Tag Archivio per: morte

Alain, l’icona ribelle che spiazzava la rive gauche

Le ragazze erano tutte innamorate di lui. Il dolce emigrato meridionale di Rocco e i suoi fratelli. Lo sfrontato assassino di Delitto in pieno sole. L’affascinante principe Tancredi di Il Gattopardo (Palma d’oro a Cannes nel 1963). Il glaciale sicario di Frank Costello faccia d’angelo. L’inafferrabile gangster di Borsalino. Il tenebroso professore di La prima notte di quiete. Questo per stare ad alcuni ruoli incarnati a inizio carriera in film che, tra ieri e oggi, le televisioni di tutto il mondo stanno riproponendo.
Per Alain Fabien Maurice Marcel Delon, semplicemente Alain Delon, nato l’8 novembre 1935 a Sceaux, pochi chilometri da Parigi, sex symbol è definizione quanto mai restrittiva. Mostro sacro. Icona del cinema. Uomo dei sogni. Forse il più grande attore francese di sempre – ci sono pure Jean Gabin, suo idolo, Ives Montand, Jean Paul Belmondo, con cui recitò spesso, e Gérard Depardieu. Sicuramente il più popolare. Perché era come in quelle parti: dolce, sfrontato, affascinante, glaciale, inafferrabile, tenebroso. Aggettivi buoni pure per l’uomo affamato di vita, di donne, di avventure. E, pure, mai appagato, mai quieto. Al punto di cadere, più in là negli anni, nella malinconia, cui aveva dato volto interpretando il barone di Charlus in Un amore di Swann tratto da Marcel Proust. Un uomo coraggioso e, a suo modo, indomito. Anche nelle prese di posizione politiche che turbavano i benpensanti della rive gauche. Come quando, difendendo l’eurodeputato Nadine Morano sottoscrisse le parole di Charles De Gaulle: «È ridicolo polemizzare contro una persona che dice che “la Francia è un Paese di razza bianca”. Il Kenya è un Paese bianco? No, lì le persone sono nere. E allora? Qual è il problema?». Oppure quando, lo interrogarono sull’amicizia con Jean-Marie Le Pen e gli chiesero della vicinanza al Fronte national: «E se anche lo fossi? Uno può essere di estrema sinistra, ma non può essere di estrema destra? Il Fn in Francia rappresenta milioni di persone. Sono milioni di idioti? Uno ha il diritto di pensarla diversamente, ma non deve mancare il rispetto delle posizioni degli avversari».
La notizia della morte l’hanno data i figli a un’agenzia di stampa: «Alain Fabien, Anouchka, Anthony, oltre che il suo cane Loubo, hanno l’immensa pena di annunciare la dipartita di loro padre. Si è spento serenamente nella sua casa di Douchy, con accanto i suoi figli e i suoi familiari… La famiglia vi chiede di rispettare la propria intimità in questo momento di lutto estremamente doloroso». È significativo che tutti tre l’abbiano annunciato insieme, considerato che Anouchka si era opposta alla volontà di Anthony di predisporre l’eutanasia, sembra su indicazione del padre. «Non sarà Dio a decidere il momento della mia morte», aveva confessato anni fa a Paris Match. Chiuso e solitario, nella sua villa sul lago Lemano in Svizzera, aveva svelato il proposito del suicidio: «Ci penso spessissimo. Vivo davanti ai miei occhi la scena di quel momento. Il difficile è non farlo».
Tutto veniva dal passato di «bambino infelice», assicurava. Dopo la separazione dei genitori, la madre lo affida a una famiglia adottiva, ma trascorso qualche anno, è assegnato a un collegio di suore a Issy-les-Molinaux. Il dolore germina il temperamento ribelle. Cambia parecchie scuole, abbandona gli studi e si arruola paracadutista in un corpo militare destinato alla guerra in Indocina, dove trascorre cinque anni (di cui 11 mesi in prigione per indisciplina). Tornato in Francia, fa il cameriere, il facchino ai mercati di les Halles, il commesso, l’attore marginale. S’invaghisce di Brigitte Auber, anche lei giovane attrice, che gli presenta Jean-Claude Brialy, con il quale va al Festival di Cannes, dove il suo aspetto viene notato. Era già «un pericoloso veicolo di disordine, tradimenti e tentazione», scrivono di lui. Arrivano le prime proposte. Si trasferisce a Roma presso il fotografo Gian Paolo Barbieri. Nel 1958, sul set di L’amante pura, conosce Romy Schneider, il grande amore della sua vita. Con lei interpreta una mezza dozzina di pellicole di successo come La piscina e Delitto in pieno sole (dal Talento di Mr. Ripley di Patricia Highsmith). Nei primi Sessanta sono la coppia più bella e invidiata del cinema. Si rompe con l’avvento della modella Francine Barthelémy, che si spaccia per sua sorella, prende il nome di Nathalie Delon e sarà la madre di Anthony. A Romy, Alain annuncia l’addio con un biglietto: «Mi dispiace. So che ti avrei reso infelice. Parto per il Messico con Nathalie. Ti auguro ogni bene». Le avventure si susseguono. Ma quando recita una prima volta con Brigitte Bardot la scintilla non scocca. Lui è troppo preso da sé stesso, sostiene lei: «All’epoca non pensava che ai suoi occhi azzurri e alla sua faccina d’angelo». Nel 1968, sul set di Tre passi nel delirio, «avremmo potuto amarci… ma non successe niente». L’unione con Nathalie, invece, naufraga dopo quattro anni. Mireille Darc resiste al suo fianco più a lungo, ma l’elenco dei flirt è infinito: Dalida, Sidney Rome, Dalila Di Lazzaro, Anne Parillaud, la Nikita di Luc Besson, Catherine Pironi. Fino a quando si lega alla modella olandese Rosalie von Bremen, dalla quale ha Anouchka e Alain Fabien. Quando il Novecento tramonta, declina anche il suo protagonismo cinematografico. E, come per Paul Newman, anche per lui, fioccano i premi alla carriera, quasi una riparazione della critica internazionale, disposta a ripagare un interprete cui, in parte, hanno fatto velo le doti estetiche.
Nel 2019 è colpito da ictus. Nel gennaio 2023 si annuncia che soffre di un linfoma a evoluzione lenta. «Faccia d’angelo», lo si capisce, non si rassegna alla vecchiaia: «Invecchiare fa schifo. Non puoi farci niente, l’età si fa sentire. Non riconosci la faccia, perdi la vista», dichiara. «Lascerò questo mondo senza sentirlo. La vita non ha più nulla da offrirmi, ho visto tutto, ho sperimentato tutto. Ma soprattutto odio l’era attuale, mi fa male. Tutto è falso, tutto è stato sostituito, non c’è rispetto per la parola data, ora tutto ciò che conta sono soldi e ricchezza. So che lascerò questo mondo senza dispiacermi».
La prima notte di quiete è appena trascorsa.

