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«M» cita Trump e sostiene che il fascismo è tra noi

Avendo visto tutti gli 8 episodi, ripubblico l’articolo, scritto in occasione dell’anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, su M – Il figlio del secolo, la serie di cui da venerdì 10 gennaio sono visibili su Sky i primi due capitoli. 

Fumettistico. Eccessivo. Esagerato. Questo M – Il figlio del secolo, regia di Joe Wright, prodotto da Sky Studios e Lorenzo Mieli per The Apartment (gruppo Fremantle), presentato fuori concorso in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, è, a sua volta, figlio di un’ossessione, di un terrore che fa vedere il fascismo tuttora presente, risorgente, magmatico fiume carsico della politica e del suo fondo nero, paludoso e reincarnantesi ovunque negli autocrati, nei dittatori, nei leader sovranisti contemporanei (come paventa 2073, documentario dell’inglese Asif Kapadia, che annovera Putin, Berlusconi, Milei, Modi, Meloni e Bolsonaro tra i responsabili della prossima apocalisse planetaria). «Mi avete amato, mi avete odiato, mi avete ridicolizzato. Avete scempiati i miei resti perché di quel folle amore avevate paura, anche da morto. Ma ditemi», chiede ora il Duce rivolgendosi ai posteri dalla tomba al termine del prologo del primo episodio della serie: «A cosa è servito? Guardatevi attorno: siamo ancora tra voi». È la ragione sociale, si potrebbe dire militante, di questo lavoro in otto capitoli tratti dalla biografia firmata da Antonio Scurati, un nome una garanzia, che arriveranno in esclusiva su Sky e Now all’inizio del 2025: dire che il fascismo è eterno e che i fascismi ramificano tra noi, in tutto l’Occidente. Qui e ora.

Sebbene il capo degli sceneggiatori, Stefano Bises, neghi l’esistenza di una ragione sociale, poi fa riferimento a «un dato di fatto. Dovunque, nel mondo, si assiste al riemergere di questa realtà rimasta sommersa e che ora rispunta anche sotto forma di rifiuto dell’oppressione. Del resto, il fascismo è il brand più duraturo mai creato dall’Italia». All’incontro con i giornalisti compare anche l’ispiratore. «Credo che lo spettro del fascismo si aggiri ancora per l’Europa. Ma non sono io a evocarlo, sono altre forze a richiamarlo in vita», scandisce di sua sponte Scurati. Il riferimento suona ampio e generico. Oppure potrebbe riguardare il recente voto in Turingia e Sassonia. Chissà, nell’incertezza scoppiano gli applausi perché la chiamata all’antifascismo galvanizza sempre. Ne fa professione di fede anche Luca Marinelli che impersona il Duce abbondando in cantilena romagnola e difettando in alterigia. «Per approcciarmi al personaggio ho sospeso il giudizio nei suoi confronti per sette mesi, il tempo della lavorazione. Ma per me, che sono antifascista e vengo da una famiglia antifascista, è stata una delle esperienze più dolorose della mia vita».
Tuttavia, il suo Mussolini, figlio di un’ossessione, risulta inevitabilmente troppo. Tracimante, tracotante, chiacchierone, al limite del macchiettistico, soprattutto nei primi episodi che dal 1919 ci conducono alla Marcia su Roma e al contemporaneo incarico di governo affidatogli da Vittorio Emanuele III (Vincenzo Nemolato) dopo la rapida caduta di Luigi Facta. «Questo è un progetto partito sei anni fa», rivela Lorenzo Mieli, «quando Scurati ce l’ha sottoposto e noi abbiamo subito raccolto l’idea, scoprendo che al cinema e in televisione c’erano prodotti riguardanti gli ultimi anni del fascismo, ma quasi niente sulla genesi e la formazione di questa rivoluzione preoccupante e pericolosa». Così, vediamo un giovane Mussolini direttore del Giornale del popolo percorrere affannosamente cunicoli scuri, quasi inseguisse i fatti. Sempre eccitato, consuma amplessi a ritmo sfrenato. Sdraiato su un tavolo, fissa allucinato una bomba a mano che rotea all’infinito, mentre le camicie nere compiono le loro barbarie spaccaossa. Patisce il complesso di Gabriele D’Annunzio (Paolo Pierobon) e si fa guidare da Margherita Sarfatti (Barbara Chichiarelli) che rischiara la via con minimi ritocchi. «Noi vogliamo» al posto di «Noi chiediamo», in un editoriale del Giornale del popolo. E il Vate non è «un padre», ma «una spina nel fianco: da togliere», mettendo fine all’impresa di Fiume.
«Io sono come le bestie, sento il tempo che viene. E questo è il mio tempo», annuncia lui rivolto alla camera come Kevin Spacey in House of cards. Ma non è né una sottolineatura delle sue doti affabulatorie né un tentativo di psicanalizzarlo. «È il modo in cui parla direttamente allo spettatore, svelando i pensieri che ha sempre cambiato, ingannando famigliari, collaboratori, compagni», spiega Wright.
La nuova versione è: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene e questo non è ancora il mio». Ma arriverà il momento degli uomini forti e delle idee semplici. «La storia si fa con gli ultimi. Mettendogli in mano le bombe, le rivoltelle e, se occorre, le matite elettorali». Entrato finalmente in Parlamento, ecco la versione definitiva: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene, e non importa come, ma il mio tempo è arrivato. E pazienza se sono diventato l’uomo che odiavo da ragazzo. Io sono una bestia coerente, ho sempre tradito tutti, tradisco anche me stesso».
M – il figlio del secolo, «il più importante progetto realizzato da Sky», assicura Nils Hartman di Sky studios, è una serie contemporanea e pop, con la colonna sonora dei Chemical Brothers, notturna e cupa, splatter con le camicie nere, dalle tinte bellocchiane non solo quando compare  Ida Dalser, prima moglie che diede un figlio al Duce che la fa internare in manicomio (sul caso Marco Bellocchio diresse Vincere ndr). Così, il capopopolo dei prodromi si trasforma in «stratega», «prestigiatore», «trasformista», come avverte, anticipando le mosse allo spettatore. «Make Italy Great Again», dice a un certo punto un Mussolini trumpiano. Ma conservare il potere è più difficile che fare la rivoluzione. Ancora di più controllare la bestialità delle squadracce di Italo Balbo (Lorenzo Zurzolo). Affiorano i dissidi, si addensano i fantasmi, lo assediano le donne. A chi gli chiede come sia riuscito a raccontare insieme sia il Mussolini uomo che il Mussolini politico, il regista risponde: «Non è stato difficile perché sono inscindibili. Il fascismo è la politicizzazione della mascolinità tossica». E il cerchio si chiude.

 

