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Il cinema metallico e democratico di Eastwood

C’è del metallo nel cinema di Clint Eastwood. Non la colt nascosta sotto il poncho del cacciatore di taglie di Per un pungo di dollari. Un altro genere di metallo: un’anima misteriosa, una rettitudine solida. C’era in quello Straniero senza nome. C’era poi nel ruvido ispettore Callaghan. E c’è nel suo cinema di oggi, da regista con la cifra dell’identità e di una certa gerarchia. La cifra dell’America profonda ma non solo, in cui il senso di giustizia e il rispetto dei deboli hanno il ruolo da protagonista.

Per capire chi è veramente Clint Eastwood che il 31 maggio compirà novant’anni, bisogna ripartire dal divorzio da Sergio Leone, l’autore della Trilogia del dollaro alla quale deve l’improvvisa fama mondiale dopo un nugolo di ruoli irrilevanti. Leone non parlava bene dell’attore Eastwood e Eastwood non esaltava il cineasta Leone. «È un blocco di marmo», scrisse il regista in una rivista specializzata, un attore che aveva due espressioni, con e senza sigaro. Eastwood invece, che non era soddisfatto della valorizzazione delle sue interpretazioni, voleva contare nella confezione dei film. Suggeriva spunti, abbozzava inquadrature. Da subito, recitava pensandosi dietro la cinepresa, dirigendosi e dirigendo. Ma Leone, confidò l’attore allo scrittore Stuart Kaminsky, «non mi ha mai riconosciuto alcun contributo stilistico ai film realizzati insieme». Clint non capiva l’italiano, Sergio non sapeva l’inglese. Ma, seppure in quella situazione, il cow boy col poncho divenne subito un archetipo, un’icona flemmatica di giusto vincente e taciturno. Merito anche del doppiaggio di Enrico Maria Salerno che gli regalò quella parlata lenta e monocorde. Un modello di recitazione per sottrazione, si dice oggi. A metà degli anni Sessanta, tra la fine del boom economico dominato dalla leggerezza del beat, e i prodromi del Sessantotto, già intrisi di verbosità ideologica tutti volevamo essere quello Straniero senza nome. Controcorrente da subito, Eastwood non rideva mai e parlava poco.

Con quelle premesse il cineasta e il suo attore feticcio non potevano che separarsi. Clint rifiutò di recitare in C’era una volta il west la parte che divenne di Charles Bronson e declinò anche l’offerta di un ruolo minore in C’era una volta in America. Leone adoperava la sintassi dell’epica, della grande allegoria, sottolineata dalle colonne sonore di Ennio Morricone. Eastwood voleva raccontare piccole storie, uomini di tutti i giorni. Le strade biforcarono e la stagione dell’ispettore Callaghan, in qualche modo prosecuzione del bounty killer col sigaro, ne consolidò il tratto controcorrente in anni di ribellione incondizionata a qualsiasi accenno d’ordine.

Alla scuola di Don Siegel, che invece i crediti glieli concesse, il lungo apprendistato dell’Eastwood regista era però finito. Nella sua testa aveva germogliato un cinema trattenuto come la sua recitazione e asciutto come il metallo anche a causa dei budget per scelta contenuti. Un cinema che ha nello spettatore il suo principe e che sa stare alla larga da tentazioni esegetiche. Un cinema nel quale i vuoti del non detto sono riempiti dall’immaginazione di un pubblico adulto e rispettato. Un cinema poco amato da gran parte della critica intellettuale al di qua e al di là dell’Atlantico. Ma un cinema democratico e anticonformista, libero dai manierismi e dalle mode hollywoodiane o dal sussiego autoriale. Proprio «autore» è una definizione che non ha mai convinto Eastwood, preferendo egli considerarsi «forza trainante» della squadra. Al punto che in testa ai suoi film non compare mai il suo nome, ma quello della casa di produzione: «Un film della Malpaso company», «Una produzione Malpaso».