 

La Verità, 19 agosto 2024

«Più che un diritto l’aborto è una tragica necessità»

Tornare ai fondamentali» sono le prime parole di «Ma io ti ho sempre salvato», il nuovo libro di Luciano Violante, sottotitolo: La maschera della morte e il nomos della vita (Bollati Boringhieri). Un centinaio di pagine dense e commoventi soprattutto nel capitolo finale, dedicato a «Le mie morti». I «fondamentali», infatti, sono la vita e la morte. Alla cui dialettica inesauribile l’ex magistrato, già presidente della Camera e attuale responsabile della Fondazione Leonardo – Civiltà delle macchine, dedica la sua attenzione più ancora che all’altra coppia di categorie, guerra e pace, solitamente ritenuta prioritaria.
Presidente Violante, questo libro è una riflessione filosofica, civile o esistenziale?
Soprattutto civile.
Mossa da cosa?
Dalla mia età. Hai la possibilità di guardare attorno. Viviamo circondati dalla morte, sia a causa delle guerre sia per gli annegamenti dei migranti. C’è una grande campagna per la dignità della morte; ne manca una analoga per la dignità della vita.
Chi era sua madre?
Una donna di grande determinazione e forza di volontà. Garbo e fermezza nel rapporto con gli altri.
Che cosa vuol dire il titolo del saggio «Ma io ti ho sempre salvato»?
È una frase che mi ha detto negli ultimi giorni di vita quando sono stato con lei in ospedale. Dai suoi deliqui ho capito le aggressioni che ha subito, prima nel campo di concentramento inglese in Etiopia dove sono nato, e poi nel percorso da Napoli al paese di mio padre, in Puglia, quando lui, comunista,  era ancora prigioniero degli inglesi. Mi guardava, sorridendo: «Ma io ti ho sempre salvato», diceva. Nel campo di Dire Dawa  alcune amiche l’avevano invitata ad abortire, «Vuoi far nascere tuo figlio in questo immondezzaio?». Ma lei mi aveva salvato, facendomi nascere. Allora penso a tutte le madri che non possono dirlo perché hanno perso i loro figli, magari annegando in mare. Mi ha colpito molto sapere che sui fondali marini si trovano cadaveri di madri stretti a quelli di bambini piccoli.
Perché, mentre incombono due conflitti che turbano il mondo invece che sul dualismo guerra-pace si dedica a quello tra vita e morte?
La dialettica tra guerra e pace riguarda gli Stati, quella tra vita e morte riguarda le persone, quindi è più profonda. Se ci battessimo per la vita piuttosto che per la pace saremmo ascoltati di più.
«Le questioni della vita e della morte andrebbero giudicate non con la miserabilità del metro giuridico, ma con quello del destino dell’uomo»: ammette che può stupire scritto da lei, uomo di diritto?
Chi conosce il diritto, ne conosce anche i limiti.
Li conosceva anche 20 o 30 anni fa?
Con l’andare del tempo matura una visione più profonda delle cose grazie alle esperienze su cui la vita ci fa riflettere.
Che cos’è la «biopolitica» e come può rinnovare l’impegno per il bene comune?
La biopolitica si compone delle riforme che favoriscono la dignità della vita. Noi abbiamo una politica degli asili diversa da quella della scuola, a sua volta diversa da quella del lavoro e della salute. Un governo dovrebbe saperle promuovere insieme, collegandole organicamente le une alle altre.
Che cosa pensa del fatto che la sinistra, un’appartenenza che non so se per lei è ancora valida… Anzi, si considera ancora un uomo di sinistra?
Assolutamente sì.
Che cosa pensa del fatto che aborto, eutanasia, suicidio assistito, i diritti per cui si batte la sinistra, hanno a che fare con la morte?