La Verità, 6 settembre 2024

«M» cita Trump e sostiene che il fascismo è tra noi

Fumettistico. Eccessivo. Esagerato. Questo M – Il figlio del secolo, regia di Joe Wright, prodotto da Sky Studios e Lorenzo Mieli per The Apartment (gruppo Fremantle), presentato fuori concorso in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, è, a sua volta, figlio di un’ossessione, di un terrore che fa vedere il fascismo tuttora presente, risorgente, magmatico fiume carsico della politica e del suo fondo nero, paludoso e reincarnantesi ovunque negli autocrati, nei dittatori, nei leader sovranisti contemporanei (come paventa 2073, documentario dell’inglese Asif Kapadia, che annovera Putin, Berlusconi, Milei, Modi, Meloni e Bolsonaro tra i responsabili della prossima apocalisse planetaria). «Mi avete amato, mi avete odiato, mi avete ridicolizzato. Avete scempiati i miei resti perché di quel folle amore avevate paura, anche da morto. Ma ditemi», chiede ora il Duce rivolgendosi ai posteri dalla tomba al termine del prologo del primo episodio della serie: «A cosa è servito? Guardatevi attorno: siamo ancora tra voi». È la ragione sociale, si potrebbe dire militante, di questo lavoro in otto capitoli tratti dalla biografia firmata da Antonio Scurati, un nome una garanzia, che arriveranno in esclusiva su Sky e Now all’inizio del 2025: dire che il fascismo è eterno e che i fascismi ramificano tra noi, in tutto l’Occidente. Qui e ora.
Sebbene il capo degli sceneggiatori, Stefano Bises, neghi l’esistenza di una ragione sociale, poi fa riferimento a «un dato di fatto. Dovunque, nel mondo, si assiste al riemergere di questa realtà rimasta sommersa e che ora rispunta anche sotto forma di rifiuto dell’oppressione. Del resto, il fascismo è il brand più duraturo mai creato dall’Italia». All’incontro con i giornalisti compare anche l’ispiratore. «Credo che lo spettro del fascismo si aggiri ancora per l’Europa. Ma non sono io a evocarlo, sono altre forze a richiamarlo in vita», scandisce di sua sponte Scurati. Il riferimento suona ampio e generico. Oppure potrebbe riguardare il recente voto in Turingia e Sassonia. Chissà, nell’incertezza scoppiano gli applausi perché la chiamata all’antifascismo galvanizza sempre. Ne fa professione di fede anche Luca Marinelli che impersona il Duce abbondando in cantilena romagnola e difettando in alterigia. «Per approcciarmi al personaggio ho sospeso il giudizio nei suoi confronti per sette mesi, il tempo della lavorazione. Ma per me, che sono antifascista e vengo da una famiglia antifascista, è stata una delle esperienze più dolorose della mia vita».
Tuttavia, il suo Mussolini, figlio di un’ossessione, risulta inevitabilmente troppo. Tracimante, tracotante, chiacchierone, al limite del macchiettistico, soprattutto nei primi episodi che dal 1919 ci conducono alla Marcia su Roma e al contemporaneo incarico di governo affidatogli da Vittorio Emanuele III (Vincenzo Nemolato) dopo la rapida caduta di Luigi Facta. «Questo è un progetto partito sei anni fa», rivela Lorenzo Mieli, «quando Scurati ce l’ha sottoposto e noi abbiamo subito raccolto l’idea, scoprendo che al cinema e in televisione c’erano prodotti riguardanti gli ultimi anni del fascismo, ma quasi niente sulla genesi e la formazione di questa rivoluzione preoccupante e pericolosa». Così, vediamo un giovane Mussolini direttore del Giornale del popolo percorrere affannosamente cunicoli scuri, quasi inseguisse i fatti. Sempre eccitato, consuma amplessi a ritmo sfrenato. Sdraiato su un tavolo, fissa allucinato una bomba a mano che rotea all’infinito, mentre le camicie nere compiono le loro barbarie spaccaossa. Patisce il complesso di Gabriele D’Annunzio (Paolo Pierobon) e si fa guidare da Margherita Sarfatti (Barbara Chichiarelli) che rischiara la via con minimi ritocchi. «Noi vogliamo» al posto di «Noi chiediamo», in un editoriale del Giornale del popolo. E il Vate non è «un padre», ma «una spina nel fianco: da togliere», mettendo fine all’impresa di Fiume.
«Io sono come le bestie, sento il tempo che viene. E questo è il mio tempo», annuncia lui rivolto alla camera come Kevin Spacey in House of cards. Ma non è né una sottolineatura delle sue doti affabulatorie né un tentativo di psicanalizzarlo. «È il modo in cui parla direttamente allo spettatore, svelando i pensieri che ha sempre cambiato, ingannando famigliari, collaboratori, compagni», spiega Wright.
La nuova versione è: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene e questo non è ancora il mio». Ma arriverà il momento degli uomini forti e delle idee semplici. «La storia si fa con gli ultimi. Mettendogli in mano le bombe, le rivoltelle e, se occorre, le matite elettorali». Entrato finalmente in Parlamento, ecco la versione definitiva: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene, e non importa come, ma il mio tempo è arrivato. E pazienza se sono diventato l’uomo che odiavo da ragazzo. Io sono una bestia coerente, ho sempre tradito tutti, tradisco anche me stesso».
M – il figlio del secolo, «il più importante progetto realizzato da Sky», assicura Nils Hartman di Sky studios, è una serie contemporanea e pop, con la colonna sonora dei Chemical Brothers, notturna e cupa, splatter con le camicie nere, dalle tinte bellocchiane non solo quando compare  Ida Dalser, prima moglie che diede un figlio al Duce che la fa internare in manicomio (sul caso Marco Bellocchio diresse Vincere ndr). Così, il capopopolo dei prodromi si trasforma in «stratega», «prestigiatore», «trasformista», come avverte, anticipando le mosse allo spettatore. «Make Italy Great Again», dice a un certo punto un Mussolini trumpiano. Ma conservare il potere è più difficile che fare la rivoluzione. Ancora di più controllare la bestialità delle squadracce di Italo Balbo (Lorenzo Zurzolo). Affiorano i dissidi, si addensano i fantasmi, lo assediano le donne. A chi gli chiede come sia riuscito a raccontare insieme sia il Mussolini uomo che il Mussolini politico, il regista risponde: «Non è stato difficile perché sono inscindibili. Il fascismo è la politicizzazione della mascolinità tossica». E il cerchio si chiude.

 

La Verità, 6 settembre 2024

Sky conferma gli show e tenta di rinnovare le serie

La presentazione dei palinsesti di Sky Italia che alcuni, nell’italiese di una piattaforma globale che si rispetti, chiamano Upfront, è una carrellata di titoli alternata a veloci «clipponi» che fanno capire ciò di cui si parla. Sul palco del cinema Barberini di Roma sale Antonella D’Errico, executive vice president programming che definisce Sky Italia «un ecosistema produttivo» che per il 2024-25 ha investito 400 milioni, diritti sportivi esclusi. Il primo video si conclude con la certezza che «sarà una stagione perfetta» che parte dalle conferme degli show: da X-Factor a MasterChef, da Pechino-express ai vari giochi imperniati sulla gara di «quattro» (matrimoni, hotel, ristoranti eccetera). Nulla cambia perché «quando si trova un format che funziona hai trovato un tesoro che si rinnova al suo interno», assicura D’Errico. Il rinnovamento più profondo riguarda X-Factor dopo l’ultima annata un po’ così. Perciò ecco Giorgia alla conduzione («Mi piace molto condurre, mentre non saprei fare il giudice») e una giuria tutta inedita, con l’eccezione di Manuel Agnelli, composta da Paola Iezzi, Achille Lauro in giacca e cravatta, e Jack La Furia, il meno costruito del quartetto, con finale il 5 dicembre in piazza del Plebiscito a Napoli. Altro fiore all’occhiello, visibile sia in pay-tv che su Tv8, è GialappaShow, fucina di talenti comici che rinverdisce i fasti di Maidiregol e dei successivi spin-off.

Le nuove produzioni dei canali factual (Arte, Documentary, Nature e Crime) che sotto la direzione di Roberto Pisoni hanno registrato una crescita del 25% saranno Il caso Rostagno, Luciano Gaucci. Quando passa l’uragano, Marmolada. Madre roccia, Chem sex. La droga dello stupro.
Ma lo sforzo maggiore è concentrato sulle serie, nel tentativo di consolidare l’identità delle produzioni original e di allargare la proposta a un pubblico più «generalista». In questa direzione vanno titoli come Hanno ucciso l’uomo ragno. La leggendaria storia degli 883 e Piedone, con Salvatore Esposito che, affiancato da Silvia D’Amico, lascia il lato oscuro di Gomorra per richiamare quello più pop del commissario Rizzo di Bud Spencer. La «quota impegno» invece è assolta da M. Il figlio del secolo con Luca Marinelli, tratto dal romanzo di Antonio Scurati, che ancora non si sa se verrà presentato alla Mostra di Venezia. «Chiedete a loro, la conferenza stampa sarà tra pochi giorni», butta lì Nils Hartman, executive vice president Sky Studios, forse per tenere bassa l’attesa. Che c’è anche per le già annunciate L’arte della gioia di Valeria Golino, Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo e per la terza stagione di Petra con Paola Cortellesi, reduce dall’exploit di C’è ancora domani (produzione Vision) che, presentata come una di famiglia, ha mandato un video dal set. Altra novità sarà Il giorno dello sciacallo, ispirata al thriller di Frederick Forsyth già divenuto film di successo, mentre di Rosa elettrica, «thriller on the road relazionale» con Maria Chiara Giannetta, e di Ligas, con Luca Argentero nei panni di un controverso e geniale penalista milanese, stanno per iniziare le riprese.

