incendiato lo studio del rettore, dato l’assalto alla stazione… La violenza mi riguardava, trovavo piccole bare col mio nome nella cassetta della posta, mi arrivavano telefonate alle tre di notte. Perciò è un libro autobiografico, che racconta lo scontro tra terrorismo rosso e terrorismo nero».

La minacciavano prima che lo scrivesse?

«Davo interviste, si sapeva che lo stavo facendo, volevano paralizzarmi. Insegnavo, ho chiesto aiuto alla polizia. Mi hanno detto che l’autrice delle minacce era una ragazza “perché scrive le elle con una grande pancia”».

Una sua allieva?

«Non ho voluto saperlo. Una volta per una conferenza a Piove di sacco trovai la scuola circondata dalla polizia: “Siamo qui per lei, sono arrivate delle minacce”. C’erano i seguaci di Toni Negri e i seguaci di Franco Freda».

Terrorismo rosso e terrorismo nero.

«In Occidente si vede che sono stato più sedotto dalla violenza nera. I militanti dell’estrema destra che teorizzavano il diritto di uccidere, il diritto alla strage, mi avevano molto allarmato. Franco Freda fu condannato all’ergastolo come colpevole della strage di Piazza Fontana. Quando venne assolto e andò agli arresti domiciliari a Brindisi chiese un incontro con me, da pubblicare».

E lei ci andò.

«Prenotai una cuccetta, arrivai a Brindisi al mattino, parlammo tutta la giornata, in piedi, senza mangiare un panino. Gli dissi che ero uno scrittore, non un giudice che emetteva sentenze. Avevo letto i suoi scritti trovandoli coerenti con la strage. Perciò, come ultima domanda, gli ho chiesto se era colpevole o innocente. Mi ha risposto: “È innocente non colui che è incapace di peccare, ma colui che pecca senza rimorsi”. Voleva dire che l’aveva fatta, ma non aveva rimorso? Mi è parso di sì».

Riteneva di avere «diritto alla strage» per una presunta superiorità morale?

«Una superiorità di specie in quanto portatore di un’idea di vita superiore. Insomma, era un superuomo».

Ancora Nietzsche?

«Torniamo sempre lì. Questi militanti non avevano un Dio che è l’unico che potrebbe fermarti e giudicarti. Non erano fascisti, erano nazisti. Avevano un’idea razziale e superomistica della lotta politica. Di Freda ho perso le tracce».

Di recente ha pubblicato per l’editore Ar Scontro con Ferdinando Camon.

«Lo scontro è nella sua logica. Mi procurerò il libro e lo leggerò con attenzione e rispetto. Ma non più con paura».

Perché ripubblicare Occidente quasi 50 anni dopo?

«Ci sono ancora gruppi di persone che si attribuiscono questo diritto di strage in nome di una superiorità morale. Allora l’armamentario era ideologico, ora è mistico-religioso. Pensano di aver diritto di eliminare un’umanità inferiore, indegna di vivere. Sono stato tre volte ad Auschwitz e ho capito che quello che avevano in mente di fare lì era correggere la creazione e riformare l’umanità, eliminando le razze inferiori».

Perché lo intitolò Occidente?

«In quegli anni queste stragi erano frequenti in Italia, in Spagna… Adesso lo sono in altre civiltà, soprattutto quella islamica».

Pensavo a figure come Anders Breivik o a certi sterminatori americani.

«Breivik è un pazzo. Nietzsche non lo era. Leggendo Così parlò Zarathustra si trema dalla prima riga all’ultima. È vero, entrava e usciva dagli ospedali psichiatrici, ma non era un pazzo. Nel primo incontro che Hitler ebbe con Mussolini gli regalò le opere di Nietzsche e disse che creava le figure delle SS come incarnazione del superuomo».

Dove vede che il «diritto alla strage spiega buona parte della storia mondiale che stiamo attraversando»?

«Nelle frasi che urlano quelli che si fanno saltare in aria, i kamikaze, gli islamisti, quelli che vanno volentieri in carcere perché si ritengono portatori di una verità superiore».

Che cosa la colpisce?

«Questa fuga nella morale superiore è in realtà una fuga nella barbarie. Si credono uomini divini, sono assassini. Ho apprezzato il nazista di Occidente che cattura un militante espulso dalle formazioni di sinistra perché quando sta per ammazzarlo non lo fa in quanto lo considera poca cosa. È un fatto realmente accaduto».

Quel nazista ha un’umanità che gli islamisti non hanno?

«Voleva realizzare un’acropoli abitata da superuomini di cui essere il leader. Era amato dai suoi seguaci. Agli occhi degli islamisti noi siamo sotto-esseri umani perché non capiamo il loro Dio. La strage del Bataclan l’hanno fatta per questo».

Come giudica la decadenza dell’Occidente?

«L’Occidente non ha il senso della dignità dell’uomo. Il suo scopo è l’affare, cioè se un’azione porta denaro e arricchimento. Questa è decadenza. Siamo in una fase a-umana. Questa educazione comincia presto: in prima media la madre va dall’insegnante non per sapere se il figlio capisce e impara, ma se sarà promosso. Consideriamo riuscito un film o un libro se incassa. Noi occidentali non produciamo più fanatismo, non produciamo più nulla».

Bilancio amaro?

«Mi piacerebbe che avessimo dei valori, ma non li abbiamo. L’arte, le religioni, la civiltà. Lo dico da perdente, essendo un intellettuale, uno che fa libri».

La globalizzazione è un valore?

«È una fusione di economie, tutte interne alla civiltà borghese. Che è una grande civiltà, ma non è la mia».

Il mondialismo, la finanza e l’ecologia sono in decadenza?

«Di queste l’unica idea vitale potrebbe essere l’ecologia. Però noi non abbiamo un interesse ecologico per consegnare una natura perfetta ai nostri figli, ma perché l’inquinamento produce danni economici. Anch’io sono un borghese, se mi danno un sacchetto di plastica lo uso ben sapendo che ci vogliono decenni per degradarlo. Del resto, se la civiltà è questa o ne usciamo tutti o nessuno».

Il declino è iniziato dalla cancellazione delle radici cristiane nella Costituzione europea?

«Confermo, sono rimasto basito. I padri costituenti hanno dimostrato di non avere a cuore la morale e l’etica della civiltà europea, ma una costruzione edificata sull’interesse. Al bivio tra una strada che porta al bene e un’altra che porta alla ricchezza, la nostra civiltà sceglie la seconda. A lungo andare la pagheremo».

La responsabilità è della politica, della Chiesa, degli intellettuali?

«Della politica senz’altro. Stabilisce i programmi, le priorità, il tipo di scuola, la formazione delle giovani generazioni. La Chiesa può predicare, ma non condizionare o imporre. Francesco possiede una visione, ma non gli strumenti, neanche nelle strutture interne vaticane. Il famoso palazzo di Londra è stato venduto per la metà del prezzo d’acquisto. Questo significa che qualcuno che lavora con il Vaticano ha fatto l’affare e il Vaticano ci ha perso. Anche nelle alte gerarchie il principio borghese è ben radicato».

E gli intellettuali?