Non si batte solo per questi, ma anche per il salario minimo e per una sanità efficiente.
Ma i diritti civili sembrano avere questa inclinazione.
Noto un allargamento importante ai diritti sociali.
Cosa pensa dell’impegno del presidente francese Emmanuel Macron, il leader intellettuale dell’Unione europea, nell’introdurre l’aborto come diritto nella Costituzione continentale dopo averlo fatto in quella del suo Paese?
Non credo che l’aborto possa definirsi  un diritto;  può essere in alcune circostanze una tragica necessità. Comunque noi uomini su questo tema dovremmo lasciare la parola alle donne.
Concorda con la convinzione diffusa che, siccome incombono conflitti, catastrofi ambientali e pervasivi domini tecnologici, è meglio non procreare?
Non concordo. È una forma di egoismo che ci fa consumare tutte le risorse che abbiamo a disposizione.
C’è anche chi ipotizza un contenimento delle nascite per non peggiorare lo stato del pianeta.
Il problema è gestire la presenza umana in modo tale che non provochi danno all’ambiente. Se ci sono meno esseri umani, ma ci si comporta male ugualmente, la situazione non migliora.
I giovani di «Ultima generazione» lamentano l’eco-ansia: oltre a causare nuovi protagonismi, i toni apocalittici causano anche nuove patologie?
Mi colpiscono le rivendicazioni dei giovani attorno ad alcuni grandi temi. Che a Gaza sia in corso un massacro è difficile negarlo. Apprezzo anche la mobilitazione dei ragazzi che in Georgia si ribellano alla legge russa che pretende di controllare le associazioni culturali.
Si può parlare davvero di un nuovo Sessantotto?
No. Il Sessantotto esprimeva una teoria generale contro il potere, oggi siamo di fronte a mobilitazioni su fatti specifici attorno ai quali si costruisce consenso e dissenso.
Anche se in alcuni casi il dissenso è poco tollerato da questi giovani.
Chi esercita un potere politico si espone e sa che può essere oggetto di critiche. Anche a me è capitato. Una volta, a Genova, un gruppo che dissentiva da quello che dicevo mi svuotò una bottiglia d’acqua in testa.
Non piacevole, però dissentivano da qualcosa che era riuscito a dire. Oggi accade che s’impedisca di parlare.
I comportamenti che abbiamo visto attuare nei confronti del ministro per la Famiglia Eugenia Roccella, che conosco e stimo, sono sbagliati. Tuttavia il politico deve mettere in conto la critica anche aggressiva. Ma impedire di parlare a chi la pensa diversamente è inaccettabile.
Secondo lei l’inverno demografico è causato dalle scarse politiche di sostegno alle famiglie o da un’idea disimpegnata della vita delle giovani coppie?
Credo che il costo della crescita di un bambino, calcolato in 600 euro al mese, sia in molti casi insostenibile.
Perché negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in condizioni di maggior povertà, si è comunque verificato il boom demografico?
Eravamo più abituati a essere poveri perché lo eravamo tutti. Non ci sentivamo obbligati a possedere una certa automobile, una certa tv, un certo frigorifero.
Quindi il mantenimento di un certo tenore di vita c’entra.
Reggere un normale tenore di vita e in più spendere 600 euro per un bambino non è alla portata di tutti. Quanto costa oggi in carburante e in trasporti spostarsi quotidianamente dalla periferia al centro?
Scrive che essere intellettuali non è un privilegio, ma una responsabilità. Qual è il ruolo degli intellettuali nella società contemporanea?
Dare un senso a quello che accade.
Un compito ben diverso da come viene interpretato da quelli più gettonati dai media.
Certo, è una cosa diversa. In quei casi siamo nel campo dello spettacolo.
Che cosa pensa del sistema Liguria? Siamo davvero di fronte a una nuova Tangentopoli?
Vorrei capire un po’ tutto. Da qualche stralcio di intercettazioni abbiamo intuito che qualcosa di marcio c’era. Quanto, lo capiremo quando avremo tutti gli elementi in mano.
Troverà mai un equilibrio stabile il rapporto tra politici e magistrati?
È un equilibrio per sua natura instabile. In America Donald Trump è sotto processo, la giustizia francese ha condannato Nicolas Sarkozy e in Spagna è stato fatto il governo grazie all’amnistia, azzerando decine di  condanne.
È ovunque un rapporto travagliato.
Per sua natura: giustizia e politica sono due sovranità in perenne tensione, che hanno i confini in comune.
È favorevole alla riforma per la separazione delle carriere?
È inutile perché sono già separate. In alcuni paesi si ritiene positivo che si passi da una competenza all’altra.
Magari dove la magistratura è meno militante.
In Francia non scherza.
Quando morì una zia ultracentenaria lei disse «è calato il sipario», mentre una suora sussurrò «forse si è sollevato». L’eternità la spaventa?
No. Il punto è questo: come può un qualunque essere umano pretendere di cogliere la  complessità del divino?
Sicuramente non può circoscriverlo come ipotizzava il razionalismo illuminista.
Con la pretesa di spiegare tutto. Dobbiamo essere consapevoli dei nostri limiti.
Presidente, lei cancella dalla rubrica del cellulare i numeri delle persone che non ci sono più?
Quello di mia moglie certamente non lo cancellerò.