 

La Verità, 21 giugno 2024

«Il fascismo? Roba passata, basta chiedere abiure»

Un pensiero terzo nell’epoca della polarizzazione. Un pensiero laterale rispetto al pensiero unico, pigro e conforme. È quello che sgorga da Controstoria dell’Italia (Bompiani editore) di Giampiero Mughini, sottotitolo: Dalla morte di Mussolini all’era Berlusconi. Mughini attinge al Muggheneim (il titolo del penultimo saggio) di libri, riviste e arredi di design della casa-museo, e alla memoria di una vita vissuta senza adagiarsi in luoghi comuni. Lo scopo è «mettere una targa di carta a rammemorare quella storia (della guerra civile ndr), nonché quella successiva della Repubblica italiana, in tutte le loro complessità e ambivalenze».
Mughini, conosciamo la controinformazione, perché c’è bisogno di una controstoria d’Italia?
«Perché le nuvole di banalità che ci avvolgono vanno alla grande. Banalità che convincono i beoti di assurdità scambiate per senso comune. Invece, abbiamo bisogno di cercare verità nuove, inedite, anche aspre, se occorre. Ritrovare vicende e situazioni che ci erano passate di mente e non contentarci delle certezze in cui credevamo 20 o 30 anni fa».
Che cosa non ti piace dell’ufficialità e del conformismo odierni?
«C’è un nuovo conformismo che è più duro di quello vecchio. Mentre abbiamo bisogno di entrare nell’universo del Terzo millennio. Un’epoca diversa da quelle che abbiamo vissuto finora e che e ci impegnerà non poco per campare».
Controstoria dell’Italia lo definiresti un libro montanelliano?
«Indro mi perdoni, ma è un riferimento che accolgo con onore».
In una controstoria serve la giusta distanza anche riguardo ai fascisti, raccontati senza risparmiare critiche, ma con il rispetto che si deve all’avversario politico?
«La giusta distanza serve sempre. Il rispetto dell’avversario fa parte del mestiere di vivere. Egli non è un tipetto che fa schifo dall’inizio alla fine e da dover distruggere. La pensa diversamente da te. Ha dei meriti che tu non gli riconosci e tu hai dei meriti che lui non ti riconosce. La vita è imparare, con il senso dell’ironia».
È il rispetto che avevi nei confronti di tuo padre?
«Mio padre mi avrà detto venti frasi in tutta la sua vita e ogni volta ha lasciato il segno. Era una brava persona e questo è ciò che più conta. Quando, poco più che ventenne, dirigevo Giovane critica a Catania e non avevo i soldi per stamparla, ci mise i suoi. E quando poi ci fu da dividere l’eredità con i miei fratelli, tolse la quota che aveva anticipato».
Contesti che il fascismo non abbia prodotto una cultura.
«Basta citare il Futurismo. La cultura non è un cumulo di truppe armate contro altre truppe armate, è l’intelligenza delle sfumature».
Farne tabula rasa dipende dal complesso di superiorità di coloro che stanno seduti sempre dalla parte giusta della storia?
«Si sta dalla parte giusta della storia come se fosse sempre quella. E come se invece non cambiasse continuamente. I fascisti avevano ragione quando replicavano a coloro che sputavano per strada contro i reduci delle trincee. Mica si erano divertiti quelli che erano stati nelle trincee».
Rivisiti la figura di Alessandro Pavolini, addirittura capo del Partito fascista repubblicano e fondatore delle Brigate nere. È il paradigma di coloro «che ci credono fino in fondo»?

«Di coloro che si giocano tutto nel crederci fino in fondo. Ciò nonostante, Pavolini non era un mostro, bensì un italiano del suo tempo, un fascista convinto, protagonista di un tempo atroce. Amico fraterno di Galeazzo Ciano, dopo il tradimento del 25 luglio 1943 è colui che ne pretende la fucilazione. Chi scrive la storia per bene, Pavolini lo deve mettere in piedi. Così come chi scrive la storia per bene, dei 15 fucilati a Dongo deve dire che un regolare processo ne avrebbe condannato uno solo. L’Italia deve riconoscere che le cose sono andate così e soprattutto non avere la libidine di rinfocolare fascismo e antifascismo. Che non esistono più. Sono quattro ragazzotti per strada, ma noi sappiamo cos’è stato dei ragazzotti per strada».
Pavolini è l’emblema del fanatismo ideologico, primo nemico anche oggi?
«Certamente. Quel fanatismo che alimenta i terroristi islamici delle Torri gemelle. E di tutti quelli che non riescono a immaginare se non la distruzione degli avversari ideologici. Come accaduto anche nella stagione del terrorismo italiano».
Scrivi che il cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra, dove Mussolini e Claretta Petacci furono uccisi da Walter Audisio, il partigiano «Valerio», è «il luogo fisico più carico di tragedia che io abbia mai tastato in vita mia».
«Su quel cancello si chiude una storia tragica. Quattro colpi di fucile contro un uomo anziano e una donna. L’Italia di quell’epoca finisce nel modo peggiore».
Altri posti tragici dove sei stato?
«A Piazzale Loreto, dove qualche giorno prima erano stati massacrati dei partigiani. E dove, per vendetta, appiccano quelli per le gambe… ivi compresa una donna. Un atto spaventoso».
Sei mai stato a vedere un campo di concentramento nazista?
«No. E ho l’impressione che non ne caverei il tutto, che non si possa attingere completamente a quell’orrore. Veramente spaventoso».
Parlando criticamente anche di te stesso e di un tuo intervento in occasione di un 25 aprile di molti anni fa usi il vocabolo «incultura» a riguardo della faciloneria con cui si argomenta di fascismo e antifascismo. Che cosa pensi della polemica per il mancato intervento a Rai 3 di Antonio Scurati?
«Lì non ci sono parole, in effetti. Era stato chiamato a fare un discorso, che per altro non aveva niente di speciale o originale, ma che non mi pare si potesse censurare. Era un discorso sacrosanto. Certo, un governo che ha quel colore lì non ama sentirselo dire in faccia. È stata una pagina micragnosa».
Sebbene sia documentato che i biglietti del treno e dell’hotel per la trasferta di Scurati fossero già stati pagati?
«Forse c’è stata una retromarcia voluta da qualcuno. Ho l’impressione che nel gruppo al potere ci sia una differenza notevole tra il capo del governo e i suoi attendenti».
Cosa pensi dell’insistenza con cui si richiedono abiure al premier?
«È semplicemente ridicolo. Quelli hanno avuto una loro storia. Giorgia Meloni ha avuto una sua giovinezza, in cui si diceva fascista. Ma è del tutto evidente che con la storia di un secolo fa non ha niente a che fare. Cosa stai a chiedere?».
Perché non avviene altrettanto quando a Palazzo Chigi si trova o si trovasse un post-comunista?
«Onestamente, ora la cosa è impossibile. Ma probabilmente avremmo la stessa tiritera».
Dici?
«
Penso di sì. La gente è abbarbicata alle cose in cui ha creduto e non fa un passetto per mutare la sua camminata».
Il tuo amore per il design e il desiderio di possederne i pezzi più succulenti e quello per i libri e le loro prime edizioni è una debolezza che fa prevalere l’avere sull’essere? Voglio dire, il capitolo sulla guerra civile riguarda l’identità della persona, quello sulla bellezza italiana sembra riguardare il possesso.
«Assolutamente no. Tra avere e essere non c’è differenza. Avere un libro e leggersi proprio quel particolare libro, in quella edizione, è un’esperienza che riguarda pienamente l’essere».
Perché quello su Silvio Berlusconi è stato il capitolo più faticoso da scrivere?
«E di gran lunga. Perché nutrivo una simpatia personale in quanto lui era di una squisitezza umana straordinaria. Tuttavia, certo, ne ha combinate tante, tantissime. Come si fa a dare un giudizio univoco su un tale personaggio. Anche in questo caso, l’odio contro di lui è stato di un’intensità pazzesca. Ora, io non sono stato berlusconiano un solo giorno della mia vita. Però non potevo non ammirare il costruttore, l’imprenditore che aveva delle squisitezze umane. Vicino a dove abitavo a Roma, c’era una famosa sezione del Partito comunista che poi cadde in disgrazia. Bene, lui volle venire a vederla, ci volle entrare, rendersi conto… L’uomo era questo».
Invece il capitolo più macerante è stato quello sugli anni di piombo?
«Direi quello degli italiani che si ammazzavano negli ultimi mesi della guerra civile. Non c’è cosa più brutta. Ci si ammazzava fra italiani. Sono cose spaventose rispetto alle quali, oggi, l’Italia, anziché ricucire, intinge la conflittualità e spasima di riproporre quelle zuffe».
È la perenne contrapposizione dell’antifascismo.
«Sì, lasciamola nel passato».
In un documentario sulla storia di Lotta continua in cui eri intervistato anche tu, Erri De Luca dice che gli Anni di piombo sono stati anche anni di rame.
«Non ho nostalgia per quel decennio, quando anche i ragazzi si ammazzavano per strada. Parlo di quei tre ammazzati dinanzi alla sezione fascista. E tutta la discussione su Acca Larenzia vien fatta sul braccio alzato e non sui morti ammazzati in quel modo».
Scrivi che avresti detto «presente» anche tu.
«Non col braccio teso, s’intende. Dinanzi a quei tre ventenni stroncati, dentro di me l’avrei detto».
C’è troppa indulgenza verso i giovani che manifestano per la Palestina?

