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«Ci salverà il lavoro umano, non le task force»

Ha l’età di Elisabetta II d’Inghilterra, ma la reattività di un quarantenne. Tre ore dopo la mia mail, Franco Ferrarotti, padre della sociologia italiana, è al telefono con la sua voce squillante. Niente uffici stampa né altri intermediari. «La regina? Sì, siamo entrambi dell’aprile del 1926. Una coincidenza. Io non sono né re né regina e nemmeno monarchico. Ma ricordo che, a differenza di altri sovrani che ripararono in Canada o altrove, i Windsor restarono nella loro residenza anche durante i bombardamenti dei tedeschi. L’ora più buia, come va di moda dire. Un conto sono certi pennacchi di facciata, un altro l’attaccamento al popolo di cui si è veri rappresentanti».

Consigliere di Adriano Olivetti, fondatore di riviste e collane editoriali, gran viaggiatore, docente negli Stati uniti, parlamentare, cavaliere di Gran croce, tuttora professore emerito alla Sapienza di Roma, a proposito di vecchi che hanno parole più solide nei momenti drammatici, l’editore Marietti 1820 sta pubblicando tutte le opere di Ferrarotti: sei volumi, cinquemila pagine.

Professore, qual è la prima lezione che dovremmo trarre da questa pandemia?

«Che la famiglia umana ha un destino comune e nessuno si salva da solo. Devo fare autocritica: pensavo che la globalizzazione sarebbe stata opera delle multinazionali, invece la sta facendo il virus».

Che cosa vuol dire?

«La globalizzazione è stata lo strumento delle multinazionali occidentali per soddisfare la fame di mercati, il bisogno di produrre, vendere e generare profitto. Il quale è legittimo, s’intende. Ma questo era il mondo di prima».

Invece, con la pandemia…

«Dobbiamo riscoprire il senso del limite. Non possiamo pensare che andare avanti per andare avanti sia in sé il bene. È giusto produrre, ma mantenendo l’equilibrio ecosistemico delle comunità».

Adelante con juicio.

«Dobbiamo imparare la lentezza, perché il cervello umano è una macchina lenta. Dopotutto, ci vogliono sempre nove mesi per fare un bambino. A meno che i ginecologi non s’inventino qualcosa… ma nemmeno l’inseminazione artificiale ha migliorato le cose, anzi. Può darsi che l’uomo non sia fatto per vivere alla velocità della luce».

Lo spot di una casa automobilistica tedesca recitava: «Io sono il tempo. Vado avanti per natura. Può sembrare che vada di fretta. Ma anche se non puoi fermarmi, grazie alla tecnologia puoi darmi molto più valore».

«È l’illusione di onnipotenza alla quale ci siamo votati. Spero impareremo che siamo interagenti, interdipendenti. Nessuno si salva da solo, come ha detto il Papa».

Nel secolo scorso abbiamo lottato contro la povertà e il terrorismo, ora la minaccia riguarda la salute.

«Stavolta non sono in gioco l’equilibrio socio economico e la redistribuzione della ricchezza, ma la sopravvivenza dell’umanità come famiglia unitaria. Il virus intacca le radici esistenziali della natura umana».

È una sconfitta per la scienza?

«Da tempo la scienza non è in grado di dispensare certezze, cioè leggi universalmente necessarie e vincolanti. Dopo la grande triade Copernico Galileo Newton, dopo la teoria della relatività, può darci solo uniformità tendenziali e probabilistiche».

È una sconfitta anche per la politica?

«I politici, non solo i nostri, nascondono dietro una scienza che non è quella che immaginano, la propria incapacità di decidere e di rappresentare i popoli».

Tutti o qualcuno di più?

«Direi tutti i gruppi dirigenti, non solo i governanti. Anche coloro che collaborano a formare l’opinione pubblica. Sono già iniziate contestazioni e processi fuori luogo che andranno fatti quando la crisi sarà superata».

Che cosa comporta per la nostra società la moria degli anziani?

«Una perdita irrimediabile. I vecchi sono lo scrigno della memoria, senza la quale non c’è vita sociale e civile. Gli esseri umani sono ciò che sono stati e ciò che ricordano di essere stati. Per questo la memoria è fondamentale. Noi siamo ricordi ambulanti».

Che sconfitta è se una comunità non può accompagnare chi muore?

«Tragica, perché i morti continuano a parlare. La grande invenzione della storia umana è stata la sedentarietà, cioè l’uscita dal nomadismo. Le popolazioni hanno scelto di rimanere ferme perché non potevano trasportare i morti, così la casa e l’opificio sono sorti accanto al camposanto».

Che cos’ha pensato vedendo i camion dell’esercito che trasportavano le bare di Bergamo?

«Quell’immagine ha messo in luce l’imbarazzo dei sopravvissuti. I quali possono pacificarsi solo trasformandosi da superstiti in supertesti. Cioè testimoni di coloro che non ci sono più. Ma che, nel ricordo, continuano a vivere».

L’immagine più memorabile sono quei camion, il Papa solo in piazza San Pietro o l’infermiera addormentata sulla tastiera del computer?

«Oltre tutte queste, non mi abbandona quella del malato intubato che respira grazie a un congegno meccanico. Un morto che non cessa dal morire e affida alla macchina la sua speranza di vita».

Se le avessero detto che saremmo stati reclusi in casa davanti a uno schermo ci avrebbe creduto?

«Certo che no. Per gli italiani e i popoli mediterranei la socializzazione elettronica è una mutilazione. Per secoli abbiamo comunicato più con i gesti e le mani che con le parole. Giustamente si fanno le lezioni via web, ma il nostro vitalismo ci dice che non ci sono surrogati del dialogo faccia a faccia».