 

Panorama, 22 maggio 2024

«Racconto la donna che inventò le cure palliative»

A volte le strade più tortuose sono le più feconde. Come quella di Emmanuel Exitu, bolognese, classe 1971, trapiantato a Roma, copywriter e documentarista. Solo cinquantenne si è scoperto scrittore, pubblicando Di cosa è fatta la speranza (Bompiani), romanzo biografico su Cicely Saunders, infermiera, assistente sociale e medico. Donna tenace che nella seconda metà del Novecento ha deciso di prendersi cura di chi è spacciato, riuscendo a valorizzare la medicina palliativa e a creare gli hospice per malati terminali.

Un libro straordinario. Ma intervistandola mi appello alle sue doti di copywriter più che a quelle di scrittore.

«Proverò ad andare subito al sodo».

Da dove spunta Emmanuel Exitu?

«Non lo so neanch’io».

Mi fa un suo breve identikit?

«Ho frequentato la scuola per odontotecnico, ma non volevo farlo. Ho superato il test di medicina, ma mi sono iscritto a filosofia, gettando i miei nello sconforto. Infine, mi sono laureato in poetica e retorica con una tesi su In Exitu di Giovanni Testori».

La fonte di nome e cognome?

«Emmanuel è il nome di battesimo».

«Dio con noi».

«All’università mi dicevano: Emmanuel come Kant? No, come Dio».

Genitori credenti.

«I miei fratelli si chiamano Samuel e Sara, nomi biblici anche i loro».

Ed Exitu?

«Cognome d’arte. Mi ero iscritto a filosofia con la fissa di capire perché le parole producessero significato».

Cos’è successo?

«Siccome, ero un filo problematico, alcuni amici mi fecero leggere In exitu di Testori. Era il monologo di un drogato che vuole andare a morire nella Stazione centrale di Milano. Un monologo che mischiava varie lingue e, non essendo io un lettore forte, all’inizio ci mettevo un quarto d’ora per decifrare una pagina. Quando ci ho fatto l’orecchio, l’ho riletto tre volte di seguito fino a sentirmi rigenerato da quel libro».

E cos’è cambiato?

«Intanto, il cognome. Per il resto, improvvisavo perché non sapevo cosa volessi fare da grande. A un certo punto, grazie ai miei studi sulle tecniche del racconto, mi hanno assunto alla Lux Vide, dove ho seguito la produzione di una dozzina di film. Poi ne ho scritto uno mio, La stella dei Re, sui Re Magi, che fu prodotto da Edwige Fenech e trasmesso in prima serata su Rai 1, con successo. Sono tuttora grato a Edwige Fenech».