«I giovani raramente hanno avuto ragione. In questo caso non mi pare ne abbiano molta. Il loro atteggiamento nei confronti di questa tragedia è molto modesto. Non hanno battuto ciglio per bambini e donne morte il 7 ottobre. Io invece, naturalmente figurati se non ho tenerezza per i bambini palestinesi che crollano a mucchi, il 7 ottobre non riesco a dimenticarlo».
Se ti si chiedesse di scrivere un nuovo capitolo della controstoria a cosa lo dedicheresti?
«Alle fesserie che si raccontano. La lotta politica in Italia si fa su un uomo del potere ha fatto fermare un treno perché aveva premura. Queste sarebbero le battaglie… Penso che raramente l’Italia sia giunta a un tale livello di bassezza».
Per chiudere, Giampiero, un tuo pensiero su Massimiliano Allegri.
«L’idea di 100.000 tifosi che vogliono dare lezione di calcio a uno che ha vinto e stravinto con la Juventus mi suona come una buffonata. Capisco che, dopo una vittoria meritata, alla fine di un’annata così, abbia avuto questo scatto di nervi. Sono totalmente dalla sua parte. Questo è stato il suo ultimo anno alla Juventus, ma vorrei conoscere un altro allenatore che abbia portato a casa un bottino di questa fatta tra scudetti e coppe varie».

 

La Verità, 18 maggio 2024

Gli «imbavagliati» si lamentano a reti unificate

Sabato sera, rientrando da una gita, ho acceso la tv trovandola sintonizzata su La7, il canale dove l’avevo spenta al mattino. A In altre parole Massimo Gramellini diceva rivolto a Roberto Vecchioni: la prossima settimana quest’uomo incontrerà il capo dello Stato Sergio Mattarella e, dopo esser stato ricevuto da papa Francesco, chiuderà un concerto sul sagrato di piazza San Pietro. «Quest’uomo». A quel punto sono saltato su Rai 3, cadendo dentro Chesarà della «co-censurata» Serena Bortone, imbattendomi in Gene Gnocchi con inguardabili calzini grigi copri-malleolo che sbertucciava in serie Roberto Vannacci, Matteo Salvini e i pro-life. Tornato su La7, dopo una stoccatina al solito generale, Gramellini stava dando il benvenuto a «un altro Roberto», ovvero Saviano. In cerca di riparo, ho virato su Rete 4. Ma lì, tra gli ospiti di Stasera Italia spiccava Giovanna Vitale di Repubblica, inflessibile nello stigmatizzare il premier Giorgia Meloni, «che non si è mai dichiarata antifascista», e «l’ossessione per il controllo dell’informazione che passa per il controllo della Rai». Insomma, gli imbavagliati imperversavano a reti unificate.
Quella stessa mattina, sotto il titolo d’apertura «Libertà, l’Italia arretra», dalle colonne del quotidiano di proprietà del gruppo Gedi, la medesima Vitale aveva nuovamente rilanciato l’allarme democratico, paventando «l’occupazione militare dell’informazione targata Fratelli d’Italia (…) che risponde a un preciso disegno di potere e di sdoganamento della cultura post-fascista concepito a Palazzo Chigi». Proprio così, il regime è dietro l’angolo. Forse, già davanti. Insieme agli opinionisti dei gruppi editoriali legati all’opposizione lo denunciano il segretario della Fnsi Vittorio Di Trapani, già leader dell’Usigrai, il sindacato dei giornalisti del servizio pubblico che ieri ha imposto un giorno di sciopero dei tg. Uno dei più politici degli ultimi decenni, le cui motivazioni contro l’accorpamento delle testate e la mancata stabilizzazione dei precari sono il contorno della vera ciccia, ovvero la Rai ridotta a «megafono governativo» e (l’inesistente) caso Scurati.
Sommessamente, a me pare che qualcosa non torni. E che coloro che lamentano la «deriva orbaniana» lo facciano strillando contro TeleMeloni e l’avvento dell’egemonia della destra comodamente seduti negli studi di Lilli Gruber, di Marco Damilano, di Serena Bortone o di Giovanni Floris. Sarebbe interessante quantificare la frequenza con cui i talk show riveriscono direttori, editorialisti e grandi firme, da Maurizio Molinari a Massimo Giannini, da Stefano Cappellini a Michele Serra, da Concita De Gregorio a Corrado Augias, solo per stare al quotidiano che denuncia l’italica riduzione delle libertà.
Per circostanziare un attimo lo stato delle cose può tornare utile un’occhiata a una settimana tipo di programmazione serale. Scorrendola in orizzontale si trovano le varie strisce quotidiane: su La7 c’è il sempre uguale a sé stesso Otto e mezzo, mentre su Rete 4 il nuovo Prima di domani può vantare le new entry di Stefano Cappellini, Concita De Gregorio, Ginevra Bompiani e Gad Lerner. Su Rai 3 l’ex direttore dell’Espresso Marco Damilano conduce Il cavallo e la torre e, dopo il Tg1, Bruno Vespa condensa il suo «approfondimento» in Cinque minuti. Passando al palinsesto verticale, il lunedì sera ci sono Quarta Repubblica di Nicola Porro su Rete 4, le inchieste di cronaca di Far West di Giuseppe Sottile (Rai 3) e i reportage di Cento minuti di Corrado Formigli e Alberto Nerazzini su La7 che, dopo La torre di babele di Corrado Augias, riempiono il vuoto lasciato dallo spostamento di Report alla domenica. Il martedì il salotto di Giovanni Floris è il think tank dei guru d’opposizione (Pier Luigi Bersani, Michele Santoro, Augias e Romano Prodi) e su Rete 4 Bianca Berlinguer cerca una problematica quadratura bipartisan in È sempre cartabianca, mentre su Rai 3, al fallimento di Avanti popolo si è fatta seguire l’irrilevanza di Petrolio di Duilio Gianmaria. Il mercoledì, grazie alle inchieste e agli ascolti, resta Fuori dal coro di nome e di fatto Mario Giordano. Il giovedì su La7 Piazzapulita di Corrado Formigli punta a vincere il concorso di programma più antimeloniano dell’etere, perdendo però regolarmente con Diritto e rovescio di Paolo Del Debbio (Rete 4). Il venerdì sera si può scegliere tra l’antagonismo di Propaganda live (La7), che insidia le ambizioni di Formigli mixando i «monocordologhi» di Andrea Pennacchi con il retroscenismo left oriented di Filippo Ceccarelli, e la satira d’opposizione di Fratelli di Crozza sul Nove. Il sabato, come detto, ci aspetta la coppia fotocopia Massimo Gramellini e Serena Bortone (rischiando il gulag Vecchioni e Gramellini sono stati i primi a declamare il testo di Scurati sul 25 aprile). La domenica sera, invece, si chiude in bellezza con Zona bianca di Giuseppe Brindisi, che l’altro ieri ha intervistato Giuseppe Conte, Report di Sigfrido Ranucci su Rai 3 e, sul Nove, il velluto blu innervato di vendette anti-Rai di Che tempo che fa.
Questo è il quadro del regime che ci sta avvolgendo e nel quale le poche voci dissidenti rischiano quotidianamente la strozza. In realtà, «non c’è mai stata libertà d’informazione come oggi», ha detto Antonio Padellaro, incenerendo la povera Bortone. Anzi, pur considerando le tre serate di Porta a porta (di certo più bipartisan di Linea notte), l’equilibrio di Quarta Repubblica e il controcanto di Diritto e rovescio e Fuori dal coro, la teleinformazione serale resta orientata dalla solita parte. Per certi versi, con Bianca Berlinguer a Mediaset, la bilancia è più sbilenca di prima. Nelle intenzioni, la chiamata dell’ex direttrice del Tg3 doveva essere la contromisura all’annunciato spostamento a destra dell’informazione Rai. Invece, considerati i flop e il lungo rodaggio che stanno rendendo una chimera il «riequilibrio» della tv pubblica, il risultato finale è che l’asse dell’infosfera rimane, nel suo complesso, tuttora ben spostato a sinistra. Con buona pace dei presunti perseguitati dal regime.