«A me piacciono le storie», ebbe a dire una volta conversando con il critico Christopher Frayling. E con quella sottolineatura aveva spiegato tutto. Se si eccettuano Bird, omaggio a Charlie Parker, leggendario jazzista che ha segnato la sua formazione, J. Edgar, sulla figura del controverso capo dell’Fbi Hoover, e Invictus su Nelson Mandela, una pellicola più di Morgan Freeman che di Eastwood, nella cinematografia post Callaghan c’è sempre l’uomo comune al centro. I tre ragazzi di Mystic River, la cameriera boxeur e lo scorbutico allenatore di Million Dollar Baby, il misantropo reduce di guerra di Gran Torino, il cecchino infallibile e tormentato di American sniper, il coscienzioso pilota di Sully che salvò miracolosamente i passeggeri ma fu processato perché distrusse l’aereo, l’anziano corriere della droga di The Mule: tutte storie di persone ordinarie, spesso tratte dalla cronaca. Come nel caso dell’ultimo, bellissimo, Richard Jewell, la storia del vigilante imbranato che, zelantissimo al punto da essere sempre snobbato dai colleghi, sventò un attentato alle Olimpiadi di Atlanta del 1996, salvando un centinaio di persone. Un eroe presto tramutato in colpevole perché rispondente agli stereotipi degli inquirenti. Una storia reale, esemplare, significativa. Narrata senza sbavature, con quel metallo dentro, la materia semplice di un’etica non enfatica. Forse appena di una certa dirittura umana. Dove il quotidiano diventa eroico e l’eroico quotidiano.

 

La Verità, 28 maggio 2020

Delle Piane: «Solo sul set le mie fobie spariscono»

Più che a lui, l’intervista andrebbe fatta ad Anna Crispino, la donna di 36 anni più giovane che lo accompagna e lo assiste in tutto e per tutto da quando lo conobbe, casualmente, alle prove di uno spettacolo al Parco Santa Maria della Pietà di Roma. Lei cantante, lui il suo attore preferito. Incontrai Carlo Delle Piane, sei anni fa, era appena uscita la sua autobiografia (Signori e signore, Carlo Delle Piane; edizioni Testepiene) e Anna era una «grande amica e donna paziente». Ora sono marito e moglie. Vivere insieme, però, no. Abitano vicini e lei gli porta da mangiare tutti i giorni, lo cura, lo accompagna dovunque, ne condivide attività e impegni e sopporta le sue fisime, infinite, con pazienza ma anche con la veracità tipica di una donna napoletana. «Ho una figlia di 14 anni», racconta Anna mentre Carlo si allontana per le sue abluzioni. «I miei rapporti col mondo maschile non sono stati buoni. Ho scelto di dedicarmi a lui. Avevo un padre fragile, pieno di paure, so cosa vuol dire. Ma è dura. Carlo lo sa, e se perdo la pazienza, si spaventa e mi rimprovera».