Non ha molta fiducia nella comunicazione elettronica.

«Perché è comunicare a, anziché comunicare con».

La differenza?

«Comunicare a significa comunicare tutto a tutti. Cioè, in realtà, niente a nessuno. Comunicare con esprime la comunione, il parlare guardandosi negli occhi».

Dopo la crisi saremo migliori, uguali o peggiori?

«Saremo diversi: migliori se diventeremo più consapevoli dei limiti del profitto e del mercato. Il profitto è legittimo quando dimostra razionalità nella gestione dell’impresa. Ma la ricerca della sua massimizzazione nel più breve tempo possibile porta a un’azione predatoria, insensata e infine autodistruttiva. Quanto al mercato, che ha vinto su scala planetaria contro Confucio in Cina e le caste in India, è legittimo come foro di negoziazione. Ma quando l’economia di mercato diventa dominante e i politici cominciano a dire “Vediamo come aprono i mercati”, c’è il rischio che si traduca in società di mercato».

Il mercatismo di cui parla Giulio Tremonti.

«Esatto, un’economia prettamente finanziaria, non produttrice di merci. L’espressione “società di mercato” è una contraddizione in termini. Perché identifica rapporti che valgono in quanto finalizzati a un obiettivo strumentale definito da un prezzo».

Perché tornare al mondo di prima sarebbe la fine?

«Perché è un mondo in cui l’individuo non è aggregato, ma disgregato. In cui c’è libero accesso, ma non controllo dell’eccesso».

Guardando al futuro, come trovare equilibrio tra libertà e sicurezza, iniziativa e salute?

«L’equilibrio non si trova una volta per tutte, sarà sempre mobile e problematico. È inutile interrogare la scienza come una sfinge. Vedo la necessità di tornare ad Aristotele, che sosteneva che la virtù fondamentale dell’uomo e della donna in politica è la prudenza».

Concretamente?

«Vuol dire tenere alti gli ideali di libertà democratica, giustizia sociale e iniziativa del singolo. Ma sapendo procedere a piccoli passi, in vista del bene pubblico. Credo che dovremo scoprire un nuovo riformismo. Finora abbiamo oscillato tra il polo rivoluzionario, con l’immaginazione che è diventata incompetenza al potere, e il polo del realismo pauroso che dimentica le grandi visioni».

La terza via è quella della tecnica e delle task force?

«La tecnica rappresenta un’illusione di perfezione operativa, ma non è in grado di dire da dove veniamo, dove siamo e dove andiamo. Ha una prospettiva solo strumentale. Le task force sono il tentativo di coprire le vergogne dell’indecisionismo con foglie di fico ingiallite».

Quali dovrebbero essere le priorità della fase due?

«Tornare a lavorare e produrre, ma con grande cautela. La parola d’ordine è convivere con il virus».

Sarà il primo e l’ultimo?

«Non sarà l’ultimo, perché il dramma del vivere, per gli esseri umani, gli animali e i vegetali passa attraverso la lotta costante per la sopravvivenza».

Su cosa far leva, dove trovare le risorse migliori?

«Qui non si tratta di materie prime, naturali o soprannaturali. Per ripartire servirà una grande chiamata al coraggio e al cambiamento. Dobbiamo capire questa lezione di lentezza, di silenzio, di solitudine, di profondità. Questa crisi ci ha fatto riscoprire gli esercizi spirituali inventati da Sant’Ignazio di Loyola».

L’Occidente è disposto a questa revisione?

«Dobbiamo scegliere. Galvanizzati dall’onnipotenza tecnologica, puntavamo a conquistare Marte, ma il virus ci ha riportato con i piedi per terra. Alla crisi seguirà una voglia di vita, ci sarà una ripresa della natalità. Stiamo vivendo un tempo di depurazione, una catarsi. Come dopo il Getsemani».

Possiamo contare sull’Europa?

«L’Europa ha un’enorme occasione. Invece di Meccanismo europeo di stabilità lo si chiami Meccanismo europeo di solidarietà. Senza cambiare l’acronimo. L’Italia deve farsi dare i 37 miliardi per la sanità non solo senza condizioni e a lunga scadenza, ma anche a un tasso dello 0,5%».

Vede un ritorno della centralità dello Stato?

«Dovrà essere una centralità leggera, non il foro degli opportunismi e della corruzione endemica com’è ora. Ci vorrà uno Stato centrale più snello, coordinato con le comunità di base e le regioni. Attenti a evitare i protagonismi incrociati di ministri, governatori e sindaci».

Se dovesse dare l’agenda al premier della rinascita cosa gli direbbe?

«Di procedere per gradi, sulla base di tre criteri. Primo: migliorare il servizio sanitario nazionale. Secondo: promuovere industrializzazione senza disumanizzazione, come raccomandava Olivetti. Terzo: lavorare a un grande risveglio del Mezzogiorno».