P.s. Come hanno documentato i biglietti ferroviari e la prenotazione dell’hotel per la trasferta romana in occasione della partecipazione al programma Chesarà, Antonio Scurati non ha subito alcuna censura da parte della Rai.

 

La Verità, 7 maggio 2024

«La Rai è un calabrone, vola nonostante il peso»

Agostino Saccà, come vede la Rai da pochi metri di distanza uno che ci ha lavorato 35 anni?
«A rigore di fisica e di logica la Rai non dovrebbe volare. Invece, è come il calabrone, un volatile che ha un’apertura alare incoerente con il suo peso. Quello che la grava, soprattutto dall’esterno, è così tanto che dovrebbe spiaccicarsi al suolo».
Invece?
«È al 39% di ascolto in prima serata, contando anche i canali digitali. Se pensa che era al 45,8% 35 anni fa, poco dopo l’inizio dell’Auditel, assistiamo a un miracolo. Non c’è solo la concorrenza di Mediaset, ma anche quella di La7 e Sky, degli americani di Warner Bros Discovery, delle reti locali e di decine di canali satellitari. Senza dimenticare le piattaforme».
Siccome nella tv pubblica Agostino Saccà è stato tutto, ne parla con autorevolezza e passione. Dalla direzione generale di Willy De Luca passando per Biagio Agnes, dai professori a Pierluigi Celli, ha attraversato metà della sua storia settantennale. Giornalista in radio e al Tg3, vicedirettore di Rai 2, capo-staff di Letizia Moratti, due volte direttore di Rai 1, direttore generale e capo della fiction. Lo incontro a due passi da Viale Mazzini, negli uffici della Pepito che ha fondato nel 2007, sorta di laboratorio di idee dove nascono film, serie tv e documentari.
Cominciamo dall’addio di Amadeus, dal sorpasso di Mediaset o dalla presunta censura di Antonio Scurati?
«Dal sorpasso di Mediaset».
Prego.
«Intanto, nei primi quattro mesi del 2024, non c’è. In primetime la Rai, digitale compreso, è al 39% e Mediaset al 36%».
In daytime?
«Nemmeno. L’ha smentito anche il direttore generale Giampaolo Rossi che io ritengo, per cultura personale, conoscenza aziendale e capacità di dialogo la scelta migliore possibile oggi per il ruolo di amministratore delegato. La Rai fa il 37,8%, Mediaset il 37,2%. Se poi togliamo il digitale, dove Mediaset è più forte, sulle generaliste il primato Rai è schiacciante: Rai 1 è al 24,3 e Canale 5 al 16. Idem sui tg: il Tg1 fa il 25,4 e il Tg5 il 19,8».
C’è una narrazione falsata?
«A metà del 2023 Mediaset ha effettivamente superato Rai e ha mantenuto la posizione fino a fine anno. Ma dall’inizio del 2024 i dati sono questi».
Narrazione falsata?
«Soprattutto pigra».
L’amministratore delegato Roberto Sergio ha detto che c’è chi vuole distruggere la Rai: lo si trova nelle file dall’opposizione e nei giornali d’area?
«Oggi la Rai ha tanti nemici e pochi difensori. Nell’opposizione c’è chi è tentato di buttare l’acqua “sporca” col bambino per timore di un’egemonia del centrodestra nella tv pubblica. Questa tentazione può saldarsi con gli interessi degli editori che trarrebbero vantaggio da un suo ridimensionamento nel mercato pubblicitario. Ma oltre a conseguirli, con la direzione della pubblicità di Gian Paolo Tagliavia, la Rai sa vendere bene i suoi risultati. Grazie alla performance pubblicitaria, che a Sanremo si è espressa al meglio, ha ridotto di 90 milioni l’indebitamento».
Amadeus poteva essere trattenuto?
«No perché doveva portare all’incasso l’enorme successo di Sanremo. Ricordiamoci che è anche un grande autore. Lo dico perché l’ho portato al grande pubblico con In bocca al lupo su Rai 1 più di vent’anni fa e ho apprezzato sia le doti del conduttore che quelle autoriali che lo aiutano a migliorare i prodotti a cui lavora. A Warner Bros Discovery fornirà i format delle trasmissioni che potrà inventare, far comprare o anche produrre. Questo in Rai non era possibile».
Nella prossima stagione i poli televisivi aumentano: essendo ìmpari quella sulle risorse, sposterebbe la sfida sulle idee?
«Le idee sono fondamentali, ma senza soldi la tv generalista non si può fare. Quando devi massimizzare gli ascolti e difenderti da offerte ricche, perdi. Il canone di abbonamento della Rai è il più basso d’Europa, quattro volte inferiore a quello tedesco, più di tre volte di quello inglese, più della metà di quello francese. È stupefacente che il calabrone continui a volare».
Bisogna aumentare la tassa più invisa agli italiani?
«Il governo dovrebbe dare all’azienda risorse coerenti con la missione di servizio pubblico. Il canone andrebbe riportato a 90 euro e andrebbe ridotta la tassa di concessione di 90 milioni che le altre tv non pagano in questa misura. Se si teme il rifiuto di una parte dei cittadini c’è un’altra via».
Sentiamo.
«La Rai dispone di uno strumento efficace per la crescita del Paese e per la concorrenza alle piattaforme. Raiplay ha riavvicinato i giovani e, con 24 milioni di account, è un dispositivo strategico per preservare i codici espressivi nazionali e il modo di raccontare dei grandi artisti dell’immaginario italiano. Bisogna avere la forza di lanciare Raiplay, dicendo che servono 20 euro di canone da destinare al prodotto. Sarebbe una piccola grande rivoluzione culturale».
In questo scenario come valuta il ruolo di La7 di Urbano Cairo?
«È una televisione con professionisti di valore e i risultati lo confermano. La mia sensazione è che, forse, la sua narrazione si dimostri leggermente datata rispetto ai grandi cambiamenti geopolitici e culturali che si sono verificati negli ultimi tempi».
Come risponderebbe alla perdita di Amadeus?
«Se Mina accettasse di fare il direttore artistico di Sanremo sarebbe un grande ritorno. È figlia della Rai, ha fatto i varietà dell’epoca d’oro, è una grande conoscitrice di musica, aggiornata su tutte le nuove tendenze. Con Carlo Conti all’Ariston, sarebbe un colpo straordinario. Su Sanremo bisogna avere coraggio e fantasia».
Lei lo avrebbe fatto fare il monologo a Scurati?
«Io gliel’avrei fatto fare, anche se confliggeva con le norme che vogliono che il sabato precedente al voto sia di silenzio. Tuttavia, mi chiedo: se è agli atti che l’azienda l’aveva consentito a titolo gratuito, perché improvvisamente spuntano i soldi e successivamente la conduttrice attacca la Rai sui social e denuncia la censura?».
La politica ha sempre influenzato la tv pubblica: la situazione è peggiorata con la riforma Renzi che ne ha spostato il controllo dal Parlamento al governo?
«Il Parlamento e il governo sono gli azionisti, è inutile fare gli ipocriti. È così in tutta Europa. In alcuni casi le intrusioni sono leggende. È soprattutto la piccola politica a provarci, governo e Presidenza del consiglio di solito si fermano alle nomine apicali. Proprio il caso Scurati lo dimostra: Giorgia Meloni ha pubblicato il monologo sul suo account di Facebook che ha più seguaci degli ascoltatori del programma».
Buoni dirigenti dovrebbero saper gestire le situazioni.
«In Rai ci sono e un dato lo conferma. Un’impresa operante in un sistema competitivo che subisse interferenze continue non si manterrebbe quasi al 40% di share. La Rai sarebbe finita come l’Alitalia che è costata 8 miliardi di aiuti allo Stato. Ricordo che quando il governo Ciampi stanziò 200 miliardi di lire per aiutarla in un momento difficile, Letizia Moratti li rifiutò: “La Rai si salva da sola”, disse. E in due anni e mezzo abbattemmo 1500 miliardi di lire d’indebitamento, figlio della guerra contro Berlusconi e della realizzazione di Saxa Rubra. Non c’è in Italia un’azienda pubblica o privata, dall’Olivetti alla Fiat, che abbia rifiutato gli aiuti dello Stato come ha fatto la Rai».
Sono limiti strutturali a condizionarla?
«Dal punto di vista della gestione economica e finanziaria la Rai è più paralizzata di un ente locale. Per stanziare 2.000 euro serve una gara d’appalto. Alle riunioni del Cda partecipa un giudice della Corte dei conti con compiti di controllo, una prassi che non c’è in un nessun’altra azienda o amministrazione pubblica. Agendo in regime di concorrenza, andrebbero applicate le norme del diritto privato. Il governo dovrebbe presentare in Parlamento un articolo di poche righe per l’interpretazione corretta della natura e dell’azione della Rai».
Tornando alle questioni editoriali, la riforma per aree di genere è stata un errore?
«Non è sbagliato rendere autonome le produzioni per generi perché la Rai vive una condizione di multimedialità. Le reti producevano per sé stesse, mentre le aree per genere declinano i contenuti su più canali e più media, online compreso».
Ma non ci sono più i direttori di rete a dare identità al palinsesto e a rispondere se qualcosa non funziona.
«Giusto. Se si cancellano i responsabili delle reti si riduce il carattere identitario dell’offerta. È il responsabile di rete a sapere quello che gli serve. L’offerta di palinsesto dovrebbe definirsi nel rapporto dialettico tra i responsabili di rete e i direttori dei generi».
Dalla passione che ci mette sembra ancora un uomo di vertice della Rai.
«Amo e conosco i meriti di un’azienda che ha inventato il digitale e ha insegnato a parlare agli italiani. Ci sono arrivato quasi cinquant’anni fa, da ragazzo di Calabria…».
Anche lei come Giovanni Minoli invierà il curriculum alla Commissione di Vigilanza per entrare in Cda e magari presiederlo?
«Ogni stagione ha i suoi incarichi. Adesso mi diverto facendo il produttore».
Pepito le ha dato una seconda giovinezza?
«In un certo senso sì, perché continuo a fare il lavoro che mi ha sempre appassionato».
Che cosa le piace del mestiere di produttore cinematografico e audiovisivo?
«La meraviglia di partire da un’idea e farla diventare immagini, scene, costumi, facce. Lo stupore di prendere una storia vera come quella di Hammamet, o non vera ma realistica come quella di Favolacce, e farne due film definiti capolavori dai critici. Hammamet in Italia ha incassato quasi 7 milioni di euro, mentre Favolacce è stato venduto in 50 paesi, America compresa, e ha vinto l’Orso d’argento a Berlino».
Si producono troppi film d’autore e pochi per il grande pubblico?
«Si producono troppi film che non arrivano al pubblico. Ma credo che questo governo, di cui aspettiamo i decreti sul tax credit e i finanziamenti, stia lavorando bene contro la dispersione delle poche risorse. Le quali vanno concentrate su opere che, per scrittura, regia, cast e referenze del produttore, meritano l’attenzione del ministro della Cultura».
A che progetti sta lavorando?
«Stiamo scrivendo una sceneggiatura su Elvira Notari, la prima grande regista e autrice italiana che a Napoli, insieme con il marito, ha inventato tecniche di ripresa, fotografiche e di colorazione delle pellicole prima del colore. Un altro progetto con Rai Cinema riguarda la morte di Cavour, una morte misteriosa e sospetta che va raccontata».