Ottantun anni compiuti giovedì scorso – «ma li festeggio domenica con pochi amici, Antonio e Pupi Avati» – e 104 film all’attivo, Delle Piane è il più longevo attore italiano avendo esordito nel 1948, quando di anni ne aveva dodici, scelto da Duilio Coletti e Vittorio De Sica a un casting nelle scuole, per il ruolo di Garoffi in Cuore. Da allora ha attraversato tutte le stagioni del cinema, dalle commedie del dopoguerra ai musicarelli, dal neorealismo alle pochade con Edwige Fenech e Renzo Montagnani. Diretto da Totò, Eduardo De Filippo, Aldo Fabrizi, Vittorio Gassman, Roman Polanski, Steno, Mario Monicelli, Sergio Corbucci, fino a diventare, per qualche anno, l’attore feticcio di Pupi Avati. Ha recitato per Ermanno Olmi, Luca Miniero e Paolo Genovese ed è Il bello del cinema italiano del documentario di Giuseppe Aquino (presto su Rai 5). Uno dei suoi maggiori rimpianti è non aver potuto accogliere l’invito di Jean Jacques Annaud, venuto apposta a Roma per convincerlo a interpretare un frate in Il nome della rosa. «Mi avrebbe messo a disposizione i migliori insegnanti per imparare le battute in inglese. Ma dopo una notte insonne gli dissi di no: non potevo recitare senza capire che cosa mi dicevano gli altri. Io ho imparato da De Sica, quasi un mio secondo padre. Si parla sempre del metodo Stanislavskij e dell’Actor Studio. Io dovrei parlare di De Sica». Il padre naturale di Carlo, sarto in casa sempre oberato di lavoro per mantenere tre figli maschi, era invece uno che recitava inventando continui infortuni per giustificare i ritardi nella consegna degli abiti. La madre Olga, casalinga, allergica al contatto fisico, aveva perennemente in mano uno straccio per spolverare. In mano Carlo ha sempre un fazzoletto di carta che lo protegge dalle maniglie. Fu dopo il risveglio da un mese di coma in seguito a un incidente stradale che, certe fobie latenti, s’impadronirono di lui. Non dà la mano per salutare o fare conoscenza con qualcuno, incarta il cappellino quando se lo toglie per evitare che tocchi una superficie estranea, al ristorante o in auto siede sopra un asciugamano. A un certo punto, salendo dei gradini stava perdendo l’equilibrio e io ho allungato un braccio per sorreggerlo: arrivati al ristorante ha strofinato a lungo la giacca nel punto dove l’avevo toccata. «È una prigione», dice Anna, «ma non ci può fare niente. Le fobie sono il rovescio della depressione. Non prende e non vuole prendere farmaci, avrebbe dovuto iniziare molto tempo fa».

Carlo Delle Piane con la moglie, Anna Crispino

Carlo Delle Piane con la moglie, Anna Crispino

Due anni fa ha avuto un’emorragia cerebrale, ma oggi la trovo più vivace di quando ci vedemmo nel 2011. Mi ha anche risposto al cellulare…

«Allora non ce l’avevo. Ho dovuto comprarlo quando sono stato a casa di Anna dopo l’emorragia. Lei non possedeva il telefono fisso».

Resta il fatto che mi sembra più dinamico e protagonista.

«Miglioro invecchiando, come il vino. Scherzi a parte, forse è perché ho ripreso a recitare e sono in attesa dell’uscita di un film di cui però non posso anticipare nulla».

Nemmeno il titolo o cast?

«Nulla».

Da spettatore, invece, come lo vive il cinema?

«Non entro nelle sale. Ma credo di non perdermi molto. Amo troppo il cinema per intristirmi con le solite commediole. Forse sono diventato troppo esigente e soprattutto il cinema italiano, così provinciale, mi appare di una semplicità disarmante».

Non salva nulla?

«Poche eccezioni. I film di Paolo Sorrentino, di Ferzan Ozpetek e di Paolo Genovese».

E del cinema straniero, magari visto in tv?

«Mi piace quello di Clint Eastwood, le sue regie così asciutte e personali. Penso a Million Dollar Baby e a Gran Torino. Non era facile prevederlo cineasta quando lo si vedeva nei panni di un cowboy. Mi piace anche Martin Scorsese. Andando indietro amo molto John Ford e Orson Welles: le nuove tecniche della regia e del montaggio sono nate con Quarto Potere e L’infernale Quinlan. E poi Billy Wilder, il più grande di tutti nelle commedie».

Clint Eastwood, tra i registi preferiti di Delle Piane

Clint Eastwood, tra i registi preferiti di Delle Piane

E tra gli attori?

«Marlon Brando è stato il vero innovatore, libero di inventare e aggiungere i suoi tic. La recitazione moderna è nata con lui, prima erano tutti così misurati. Senza Marlon Brando non ci sarebbe stato Robert De Niro. E anche Gene Hackman, grandissimo in La conversazione di Coppola».

Se dovesse scegliere i tre migliori film del cinema mondiale?

«Una cosa da niente. Metterei Fronte del porto… poi Il Padrino e forse qualcosa di Stanley Kubrick».

C’era una volta in America?

«Non amo molto il cinema di Sergio Leone. Lo trovo un po’ ricercato, troppi primi piani».

Quentin Tarantino?

«Grande regista. Diciamo che il suo cinema, così frenetico, non è il mio. Però ne riconosco il talento».