«Contano poco. Un legislatore non tiene conto di quello che scrivono gli intellettuali sui giornali. Gli ultimi che hanno avuto un peso sono stati Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Leonardo Sciascia».

Contano di più gli influencer?

«Nel costume sì, ma è un livello fatuo. Mi ha stupito che Liliana Segre si sia fatta fotografare al Binario 21, da dove partivano i treni per i campi di concentramento. Fai una foto e richiami l’attenzione, ma non capisco a cosa serva veramente. Forse è un limite mio».

Si usa uno strumento di moda per divulgare un’idea?

«L’intellettuale è marginale perché usa la parola in un tempo in cui scrittura e lettura non sono più influenti. Un messaggio diffuso in tv viene visto estesamente, ma rimane effimero. Ho scritto libri etici come Un altare per la madre, un romanzo che racconta una vita povera e nascosta eppure degna di essere vissuta. Ora lo tradurranno anche in persiano, ma verrà letto come un’opera meritoria, nessuno lo prenderà mai come modello».

 

 La Verità, 9 luglio 2022

Le domande irrisolte di Vitaliano Trevisan

La morte di Vitaliano Trevisan, avvenuta venerdì nella casa di Campodalbero, frazione di Crespadoro (Vicenza), il paesino alle pendici delle Prealpi dove viveva in totale solitudine, è una di quelle situazioni di fronte alle quali bisogna mettere da parte mediazioni, formule e risposte di maniera. Lo richiedono l’inesausta ricerca e la profondità del dolore che hanno impregnato l’esistenza di questo grande autore e drammaturgo, dotato di scrittura e lineamenti spigolosi, smorzati solo dagli occhi color ghiaccio. La penso così: se una persona, che vive in modo radicale il bisogno di un senso, non incontra qualcosa o qualcuno che la sappia abbracciare nella sua totalità, difficilmente scampa alla sofferenza e all’incomprensione. Quando una volta gli chiesi che cosa lo teneva lontano dal suicidio mi rispose: «I farmaci, nel senso ampio del termine».

Considerato uno dei maggiori scrittori italiani dell’ultimo ventennio, Trevisan fu scoperto a fine anni Novanta da Giulio Mozzi che trovò negli scaffali di una libreria il suo Trio senza pianoforte – Oscillazioni, antologia di racconti pubblicata da un piccolo editore vicentino. Fu Mozzi a far uscire da Theoria Un mondo meraviglioso e poi a spedire il manoscritto dei Quindicimila passi – Un resoconto a Einaudi che offrì il primo contratto a quell’autore semisconosciuto. Nella storia di Thomas, omaggio a Bernhard, con la quale Trevisan vinse il premio Lo Straniero e il Campiello Francia, si dispiega la ribellione all’educazione cattolica e al perbenismo della provincia italiana. Sono temi che ritorneranno in Tristissimi giardini (Laterza) e soprattutto nel bellissimo e torrenziale Works, (Einaudi), 660 pagine concluse da una frase con la quale si prende gioco delle formule vigenti: «Tutto ciò che può incriminarmi è frutto d’invenzione». Più che un’autobiografia, Works «è un mémoire centrato sul tema del lavoro» che squaderna i tanti mestieri provati – geometra, cameriere, lattoniere, gelataio in Germania, costruttore di barche a vela, spacciatore di fumo, portiere di notte – prima di consacrarsi interamente alla scrittura per la narrativa, il cinema e il teatro.

Anarchico e allergico a tutte le chiese, Trevisan è stato una smentita vivente delle favole consolatorie che ci raccontiamo quotidianamente sui media. Il Nordest florido e ottimista. La letteratura come impegno civile per riparare gli umani e il mondo. La comunità intellettuale elevata a guida dei ceti medi riflessivi dai salotti tele-editoriali. Sceneggiatore e attore di Primo amore, diretto da Matteo Garrone, autore di Il lavoro rende liberi e Oscillazioni, interpretati a teatro da Toni Servillo, non si lascia bene con entrambi: «Avevano degli ego troppo grandi per me». Meglio va con Andrée Ruth Shammah e Alessandro Haber, che portano in tournée il suo Una notte in Tunisia, e con Roberto Herlitzka e Anna Paiato. Un fatto è certo, Trevisan non opera ipocrite separazioni tra vita e letteratura, tra esistenza e arte.

Gli faranno l’autopsia e si potrebbero avere conferme, come molti temiamo, che la sua fine sia dovuta a un gesto estremo, contraddizione lacerante del nome che portava: «È un nome che deriva dal greco <colui che dà la vita>», mi rivelò, «e mia madre me lo diede perché si era appassionata a un personaggio di un film sull’antica Roma che si chiamava così». Parlando di lui, Ferdinando Camon disse: Trevisan è uno che ha domande troppo acute, troppo alte, per restare in piedi, in equilibrio, su una base piccola e stretta. Nell’incipit di Black Tulips, il romanzo che uscirà postumo da Einaudi, scrive: «… Per difendermi, da me stesso e dal mondo, una delle mie tecniche preferite, quella che mi è sempre venuta naturale e che poi nel tempo ho affinato, arrivando a farne un’arte – arte, detto per inciso, per niente astratta, visto che mi dà da vivere – è trattenere un frammento per sé, e farsi così, per quanto possibile, trasparenti. E vivere o scrivere, che poi, per chi scrive, è lo stesso, è nella trasparenza che mi sono sempre tenuto in equilibrio. No, non sempre; comunque». Equilibrio faticoso, precario, instabile. Equilibrio come sopravvivenza, come non soccombenza. Non certo equilibrio perbenista e conformista, il più lontano da lui.

Sbandate, deragliamenti, ricoveri in psichiatria, rapporti affettivi torbidi e tormentati. Come quello con l’ultima compagna che, non si è capito bene perché, nell’ottobre scorso lo aveva fatto internare con un Aso (Accertamento sanitario obbligatorio) nel reparto psichiatrico di Montecchio Maggiore (Vicenza). Dov’ero andato a trovarlo per poi raccontare su questo giornale il forte disagio e lo stato di prostrazione in cui versava. Fortunatamente, quella reclusione non si era prolungata. Una volta tornato a Crespadoro l’aveva condivisa in un drammatico reportage su Repubblica. E aveva poi ripreso a postare su Facebook malinconici frammenti della sua quotidianità. Non si hanno notizie di lettere o messaggi di addio ritrovati vicino al suo corpo senza vita. Qualcuno però ha ricordato un passaggio del suo Una notte in Tunisia: «Docili, su un fianco come gli animali, è così che si dovrebbe morire, senza lamentarsi, senza darsi troppo pensiero».

 

La Verità, 9 gennaio 2022

 

A parziale integrazione di questo articolo va aggiunto che nella casa di Campodalbero i carabinieri hanno trovato un biglietto d’addio di Vitaliano Trevisan che conferma il gesto volontario: «Sono stanco e non ne posso più. Nessuno deve sentirsi responsabile perché nessuno avrebbe potuto fare nulla».

