L’ultimo Eastwood mette d’accordo pubblico e critici
Solido, concreto e asciutto, anche con questo Giurato numero 2 – speriamo non il suo ultimo film – Clint Eastwood ci fa un bel regalo. Innanzitutto, perché si tratta di grande cinema, sempre con il suo riconoscibilissimo stile. E poi perché ci invita a riflettere, grazie a Dio senza pedagogie, su un tema capitale: la verità coincide sempre con la giustizia? O c’è una verità che può rivelarsi ingiusta e parziale? È un interrogativo di grande attualità, degno di Fëdor Dostoevskij, affrontato con una essenzialità e una freschezza di sguardo insospettabili in un novantaquattrenne.
Le prime due scene dispiegano subito la dialettica che anima tutto il film. Dall’inquadratura sulla statua della giustizia, dea bendata, si passa a quella di una donna, anch’essa bendata che, se tutto andrà bene presto diventerà mamma (Zoey Deutch), e ora sta per scoprire la camera del figlio allestita dal marito. È lui (Nicholas Hoult) il protagonista della storia, un brav’uomo, ex alcolista che si è rifatto una vita, convocato dal tribunale della Georgia come giurato popolare in un processo di omicidio. L’imputato è un giovane con precedenti penali, accusato di aver ucciso la compagna in una notte di pioggia battente. La serata al pub era degenerata in un furioso litigio, al termine del quale la donna se n’era andata a piedi, seguita dal fidanzato che, secondo l’accusa, l’avrebbe investita con l’auto e poi spinta, esanime, in un dirupo. Per il procuratore con ambizioni di carriera (Toni Collette) è colpevole senza il minimo dubbio.
Nello schema del film processuale, Eastwood alterna con gran ritmo le versioni dell’accusa e della difesa, immedesimandosi nel travaglio del nostro brav’uomo. Il quale, mentre ascolta la ricostruzione del presunto omicidio, realizza che quella sera anche lui era in quel pub e che, tornando a casa, aveva urtato, proprio all’altezza di un segnale che indica la presenza di animali selvatici, quello che aveva pensato fosse un cervo. Che fare? Se si costituisse denunciando l’incidente dopo che era stato in quel pub, pur senza aver bevuto, chi crederebbe al racconto di un ex alcolista? Il dilemma è lacerante. La sua morale lo spinge a salvare quello che all’interno della giuria solo lui ritiene innocente. Ma così facendo si espone, rischiando di provocare nuove indagini che potrebbero smascherarlo. Non gli resta che provare a convincere i colleghi dell’inconsistenza delle prove su cui si regge l’accusa.
Man mano che l’attesa di un verdetto che sembrava scontato si allunga, i dubbi si insinuano anche nel procuratore. Che riflette: «Questo sistema per quanto imperfetto è la nostra migliore possibilità di trovare una giustizia». Nemmeno lei ha posizioni granitiche e interpreta dogmatismi inscalfibili, ma ricerca la verità consapevole dei limiti degli strumenti a disposizione. Anche la polizia non ci fa una figura eccelsa. Una volta individuato un colpevole credibile cerca solo prove a suo carico e ignora quelle che metterebbero in crisi l’imputazione. Così, a quello che in alcuni momenti sembra un remake di La parola ai giurati, insuperato film processuale di Sidney Lumet con un memorabile Henry Fonda, Eastwood aggiunge la variante del colpevole involontario annidato proprio nella giuria.
«A me piacciono le storie», ha rivelato in una famosa intervista il regista di Gran Torino e Million Dollar Baby. La persona viene prima dei sistemi, prima delle ideologie, prima delle istituzioni. Eastwood indaga i nodi irrisolti, le zone cieche, gli interstizi opachi del rapporto tra Stato e cittadini. Come in Richard Jewell, la storia vera del vigilante imbranato che sventò un attentato alle Olimpiadi di Atlanta salvando centinaia di persone, ma venne tramutato in colpevole perché corrispondeva agli stereotipi degli inquirenti, anche qui si insegue una verità accettabile. «Ma a volte la verità non è giustizia», considera il giurato numero 2. Il rovello del film è l’imperfezione dei sistemi, l’ambiguità delle istituzioni, una certa ottusità anche dei nostri valori di fronte alle sfaccettature della realtà. Eastwood pone domande, iniettando dosi di realismo in chi è sicuro di incasellare la complessità in qualche teorema o in qualche ricetta legislativa.
Di tutto questo la Warner Bros che in America l’ha distribuito in sole 31 sale forse non si era accorta. O forse il motivo di una così clamorosa sottovalutazione dipende dagli incassi modesti dell’ultimo Cry Macho. Altri critici hanno collegato alle posizioni repubblicane di Eastwood, praticamente l’unico superstite conservatore di Hollywood, l’intenzione di censurare quello che potrebbe essere il suo ultimo lavoro. Fatto sta che lui ha platealmente disertato la prima del film. Comunque sia, sebbene uscito in sordina, i buoni incassi in quelle poche sale e in alcuni Paesi europei, dalla Spagna alla Francia, e il fatto che qualche critico inizi a parlare di capolavoro hanno fatto ricredere la Warner che ora sta pensando di sostenerlo in vista degli Oscar. Intanto, anche in Italia, dov’è appena uscito, è partito bene. Il vecchio Clint non molla.
La Verità, 17 novembre 2024