 

La Verità, 26 aprile 2020

Quei Diavoli che stanno in cima alla globalizzazione

La forza di Diavoli, la nuova serie in onda su Sky Atlantic, è nell’equilibrio. Nell’ampiezza della prospettiva e nella contemporanea capacità di tessere e mantenere tesi i fili del racconto. Tratta da I diavoli (Rizzoli) di Guido Maria Brera, un passato nel trading della finanza, un presente da scrittore e fondatore di La nave di Teseo, ben recitata da Patrick Dempsey, Alessandro Borghi, Kasia Smutniak, Lars Mikkelsen e il resto del cast, prodotta da Sky Italia e Lux Vide, in collaborazione con Orange studios e Ocs, diretta da Nick Hurran e Jan Maria Michelini (cinque episodi a testa), Diavoli ha l’ambizione di riscrivere l’estetica e il linguaggio della serialità, non solo di Sky, degli ultimi anni. Non una storia locale, seppur potente, un microcosmo emblematico che approda alla ribalta internazionale come abbiamo visto da Gomorra in poi, passando per Suburra per la produzione italiana, oppure da The Bridge a Fortitude per quella nordica, fino alla stessa Casa di carta per quella latina. Ma una vicenda che nasce proprio nel cuore della globalizzazione. Vuole rappresentarla e interpretarla. Dipanandosi tra Londra, New York e le capitali dell’alta finanza, con precise contestualizzazioni nella storia vera, l’arresto di Dominique Strauss-Kahn, la guerra libica e l’uccisione di Gheddafi, lo sprofondo della Grecia.

Siamo a Londra nel 2011 e al comando della New York London Investment Bank c’è l’ambiguo Dominic Morgan (Dempsey) che sta per scegliere il suo vice. Il candidato più accreditato è Massimo Ruggero (Borghi), talentuoso broker che ha anticipato l’evoluzione della crisi greca. Quando il suo rivale muore, apparentemente suicida, precipitando dall’ultimo piano nella hall della Nyl e i sospetti ricadono su di lui, la stella di Ruggero si offusca e l’intreccio narrativo decolla. Tutti i diavoli sono guerrieri o monaci votati al successo, con un lato oscuro. La novità della serie sta nel respiro del racconto che non perde mai compattezza tra i suoi fulcri narrativi. Il primo è il focus logistico: l’ammaliante sede della Nyl, il posto del potere, il quartier generale finanziario da dove si controlla il mondo, che ha nell’organizzazione anarchica Subterranea il suo antagonista. Il secondo è il thriller legato alle indagini sulla morte del rivale di Ruggero. Il terzo focus è quello sentimentale: le storie del cuore, che comprendono l’origine umile e il bisogno di riscatto di alcuni dei protagonisti. Tutto narrato con linguaggio internazionale, nella luce abbagliante della city. L’unico snodo che non si scioglie sono i complicati meccanismi delle borse. Ma qui siamo dalle parti dell’impossibile.

 

La Verità, 24 aprile 2020

«Se ingoieremo il Mes saremo un protettorato»

Un sito che si chiama La Fionda. Un blog no global nell’era dei giganti del web, delle piattaforme, di Instagram. Fresco di nascita, il 31 marzo scorso, ma già ricco di interventi e approfondimenti di una trentina di autori, tra i quali Carlo Galli e Umberto Vincenti. Diretti da Geminello Preterossi, toscano, laureato alla Normale di Pisa, docente di filosofia del diritto e storia delle dottrine politiche a Salerno, autore di studi sulla democrazia, sul populismo, su Carl Schmitt e direttore dell’Istituto italiano per gli studi filosofici. Uno che si definisce «di sinistra», anche se, ormai, per l’evoluzione subita negli ultimi decenni, «dire sinistra è quasi dire una parolaccia».

Invece l’idea della Fionda è romantica. Ce la spiega?

«È un sito-rivista, espressione di una comunità di studiosi di politica e diritto, insegnanti, informatici, semplici appassionati. Persone sparse in tutta Italia, impegnate fuori dai partiti tradizionali. Dalla crisi del 2008, primo scossone alla globalizzazione, abbiamo approfondito le istanze di ciò che viene chiamato populismo. Ribellandoci all’espropriazione della sovranità democratica e riproponendo i diritti sociali e del lavoro».

Una comunità orientata a sinistra?

«Una comunità plurale, convinta che la sinergia tra neoliberismo e globalizzazione abbia effetti esiziali».

Chi è Davide e chi è Golia?

«Golia sono i giganti digitali e la grande finanza. Ciò che il sociologo Luciano Gallino chiamava “il finanzcapitalismo”. Se i colossi finanziari, che non rispondono alla comunità politica, impongono ovunque l’ordine mondiale neoliberale, il risultato è il caos con strati crescenti di popolazione inferiorizzata».

E Davide?

«Sono le comunità, i cittadini. Direi il popolo, se non sembrasse una provocazione. Davide è qualcuno che non ha paura di mirare dritto. Il popolo è fatto di tanti interessi e componenti, ma una cosa lo caratterizza, oggi: è tutto ciò che non è establishment. Sono gli esclusi, in aumento nel sud Europa e nel ceto medio».

Nell’editoriale d’esordio ha scritto che uno degli obiettivi è mostrare «l’inconsistenza della filosofia global-progressista»: come?

«Smentendo l’idea che globale è bello di per sé. E smontando l’illusione che, sulle ali della tecnologia, dalla famiglia e dalla tribù si arrivi direttamente alla dimensione planetaria. In mezzo ci sono le città, gli Stati e gli imperi, le strutture reali della convivenza».

L’esplosione della pandemia rafforza le visioni globaliste e l’universalismo politico?

«Ci sono forze che spingono verso questa omologazione. Una grande convergenza, svincolata dai popoli, ognuno con la propria storia. Credo che al posto di universo, si dovrebbe parlare di multiverso o pluriverso. Ci sono identità, tradizioni, interpretazioni. In passato c’erano la Nato e i Paesi del Patto di Varsavia. Poi c’è stata l’ondata neoliberista con Margaret Thatcher e Ronald Reagan. C’era comunque un grande dibattito. Dopo l’avvento di Tony Blair e Bill Clinton si è immaginata una prospettiva irenica universale, che appiattisce le differenze e cancella la mediazione dei conflitti. I quali, teoricamente, dovrebbero scomparire. Invece aumentano…».