 

La Verità, 27 aprile 2024

Perché desideriamo vedere e ascoltare i vecchi

La guerra. Tutto ruota attorno a lei. O almeno al dopoguerra. Chi l’ha vissuto e chi no. Fa la differenza, oggi. Eccome, se la fa. Parlando dei componenti della classe dirigente attuale, intervistato dalla Verità, Peppino Caldarola, uomo di sinistra (74 anni), ha detto che non hanno vissuto «la guerra e il dopoguerra, non hanno visto il colera a Napoli e Bari, erano bambini durante il sequestro Moro, ragazzi durante il terremoto dell’Aquila». Appartengono a «una classe dirigente che, non per colpa sua, non si è confrontata con nessuno dei drammi italiani contemporanei». E che perciò è impreparata sia culturalmente che psicologicamente. Riflettendo sui cinquantenni, la generazione a cui appartiene, Antonio Scurati ha scritto sul Corriere della Sera: «Sono arrivati del tutto impreparati all’appuntamento con la loro storia… Il loro apprendistato alla vita è stato un lungo apprendistato all’irrealtà televisiva. Avevano vent’anni quando hanno assistito dal salotto di casa alla prima guerra in diretta televisiva della storia umana, trenta quando sono stati bersagliati attraverso gli schermi televisivi dal terrore mediatico, quaranta quando l’odissea dei dannati della terra è approdata alle spiagge delle loro vacanze… Hanno la casa al mare e il cellulare di ultima generazione… hanno avuto più cani che figli e adesso rischiano la vita per portare il loro barboncino a pisciare». Un’autocritica spietata, se vogliamo. Ma onesta.

È fuori di dubbio che i quarantenni e cinquantenni l’abbiano avuta facile. Più per merito dei padri che per demerito loro. Hanno trovato un Paese ricostruito, florido, moderno. Una civiltà, l’Occidente, mediamente ricca e proiettata verso un futuro radioso. Non è colpa loro. Adesso però sono, siamo, spiazzati. Mentre i vecchi lo sono meno. Ora che il gioco si fa duro – che a tutte le latitudini siamo accomunati dallo stesso destino e raramente l’abbiamo avvertito così insidioso – i duri sono loro. Gli ottantenni. Fateci caso. Papa Francesco (83), ha compiuto il gesto che resterà nella mente e nella storia di questa pandemia. Da solo, in quella piazza deserta, eppure affollata dal mondo intero. Un mondo disarmato, fragilissimo, impotente, tremebondo. Lui, in piedi, a elevare un’invocazione al Padreterno. Poi, fatte le debite proporzioni, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (79) che, riscattando alcune recenti latitanze, si è svegliato dal torpore per difendere il nostro Paese, e non le ha mandate a dire all’improvvida presidente della Bce Christine Lagarde esponendosi sul fronte europeo. Oppure il regista Pupi Avati (81), che ha preso carta e penna e ha scritto alla Rai per chiedere di ridimensionare il condizionamento del mondo pubblicitario e degli esami dell’auditel e stravolgere i palinsesti per favorire una crescita culturale anche delle giovani generazioni, programmando film classici, concerti, documentari e biografie dei nostri grandi artisti. Un’iniziativa che ha subito raccolto Renzo Arbore (82), un grandissimo vecchio della nostra tv. L’elenco potrebbe continuare con i tanti vecchi autorevoli che i giornali intervistano in questi giorni. Come Eugenio Borgna (89), per esempio, luminoso psichiatra che ha paragonato l’epidemia di oggi con l’esperienza che visse, tredicenne, nel 1943. Quando, inseguita dai tedeschi, la sua famiglia fu costretta a lasciare la casa paterna e avventurarsi nella notte, in montagna: «Fino a quel momento il sentiero dell’adolescenza mi appariva rettilineo. Improvvisamente, era divenuto buio e tortuoso. Non capivo cosa ci stesse opprimendo. I militari tedeschi erano un nemico oscuro. Tutto poteva concludersi da un momento all’altro. Oggi nulla sappiamo del coronavirus e nulla sapevamo allora di quel nemico comparso, scomparso, incombente. Anche allora, come oggi, fede e speranza si alleavano per offrirci la possibilità di un cammino più sereno».

La guerra. O almeno il dopoguerra. I nostri vecchi hanno parole meno ambigue, più dirette, più solide. Più capaci di confortare nella paura. Ci sono passati. Sanno cos’è. Quando, adolescente, sentivo i racconti di mio padre o di mio nonno sulla guerra, fremevo perché i miei occhi non erano rivolti al passato, ma al futuro. La guerra era una realtà distante. Una specie di leggenda nera, per tenerci tranquilli. Oggi siamo imprevedibilmente finiti dentro qualcosa che le assomiglia parecchio. Parliamo di nemico, di trincea, di prima linea, di ospedali da campo. Viviamo anche un’intransigente autarchia domestica. E molti di noi cercano conforto nella storia e nella migliore letteratura. Per vedere come abbiamo vissuto e come siamo usciti dalla peste. O dall’epidemia di spagnola, un secolo fa. In fondo, i vecchi, quelli della guerra e del dopoguerra, sono il pezzo di storia che abbiamo più vicino a noi. Vicino in tutti i sensi. Sono anche i più forti. E i più fragili. In questa guerra.