«Con la scrittura aiuto i pazienti a svelarsi»

A Davide Bregola piace la gente fuori dagli algoritmi. Scrittori e scrittrici che non frequentano i talk show, i social e non scrivono sui giornaloni. Gavino Ledda, Aldo Busi, Rocco Brindisi, Carmen Covito… Anche lui, scrittore a sua volta e firma delle pagine culturali del Giornale, è un tipo strano: «Mantova ne è piena», ammicca. Autore di spettacoli dei burattini e animatore di corsi di scrittura per pazienti psichiatrici, l’ultimo suo saggio s’intitola I solitari. Scrittori appartati d’Italia (Oligo editore). Chi sia Davide Bregola lo s’intuisce da due fotogrammi.

Il primo: un cinquantenne con figlia di due anni.

«Fino a qualche tempo fa ero un Peter Pan che aveva fatto della letteratura uno scopo di vita. La qual cosa si presta a tante considerazioni».

Tipo?

«Pensavo che la cultura e i libri fossero un motivo esistenziale. Molti degli incontri fatti nell’arco della vita avevano come scopo la divulgazione letteraria».

Invece?

«La nascita di Chiara e la pandemia mi hanno fatto cambiare registro. Non solo nella vita, anche nella scrittura. I ritratti d’autori dell’ultimo libro non li avrei scritti così, prima. Con quella libertà stilistica che ha scardinato le formule abituali».

La vita spiazza la letteratura?

«La stimola e quindi sì, la spiazza. La letteratura lievita quando nella vita accadono delle cose. Dostoevskij è diventato lo scrittore che conosciamo da sopravvissuto, sfuggito alla condanna a morte. Aveva visto negli occhi la fine».

Ferdinando Camon sostiene che Scrivere è più di vivere, come s’intitola uno dei suoi saggi.

«Da autore del Novecento, ha costruito la sua vita su questa idea».

Per uno scrittore la letteratura è tutto?

«Non vorrei darne un’idea edulcorata. La letteratura è uno strumento, un linguaggio che aiuta. Ma non la baratterei con la vita, che è più forte e potente».

Il secondo fotogramma risale ai primi anni Novanta: facoltà di Legge, ma professione scrittore e consulente editoriale.

«Ho studiato a Ferrara, ma da figlio di proletari sarebbe stato problematico conquistare una cattedra. Avrei atteso decenni. Allora in alcune facoltà persistevano le classi sociali e durante gli esami qualche professore chiedeva che lavoro facevano i nostri genitori».

Com’è nata la passione per la scrittura?

«L’ho sempre avuta. A 23 anni bazzicavo la redazione di Transeuropa ad Ancona. C’erano Enrico Brizzi, Silvia Ballestra, Giuseppe Culicchia, Romolo Bugaro, Giulio Mozzi… Era il mondo di autori nato da Pier Vittorio Tondelli. Lì ho capito che mi attraeva di più approfondire la letteratura delle leggi».

Dopo questo saggio lei è uno scrittore di scrittori?

«Tanti anni fa mi hanno folgorato le interviste di Camon pubblicate in due volumi Garzanti, Il mestiere di scrittore e Il mestiere di poeta. Quelle conversazioni erano letteratura. Vuol dire che si può raccontare la contemporaneità dell’Italia attraverso gli scrittori, in questo caso appartati. Perciò la definizione di scrittore di scrittori non mi dispiace. Questa piccola galleria di ritratti fa il paio con la raccolta di colloqui con autori stranieri che ho pubblicato a fine anni Novanta. Mi è sempre piaciuto ascoltare storie, da bambino mi stregavano i racconti dei vecchi sulla guerra».

Esiste una letteratura della pianura?

«Alcuni di quelli presenti nel libro sono scrittori di pianura. In genere mi piace incontrare le persone nei loro territori. Quando vado in un posto cerco di conoscerne prima l’immaginario. Da ragazzo leggevo Giorgio Bassani prima di andare a Ferrara…».

Chi pensa di non avere una vita interessante può scrivere un’autobiografia raccontando le vite degli altri?

«Proprio grazie alla letteratura credo di condurre una vita interessante. Da cinque anni lavoro in un centro psichiatrico e faccio scrivere i pazienti. Ho fatto per tanto tempo spettacoli dei burattini come Guido Ceronetti e Gianni Rodari. Ho avuto l’opportunità d’incontrare i bambini nelle scuole e gli anziani nelle case di riposo».

Come si insegna scrittura ai pazienti psichiatrici?

«È un breve corso fatto in collaborazione con la Asl e il reparto psichiatrico. Il primo momento si compone di brevi lezioni frontali di narrativa e poetica, il secondo è un momento di scrittura, il terzo di condivisione. Grazie alla scrittura molti pazienti raccontano aspetti della loro vita altrimenti inenarrabili. Scrivendo riescono a dire con precisione ciò che non saprebbero dire a voce. Così la scrittura è una maschera e allo stesso tempo una forza di verità. Dopo il Covid, che aveva bloccato tutto, abbiamo ripreso. Il tema di quest’anno sono le emozioni. Io stimolo i pazienti e volo anche alto. Loro mi seguono e spesso mi sorprendono».

Tornando agli scrittori, cosa la incuriosisce delle loro scelte di solitudine?

«I solitari sono di tre tipi: quelli che lo sono per carattere, quelli che lo sono diventati dopo un grande successo e i solitari perché ancora non riconosciuti. Mi affascina questa scelta quasi monacale. Il romitaggio, in qualche modo, ha a che fare con la spiritualità ed è l’opposto del marketing».

Per molti l’isolamento è la condizione per creare, per altri una scelta esistenziale.

«Bisogna essere portati per la solitudine. Tante persone non riescono a stare sole con sé stesse. In qualche caso dentro quella solitudine è avvenuto qualcosa che l’ha trasformata in una forza. Mi piace perché va controtendenza al mainstream che ci propina continuamente il paese dei balocchi nel quale le merci danno la felicità».

Perché alcuni come Lara Cardella, Carmen Covito o Gavino Ledda si ritirano dopo esser stati molto visibili?

«Cardella e Covito sono nate come prodotto televisivo. Erano ospiti fisse del Maurizio Costanzo show e dei giornali che facevano opinione. Quando i media hanno spento i riflettori è avvenuto il cambiamento. Quella di Gavino Ledda invece è stata una scelta».

Anche Aldo Busi è stato molto visibile sui media.

«Lui è un solitario per scelta che ha conosciuto la popolarità televisiva più che letteraria. Era noto per L’Isola dei famosi non per Seminario sulla gioventù. Una volta mi ha detto che “il mondo non segue più una trama, ma si esprime con un linguaggio frammentato”. Accorgendosi di non appartenere a questo mondo, ha preferito isolarsi».

Per un problema di linguaggio?

«In un mondo che ha perso molte parole chi possiede un vocabolario ricco si autoesclude perché risulta incomprensibile».

I colpevoli sono i social media?

«Semplificano, frammentano, riducono il vocabolario attivo delle persone. La solitudine e la marginalità sono un destino segnato. Nel caso di Busi non è subito, ma voluto: lui rimane battagliero e incazzoso».

Giovanni Lindo Ferretti rappresenta una variante diversa?

«Ha riabbracciato le sue radici e la casa degli avi, che ha ristrutturato. Il suo è un romitaggio consapevole».

Altri sono solitari da sempre, come Francesco Permunian.