Se il virus non conosce confini lo si può combattere solo in una prospettiva globale?

«Il virus è globalista, non sovranista. È l’inveramento della globalizzazione finanziaria. Il virus ha bloccato il motore della globalizzazione, riproponendo la necessità del ruolo dello Stato».

Il virus ha messo in evidenza anche la fragilità dell’Europa. Le scuse di Ursula von Der Leyen sono un’inversione di tendenza reale?

«Per carità, con quel profilo da visitor… Guardiamo ai fatti, non alla retorica. I fatti sono che ogni Paese guarda a sé stesso. A partire dalla Germania che si è fatta il bazooka di 550 miliardi fuori dal bilancio dello Stato. C’è una banca centrale senza uno Stato unitario. Si dovevano costruire gli Stati Uniti d’Europa, ognuno con la propria autonomia, ma non è andata così. La tecnocrazia non può sostituire la politica. Gli Stati del nord rifiutano la condivisione dei rischi. Lo si è visto durante la crisi della Grecia. Lo stiamo vedendo oggi. L’emissione degli eurobond sarebbe un inizio di condivisione del rischio. Ma non ci sarà».

Invece ci sarà il Meccanismo europeo di stabilità?

«Alla fine ce lo faranno ingoiare. Ci sono spinte forti, tutto l’establishment italiano – Pd, Italia viva, Forza Italia – è favorevole. Anche se accettassimo la parte che riguarda la sanità, il trattato di base ci porterà la Troika sull’uscio di casa. Ci sarebbero conseguenze nefaste sul welfare, le pensioni, l’occupazione. Non credo che i fautori del Mes non sappiano che su questa strada diventeremo un protettorato votato al vincolo esterno, imposto dall’economia tedesca che privilegia la lotta all’inflazione su quella alla disoccupazione».

E allora perché insistono?

«Per due motivi. Uno ideologico: l’illusione globalista contraria alle identità e fautrice dell’omologazione. L’altro strategico: il timore che l’unica alternativa sarebbe finire in mano ai populisti».

Di che cosa è sintomo la proliferazione in Italia di commissioni, comitati, task force a tutti i livelli?

«La sensazione di una delega ai tecnici è molto più di una sensazione. Personalmente sono convinto che il potere decisionale deve rimanere in capo alla politica, titolare di una visione complessa e dell’opera di bilanciamento fra le varie componenti».

Crede anche lei che siamo di fronte a una sorta di clonazione del governo?

«Di fronte a questo evento inedito la compagine governativa ha mostrato i suoi limiti. Ma c’è anche una tendenza che viene da lontano. Nel sistema neoliberista, lo Stato si funzionalizza e spoliticizza, mentre, al contrario, le tecnocrazie si politicizzano. Così, però, i cittadini non si ritrovano perché con il voto legittimano dei rappresentanti, ma le decisioni le prendono altri».

Si ricorre ai tecnici quando il gioco si fa duro?

«Sulla scorta dell’illusione che siano neutrali. L’abbiamo già visto con il governo di Mario Monti».

Arrivato come il salvatore…

«In realtà, si è comportato come un emissario straniero. Per caso ha ridotto il debito pubblico? Semmai ha ridotto il debito con l’estero e i salari. Per non parlare del disastro degli esodati. I tecnici non sono mai neutrali. Dietro l’aura dell’oggettività, fanno passare una visione».

Per esempio?

«Se ci si occupa solo di domanda estera significa che si privilegiano le grandi imprese a scapito di chi vive di domanda interna, piccole aziende, commercianti, partite Iva».

La soluzione?

«Dev’essere la politica a guidare».

Anche se è di tutta evidenza che i governanti attuali non siano all’altezza di questa situazione?

«Nella prima fase di fatto hanno governato i virologi. Ora avanzano priorità economiche, strategiche, psicologiche, di orientamento».

Per questo è nata la task force per la ricostruzione guidata da Vittorio Colao.

«Persona stimata, come lo sono gli altri esperti».

Forse un po’ tantini… La ricostruzione del dopoguerra la guidò Alcide De Gasperi, che non era un tecnico.

«Nemmeno Pietro Nenni e Palmiro Togliatti lo erano. Siamo in presenza dell’ennesima delega: dicci come dobbiamo fare».

Per il dopo si sente molto parlare di Mario Draghi.

«Lo vuole un bel pezzo di establishment, apparati dello Stato, il Pd, Italia viva. Non credo che Lega e Fratelli d’Italia approvino un governo tecnico. Forse potrebbe servire a liberarsi del premier attuale. Personalmente, auspicherei un governo di unità nazionale».

Ci sono le condizioni?

«Probabilmente no. Resta la via maestra del voto, il bagno di democrazia. Quando si devono affrontare sfide alte la legittimazione popolare è fondamentale. Se non c’è, il limite strutturale viene a galla. E poi dobbiamo tener conto di un altro fattore».

Quale?

«Che dopo ogni governo tecnico, come abbiamo visto con Monti, la divaricazione tra élite e popolo aumenta».

Anche il conflitto tra regioni e governo non fa ben sperare.

«La riforma del Titolo V della Costituzione fatta dal centrosinistra è venuta al pettine. È mancata una definizione delle competenze. Infatti, la Corte costituzionale non fa che occuparsi di questo. Dove ci sono regioni più organizzate come al nord, l’Emilia Romagna e la Toscana, ci si salva. Altrove la situazione è tragica. La sanità della Calabria e della Sicilia sono perennemente commissariate. L’attivismo del governatore della Campania serve a mascherare gravi responsabilità nella gestione del sistema ospedaliero».

L’ultima task force nata è quella delle Donne per il Nuovo Rinascimento. Serviva?