 

La Verità, 4 aprile 2020

Ma i guru da quarantena non parlano di salvezza

Brulicano peggio dei ribelli alla clausura. Si dibattono. Si affannano. Alla frenetica ricerca di parole, di soluzioni, di ricette, di decaloghi per contrastare la disgrazia. Per dirci come dobbiamo comportarci. Per dare a tutti le chiavi interpretative della tragedia. Ogni giorno c’è un nuovo maestro del pensiero. Un intellò che ci trasmette ciò che ha imparato. Come dobbiamo vivere e affrontare la pandemia. Come dobbiamo vivere e affrontare la paura. Chiusi nel nostro rifugio. Al confino domestico. Perché «dopo» il mondo sarà migliore, assicurano. Noi stessi saremo migliori, più solidali, altruisti, empatici. Sapremo apprezzare anche quello che prima ci infastidiva. In forza di cosa è difficile a dirsi. Per quanto si dia da fare, di fronte alla disgrazia che accomuna i destini dell’intero pianeta la cultura mainstream, umanitarista, filantropica, positivista mostra tutta la sua insufficienza. La sua pochezza. C’è la versione volontaristica di Alessandro Baricco, il guru dei guru, che su una doppia di Repubblica ha constatato, infastidito, che «abbiamo troppa paura di morire». Suvvia, la paura della morte va gestita, controllata, organizzata nella comunità. Sfugge il come. Però, facciamoci coraggio, ha esortato l’autore dei Barbari, «è il momento dell’audacia». Perché la pandemia è solo un livello più elevato del Game. Basta fare l’aggiornamento. Poi c’è la versione tra l’ombelicale e l’autocommiserante di Antonio Scurati, riconosciutosi nella generazione dei cinquantenni «in coda per il pane». Uomini e donne «tristi, incongrui a loro stessi… arrivati del tutto impreparati all’appuntamento con la loro storia». Il quale, pur ammettendo «la fine di una certa idea di modernità», ha decretato che se «un’epoca è finita, un’altra comincerà». Anche lui, tuttavia, senza riuscire a suggerire una strada, qualcosa che mostri un cambio di passo. Infine, c’è la versione narcisistico nichilista di Sandro Veronesi, considerata la messe di recensioni devote al suo Colibrì, probabile successore di Scurati allo Strega, il quale ha dichiarato che il virus siamo noi, noi specie umana: «A che cosa serviamo, ormai, noi uomini sulla terra? Perché dovremmo continuare a vivere, noi, dopo che la Madre terra si è sbarazzata di altre migliaia di specie inutili o dannose?». Ben venga il coronavirus, quindi, e facciamo piazza pulita di questa escrescenza nociva, di questa piaga purulenta e nefasta che è la specie umana. Non è bello il mondo popolato di farfalle e gladioli?

No. Parole nuove non se ne leggono né se ne ascoltano nelle pensate degli intellettuali cool. È vero, si parla molto del «dopo» e del «quando». Perché è chiaro che ci sarà un prima e un dopo. Il Covid-19 stabilirà una cesura temporale. Ma grazie a cosa il dopo sarà migliore non si riesce ad intuirlo. Leggendo certi distillati sembra di trovarsi davanti a un acquario. O all’orchestrina del Titanic che suona senza avvedersi che il pensiero unico si avvicina pericolosamente all’iceberg. Nessuno che si fermi per farsi qualche domanda. Solo risposte, ricette. La presunzione dell’intellò non flette nemmeno di fronte a un microrganismo invisibile che ci sta gettando nel panico. Il superomismo di cui abbondano i nostri giornali risulta patetico e velleitario nella convinzione che, per aggiornare il computer del mondo, bastino «le piccole cose», «la solidarietà», «essere insieme». E tutto andrà bene. Per chi resterà.

Autocritiche zero. Allora proviamo a fare un passo indietro a fine Novecento, senza menarla troppo. Trent’anni fa, dopo la caduta del Muro di Berlino il Nuovo ordine mondiale ha fatto decollare la globalizzazione. Il paradiso terrestre era dietro l’angolo. Certo, c’erano le guerre asiatiche, ma c’era anche un gendarme che dettava l’agenda. C’erano le Nazioni unite, erano conflitti tutto sommato locali. Intanto, nell’Occidente progredito, passavamo dall’inseguire la società perfetta all’inseguire l’esistenza perfetta. Nascita e morte quando decidiamo noi e come vogliamo noi. A illuderci che l’Eden fosse a portata di mano è arrivata la rivoluzione digitale. Così ci siamo ancor più convinti di essere invulnerabili, onnipotenti, capaci di programmare tutto. Mondo perfetto, stiamo arrivando.

Poi invece son successi alcuni fatti imprevisti. Senza aprire il file «Migrazioni» o il file «11 settembre», c’è stata prima la crisi finanziaria di Wall Street (2008), il cui smaltimento appare tuttora remoto. E adesso quella di Wuhan, che vi si sovrapporrà, e vedremo come andrà a finire. Inizia perciò a insinuarsi il sospetto che queste crisi non siano solo incidenti di percorso, ma effetti non collaterali della cultura dominante.

Questa prova ci cambierà, si ripete. Ed è probabile. Ma che cosa ci garantisce che sarà in meglio? L’uomo rimane un essere limitato, ce lo spiega la morte e ce lo dovrebbe spiegare questa situazione. La scienza e la tecnologia progrediscono e grazie a dio continuano a farlo. Ma, con tutto il nostro impegno, alla fine quello che ci inventeremo non potrà non riprodurre il nostro limite ultimo. La nostra ambiguità. Il pensiero unico contemporaneo rimuove questo dettaglio, dibattendosi nell’acquario. In quella che tanti poeti hanno chiamato «stanza». Il perimetro della ragione intesa come misura delle cose. Un perimetro che, per quanto lo allarghiamo, a un certo punto finisce.

Forse l’unica vera lezione che dovremmo apprendere è una buona dose di umiltà. Ora che siamo blindati dentro le nostre stanze possiamo capirlo. Per quanto progrediamo, per quanto esploriamo, tutto ciò che facciamo, alla fine, s’imbatterà nel limite. «Fermatevi e sappiate che io sono Dio», recita il salmo 46. Solo un Altro che bussa alla porta può farci uscire dall’isolamento.

L’ultimo libro di Daniele Mencarelli s’intitola Tutto chiede salvezza (Mondadori). La parola che la cultura contemporanea non sa pronunciare è questa. Non è una parola astratta, una categoria filosofica, una pensata di qualche intellettuale ambizioso. È un incontro. L’ha pronunciata anche papa Francesco nella memorabile piazza san Pietro deserta: «Nessuno si salva da solo». Già. Prima ancora che per un fatto sociologico, perché per salvarci serve un Salvatore. Il romanzo di Mencarelli è il diario autobiografico del Trattamento sanitario obbligatorio cui fu sottoposto dopo che in un accesso di follia si era scagliato con violenza contro il padre. Lo presero e lo portarono nel reparto psichiatrico. Un giorno suona il campanello della stanza dov’è ricoverato insieme ad altri cinque malati reclusi. «Apro. A un centimetro dal mio viso mi ritrovo mio padre. Il suo stupore più grande del mio… Restiamo a guardarci, ognuno fa dell’altro il suo speciale inventario… Mio padre allarga le braccia… Ci abbracciamo». Come sarà stato quell’abbraccio?

Nelle ricette che leggiamo quotidianamente la parola salvezza non compare. Io stesso la pronuncio con pudore e zero meriti. Perché è una parola che contempla l’iniziativa di un Altro. Perché è un dono, un atto gratuito di Dio… Protesi verso i nostri traguardi, non riusciamo ad accorgerci di questo atto. A riconoscerlo nel desktop dei nostri computer. Perché non ci riusciamo? Semplice, perché Dio siamo noi.