Tra i suoi film, se dovesse premiarne solo tre?

«Direi Una gita scolastica e Regalo di Natale. E il prossimo di cui non dico nulla, ma di cui sentirete parlare presto».

Il cinema è anche una gioia da condividere: scambia commenti e giudizi con qualche amico?

«Al massimo qualche telefonata. Avevo qualche rapporto negli anni in cui lavoravo con Pupi. Non esco molto e non coltivo le relazioni. Quando lo faccio devo sempre sapere dove vado e cosa trovo, perciò finisco sempre nei soliti posti, dove mi conoscono».

Segue la politica?

«Ne sono totalmente disgustato: vedo solo ipocrisie, false promesse per accaparrarsi i voti, sempre più politici indagati».

Ha sperato in una ripresa con il Movimento 5 stelle, anche qui a Roma?

«Da tempo non spero più».

E quindi non vota?

«Da parecchi anni».

Che cosa la turba di più?

«Penso a che cosa lasceremo ai bambini di oggi. Mi preoccupano lo sfascio dell’ambiente, il degrado delle nostre città, il menefreghismo, l’economia in crisi perenne. Su YouTube si trova anche una mia canzone intitolata Bambini».

Ha un’idea di che cosa si potrebbe fare per cambiare questa situazione?

«Come ho detto, non credo più nella politica. E i miei limiti sono palesi. Alcuni anni fa ho avviato l’adozione a distanza di una bambina del Bangladesh, che è proseguita fino a quando si è sposata. Così, mi hanno scritto che non aveva più bisogno. Ho iniziato ad aiutare altre tre femminucce che hanno dieci anni per portarle alla fine degli studi: una etiope, una colombiana e una brasiliana. Sono sempre in contatto con la Caritas. Faccio i bonifici, mi mandano le foto, le lettere, le pagelle scolastiche».

Carlo Delle Piane in «Regalo di Natale»

Carlo Delle Piane in «Regalo di Natale»

Dev’essere una soddisfazione. Diceva che trasmetteremo ai bambini un ambiente e delle città deturpate. Anche un’etica nichilista?

«Dominano l’egoismo e l’arrivismo. Si pensa solo ad arricchirsi e al proprio tornaconto. Anche nei rapporti umani è sempre il calcolo a comandare: se si dà qualcosa è per avere qualcos’altro in cambio».

Com’è la sua giornata?

«Anna, hai sentito che domanda mi ha fatto (ride)? La mia giornata… scrivo continuamente. Trascorro mattinate ad appuntarmi tutto quello che devo fare (estrae un foglietto con una grafia minuta). Per esempio: “Devo dire al giornalista che non parleremo del nuovo film”. Me lo sono scritto, dopo che al telefono gliel’ho detto non so quante volte. È una forma di ansia, un bisogno di controllo ossessivo, anche delle cose minime».

Ha mai pensato di scrivere un diario?

«Mi sarebbbe piaciuto. Non l’ho mai fatto e ne sono pentito perché avrei avuto molto da raccontare. Ma ho una grande pigrizia mentale. Per esempio: ho duemila vinili, molti sono ancora incellophanati. Anche a leggere, mi stanco dopo poche pagine. Ha capito che razza di vita? Se non avessi conosciuto Anna non so come sarebbe finita. Dopo l’emorragia sono ancora più pauroso. Tutta la mia vita l’ho vissuta diviso tra finzione e realtà. Recitare è come andare in terapia. Solo che invece di spendere, guadagno. Quando recito posso fare tutto, do la mano, abbraccio, sto in poltrona senza stendere un fazzoletto sul sedile».

La finzione la rende libero?

«È così. Divento il personaggio che interpreto».

È un processo mentale per cui cambia identità o rimuove la sua psiche?

«È come se mi sdoppiassi. Scindo la mia identità da quella del personaggio e le mie fobie scompaiono. A volte ironizzo su queste mie manie e dico ad Anna: quando morirò ricordati di far pulire bene la bara».