«È un dissacratore degli stereotipi nazionali, predisposto alla polemica. La letteratura e la curiosità lo hanno salvato dal diventare prevedibile, nelle sue furie».

Cosa mi dice di Vitaliano Trevisan?

«Con la sua intelligenza è arrivato a vertici del pensiero e della psiche difficili da sostenere. Tutti siamo esseri fragili per reggere certe vette, lui in modo particolare».

Come va catalogato Gianni Celati?

«È il maestro dello sguardo. La sua solitudine è fatta di partenze perché è sempre in movimento. È stato in Francia, ora è a Brighton, perciò non è mai al centro del dibattito. Parlando da lontano lo poteva sentire solo chi aveva un buon udito. Così è diventato un classico».

Raccontare questi scrittori è una forma di contestazione?

«Prima di tutto è il tentativo di creare una piccola epica della figura dello scrittore e della scrittrice. Poi è una forma di divulgazione di libri degli altri, da Padre padrone ai romanzi di Rocco Brindisi…».

C’è anche la contestazione del luccichio e delle mode?

«Mi attrae di più la potenzialità di chi è in disparte rispetto a chi rappresenta il mainstream, che tende a consumare tutto nell’esposizione».

Contestazione del circuito scrittura creativa, salotti, premi letterari, giornali?

«È la scelta consapevole di fare un’altra strada. Le compagnie di giro le conosco, ma vado altrove».

Se dovesse scegliere uno di loro con chi condividerebbe una vacanza?

«Con Simona Vinci perché è bella e amo le donne. La persona che vorrei approfondire è Rocco Brindisi, un maestro elementare, molisano invisibile. Non trovando una sua foto, sul Giornale hanno dovuto mettere un’immagine della piazza della città in cui vive».

Cosa vuol dire per uno scrittore vivere a Mantova, città del Festival della Letteratura?

«Incontrare grandi autori in luoghi insoliti è un’occasione per mettere in moto l’immaginario. Gli scrittori sono persone pittoresche, ma anche molto normali. Vedere un premio Pulitzer come Michael Cunnigham, perdere la pazienza in un negozio di scarpe perché non trova il suo numero è divertente».

Anche lei per un certo periodo ha fatto vita eremitica: cos’era successo?

«Dopo una serie di esperienze, a 45 anni ho pensato che pulirmi e stare un anno fuori mi avrebbe aiutato a sedimentare i fatti».

Ho letto che aveva «le tasche piene delle persone».

«Avevo fatto il direttore artistico di un festival, il ghostwriter per persone famose, vivendo con loro… Mi era più chiaro come va il mondo e volevo staccarmene per un po’».

Che cosa ne ha tratto?

«Intanto un libro, Fossili e storioni. Notizie dalla casa galleggiante (Avagliano). Poi l’idea che a volte il silenzio è più forte delle parole e una certa pulizia aiuti a prendere decisioni».

Dopo quanto è tornato in società?

«Dopo un anno. Avevo una compagna. Sono tornato a Mantova nel dicembre 2018 e un paio di mesi dopo abbiamo concepito Chiara».

Perché faceva spettacoli con i burattini?

«C’era un intento didattico: con i burattini e le filastrocche s’impara la metrica della poesia. Sono andato a Ginevra dove sono esposti i burattini di Paul Klee, ho preso i cataloghi, li ho fotografati e riprodotti. Con la pandemia si è fermato tutto, adesso mi hanno chiesto di ricominciare, ma quel tipo di messa in scena non m’interessa più».

Li farà per sua figlia?

«Sì, lei ha l’esclusiva».

 

La Verità, 4 dicembre 2021

«Ci governa l’antipolitica e i risultati si vedono»

Sopravvissuto a cento battaglie, oggi, 5 dicembre, Paolo Pillitteri festeggia ottant’anni. Sceneggiatore e critico, sindaco di Milano dal 1986 all’inizio del 1992, condirettore del quotidiano L’Opinione, da qualche tempo è tornato a occuparsi di cinema, primo amore non solo di gioventù. Nell’ironia con cui vive questi «strani giorni» e assiste alle peripezie di «un governo inadeguato» s’intravedono le stagioni della Milano da bere e di Tangentopoli, la morte di Bettino Craxi, il superamento di due delicate operazioni al cuore. Una interrotta a un millimetro dal precipizio e una seconda per l’inserimento di un defibrillatore: «Oltre alla bravura dei medici, serve un po’ di fortuna», confida.

Onorevole Pillitteri, come festeggerà il compleanno?

«Leggendo e rispondendo ai messaggini che penso arriveranno. E brinderò con un Sassella della Valtellina, mia patria d’origine. Con il morbo alle porte è consigliato festeggiare con prudenza».

Lei ce l’ha?

«Come si fa a non averne? Tutto il santo giorno ci ripetono che non bisogna abbassare la guardia. È un invito un po’ petulante. Ma qualche volta, a differenza del comunismo, il luogocomunismo ci salva».

L’ultimo libro di Ferdinando Camon s’intitola polemicamente A ottant’anni se non muori ti ammazzano. Lei come vive al tempo del Covid?

«Non sono stupito che i vecchi siano messi in disparte perché siamo immersi in una cultura giovanilistica. Camon, che è uno dei nostri maggiori scrittori, dotato di senso religioso, cita il pio Enea che si carica il padre sulle spalle e fugge da Troia. Spero di avere vicino persone pie come Enea, che mi accompagnino in questo passaggio non facile».

Come trascorre le giornate?

«Mi piace scrivere. L’ho sempre fatto e continuo a farlo: serve per mantenere il contatto con il mondo ed essere vitali».

Che cosa sta scrivendo adesso?

«Ho appena finito una sceneggiatura che vorrei intitolare La madre. Una storia vera. È il racconto di una donna durante la Resistenza in val d’Intelvi basato sui molti aneddoti che questa donna mi fece in diverse occasioni. Per esempio di quando nascose alcuni ebrei ai nazifascisti. Solo alla fine si scopre che è la mamma di Benedetto, come si chiamava Bettino Craxi».

Servono regista e produttore?

«Per diletto, qualche ripresa in Valtellina l’ho già fatta. Quanto al produttore, non sarà facilissimo trovarlo».

Le è piaciuto Hammamet di Gianni Amelio?

«Non mi ha convinto la sceneggiatura perché Bettino vi appare solitario e remissivo, mentre io lo ricordo lottatore fino all’ultimo. Era la sua natura: si dava da fare, scriveva, telefonava… Mi chiamava anche due, tre volte al giorno».

Fino a pochi giorni fa ha condiviso la direzione dell’Opinione con Arturo Diaconale…

«Per vent’anni io e Arturo abbiamo tenuto in piedi questa testata da grandi amici. Solo sul calcio, lui laziale io interista, la complicità s’interrompeva».

Chi sarà il nuovo direttore?

«Quién sabe? s’intitolava un western di Damiano Damiani».

Nella crisi più grave dal Dopoguerra abbiamo il peggior governo della storia repubblicana?

«Sì, uno dei peggiori. E non so fino a quando durerà. Per troppi anni si è inneggiato all’antipolitica e alla fine è andata al potere. I risultati li vediamo».

Che voto dà al governo delle quattro sinistre?

«Intanto sono tre perché i grillini sono di estrema destra».

