Nel cristianesimo c’è l’idea di morte che cerchiamo

Stimolato da un tweet, ieri mattina ho letto con una certa curiosità la riflessione di Antonio Scurati sul Corriere della sera intitolata «Quando va in pezzi l’idea di modernità». Tema invitante. Quale sarà la modernità che si sta sgretolando? Ed è proprio così? «In Occidente», di fronte all’apocalisse, «dovremmo ricostruire una coscienza collettiva della finitudine umana, una cultura della morte», esorta il vincitore del premio Strega. Giusto. Purtroppo però, quest’allarmata meditazione rimuove una cosa da nulla che si chiama cristianesimo.

Ben oltre lo scambio di accuse tra minimizzatori e presunti catastrofisti – nonché razzisti perché volevano subito adottare drastiche misure preventive – ora che si sono registrati i primi decessi indigeni, l’avvento del Coronavirus e la relativa esplosione della sindrome da contagio scuotono alla radice una certa idea di progresso e di Occidente. Diventano palesi i limiti della scienza e della medicina. Diventano evidenti i rovesci della medaglia chiamata globalizzazione. I pilastri della modernità di questi decenni si chiamano scienza, tecnologia, globalizzazione. Magari scritte con la maiuscola. Tutte cose buone, s’intende. Irrinunciabili, e cui continuare a ricorrere. Forse, però, anche qualcos’altro serpeggia in queste ore; un’altra parola descrive il sentimento dominante. È l’impotenza, il senso di sproporzione di fronte a qualcosa di più grande delle nostre risposte. Sentimento non facile da ammettere, per noi uomini del Terzo millennio.

Con l’esplosione del Covid-19 stiamo scoprendo che la fine del mondo può non essere una deflagrazione, uno schianto prodotto da un pulsante premuto sulla consolle della guerra nucleare, come narrato in decine di film e romanzi che qualche anno fa erano di fantascienza. Con il diffondersi dell’Aids, le esplosioni di Chernobyl e Fukushima, i contagi della Sars e le ramificazioni del terrorismo islamico, quel cinema e quella letteratura sono diventate opere vintage. E la realtà è più subdola e allarmante, perché la fine del mondo o la sua riduzione a un cumulo di macerie come in La strada di Cormac McCarthy, potrebbe avvenire per il propagarsi di un’invisibile particella umida diffusa da un colpo di tosse. Uno starnuto ci seppellirà? Non male come beffa.

A complicare il quadro ci si è messo pure il politicamente corretto, ormai partner abituale delle sciagure, fastidioso come la nebbia di notte in autostrada. In un impeccabile articolo sul Quotidiano nazionale Massimo Donelli ha citato la circolare dell’Università della Svizzera italiana di Lugano, dove insegna, nella quale il rettore chiedeva «a tutti i membri, compresi gli studenti, della comunità accademica di ritorno dalla Cina di studiare/lavorare da casa per un periodo di 14 giorni». Nella progredita Svizzera niente accuse di razzismo e xenofobia, come quelle scaricate addosso ai governatori del Nord Italia che suggerivano di sottoporre ad analogo trattamento i bambini reduci da laggiù. Più o meno nelle stesse ore, il sindaco di Milano Giuseppe Sala si faceva fotografare nella Chinatown cittadina per compiacere i suoi elettori cinesi. «Siamo stati capaci di trasformare una questione virale in una questione razziale», ha concluso Donelli. Autocritiche però non se ne vedono.

Scurati suggerisce equilibrio tra le reazioni d’isteria e d’inerzia di fronte al diffondersi del morbo. Le emergenze portano a galla la nostra vera natura, di che pasta siamo fatti, quale consistenza abbiamo. Ma, in assenza di vaccini, non si sa in forza di che cosa si può raggiungere quell’equilibrio. E chi è ansioso, fragile o solo? O, al contrario, è snob, cinico o stanco? Di fronte all’apocalisse, la modernità dell’equilibrio non regge. Così come si mostra carente l’Occidente della tecnica. «Dopo decenni di malintesa e malriposta euforia edonistica», bisogna affermare che la «coscienza collettiva della finitudine umana» esiste già. Si chiama cristianesimo e ha originato l’Occidente moderno. Ma è un Occidente che non sconfinfera ai nostri intellò, propensi alle terze vie dell’etica e delle buone maniere.

«Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora», ammoniva Gesù al termine della parabola delle dieci vergini in attesa dello Sposo (Mt 25, 1-13). A Padova, dove vivo, si è registrato il primo morto italiano da Covid-19. In questa stessa città è vissuto san Leopoldo Mandić, frate cappuccino noto per la sua abnegazione di confessore, morto di cancro all’esofago, da poco proclamato patrono dei malati di tumore. Presto, sono sicuro, qualcuno troverà anche il patrono dei malati di Coronavirus. Ma chissà se piacerà a Scurati.

 

La Verità, 23 febbraio 2020