Alla fine si può dire che la sua vera vita è il cinema, quando fa cinema…

«Ho vissuto tutte le stagioni, dalla fanciullezza alla vecchiaia passando per la gioventù e la maturità. E ho recitato in tutte le età, dall’esordio a 12 anni a questo nuovo film che mi ha coinvolto dopo anni in cui mancavo. Credo non ci sia nessun attore italiano che abbia una storia così lunga».

C’è qualcosa o qualcuno che la fa sorridere, Anna a parte?

«Ho un pronipote di otto mesi, figlio di un figlio di mio fratello. Si chiama Francesco e quando lo vedo mi dà sempre grande gioia. E anche un po’ di preoccupazione…».

La Verità, 5 febbraio 2017

Mughini: «Aiuto! Il ‘900 è morto e io non mi sento bene»

Ride spesso Giampiero Mughini, ascoltando le domande che gli porgo. Ride sonoramente come gli abbiamo visto fare tante volte in televisione. Di più in passato, in verità: ché, nel presente, di motivi per ridere ce ne sono pochi. Eppure l’intervista gli piace, tra amarezza e disincanto, tra complicità e quel godere dello spirito libero di cui è incarnazione. Il suo La stanza dei libri edito da Bompiani è, però, una sorta di grido nostalgico del Novecento in lotta con il presunto Eldorado digitale e l’euforia dei Millennials. «Lo so di essere fuori dal mio tempo. Ne sono felice», recita. «Non sono iscritto a Facebook e non so neppure bene che cosa sia». E ancora: «Casa mia è stata pensata in buona parte come un museo della memoria dei sessanta-settanta».

La copertina dell'ultimo libro di Giampiero Mughini

La copertina del libro di Mughini

Il tuo libro rappresenta la resistenza della cultura cartacea contro quella digitale. Una resistenza fiera, malinconica o rassegnata?

«Ah ah ah ah… Fiera, senza alcun dubbio. Malinconica, anche. Rassegnata non è termine giusto, perché penso che la buona cultura moderna deve nutrirsi di tanta carta, che non morirà mai. Ma deve anche approfittare di quelle che io chiamo le autostrade sconfinate di internet».

Leggendoti, sembra di vedere un generale blindato nella «stanza dei libri», con l’esercito in ritirata.

(Ride ancora). «I miei anni crescono, i miei capelli sono bianchi, il mio tempo migliore è passato e il Novecento, prima stremato, ora è definitivamente morto. Tutto ciò che accade oggi appartiene a un pianeta inedito. L’avvento di Donald Trump, l’esito del referendum dell’altro giorno: tutto questo ha niente a che vedere con sinistra e destra o con la Costituzione più bella del mondo, ma con il ceto medio che impoverisce. Il mio esercito ideale e i duelli ai quali ero abituato – su tutti, quello con i delinquenti della mia generazione avvezzi a sparare alle spalle di avvocati, giornalisti e politici – sono scomparsi. Oggi gli unici duelli derivano dagli energumeni che, sotto mentite spoglie, replicano insultando a un qualsiasi tweet che non li soddisfa. Che tristezza!».

C’è un punto in cui ammetti che se uno parla di sé attraverso i libri è perché «di cose e di persone reali nella sua vita ne ha avute poche». Bilancio malinconico?

«Non lo so, è il mio. Del resto, non ho una famiglia in senso tecnico. Ho una compagna da 25 anni, che non è poco. E una cagna adorata, che non è poco. Non ho rapporti professionali né salottieri e non sono iscritto a un partito. Né ho avuto mai un giornale che sentissi come una casa, sono stato ospite e mi sono congedato o mi hanno congedato rapidamente. Perciò, di cose reali ne ho poche. La vita reale erano gli umori e le febbri del mio tempo».

Nella Meglio gioventù di Marco Tullio Giordana Maya Sansa dice al personaggio di Alessio Boni, poliziotto e gran lettore solitario, che i libri possono essere una forma di egoismo perché si possono chiudere quando si vuole, mentre con le persone è più difficile…

«Ma i libri sono più fedeli delle persone, più affidabili di quanto lo siano stati certi amici. Sono più fedeli anche di certe donne, pur importanti nella nostra vita. Le quali, nella nostra gioventù, passavano da un sì a un no in un arco di tempo tra i sei mesi e le poche ore».