«Mi sembra un’operazione simbolica, piuttosto retorica. Se si vogliono dare segnali forti serve ben altro».

Per esempio?

«Sono favorevole alla riapertura di cinema e teatri. Ovviamente nel rispetto delle normative. Meno pubblico nelle sale e opere con pochi attori, ma sarebbe un segnale forte. Anche la riapertura di osterie e trattorie lo sarebbe, non siamo il Paese di McDonald. Ma se quelle attività resteranno chiuse un anno, potranno non riaprire più. Inoltre, la riapertura di scuole e università è fondamentale. Non bisogna trasmettere l’idea che far didattica online sia più figo. No, la cultura è un’esperienza incarnata, di relazioni reali. Paesi arrivati dopo di noi stanno già riaprendo».

La sinistra di governo sta pensando alla patrimoniale e alla regolarizzazione degli immigrati per l’agricoltura.

«Si comincia con la tassa sopra gli 80.000 euro e si arriva al prelievo nei conti conti correnti che sono il risparmio delle famiglie. Le vere ricchezze su cui intervenire sono nei paradisi fiscali. Questo è il momento di mettere denaro, non di toglierlo».

E la regolarizzazione degli immigrati?

«Per carità, buona cosa. Ma mi sembra il modo per buttare la palla in calcio d’angolo e parlar d’altro. Per regolarizzare gli immigrati servono vere politiche sociali. Che non si stanno facendo per nessuno. Altrimenti dopo averli regolarizzati li abbandoneremo nelle periferie e alimentando il degrado sociale».

 

La Verità, 19 aprile 2020

«Certe lezioncine sono solo pessima letteratura»

Professor Massimo Cacciari, crede che questa epidemia abbia spiazzato la cultura positivista contemporanea?

No, non ha spiazzato quelli che sanno leggere e scrivere, tanto meno i medici e gli scienziati. Era tutto previsto. Ci sono intere biblioteche di studi dell’Organizzazione mondiale della sanità che anticipavano queste calamità. Le cause sono sempre le stesse: la deforestazione, il rapporto sbagliato con l’ambiente, il commercio illegale di animali. La Cina è piena di mercati dove avvengono queste cose senza controlli. Si chiama spillover (salto di specie di un germe patogeno ndr). Ha già dato origine alla Sars e a Ebola.

Non ha spiazzato gli scienziati, ma ancora non è stato trovato il vaccino.

Che cosa vuol dire? I virus e le infezioni cambiano. Della Sars il vaccino è stato trovato. Si troverà anche questo. L’anno scorso sono morte 8000 persone per complicazioni dall’influenza. Il coronavirus ha stupito chi non sa niente. Gli studiosi avevano lanciato l’allarme.

E la politica non l’ha raccolto?

La politica è ripiegata sulle proprie beghe e sa solo inseguire le emergenze. Ci svegliamo quando ci chiudono le città. Non c’è programmazione, non c’è prevenzione, non c’è convergenza. Gli studiosi continuano a dire di investire sulla sanità, la ricerca, la formazione. La politica non dà retta e procede tagliando e stabilendo numeri chiusi a capocchia nelle università.

È una battuta d’arresto della globalizzazione?

Cinquant’anni fa il contagio sarebbe rimasto a Wuhan e nessuno ne avrebbe saputo niente. Oggi qualsiasi cosa avviene in punto del pianeta diventa immediatamente globale.

Ci vorrebbe collaborazione tra le nazioni.

Già, basta guardare l’Europa. Ognuno è andato per conto proprio. L’Europa è scomparsa.

Abbiamo anche i guru da quarantena che ci spiegano ogni giorno quello che hanno imparato.

È tutta pessima letteratura. Non bastava questa sciagura? Con i problemi che ha l’80 o 90 per cento della popolazione. Leggere un libro, rivalutare le piccole cose… Mica tutti hanno le loro case. Ci sono famiglie di cinque o sei persone in 80 metri quadri, ci saranno eserciti di disoccupati e sottoccupati. Sono chiacchiere di nani e ballerine. Pifferai da quattro soldi. Ma qualcuno si chiede cosa accadrà se questa situazione andrà avanti?

 

Panorama, 1 aprile 2020

Ma i guru da quarantena non parlano di salvezza

Brulicano peggio dei ribelli alla clausura. Si dibattono. Si affannano. Alla frenetica ricerca di parole, di soluzioni, di ricette, di decaloghi per contrastare la disgrazia. Per dirci come dobbiamo comportarci. Per dare a tutti le chiavi interpretative della tragedia. Ogni giorno c’è un nuovo maestro del pensiero. Un intellò che ci trasmette ciò che ha imparato. Come dobbiamo vivere e affrontare la pandemia. Come dobbiamo vivere e affrontare la paura. Chiusi nel nostro rifugio. Al confino domestico. Perché «dopo» il mondo sarà migliore, assicurano. Noi stessi saremo migliori, più solidali, altruisti, empatici. Sapremo apprezzare anche quello che prima ci infastidiva. In forza di cosa è difficile a dirsi. Per quanto si dia da fare, di fronte alla disgrazia che accomuna i destini dell’intero pianeta la cultura mainstream, umanitarista, filantropica, positivista mostra tutta la sua insufficienza. La sua pochezza. C’è la versione volontaristica di Alessandro Baricco, il guru dei guru, che su una doppia di Repubblica ha constatato, infastidito, che «abbiamo troppa paura di morire». Suvvia, la paura della morte va gestita, controllata, organizzata nella comunità. Sfugge il come. Però, facciamoci coraggio, ha esortato l’autore dei Barbari, «è il momento dell’audacia». Perché la pandemia è solo un livello più elevato del Game. Basta fare l’aggiornamento. Poi c’è la versione tra l’ombelicale e l’autocommiserante di Antonio Scurati, riconosciutosi nella generazione dei cinquantenni «in coda per il pane». Uomini e donne «tristi, incongrui a loro stessi… arrivati del tutto impreparati all’appuntamento con la loro storia». Il quale, pur ammettendo «la fine di una certa idea di modernità», ha decretato che se «un’epoca è finita, un’altra comincerà». Anche lui, tuttavia, senza riuscire a suggerire una strada, qualcosa che mostri un cambio di passo. Infine, c’è la versione narcisistico nichilista di Sandro Veronesi, considerata la messe di recensioni devote al suo Colibrì, probabile successore di Scurati allo Strega, il quale ha dichiarato che il virus siamo noi, noi specie umana: «A che cosa serviamo, ormai, noi uomini sulla terra? Perché dovremmo continuare a vivere, noi, dopo che la Madre terra si è sbarazzata di altre migliaia di specie inutili o dannose?». Ben venga il coronavirus, quindi, e facciamo piazza pulita di questa escrescenza nociva, di questa piaga purulenta e nefasta che è la specie umana. Non è bello il mondo popolato di farfalle e gladioli?