E poi?

«Sono entrato in un’agenzia di digital design ma, giusto per non adagiarsi, sono partito per l’Uganda. Pur da cattolico, ho sempre avuto una questione aperta con la speranza, pensavo che la vita finisse lì dove la vedi. Negli slum di Kampala ho incontrato Rose Busingye».

Chi è?

«Una specie di madre Teresa nera che si occupava di donne malate di Aids. Ne è nato Greater, un documentario che Spike Lee ha premiato al Babelgum film festival. Poi, con i soldi del premio, ho fatto un altro documentario con Mario Melazzini, malato di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica ndr)».

Sempre situazioni estreme?

«Non avendo la speranza valeva la pena guardare a chi ce l’aveva».

Quando si è scoperto scrittore?

«Leggere Vegliate con me (Edb), un libretto di discorsi di Cicely Saunders, è stato un colpo di fulmine».

Cosa l’ha affascinata?

«Cicely era una gran rompicoglioni, una testa dura. Dentro la paura per la morte è andata a vedere che cosa si poteva fare».

Sembra che sia stata lei a trovarla, non il contrario.

«Se un libro funziona è perché quello che l’ha scritto è stato trovato dalla storia. All’inizio volevo farne un film come quello sui Re Magi. Sulla facciata del King’s College di Londra, dove sono andato per le ricerche, c’erano le gigantografie dei grandi britannici, compresa Cicely Saunders».

Una sconosciuta…

«Fuori dai circuiti del fine vita, sì. Quando mi accorsi che nel 2018 sarebbe stato il centenario della sua nascita pensai di essere bruciato. Invece, nessuno ne parlò, neanche in Inghilterra. Così, ho scritto il trattamento del film per poi rendermi conto che nessun produttore avrebbe finanziato uno come me. Allora ho pensato al romanzo. Ma avevo il plot e non la scrittura, la mia voce».

Non male come scoperta.

«Per due anni ho scritto e buttato. Finché l’ho trovata. Da quel momento è cominciata la vera fatica. Scrivere dopo che sei stato trovato dalla storia è qualcosa che ti sbudella, che ti scombussola. Per un periodo ho seguito una terapia».

Il lettore apprezza la scrittura disinvolta.

«Frutto di molto lavoro. Succede che in quattro ore scrivi tre frasi e ne sei entusiasta. Vai a mangiare, torni, rileggi e butti tutto. I maestri della letteratura avvertono di questa maledizione. Ero all’inferno, ma sapevo che era la strada giusta».

Ha mai avuto a che fare con malati terminali?

«Marco Maltoni, un palliativista che ha due hospice in Romagna, mi ha introdotto in questo mondo».

La storia di Cicely Saunders, i cui protocolli sono stati riconosciuti dall’Oms, è riassumibile in questa frase: «La speranza è un posto dove puoi morire scoppiando di vita»?

«La speranza è qualcosa che ti sorprende. Non è qualcosa che si possiede, ma una scoperta continua, che toglie il fiato».

Per Charles Péguy è la virtù bambina.

«La speranza fa casino. Invece che stare al suo posto è sempre in movimento, scappa da tutte le parti».

Come un cucciolo di elefante in corsia o il coro di pazienti del St. Christopher’s hospice fondato da Cicely nel 1967?

«Il fatto interessante dei reparti di cure palliative di cui si parla poco ma che fanno tanto, è che uniscono persone diverse. Chi ha fede e chi non ce l’ha. Nella zona del fine vita cadono certezze e sistemi di pensiero ma, come dice Cicely, si apre la possibilità di “condividere il comune terreno della nostra vulnerabile umanità”. Quindi, se un credente e un non credente si incontrano in questo territorio, allora si incontrano e si aiutano davvero. Per me, che sono un“malcattolico”, è sorprendente trovare persone che non hanno la fede, ma mi aiutano con il loro modo di guardare la vita».

Chi non ha fede tende a rimuovere lo scandalo della morte?

«Anche chi ce l’ha».

I non credenti sono portati ad abbreviare il tempo del fine vita?

«Non è quello che ho visto io. Le racconto due storie. Nel suo hospice di Milano, Augusto Caraceni, un amico di Maltoni, riceve la visita di una persona:“Sono un malato terminale, mi dica perché non devo andare in Svizzera”. Senza raccontargli favole, Caraceni gli propone il percorso delle cure palliative, la possibilità di alleviare la sofferenza. “Grazie dottore, mi ha salvato la vita. Mi ha dato una speranza…”. Un altro paziente: “Faccio qualcosa, poi vado in Svizzera…”. “Ok, ma perché non usa di questi giorni per cercare e stare con i suoi figli?”. Alla fine, quella persona ha scelto di rimanere con loro. C’era un’alternativa profondamente umana».