Ovviamente non ti chiederò della direzione di Lotta continua che assumesti, in quanto iscritto all’albo, per cortesia verso Adriano Sofri…

«No, per cortesia verso la mia generazione di cui quel giornale era una voce autentica, anche quando scrissero: “Caro Luigi Calabresi i tuoi giorni sono contati”. E poi al processo, invece di assumersi le loro responsabilità, dissero: “No, per carità…”; dimostrandosi gente senza onore. Il mio libro sull’assassinio Calabresi, Gli anni della peggio gioventù, che ritengo bellissimo, ebbe un altrettanto bellissimo articolo di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera e niente più, come fosse un libro proibito. Non ebbe alcun’altra recensione, né un invito a un circolo culturale o una lettera di un militante di Lotta continua pentito, perché continuano a pensare come Dario Fo, che Leonardo Marino parlò solo per imbeccata dei carabinieri».

Il giornale «Lotta continua» del 18 maggio 1972, il giorno dopo l'assassinio di Luigi Calabresi

«Lotta continua» del 18 maggio 1972, il giorno dopo l’assassinio di Luigi Calabresi

Dicevo, non ti chiederò della direzione di Lotta continua ma di quale esperienza culturale sei più orgoglioso: la fondazione di Giovane critica, il lavoro all’Europeo, la tua libreria?

«La direzione di Giovane critica, senza dubbio. Avevo 21 anni e stavo a Catania, che non era esattamente Parigi né Londra. Dunque, la nascita di quella rivista, diretta da un ragazzo che negli anni sessanta era di sinistra. E poi la sua chiusura, dopo la stagione del revisionismo e l’avere raschiato via quella pelle dogmatica».

La fatuità delle amicizie online e dei followers, la vanità e l’esibizionismo fratelli dell’ignoranza e dell’arroganza: c’è una terapia?

«Ognuno la deve trovare da se stesso, anche se non è facile. I ragazzi sostituiscono la solitudine con i click e i like, attraverso i quali, in realtà, si possono incontrare delle persone. Anche a me è capitato con una ragazza, Viviana, che mi aveva inviato delle sue foto su Instagram che esprimevano questo spaesamento. Mi è spiaciuto che, dopo averlo proposto, abbia rinunciato a realizzare un libro fotografico per il quale avrei scritto volentieri. Com’è sempre delle foto, gli autoritratti di Viviana avevano una profondità narrativa che a volte manca alle parole».

Come quella di Tano D’Amico che ritrae Antonio Lo Muscio e tieni in sala da pranzo?

«Esattamente. Lo Muscio disteso a terra con le braccia aperte come crocifisso sembra una vittima. E invece è un lercio assassino».

Sei un provocatore?

«Certo, ci sguazzo. Se una cosa non è provocatoria non ha alcun senso. Non dirò mai che i poveri stanno male. E come vuoi che stiano? O che le donne non si toccano se non con un petalo di rosa. Banalità».

I giornali sono in crisi per troppi costi o poche idee?

«È evidente che il Corriere della Sera ha una struttura pensata per quando vendeva 650.000 copie. Ora ha venduto la sede, ma continua ad avere redazioni e amministrazione non in armonia con le 190.000 copie attuali. Il Fatto quotidiano, che funziona bene e vende 35.000 copie, ha una redazione di 20 persone. I giornaloni fatti per quando erano il vangelo dell’uomo laico sono fuori dal tempo. È una considerazione triste per chi vuol fare il giornalista, ma se avessi un figlio con queste intenzioni lo farei arrestare. Nella mia ultima dichiarazione dei redditi i proventi derivanti da collaborazione con un giornale ammontavano a 500 euro. Scrivo gratis per Dagospia. Se volessi essere pagato, cosa improponibile, dovrei chiedere 70 – 80 euro ad articolo, metà dei quali li prenderebbe lo Stato. Quello che c’è da noi è il comunismo reale, altro che la Cuba di Fidel Castro dove c’è solo miseria invece della sbandierata uguaglianza sociale».