No. Parole nuove non se ne leggono né se ne ascoltano nelle pensate degli intellettuali cool. È vero, si parla molto del «dopo» e del «quando». Perché è chiaro che ci sarà un prima e un dopo. Il Covid-19 stabilirà una cesura temporale. Ma grazie a cosa il dopo sarà migliore non si riesce ad intuirlo. Leggendo certi distillati sembra di trovarsi davanti a un acquario. O all’orchestrina del Titanic che suona senza avvedersi che il pensiero unico si avvicina pericolosamente all’iceberg. Nessuno che si fermi per farsi qualche domanda. Solo risposte, ricette. La presunzione dell’intellò non flette nemmeno di fronte a un microrganismo invisibile che ci sta gettando nel panico. Il superomismo di cui abbondano i nostri giornali risulta patetico e velleitario nella convinzione che, per aggiornare il computer del mondo, bastino «le piccole cose», «la solidarietà», «essere insieme». E tutto andrà bene. Per chi resterà.

Autocritiche zero. Allora proviamo a fare un passo indietro a fine Novecento, senza menarla troppo. Trent’anni fa, dopo la caduta del Muro di Berlino il Nuovo ordine mondiale ha fatto decollare la globalizzazione. Il paradiso terrestre era dietro l’angolo. Certo, c’erano le guerre asiatiche, ma c’era anche un gendarme che dettava l’agenda. C’erano le Nazioni unite, erano conflitti tutto sommato locali. Intanto, nell’Occidente progredito, passavamo dall’inseguire la società perfetta all’inseguire l’esistenza perfetta. Nascita e morte quando decidiamo noi e come vogliamo noi. A illuderci che l’Eden fosse a portata di mano è arrivata la rivoluzione digitale. Così ci siamo ancor più convinti di essere invulnerabili, onnipotenti, capaci di programmare tutto. Mondo perfetto, stiamo arrivando.

Poi invece son successi alcuni fatti imprevisti. Senza aprire il file «Migrazioni» o il file «11 settembre», c’è stata prima la crisi finanziaria di Wall Street (2008), il cui smaltimento appare tuttora remoto. E adesso quella di Wuhan, che vi si sovrapporrà, e vedremo come andrà a finire. Inizia perciò a insinuarsi il sospetto che queste crisi non siano solo incidenti di percorso, ma effetti non collaterali della cultura dominante.

Questa prova ci cambierà, si ripete. Ed è probabile. Ma che cosa ci garantisce che sarà in meglio? L’uomo rimane un essere limitato, ce lo spiega la morte e ce lo dovrebbe spiegare questa situazione. La scienza e la tecnologia progrediscono e grazie a dio continuano a farlo. Ma, con tutto il nostro impegno, alla fine quello che ci inventeremo non potrà non riprodurre il nostro limite ultimo. La nostra ambiguità. Il pensiero unico contemporaneo rimuove questo dettaglio, dibattendosi nell’acquario. In quella che tanti poeti hanno chiamato «stanza». Il perimetro della ragione intesa come misura delle cose. Un perimetro che, per quanto lo allarghiamo, a un certo punto finisce.

Forse l’unica vera lezione che dovremmo apprendere è una buona dose di umiltà. Ora che siamo blindati dentro le nostre stanze possiamo capirlo. Per quanto progrediamo, per quanto esploriamo, tutto ciò che facciamo, alla fine, s’imbatterà nel limite. «Fermatevi e sappiate che io sono Dio», recita il salmo 46. Solo un Altro che bussa alla porta può farci uscire dall’isolamento.

L’ultimo libro di Daniele Mencarelli s’intitola Tutto chiede salvezza (Mondadori). La parola che la cultura contemporanea non sa pronunciare è questa. Non è una parola astratta, una categoria filosofica, una pensata di qualche intellettuale ambizioso. È un incontro. L’ha pronunciata anche papa Francesco nella memorabile piazza san Pietro deserta: «Nessuno si salva da solo». Già. Prima ancora che per un fatto sociologico, perché per salvarci serve un Salvatore. Il romanzo di Mencarelli è il diario autobiografico del Trattamento sanitario obbligatorio cui fu sottoposto dopo che in un accesso di follia si era scagliato con violenza contro il padre. Lo presero e lo portarono nel reparto psichiatrico. Un giorno suona il campanello della stanza dov’è ricoverato insieme ad altri cinque malati reclusi. «Apro. A un centimetro dal mio viso mi ritrovo mio padre. Il suo stupore più grande del mio… Restiamo a guardarci, ognuno fa dell’altro il suo speciale inventario… Mio padre allarga le braccia… Ci abbracciamo». Come sarà stato quell’abbraccio?