Per i medici la morte è una sconfitta e la malattia terminale un’esperienza d’impotenza?

«La morte fa parte della vita, invece viviamo immersi in una cultura che la rimuove. Quando è morto mio nonno, al quale ero affezionatissimo, non me l’hanno fatto vedere. Eravamo negli anni Ottanta, meglio non mostrare il cadavere a un ragazzino. Ero incazzato nero».

Che differenza c’è tra terapia e cura?

«Quando intervistavo Melazzini per il documentario parlavo di malattia inguaribile… A un certo punto, lui che è un medico e un montanaro incazzoso, mi ha detto: “Di inguaribile io ho solo la mia voglia di vivere”. Se non posso più guarirti, posso prendermi cura di te».

Per i nostri sistemi sanitari sono energie sprecate.

«Qualche giorno fa a Padova Luciano Violante ha provato a tracciare un terreno d’impegno comune: “Il tema del sostegno alla vita deve diventare un valore assoluto”, ha detto. “L’etica della vita deve prendere le mosse dalla dignità in sé della vita, anche a prescindere da valutazioni di ordine religioso”. Difendere la centralità della vita vuol dire superare le gabbie del relativismo».

Non crede che nelle situazioni estreme la carità possa aiutare?

«Lo credo. Se ti appoggi ai valori, i valori si piegano. C’è una zona nella quale non bastano. Cito Violante perché è l’esempio di una persona che sta cercando, con la forza intellettuale che lo contraddistingue, il terreno comune “della nostra vulnerabile umanità”».

Ha seguito il caso di Indi Gregory?

«In queste faccende bisogna essere precisi. Indi sarebbe morta in breve tempo. In Inghilterra la sua vicenda non era una notizia, lo era il fatto che gli Italiani si agitavano per lei».

Com’è possibile che il Paese di Cicely Saunders sia così spietato con i malati inguaribili?

«È un sistema agghiacciante: se un paziente non può guarire deve morire perché è un costo. Tuttavia, pur non essendo un medico, non credo che al Bambin Gesù sarebbe sopravvissuta a lungo».

Avrebbe avuto un tempo di vita maggiore.

«Stiamo parlando di una faccenda potentemente umana. Sfruttarla politicamente non mi è piaciuto».

Fortunatamente qualcuno ne ha parlato.

«Sarebbe stato giusto dare il tempo a quella bambina e ai suoi genitori, inevitabilmente scioccati, di entrare nell’idea della morte della propria figlia. Farsi carico del dolore di tutta la famiglia è una cura palliativa».

Una comunità di giudici, medici, psicologi e funzionari che decide quando un malato deve morire togliendogli i sostegni vitali fa pensare a una distopia.

«Non voglio negare questa deriva. Ma lo dico in modo provocatorio, non me ne frega un cavolo di fermarla. Il mio interesse è incontrare le persone sul terreno della comune vulnerabile umanità. Quando faceva i colloqui per le assunzioni, Cicely tagliava chi aveva le risposte pronte della fede entusiasta o dell’ateismo entusiasta. “Ho bisogno di gente che si faccia delle domande”, diceva. Quindi la soluzione è l’alleanza terapeutica tra il medico e il paziente nella quale si decide insieme».

C’è una medicina come servizio all’uomo e ai deboli e una medicina come pretesa di controllo?

«Se rispettano la loro natura, scienza e fede, ognuna seguendo il proprio percorso, non possono non andare all’interiorità della persona, del malato. Davanti alla soglia finale non si può barare. È questo che può rompere il meccanismo della rimozione. I granellini della condivisione di cui parlavo prima fermeranno la deriva».

Intanto, la comunicazione è orientata verso prospettive eutanasiche.

«La comunicazione non è tutto il mondo, ma una piccola parte».

Determinante, però: nemmeno Londra ha ricordato il centenario di Cicely Saunders.

«Quando entravo in libreria, su questi temi trovavo solo un certo tipo di proposte. Al massimo, qualche pippone religioso che non risponde alla reale drammaticità delle situazioni. Così, mi sono messo a cercare un’altra storia».