Addirittura.

«Un’estrema destra peggiorata dall’opportunismo, come dimostrano i continui cambiamenti, e passata dal qualunquismo al giustizialismo combinato con lo statalismo, già condannato dalla storia».

Quanto al governo?

«Voto nettamente negativo».

Arriverà alla sufficienza con il rimpasto o lei consiglia di cambiare scuola?

«Rimpasto, verifica: parole della Prima repubblica. Solo che allora si facevano, oggi si chiacchiera. Meglio di tutto sarebbe andare a votare ma, salvo colpi di scena sul voto al Mes del 9 dicembre, oltre all’assenza della legge elettorale ci sono altri due ostacoli: l’emergenza Covid e il presidente Sergio Mattarella».

Ci vorrà qualche anno.

«Hanno voluto demagogicamente tagliare i parlamentari, promettendo che si sarebbe fatta subito la nuova legge elettorale ora che i collegi devono essere riscritti. Campa cavallo».

L’inadeguatezza di questo governo è un fatto generazionale o di scarsa cultura politica?

«Scarseggiano cultura e conoscenza della storia. Non solo perché non l’hanno vissuta in prima persona, ma perché si fermano alla superficialità dei social. Si illudono che le risposte siano nei tweet o nei post… Questa mancanza di approfondimento emerge ora che la situazione è drammatica».

Avendo avuto vita facile – niente guerre, fame, terrorismo – i quarantenni sono privi di attrezzature anticrisi?

«Temo di sì. In questo periodo un’altra parola magica è resilienza. Lei citava il terrorismo… Quando ancora questa parola non si usava, negli anni di piombo la tanto criticata Milano da bere è stata un’esperienza molto concreta di resilienza».

Le task force e le cabine di regia servono a cementare la poltrona di Conte?

«Conte usa una tecnica che presto mostrerà la sua mancanza di strategia e di weltanschauung, come dicono i tedeschi. È una tecnica basata su slogan vuoti, pensiamo agli Stati generali annunciati come una grande svolta e serviti a niente. I dpcm si susseguono per conquistare visibilità e centralità. Tanto più ora che il consenso cala. Le promesse esagerate diventeranno un boomerang. Quest’estate, invece di programmare con i pieni poteri servizi sanitari adeguati, dai tamponi ai vaccini antinfluenzali, ci si è cullati sull’illusione di essere un modello».

Alcuni protagonisti e sponsor del governo sono sfiorati da inchieste giudiziarie: Matteo Renzi, Beppe Grillo, lo stesso Conte. Meglio tenersi stretto il partito dei magistrati?

«Prendiamo atto che la magistratura ha fatto fuori diversi presidenti del consiglio: Giulio Andreotti, Craxi, Silvio Berlusconi, Renzi e ora tenta anche con Matteo Salvini. Gli esponenti dell’attuale governo dovrebbero riconoscere che cavalcando le istanze anticasta hanno prodotto un’altra casta, quella dei giudici. Si è parlato per anni della riforma della giustizia, dalla separazione delle carriere all’errore giudiziario, senza mai fare nulla. E ora c’è una casta che agisce sopra la politica».

Dopo le fibrillazioni sullo scostamento di bilancio, il centrodestra sembra tornato compatto. Durerà?

«Vivono nella bella confusione. Questo dimostra la necessità di figure come Gianni Letta e Renato Brunetta. Una volta vince il sì al Mes, un’altra il no. È una situazione a elastico».

Parlando di elastico, la ritrovata centralità di Silvio Berlusconi è già finita?

«Berlusconi mi sembra un Co co co, come quei lavoratori che sono assunti per modo di dire. Mettiamola sul piano linguistico: il centrodestra ha bisogno del centro, altrimenti perché si chiama così? Berlusconi è un uomo moderato e liberale, ma se non lo è davvero serve a poco. È anche l’uomo delle sorprese: vediamo cosa c’è nell’uovo, anche se non siamo a Pasqua».

Vuole proteggere le sue aziende o mira al Quirinale?

«Le aziende sono sangue del suo sangue perciò le difenderà fino alla morte. Si è molto arrabbiato quando la Lega non ha partecipato al voto in commissione sull’emendamento anti Vivendi».

Il Quirinale è una pia illusione?

«Una cosa non esclude l’altra. Servono intese molto vaste per le quali è indispensabile Letta, con la sua capacità felpata e un po’ andreottiana di trattare anche con il peggior nemico».

Chi sarà il candidato premier del centrodestra?

«Oggi il favorito sarebbe Salvini, ma dipende da quando si voterà. Anche nella Lega ci sono sfumature e tendenze. Non sottovaluterei Giorgia Meloni, che ha un sogno mica tanto nel cassetto di diventare la Thatcher italiana. Proprio il fatto di essere una donna potrebbe avvantaggiarla».

Che identikit farebbe del futuro candidato premier?

«Basta che sia l’opposto di Conte, cioè essere capace di prendere decisioni e fare i fatti».

Modello Craxi?

«In un certo senso, ma adeguato ai tempi».

Dovrebbe saper tenere a bada l’Unione europea?

«Certo. Noi furbi italiani siamo convinti che l’Europa sia un bancomat. Se alla fine dovesse darci le centinaia di miliardi di cui si parla, chi sarà in grado di gestirli?».

Servirebbe una forte leadership per la rinascita: nomi?

«Per la ricostruzione non basterà un Conte 3, 4 o 5. Serve il leader del nuovo Piano Marshall, ma di De Gasperi in giro non ne vedo. Forse non trascurerei Giorgetti, uno coerente e con idee precise. Anche se non si chiama Alcide».

Da ex sindaco di Milano qual è il suo giudizio su Beppe Sala?

«Gli darei un 6 meno meno. La sanità è di competenza regionale. Certo, ha un po’ la fissa delle piste ciclabili e dei monopattini che, anziché snellire, rischiano di complicare il traffico».

È appena stato varato un nuovo dpcm…

«Ho trovato meraviglioso il titolo del Manifesto: “Indovina chi non viene a cena”».

Lei avrebbe riaperto la scuola o i teatri e i cinema, i ristoranti e le palestre?

«Avrei riaperto i teatri e i cinema, dove il distanziamento è controllato e garantito. Ristoranti, scuole e palestre ancora no».

Qual è il ricordo più grande della sua vita politica?

«Ne ho due. La prima volta che incontrai Bettino, su invito di Carlo Tognoli. Ero uno studente universitario e non sapevo chi fosse Craxi, assessore all’Economato a Milano. Si alzò dalla scrivania e si avvicinò in tutta la sua statura: “Che cosa sai fare?”, mi chiese. “Il cinema. Per me il cinema è tutto”. Mi fulminò: “La politica è tutto”. Avevo vent’anni e fu un incontro indimenticabile. Così come non dimenticherò che il giorno in cui morì le prime due telefonate furono di Cristiana Muscardini, allora europarlamentare di An, e di Luigi Corbani, ex vicesindaco migliorista di Milano. Entrambi piangevano».

Che cosa le manca durante il lockdown?

«Andare nella mia Valtellina il fine settimana. Stare in casa nel weekend mi punge, ma rispetto le regole».

Si faccia un augurio per gli 80 anni.