Nelle ricette che leggiamo quotidianamente la parola salvezza non compare. Io stesso la pronuncio con pudore e zero meriti. Perché è una parola che contempla l’iniziativa di un Altro. Perché è un dono, un atto gratuito di Dio… Protesi verso i nostri traguardi, non riusciamo ad accorgerci di questo atto. A riconoscerlo nel desktop dei nostri computer. Perché non ci riusciamo? Semplice, perché Dio siamo noi.

 

La Verità, 31 marzo 2020

«La globalizzazione è l’era della solitudine»

«Ho preso casa qui, nel quartiere di mia madre e dei miei nonni. È quasi un paese, un villaggio. Vede quel negozio? Può esistere solo a Fiera». A Treviso, Fiera è il posto dei bambini perché tutti gli anni, in ottobre, arrivano le giostre, si chiamano ancora così. Il «negozio» che indica Francesco Targhetta è una stanza spoglia davanti a una parete con qualche pacchetto di sigarette, nient’altro. Accendini, sigari, tabacco, caramelle, fazzoletti di carta, giornali, bibite, quaderni, penne neanche l’ombra. Un angolo di dopoguerra sopravvissuto finora. Trentanove anni, insegnante di liceo, esordio come poeta, Targhetta ha una predilezione per i contrasti, le sacche di desolazione del turbocapitalismo, la solitudine in piena globalizzazione. Nel romanzo Le vite potenziali (Mondadori), premio Giuseppe Berto e secondo classificato al Campiello, narra di tre amici, protagonisti di una piccola epopea nel mondo dell’informatica. Ma ciò che spicca sono gli stati d’animo, certe atmosfere umbratili rese con intuizioni fulminanti. Come quella usata per descrivere un senso di smarrimento dopo una domanda rimasta in sospeso: provocò «la stessa sensazione che si prova dopo aver lanciato un boomerang e averlo perso di vista».

A fine marzo Mondadori ripubblicherà Perciò veniamo bene nelle fotografie, insolito romanzo in versi di qualche anno fa.

Come si diventa poeti nella periferia di Treviso?

«Credo sia più facile scrivere versi da posti magari non belli, ma vivi. È più difficile scrivere in contesti da cartolina o di armonia sociale. La poesia nasce da una forma di ribellione e indignazione, un po’ come tutta l’arte».

Perché è passato al romanzo?

«Avevo scritto un romanzo in versi, forma abbastanza insolita, su un gruppo di studenti fuori sede a Padova. Il romanzo è più adatto a raccontare una storia complessa e articolata».

Come mai un insegnante ambienta un romanzo nel mondo dell’informatica?

«Ritengo interessante che gli scrittori raccontino mondi altri, che non scrivano sempre di sé».

Gli scrittori non scrivono sempre di sé anche sotto mentite spoglie?

«Un po’ è inevitabile. Anzi, quando ci si maschera è più facile lasciarsi intravedere».

È la cosiddetta autofiction?

«Un tempo non era così, ma oggi le vite degli scrittori sono particolarmente noiose, la mia di sicuro. Perciò devo andare per forza alla ricerca di qualcos’altro. Ho voluto conoscere un mondo diversissimo dal mio».

Esiste la Silicon Valley del Nordest?

«È una sintesi giornalistica. Non mi sembra che il polo scientifico e tecnologico di Marghera, possa definirsi tale. Ci sono alcune aziende disseminate che però non formano un distretto compatto».

È un Nordest compiuto, ma sempre dipendente da altri centri?

«I clienti dell’azienda, i grandi marchi sono altrove. I personaggi sono costretti a spostarsi, com’è naturale per qualsiasi consulente».

La periferia consente di godere di una migliore qualità della vita attingendo al centro quando è necessario, senza subirne i condizionamenti?

«Io non riuscirei a vivere altrove. La provincia dà il tempo e lo spazio che mancano nelle grandi città. Ne ho bisogno per vivere e anche per scrivere. Poi, certo, ha i suoi abissi, l’inquietudine di un luogo dove succedono meno cose. Però questo stimola la creatività; se succedono meno cose forse puoi farle succedere tu».

Cita le vie, le piazze: perché tanta attenzione alla toponomastica?

«Ho la passione per i nomi dei luoghi. Ce ne sono di poetici, a Marghera Via dell’Elettrotecnica o Via dell’Azoto, che costeggia il canale industriale ovest, sono già poesia, non serve metterla in versi. Oppure la tautologia del paese che si chiama Paese fuori Treviso, o del lago che si chiama Lago».

Quella che racconta è una storia di tradimento di un’amicizia?

«È il motore narrativo del libro».

Il tradimento dell’amicizia è più grave di quello dell’amore? L’amore ha a che fare con un sentimento primordiale che si confronta con la tentazione, nell’amicizia la tentazione non c’è.

«Non ci avevo pensato. Nel contesto di competizione esasperata attuale le tentazioni sono altre. La fedeltà dell’amicizia non è più scontata. Viviamo vite schizofreniche, continuamente rivoluzionate: mantenere qualcosa che duri è complicato».

Parlando di Luciano, la persona in cui più si riconosce, scrive: «Ci sono persone a cui neanche una volta capita nella vita di essere amate».

«L’esclusione dall’amore è un tema che mi sta molto a cuore. È una condizione che riguarda un numero crescente di persone. Di cui però non si parla mai, perché sono vite che hanno poco di romanzesco, in cui non succede niente. È un’esclusione subita, non scelta. Una manifestazione del processo di atomizzazione in atto».