 

La Verità, 6 gennaio 2023

«L’emergenza perenne cancella ogni dissenso»

Una volta quelli come lui li chiamavano teste d’uovo. Basta leggere il suo La tirannia dell’emergenza (Liberilibri), condensato di filosofia, diritto, antropologia e scienze umane che illumina a giorno le cupezze contemporanee. Andrea Venanzoni è costituzionalista, consulente giuridico di importanti istituzioni pubbliche, ricercatore presso l’università Roma Tre, saggista, collaboratore di numerose testate giornalistiche tra le quali Il Foglio e Il Riformista.

Professore, perché ha scritto questo libro?

«Già qualche anno fa volevo occuparmi dei prefetti e dei sindaci che ricorrono spesso a ordinanze e atti speciali. Ma l’avvento della pandemia e dell’emergenza climatica sono diventati un movente ancora maggiore e ora la vera promozione di questo libro».

Le emergenze c’erano anche prima: con il Covid c’è stato un salto di qualità?

«Dal campo giuridico si è passati alla mobilitazione dell’intera società. Emblematico è che nel libro di Roberto Speranza frettolosamente ritirato, l’allora ministro della Sanità ringraziasse Mara Venier, Barbara D’Urso e le piattaforme social perché avevano contribuito a formare il “mantra di una nazione intera”. Una strategia che mi ha ricordato la Nazionalizzazione delle masse, dal titolo di un saggio di George L. Mosse, che analizzava i movimenti che portarono all’avvento del nazismo».

Poco rassicurante, siamo a questo?

«Prima con la pandemia e ora con l’isteria diffusa legata al cambiamento climatico siamo davanti a una pornografia della catastrofe che, oltre a non favorire un dibattito pubblico che avvicini una soluzione, finisce per terrorizzare la popolazione rendendola manovrabile. Per contro, abbatte anche la responsabilità dei diffidenti: se il mondo collasserà climaticamente nel 2025 come si legge, che possibilità c’è di porre rimedio all’apocalisse imminente?».

Facciamo un passo indietro e proviamo a definire l’emergenza?

«È la situazione di crisi che si afferma in un momento storico e cattura l’attenzione dell’opinione pubblica per la sua eccezionalità. Pur essendo difficilmente prevedibile o imprevedibile, richiede una risposta rapida».

Che può giustificare imposizione di regole e limitazione delle libertà individuali?

«Si tenta di prevenire il verificarsi dell’emergenza. Per questo si possono limitare in anticipo quei comportamenti che si ritengono rischiosi. Nel diritto ambientale si afferma per la prima volta il principio di precauzione, limitando azioni senza avere la certezza scientifica che provochino danni».

Per esempio?

«Quando si è verificato il disastro di Seveso tutte le attività industriali subirono restrizioni molto impattanti sull’attività d’impresa. Questa politica di limitazione ex ante è un grande freno all’innovazione. Poi ci sono le limitazioni quando l’evento si presenta, come avvenuto con la pandemia e le restrizioni di quasi tutte le libertà costituzionali, dalla libera circolazione fino al diritto all’istruzione gravemente limitato con la Dad».

Chi sarebbe il tiranno?

«Mentre la dittatura è legata al carisma di una persona, un magistrato nel diritto romano, nella tirannia prevale un sistema. Il burocrate è il vero trionfatore della tirannia dell’emergenza. Quando, nella fase acuta della pandemia sono cresciute certe forme di complottismo, il governo dell’emergenza è diventato sovranazionale: l’Oms diramava le direttive e gli Stati si adeguavano».

Il tiranno sono le élite o è più precisamente lo Stato?

«Lo Stato è un’organizzazione burocratica rappresentata da alti funzionari, governatori, ministri pro tempore… Un’emergenza può diventare laboratorio di ingegneria sociale. Sia durante la pandemia sia ora per il cambiamento climatico sentiamo ripetere che bisogna cambiare visione del mondo».

Il Grande reset?

«Evito questi termini che innescano l’accusa di complottismo. La risposta è più facile».

Cioè?

«L’emergenza è il paradiso del burocrate che finalmente può operare senza quelli che vede come intralci e che, in realtà, sono garanzie per il cittadino. I burocrati hanno codici espressivi analoghi in tutto il mondo. Sul loro treno, per scopi economici, possono salire parti di quelle che lei chiama élite».

L’emergenza senza intralci l’abbiamo vista all’epoca dei Dpcm e dei bollettini sanitari a reti unificate?

«Quei bollettini contribuivano a pacificare la coscienza collettiva della popolazione in quel momento tumulata dentro casa. Erano una sorta di liturgia, di mantra luttuoso quotidiano».

Che ha collettivizzato la morte?

«Lo Stato l’ha collettivizzato in un’accezione terrorizzante. Questa istituzionalizzazione della morte è diventata parte del dispositivo burocratico».