«Di rivedere le due nipotine gemelle di quattro anni. Ora le vedo su Skype, ma aspetto di godermi presto la loro allegria, sana forma di ribellione al virus».

 

La Verità, 5 dicembre 2020

Fabula veneta: incontri con scrittori, editori, poeti

Questo libro è una creatura venuta su spontanea. Gratuita come certe piante che spuntano sul ciglio della strada. Piante laterali e strane, difficili da trovare negli erbari o negli album di botanica. Così è questa raccolta, cresciuta a margine della collaborazione con La Verità, la testata per la quale realizzo interviste settimanali e, fra queste, alcune a scrittori, editori e poeti veneti. Era pronta per la tipografia all’inizio dell’anno, ma d’accordo con l’editore abbiamo deciso di rinviarne la pubblicazione a causa dei fatti che tuttora condizionano la nostra quotidianità.

Sono trevigiano di origine e vivo alle porte di Padova, dove sono tornato dopo venticinque anni trascorsi a Milano. Incontrare questi autori è stato un modo di riallacciare i legami con la mia terra e approfondirli. Dopo le prime chiacchierate, qualcuno di loro mi ha sollecitato a farne altre e a raccoglierle. A un certo punto ho iniziato a dar credito a quel suggerimento, non senza un residuo scetticismo. Non sono uno specialista, non sono un critico letterario, non ho le cosiddette letture giuste. Sono solo un giornalista atipico. Curioso delle persone più che amante delle parole. Anzi, per le parole nutro una certa diffidenza.

In un primo tempo questo libro avrebbe dovuto intitolarsi Parole venete. Ma non mi girava bene in testa. In Tracks (Tracce), un film di John Curran del 2013 che narra la vicenda reale di una ragazza che nel 1977 attraversò il deserto australiano per andare a vedere l’oceano, c’è una frase che mi ha colpito. Dopo giorni di cammino solitario quella ragazza si era imbattuta in alcuni indigeni che l’avevano ospitata e con i quali aveva dialogato. «Come?» le aveva chiesto un amico fotografo: «Ci sono tanti modi per comunicare… Le parole sono sopravvalutate».

«Le parole sono importanti», diceva qualcuno. Ed è vero. Ma sono anche sopravvalutate, tanto più oggi. Nella vita quotidiana, in televisione, nei talk show, spettacoli del parlare, e ancor più nei social media, la parola domina, spadroneggia. Senza che, peraltro, ne sia rispettato lo scopo: essere ascoltata. Gli esempi si sprecano. Viviamo in una società sempre più autistica, nella quale le relazioni e i dialoghi veri scarseggiano, chiusi come siamo dentro il nostro ragionamento, la nostra certezza di avere ragione. Così il titolo è cambiato in Fabula veneta, nel tentativo di sottolineare il valore dell’ascolto.

Mi piacciono le interviste perché m’incuriosisce l’altro. L’altra persona. Fare domande serve a soddisfare la curiosità. Perciò, sempre per stare al titolo, abbiamo deciso di inserire la parola «incontri». E di arricchire il contenuto della «fabula» con i ritratti di tutti i protagonisti firmati da Loris Boschieri, in arte Bosk. Non è un libro di discussioni letterarie, di critica, o sui destini della narrativa del Nordest. Ma un’antologia un po’ selvaggia di incontri con persone che scrivono in prosa o in versi e si occupano di libri.

Chi sono veramente questi scrittori? Che vita conducono? Sono solitari, socievoli o social, come si dice oggi? Che cosa sta loro a cuore, oltre il successo delle loro fatiche? L’editore-scrittore-affabulatore Ferruccio Mazzariol mi ha detto: «Io sono convinto che la narrativa sia lo strumento rivelatore più acuto della condizione umana, ancora più della teologia». E la scrittrice-teologa-insegnante Mariapia Veladiano: «I romanzi riescono a parlare di teologia rispettando la inafferrabilità della vita. Credo che ci sia più teologia nella letteratura che nei trattati».

Queste persone si dedicano alla letteratura in un territorio definito, con qualche sconfinamento fuori dal Veneto. Da qui è sorta un’altra domanda. Tra questi autori ci sono delle linee comuni, un tratto esistenziale o psicologico che li avvicina? Oppure è ancora attuale il ritratto un filo inquietante che dei Narratori del Veneto faceva Guido Piovene: «Al Veneto socievole potremmo sostituire l’immagine d’una famiglia (poco espressa in profondità) di caratteri saturnini, strani, intricati, fegatosi, misantropi e un po’ deliranti: funghi cresciuti sotterranei e pipistrelli cavernicoli». Esiste, insomma, una geoletteratura veneta e del Nordest? O esistono delle affinità esistenziali, delle nervature psicologiche e, di conseguenza, letterarie? La grande maggioranza degli interpellati rifugge la formula. Non c’è una comunità di scrittori veneti, meno che mai del Nordest. Sono categorie superate, mutuate da sintesi giornalistiche. Gli scrittori sono esseri solitari, piuttosto individualisti. Che, in questa periferia editoriale, stentano a fare gruppo. Qualcuno abbozza timidamente l’idea della «società letteraria», ma è una suggestione alla quale non si dà troppo credito. In generale, tutti scrivono isolandosi, qualcuno soggiacendo alle proprie ossessioni, tormento, alimento creativo, linfa vitale.

Semmai il Nordest rimane come riferimento socio-economico. Ferdinando Camon, che si definisce scrittore della crisi, cita Charles Pèguy, secondo il quale «la scomparsa della civiltà contadina è il più importante avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo». È una buona chiave per comprendere lo smarrimento della seconda metà del secolo scorso, nel quale sorgono e si definiscono le vocazioni di quasi tutti gli intervistati. Il tramonto dell’universo contadino, con i suoi riferimenti religiosi e culturali, è lo scenario in cui si esprime anche Luciano Cecchinel e, in parte, Francesco Permunian. Dopo di loro prende corpo una generazione diversa (Gianfranco Bettin, Romolo Bugaro, Francesco Maino, Vitaliano Trevisan…), più sociale e, a tratti, sociologica, alla ricerca di nuovi equilibri che possano fornire risposte adeguate alla crisi che ha aperto il nuovo millennio. Ma le risposte, il più delle volte, non si trovano. Motivo per cui, in alcuni dominano risacche di nichilismo, di pessimismo e non speranza. Insieme a quello con Vitaliano Trevisan, il dialogo più drammatico e commovente allo stesso tempo, mi sembra quello con Nico Naldini. L’intervista a lui, quella a Gianfranco Bettin e Luciano Cecchinel sono totalmente inedite. Le altre sono rielaborazioni e integrazioni, più o meno robuste, di conversazioni pubblicate nei quotidiani per i quali ho lavorato negli ultimi anni. Ma ognuna è frutto di un incontro preparato, partecipato e ripensato appositamente per questa nuova pubblicazione. Il risultato è un prodotto eterogeneo e privo di qualsiasi ambizione sistematica.