Le vite potenziali sono quelle permesse dalla rivoluzione digitale e dalla realtà virtuale?

«Sono le vite che si sovrappongono a quella presente. Internet ci fa essere qui e ora, ma al contempo altrove in un altro momento. Non sono le vite alternative delle sliding doors, ma le vite che si sommano a quella che stai conducendo. Ora sono qui, ma prima ho inviato una mail alla quale intanto mi hanno risposto, quindi sono anche lì».

Sono potenziali anche le vite di una generazione che stenta a rischiare fino in fondo?

«Direi di no. Le vite potenziali sono transgenerazionali. Un mio amico che lavora in Confindustria mi diceva che oggi vengono considerati più positivamente i curriculum con tante esperienze lavorative brevi piuttosto che quelli con poche e di lunga durata. Uno che ha cambiato più lavori ha visto più cose, fatto più esperienze, è più elastico».

Anche se a volte, come scrivi, avendo marce in più le ingranano a caso?

«Esatto».

Anche quella dei figli nella pancia delle due ragazze sono vite potenziali?

«Rappresentano l’unico spiraglio di speranza del libro».

Fuori dalla casa di famiglia di Alberto un cartello recita: «La vita è di Dio, l’aborto è contro Dio». Anche gli aborti sono vite potenziali?

«Da ricercatore universitario ho curato un libro del poeta Corrado Govoni intitolato Gli aborti. È una parola che m’insegue… Da ipotetico padre non saprei quali reazioni avrei. Ho una posizione libertaria, che difende la libertà di scelta».

Se non sono vite potenziali quelle dei feti abortiti…

«Sicuramente lo sono, non c’è dubbio. Abbiamo scelto questo titolo perché in sociologia l’aggettivo potenziali descrive l’evoluzione della contemporaneità, il cambiamento».

Vede solo lati positivi nella globalizzazione?

«No. Gli aspetti negativi sono l’aziendalizzazione delle nostre vite e il consumismo dilagante. Certe formule applicate alla sfera privata. Basta pensare alle app di appuntamenti in cui esaltiamo le nostre caratteristiche e qualità come fossimo merce in vendita».

Scrivendo un romanzo su un’azienda informatica ha dovuto misurarsi con l’anglo-italiano.

«Alla fine è un gergo, come ce l’ha ogni mestiere. L’informatica è zeppa di anglismi, ho cercato di limitarli. Mi sembrava una bella forma di attrito quello fra la lingua della letteratura e questo gergo».

Oggi i trentenni dicono «un giorno spot» anziché «qualsiasi», e «scegliamo random» anziché «a caso». Stiamo perdendo l’italiano?

«Anche “spoilerare” anziché “rovinare il finale”. Le peggiori sono le espressioni adattate in italiano. Negli ultimi anni la nostra struttura lessicale si sta restringendo, mentre la nostra lingua è molto più ricca di vocaboli. Ma per esempio gli studenti ne usano sempre meno. Per una sorta di compensazione ho voluto inserire parole desuete e da cercare nel vocabolario, per mostrare le potenzialità dell’italiano».

Appunto. Un’altra particolarità sono i periodi fluviali, un rischio se non sono ad altissima definizione.

«Questo è un aspetto a cui tengo molto. È un’altra compensazione rispetto alla frammentazione del mondo che racconto. La mia risposta è questo periodare lungo ed esteso: voi avete i codici e i numeri, io ho le subordinate. Nelle scelte linguistiche e sintattiche c’è il mio stile, la mia risposta polemica alla tecnica».

Ha avuto dei maestri locali?

«Maestri è una parola che non mi piace. Modelli invece sì. Per la poesia Guido Gozzano e Elio Pagliarani. Per la prosa Luciano Bianciardi».

L’ultimo libro letto?

«Turbulence, un libro di racconti a partire da voli aerei, di David Szalay, uno degli scrittori più talentuosi delle nuove generazioni. Uscirà in ottobre da Adelphi».

L’ultimo film?

«Suntan, un film greco con un personaggio houellebecqiano».

Houellebecqiano.

«Michel Houellebecq è uno dei miei autori preferiti. Per me il suo libro migliore è il primo, Estensione del dominio della lotta, protagonista un informatico».

Se Houellbecq fosse italiano come lo tratteremmo?

«Continuerebbe a vendere bene, come già accade. Forse s’imbatterebbe in forme di ostracismo e di pregiudizio ideologico nella stampa e tra i colleghi. È un tipo di intellettuale dissidente, anarchico e conservatore, cui la Francia è più abituata. Da noi questi autori hanno sempre faticato a emergere. Basta pensare a Curzio Malaparte».

Il politicamente corretto influenza la nostra letteratura e la nostra editoria?

«Influenza le vendite e le classifiche più che la letteratura. I veri scrittori continuano a scrivere quello che vogliono, anche se hanno poca visibilità e facilità di vendita».

Il prossimo libro?

«Ci vorranno quattro o cinque anni, sono lento. Con la scuola, scrivo solo d’estate. L’idea è chiara in testa, sto iniziando a documentarmi. Come dice Ian McEwan, tra un libro e l’altro si deve diventare persone leggermente diverse. Quindi val la pena aspettare».

Che cosa le preme maggiormente trasmettere ai suoi studenti?

«Credo che dobbiamo imparare a non reagire al dominio della tecnologia solo con le emozioni. Ma dobbiamo cercare di recuperare il pensiero critico e la capacità di riflessione e di analisi».

 

La Verità, 26 febbraio 2019