Anche qui però le cose non vanno benissimo.

«La notizia che in Italia ci sono 17 milioni di persone dentro il confine o sul confine della povertà è scioccante. Significa che una parte notevole del ceto medio è precipitata di due o tre gradini».

È qui l’origine di certe sorprese nelle urne?

«Certamente sì. La gente va a votare non per i motivi che crede Sandra Bonsanti, per salvare la Costituzione più bella del mondo. Ma perché non ha i soldi per mantenere i figli che studiano e arrivare a fine mese».

Mancano idee ai giornali?

«Io ne compro cinque e vorrei comprarne otto. Se leggessi tutto quello che vorrei ci passerei quattro ore al dì e non l’ora e un quarto abituale. D’Agostino è un genio perché ripubblica il meglio e i giornalisti sono felici di essere ripresi. Certo, uccide il diritto d’autore, un diritto scomparso nella civiltà del furto».

Ogni due o tre giorni leggiamo su «Dagospia» «La versione di Mughini», quasi un diario

Ogni 2 o 3 giorni leggiamo su «Dagospia» «La versione di Mughini», quasi un diario

Ogni due o tre giorni su Dagospia leggiamo «La versione di Mughini».

«Sì, una specie di diario. Quando mi accende qualcosa la scrivo rapidamente e breve per non abusare del tempo dei lettori, e dopo un’ora è online».

Perché c’è quella foto in posa militaresca?

(Risata). «La trovo bellissima. Me la fece il fotografo Pino Settanni che stava allestendo un calendario per l’esercito».

Giampiero Mughini in posa militaresca per il fotografo Pino Settanni

Giampiero Mughini «militaresco» per il fotografo Pino Settanni

La rottura della collaborazione con Panorama avvenne per incomprensione o per differenza generazionale?

«Non bisogna farla lunga: è come in una coppia, quando finisce la tensione da una parte e dall’altra. Io sono antipatico, è andata così».

Però è strano che Giampiero Mughini non firmi su qualche testata importante.

«Anch’io lo trovo strano. Ho lavorato con Indro Montanelli, Arrigo Benedetti, Guglielmo Zucconi, Vittorio Feltri, Claudio Rinaldi, Vittorio Nisticò. Oggi con nessuno».

Ernesto Galli Della Loggia, autore di «Credere, tradire, vivere» (Il Mulino)

Ernesto Galli Della Loggia, autore di «Credere, tradire, vivere» (Il Mulino)

Ho letto che ammiri il titolo dell’ultimo libro di Galli Della Loggia: Credere, tradire, vivere.

«Bellissimo. Io ed Ernesto abbiamo gli stessi anni. Abbiamo creduto nelle stesse cose, abbiamo vissuto conoscendo la complessità e il dolore. E abbiamo tradito, restando fedelissimi all’ispirazione di partenza che era avvicinarsi alla verità della complessità».

E per la felicità che posto c’è?

«Non esiste. Esistono quantità sopportabili di dolore».

Che cos’ha da rimproverarsi la tua generazione?

«Eravamo contemporanei, però ognuno risponda di se stesso. Dissento dal grandissimo Giorgio Gaber che cantava “La mia generazione ha perso”: lui di sicuro no. Il suo unico torto è quello di essere morto, ma su questo nessuno può nulla».

Stai correggendo le bozze di un altro libro: indizi?

«Segreto industriale».

Il referendum ti ha appassionato?

«Zero. Certe liti in taverna sono più pittoresche».

Clint Eastwood con Tom Hanks sul set di «Sully», suo ultimo film

Clint Eastwood con Tom Hanks sul set di «Sully», suo ultimo film

C’è qualcuno, un autore, uno scrittore, che segui con più interesse e curiosità?

«Clint Eastwood. È difficile che veda un suo film senza che abbia l’impulso di piangere. È successo anche con l’ultimo, Sully, in cui c’è tutta la sua filosofia: ognuno risponda di se stesso e del proprio coraggio».

 

La Verità, 11 dicembre 2016