Toccherà ai lettori dire se questa piantina selvaggia è gradevole oppure no.

copertinalibro-cavevisioni.it

Nota introduttiva di Fabula veneta (Apogeo editore), dal 14 settembre nelle migliori librerie del Veneto e su tutti i siti di e-commerce

Ferdinando Camon più radicale di McCarthy

Fuggendo da Troia in fiamme, senza Anchise sulle spalle Enea avrebbe corso di sicuro più veloce», mi dice Ferdinando Camon commentando l’uscita del nuovo libro. «Eppure si caricò il vecchio padre sulla schiena, mettendo a rischio anche la sua stessa salvezza». È l’immagine che lo scrittore veneto, una delle ultime coscienze anticonformiste del nostro panorama culturale, rimugina da quando è scoppiata la pandemia e ha scoperto che i medici selezionano chi tentare di salvare e chi abbandonare al proprio destino. Ne scrisse per primo sulla Stampa già a fine febbraio, esordi del Covid-19, e da allora quel rovello non l’ha più lasciato. Perché in questa selezione tra esistenze di vecchi ed esistenze di giovani Camon vede una sconfitta grande e tragica. Uno smottamento etico e simbolico. La resa non solo della medicina, ma di una cultura, della civiltà tutta.

Sei mesi dopo quel primo allarme, l’autore di Un altare per la madre manda in libreria il pamphlet di denuncia A ottant’anni se non muori t’ammazzano (Apogeo editore, collana èstra narrativa diretta da Daniela Rossi). E il titolo può esser letto anche come una radicalizzazione di Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy, l’autore al quale Camon è stato a volte accostato, non solo perché nel romanzo dello scrittore americano il padre costruisce un innaffiatoio da lasciare in eredità al paese come fa il papà di Camon con il memorabile Altare per la madre. Ma in questo pamphlet di una novantina di pagine, l’amarezza è ben più densa perché legata al senso d’impotenza e rassegnazione per la fine di un intero mondo, di un’epoca nella quale i vecchi erano ancora coessenziali alla vita di tutti. «Virgilio», prosegue lo scrittore padovano, «chiama continuamente Enea pius, cioè pio. Per la stessa ragione, la nostra medicina che abbandona le vite fragili degli anziani, è empia. E lo sono non solo i medici, ma la nostra civiltà che li giustifica in base a criteri economici. Perché prodigarsi per mantenere in vita un vecchio che non produce, costa di più che tentare di salvare un giovane che promette».

La letteratura di Camon nasce da sempre dalla capacità di guardare oltre l’apparenza della quotidianità, cogliendo dalle cronache le ombre e i peccati del nostro essere uomini fragili e ambigui. Qui, lungi dal cedere al relativismo della società liquida, egli pronuncia il suo «non ci sto» nella prosa terragna, fatta di parole solide e a volte ruvide che gli conosciamo, scolpite nella formazione giovanile contadina durante i decenni scabri del dopoguerra. «Mi aspettavo che altri esprimessero questo dissenso, ma forse mi ero illuso», ammette al telefono lo scrittore. Ma non è certo un caso che l’abbia fatto lui.

Un uomo di 48 anni è ricoverato con i sintomi del coronavirus insieme al padre di 72. Appena entrati in ospedale li separano, lui in un reparto il padre in un altro. Ma due giorni dopo il medico entra per porgere al più giovane le condoglianze, «suo padre non ce l’ha fatta». L’epidemia si espande e dalle cronache trapela un’altra verità. Quando arrivano le chiamate nei pronti soccorsi il personale chiede l’età del paziente: se è avanzata, l’ambulanza nemmeno parte. La scelta tra salvare o abbandonare una vita non avviene in ospedale, ma al centralino, non la fa il medico, ma un infermiere o un volontario. Mancano i mezzi, mancano i respiratori, la responsabilità è dello Stato e del sistema sanitario, non dei singoli. Ma Camon non si rassegna, non si acquieta. I questionari ai quali il personale ospedaliero sottopone i familiari dei pazienti sono volti a selezionare, a escludere quelli che hanno meno probabilità di resistenza, a conoscere se hanno patologie pregresse che li rendono più vulnerabili, per non gravare su un sistema carente. È una selezione cinica. «Un sopravvissuto ricorda quando fu il momento in cui doveva morire e non è morto, perché un altro è morto per lui…», scrive l’autore. Era ricoverato insieme ad altri trenta pazienti in un ospedale civile, una lavanderia trasformata in reparto anti-Covid. Respiravano a fatica, con sole tre bombole a ossigeno a disposizione. Accanto a lui un ottantenne che dormiva sul fianco respirava bene perché collegato a una bombola tutta sua. Arriva un’infermiera, stacca il collegamento al paziente ottantenne e la collega a lui che si sente immediatamente rinascere. Da allora, annota Camon, «gli capita spesso di pensare a quell’anziano, piange e prega per lui».

Il diario della pandemia si conclude con la fine del lockdown e il salvifico ritorno alle relazioni con gli amici sopravvissuti. E soprattutto i nipoti, «vera reincarnazione dei nonni», più ancora dei figli. Al contrario di ciò che sosteneva Jean Paul Sartre, «tu da solo sei la malattia, gli altri sono la medicina», la possibilità di vincere la solitudine e di metabolizzare la morte. E, forse, anche la possibilità di lenire quell’amarezza provocata da una civiltà che – con l’eccezione della Chiesa, unica a combattere «la cultura dello scarto» – si dimostra sempre più incapace di caricarsi sulle spalle i vecchi, custodi della storia, depositari della memoria, ricchezza di tutti.

 

Panorama, 2 settembre 2020

«Abbiamo dimenticato la lezione di Enea»

È stato il primo a ribellarsi al sollievo perché morivano solo i vecchi. Che poi non era vero; cioè, non era vero quel «solo». Mentre la sua ribellione era, ed è, sacrosanta. Austero e refrattario alle apparizioni, l’ultraottantenne Ferdinando Camon è una delle ultime grandi coscienze morali e letterarie italiane. Il rispetto sacro per gli adulti lo accompagna da sempre, se si pensa che l’autobiografico Un altare per la madre uscì nel pieno della rivolta generazionale contro i padri. Senza la disgrazia del coronavirus, nei prossimi giorni Garzanti avrebbe dovuto ripubblicare Il Quinto stato, suo libro d’esordio. Nella casa di Padova dove vive con la moglie Gabriella Imperatori, anche lei giornalista e scrittrice, Camon attende e lavora. «Siamo preoccupati, nervosi e insicuri», confida. «Sento spesso i miei figli, ci scambiamo email. Io non rinuncio ad andare a comprare i giornali. Mi calo la mascherina e rincaso velocemente».

Muoiono più gli uomini che le donne.

E nessuno ha ancora spiegato perché. Dice che potrei mandare mia moglie?

Non mi permetterei…

Io ho imparato che quando serve una cosa se la fai tu è fatta. E poi mi alzo prima di lei.

Qualcuno ha proposto che i militari siano usati per l’assistenza agli anziani, alle famiglie isolate o con disabili…

Sono volontari e quindi professionisti: glielo si può chiedere. Se fossero figli del popolo arruolati dallo Stato, non si potrebbe. Se qualcuno mi portasse la spesa e i giornali a casa sarei contento.

Lei è stato il primo a ribellarsi al sollievo di fronte al fatto che muoiono di più i vecchi.

Sono parte in causa.