 

La Verità, 31 marzo 2020

I guru brulicano più dei ribelli alla quarantena

Ricette. Risposte. Buonismi. Moralismi. Esortazioni. Richiami. Inviti. Migliorismi. Non passa giorno senza che qualche maestrino dispensi le proprie tavole dell’etica. La propria pensata. Ho imparato questo, ho imparato quello. Dobbiamo fare così, dobbiamo vivere colà. Si comincia a non poterne più di questi guru da quarantena. Anzi, per dirla elegante, cominciano a devastarci… Pontificano dai giornaloni. Sui social. Tutti indistintamente. Nei talk show c’è sempre un telepredicatore, un saggio autonominato. La lista è lunga. C’è lo scrittore premiato (A. S. indovinate) che dice che questa pandemia «ha messo fine alla modernità» e bisogna ricostruire una cultura della morte. C’è il conduttore televisivo mainstream (F. F.) che dice che si è accorto che «non ci sono più i confini» (mentre tutti li chiudono, non solo a noi italiani). C’è l’ex politico di primissimo piano, fondatore di partiti e alleanze, ora scrittore e regista (W. V. facilissimo), che tratteggia «la nostra strategia di vittoria» e dice che dopo saremo migliori se faremo come dice lui. C’è l’attore da festival e da cover di settimanale (E. G. fattibile) che dice che «la felicità è quando riusciamo a perderci negli altri» e che lui non sta nei social perché sta nei (centri) sociali. C’è la titolare di un salottino di snob tv (D.B.) che dice che ha imparato «qual è l’ora esatta in cui spunta il sole» (càspita!). C’è lo scrittore magistrato in odore di premio (G. C. non è difficile) che dice che ha imparato che è meglio aspettare di conoscere prima di pontificare. Solo che per esprimere questo concetto nudo e crudo, quattro parole di numero, impiega un’intera pagina del solito giornalone con profluvio di citazioni colte e esibizione di travaglio interiore.

È così, perché a volte, i guru con cattedra mediatica, sono protagonisti di disinvolte piroette. Prima sottovalutatori, minimizzatori, stigmatizzatori del razzismo incipiente, coniatori di hashtag modaioli, do you remember #abbracciamouncinese, illuministi frequentatori di chinatown, mangiatori d’involtini primavera a scopo dimostrativo, poi improvvisamente convertiti al pugno duro con sanzioni, o alle prudenze e alla sobrietà, diffusa in posa pensosa da qualche talk show left oriented di cui sono assidui. State sicuri, accendete la tv o andate in edicola sfidando il pericolo, e un cantautore moraleggiante, un attore di teatro con il fervorino incorporato lo trovate sempre. È un brulicare quasi più fitto di quello dei ribelli agli arresti domiciliari. Gli assembramenti di maître à penser sono roba da aperitivo sui Navigli ai tempi della Milano da bere. Nella melassa dominante non hanno bisogno di esibire autocertificazioni, tanto nuotiamo tutti nello stagno del buonismo politicamente corretto. Gli apocalittici sono perfettamente integrati.

Questa è la situa. Alla tragedia della pandemia si aggiunge la farsa dei sacerdoti del bene. E la distopia si tramuta in fantasy horror. Perché, in fondo, tutto questo proliferare di decaloghi nasconde un deficit, un’impasse, un gigantesco, sinistro vuoto d’aria. È l’insufficienza, lo spiazzamento dell’umanitarismo, della cultura liberal, del positivismo scientista, della filantropia dei buoni. Una particella invisibile sta mettendo in ginocchio secoli di progresso. La morte falcia come ai tempi della peste. Su una cosa aveva ragione il primo guru, Antonio Scurati sul Corriere della Sera: «L’epidemia ha messo la parola fine su un’idea di modernità». Un’idea basata sull’onnipotenza della scienza e l’invulnerabilità dell’uomo. Del superuomo. Com’è possibile che la scienza non abbia la soluzione? Che la medicina non abbia il vaccino? La vertigine e il panico ci assalgono. E come nei laboratori scientifici è tutta una corsa alle sperimentazioni per trovare le contromisure, così nei dorati pensatoi del progressismo è tutto un proliferare di alambicchi e alchimie alla ricerca delle formulette per la psiche.

Ricette e risposte, si diceva. E se, invece fosse il caso di fermarsi un po’ di più sulle domande? Sugli interrogativi che questa situazione pone alla nostra società lanciata verso il radioso futuro promesso dalla globalizzazione?

Volevate la decrescita felice? Eccovi accontentati. Come dite? Non è felice? Ah, ok. Ricalcolo…

 

I laici citano sant’Agostino, il Papa Fabio Fazio

Apro il Tg1 delle 13.30 e trovo come prima notizia l’intervista di Francesco a Repubblica. In bella evidenza copia del quotidiano e il sorprendente endorsement papale a Fabio Fazio. In fondo, è pur sempre un conduttore di Mamma Rai. Cambio canale, perplesso. Ma il tg di La7, di proprietà di Urbano Cairo, editore del Corriere della Sera, la ignora. Sarà mica che Bergoglio è finito dentro il gioco dei media e dei poteri forti?

Un Papa nonno non me l’aspettavo. Soprattutto, mi aspettavo di più da un Papa. Da papa Francesco. Lo dico con dolore. Con rammarico e delusione, purtroppo. In mezzo a tanti guru da quarantena che imperversano ovunque, sui giornaloni, sui social e in tv, da Bergoglio mi aspettavo parole ultime. Parole che vanno all’essenziale. Siamo messi faccia a faccia con la morte. Con il destino. Non alla rinuncia all’apericena sui Navigli. Siamo a confronto con il pericolo massimo che si fa prossimo, in modo imprendibile come raramente capitato dalla fine della Seconda guerra mondiale. C’è una pandemia, uno scenario dai risvolti drammatici che coinvolge l’intero pianeta.

Ci era andato vicino domenica scorsa Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, scrivendo che «torna la voglia di parole vere». E, non a caso, aveva citato proprio Bergoglio che, sempre domenica, con un gesto commeovente era andato a piedi a pregare nella chiesa di Santa Maria Maggiore davanti all’icona della Vergine «Salus populi romani». Un pellegrinaggio, meglio di tante parole. Per questo, in mezzo alla selva di consigli, decaloghi e omelie di tanti telepredicatori, da Francesco ci aspettavamo qualcosa più di un paterno buffetto sulla guancia. «Dobbiamo ritrovare la concretezza delle piccole cose, delle piccole attenzioni da avere verso chi ci sta vicino, famigliari, amici. Capire che nelle piccole cose c’è il nostro tesoro». Fin dalle prime righe sembrava di sentir parlare Fazio. Lui. Possibile? Ma di fronte a questa situazione un Papa non dovrebbe parlarci del Salvatore? Di un Tizio che è morto in croce per riscattarci dalla fragilità, dalla provvisorietà? Antonio Scurati agli albori dell’epidemia ha scritto che dobbiamo ricostruire «una coscienza collettiva della nostra finitudine». Se non è questo il cristianesimo che cosa lo è? Se non lo dice la massima autorità mondiale, il Vicario di Cristo, chi lo fa? Avete presente, qui ci vorrebbe l’emoticon con il faccino interrogativo e il pollice e l’indice attorno al mento.

Immerso nelle perplessità ho proseguito la lettura fino all’epifania. «Mi ha molto colpito l’articolo scritto su Repubblica da Fabio Fazio…». Ma dai? «Che cosa in particolare?» gli ha chiesto il giornalista. «Tanti passaggi, ma in generale il fatto che i nostri comportamenti influiscono sempre sulla vita degli altri». E poi, «quando dice: “È diventato evidente che chi non paga le tasse non commette solo un reato ma un delitto: se mancano posti letto e respiratori è anche colpa sua”. Questo passaggio mi ha molto colpito». Papale.

Ora questa faccenda si presta ad alcune considerazioni. La prima è una domanda. Davvero Francesco aveva letto Fabio Fazio del giorno prima? O qualcuno gliel’ha segnalato? E davvero il Papa ha confessato questa impressione senza che magari il suo confidente abituale a Repubblica incoraggiasse, diciamo così, la conversazione di ieri? E se così fosse, a che situazione saremmo di fronte? Sono solo domande, eh.

Il secondo quesito è nel merito. Stiamo sempre parlando del custode della cristianità o di un ministro del Tesoro italiano che stigmatizza le conseguenze, pur nefaste, dei comportamenti degli evasori?

La terza è una considerazione. Gli psichiatri e gli intellettuali laici in questo momento tanto drammatico citano Le confessioni di Sant’Agostino, per dire, e il pontefice eleva Fazio a nouveau philosophe.

’Namo bene, direbbero a Roma.