L’articolo che ha scritto era tutto men che ovvio.

Mi fa male che diventi una prassi rifiutare il trattamento in cura di chi ha una certa età. Un padre di 70 anni e un figlio di 50 sono stati ricoverati in contemporanea. Il figlio è stato destinato al reparto a, il padre al reparto b. Dopo due giorni hanno fatto le condoglianze al figlio. Il figlio sopravvissuto ha capito che il reparto dov’è stato ricoverato il padre non disponeva delle attrezzature per combattere questa malattia.

Si dice che tra un vecchio e un giovane è meno peggio se muore un vecchio: sbagliato?

Io sostengo che non dobbiamo accettare la selezione. La medicina non esiste per decidere su chi applicarsi, ma per applicarsi a tutti. Poi c’è chi ce la fa e chi no. Ma l’anziano non deve morire perché non viene curato. Ha presente Enea? Scappa da Troia in fiamme caricandosi il padre Anchise sulle spalle. Virgilio lo chiama continuamente «il pio Enea». Noi adesso siamo in una società empia.

Spietata, come la medicina di guerra.

Diciamo che a Enea era ben chiaro che senza il padre in groppa avrebbe potuto essere più veloce e avere più possibilità di salvarsi.

Se c’è da scegliere tra un giovane e un vecchio si cura il giovane.

Se in un reparto c’è un solo ventilatore polmonare per due pazienti è preferito quello che teoricamente ha una vita più lunga davanti. È un discorso economico che capisco. Ma osservo anche che se ci troviamo di fronte a una malattia invasiva e la nostra sanità non ha macchine per curarla, allora la nostra sanità ha fallito.

Ciò che è sotto gli occhi di tutti.

Trovo inaccettabile che, se arriva un anziano di 75 o 80 anni che necessita di un respiratore, l’ospedale lo metta in attesa per vedere se, di lì a poco, può averne bisogno un cinquantenne. Ora questa selezione non avviene più al momento del ricovero ad opera dei medici, ma alla richiesta del soccorso. Chi risponde si fa dire l’età e, se è avanzata, l’ambulanza non parte. Questa è selezione: io rifiuto che qualcuno possa decidere se ho diritto di vivere o no.

Ha scritto che i vecchi sono fragili e preziosi. Che se si rompe un vaso nuovo lo si ricompra, mentre un vaso antico non si trova. Che consapevolezza abbiamo dell’insostituibilità dei vecchi?

C’è un generale, diffuso, deprezzamento dei vecchi. Nella cultura, nella medicina, nella sanità, nelle famiglie. Sono considerati un’appendice. Come se la vita fosse vita fino a settant’anni. Un giornale, uno solo per fortuna, ha scritto che dopo i sessanta si è anziani. Io credo che anche a ottant’anni sia vita progettuale. In tutti i casi non faccio il discorso contrario. Cioè, che un ventenne che sa poco vale meno di un ottantenne che sa molto. Io dico che la vita è vita finché la natura non la spenga.

Cosa pensa della situazione delle case di riposo?

Sono dei lazzaretti. Dei posti dove vengono confinati i destinati alla morte. L’epidemia miete con la falce a gran colpi. Muoiono a decine ogni notte, si infettano facilmente, non sono protetti, non hanno strumenti di salvezza. Sono la punta avanzata di una società che abbandona i vecchi.

Muoiono in solitudine.

Nell’abbandono. È una morte che contrasta con la nostra idea di morte. Noi siamo cresciuti con l’idea che se un vecchio muore, il nipote che sta in America prende un aereo e viene qua. Adesso nessuno prende aerei. Il vecchio muore solo e viene sepolto da solo.

Spesso senza il conforto dei sacramenti.

Non c’è funerale, non c’è nulla. La Chiesa autorizza chiunque sia vicino, se solo è battezzato, a dargli un segno di croce. È una morte disperata.

Se sei mesi fa le avessero prospettato una situazione così…

Non ci avrei creduto. Ho difficoltà a crederla reale ancora oggi. Il condominio dove vivo, vuoto. L’ascensore, vuoto. La strada, vuota. All’edicola non c’è mai nessuno. È un mondo che ho difficoltà ad accettare.

La morìa degli anziani è la perdita della memoria, come l’incendio della Biblioteca di Alessandria?

Sì, con gli anziani va perso un mondo. Il mondo dei padri, e dei padri dei padri, non ha più testimoni e non ha più ricordi.

Si ha la percezione di questa perdita?

L’uomo massa non ce l’ha. La stragrande maggioranza delle persone non ce l’ha.

Che conseguenze avrà?

Si perde una grande spinta nell’opinione pubblica, nel senso di comunità. I vecchi leggono, pensano, parlano. Una società privata di questa spinta è monca.

La morìa degli anziani è anche un sollievo per le casse dell’Inps?

Certo. Il che non significa che l’Inps sia tra gli untori.

No.

Come in quella poesia di Konstantinos Kavafis, Aspettando i barbari. Il villaggio si ferma, penseranno i barbari a fare le nuove leggi… Ma i barbari non arrivano, e il sindaco dice: «Era una soluzione, quella gente». Non c’è dubbio che il presidente dell’Inps possa pensare che, dopo tutto, la riduzione degli anziani sia una soluzione.

Siamo immersi in una cultura giovanilistica?

Certo. Nella società, nel costume, negli interessi, nei consumi: tutto è incentrato sui più giovani.

Questa cultura è anche figlia della rottamazione?

Rottamazione è una parola orrenda perché si riferisce alle macchine che si buttano per aprire il mercato a nuovi prodotti. Non è ciò che deve avvenire tra gli uomini. Non seppelliamo gli anziani per far spazio ai giovani. Anche se quando c’è da investire lo si fa solo per loro.

Con la preghiera nella piazza san Pietro deserta, papa Francesco, suo coetaneo, ha compiuto il gesto che rimarrà nella mente di tutti noi?

È stato l’atto che solo un grande può compiere. Ha capito che la sua platea era universale. Ha fatto un discorso orbi, anche se non c’era l’urbi. Si è rivolto al mondo, anche senza la piazza.

È l’unico che contesta la cultura dello scarto, che taglia fuori vecchi e bambini.

Chi li taglia fuori non ce l’ha con i vecchi, ma vuole risparmiare. L’economia prevale sull’etica.

Il regista ultraottantenne Pupi Avati ha scritto una lettera alla Rai per chiederle di stravolgere i palinsesti e sintonizzarli sul particolare momento con contenuti più culturali. In questi giorni gli anziani sono più protagonisti dei cinquantenni?

Non sono più protagonisti perché la società non assegna loro questo ruolo. Ma avrebbero la cultura per svolgerlo. La cultura classica contiene risposte. Ho letto che si vogliono riproporre i Promessi sposi perché c’è sete delle cose che restano. Gli anziani hanno vissuto nell’epoca dei libri duraturi, i giovani sono cresciuti nell’epoca del prendi e getta.

Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy, spesso citato per La strada, sembra Un altare per la madre trasferito in America mezzo secolo dopo: il titolo è più che mai attuale qui e ora?

Più che un paese, non è una civiltà per vecchi. Non è una società per vecchi. Il vecchio è superfluo.

 

Panorama, 8 aprile 2020