In che modo?

«Per esempio, con la burocratizzazione del lutto. Si è reso impossibile porgere l’ultimo saluto al morto per Covid, con conseguenze psicologiche serie in chi è ancora vivo».

Lei parla di «danza macabra»: siccome primum vivere, come dicono filosofi e giuristi, per scongiurare la morte si è pronti a sacrificare la libertà?

«Nel Medioevo la danza macabra era una raffigurazione artistica che moralizzava i costumi ricordando la fine. Oggi, nel cuore delle emergenze, la morte è ovunque. E ti viene detto che se non ti affidi alle cure dello Stato sei destinato a morire».

Si riferisce alla frase del premier Mario Draghi?

«In quella frase, “Non ti vaccini, ti ammali e muori”, è espunta ogni sfumatura intermedia».

La burocrazia promette guarigione e salvezza?

«Lo Stato e il burocrate si pongono in ultima istanza come la cura. Vien fatto credere che la salvezza, anzi, la salvazione in senso teologico, risieda tra le maglie del potere pubblico. Funziona come “hic sunt leones”, l’avvertimento delle vecchie mappe latine: oltre il confine ci sono pericolo e morte».

Questa tirannia è arrivata di colpo o è stata preparata?

«Il processo è risalente nel tempo. Le emergenze sono concatenate una con l’altra».

Quand’è iniziata la sequenza?

«Con il terrorismo politico degli anni Settanta. È proseguita con quello di matrice religiosa e jihadista degli anni Novanta e Duemila, poi con le prime emergenze sanitarie come l’Aviaria e con il cambiamento climatico che da anni procede con toni sempre più allarmistici. Sul piano amministrativo e burocratico queste emergenze si collegano le une con le altre».

Dalla pandemia all’emergenza climatica cambia il ruolo dell’uomo?

«Diventa lui stesso il virus in carne e ossa, la cellula infetta del mondo. L’ambientalismo estremo ha un sostrato concettuale malthusiano favorevole alla de-popolazione e vede nell’uomo un agente patogeno che danneggia l’ambiente. La mia impressione è che queste derive radicali stiano diventando maggioritarie. Un esempio concreto è la recente approvazione del regolamento europeo Nature restoration law, un oggettivo disastro per il mondo agricolo».

L’emergenza occupa l’intero orizzonte e omologa il linguaggio diventando intollerante al dissenso?

«L’emergenza è l’alibi per eliminare ogni possibilità di critica: dissenso equivale a tradimento. Da qui il ricorso a un linguaggio quasi bellico perché l’emergenza è come una guerra e in guerra si sta da una parte o dall’altra, non ci sono possibilità intermedie».

Però se non comandasse un’autorità superiore vincerebbero i terroristi, il virus e l’inquinamento globale.

«Concordo. Il problema non è l’emergenza in sé, che per sua natura è temporanea, ma la sua stabilizzazione. Per questo sottolineo che tendono a collegarsi tra loro. Il vero problema è l’assuefazione a vivere in perenne emergenza».

C’è anche un uso commerciale dell’emergenza sostenuta dai media e dai big dell’economica digitale?

«In alcuni casi i media hanno un interesse diretto. Alcuni editori e grandi marchi digitali operano nei settori delle energie rinnovabili o delle auto elettriche. Tendo a non ritenere casuale che certe testate utilizzino tutti i giorni termini come inferno e apocalisse. Inoltre, si fa anche da sponda al potere istituzionale».

L’emergenza aiuta la pedagogia dell’establishment verso le masse?

«Credo ci sia un insieme di fattori, non a caso si è molto parlato della creazione di una nuova normalità, un mondo pilotato dai migliori, demiurghi dell’epoca moderna».

Appartiene a questo contesto la difficoltà della sinistra a metabolizzare il nuovo scenario politico e le sue conseguenze?

«La sinistra ha un oggettivo problema quando non detiene direttamente il potere. Lo vediamo quando, pur sconfitta alle urne, cerca altri metodi per tornare al governo. Proprio per questo la destra deve guarire dal suo complesso di inferiorità e di ricerca di legittimazione».

Sul treno per Foggia l’élite che s’imbatte su un pezzo di mondo reale accusa il colpo?

«All’inizio mi ha fatto sorridere l’élite che intercetta il popolo come a un safari, di fronte a uno zoo umano. Poi, quando ho letto le repliche di alcuni intellettuali e del comitato di redazione di Repubblica con toni da collettivo maoista anni Settanta, mi è quasi venuto da empatizzare con Alain Elkann. Avrà anche vissuto fuori dal mondo, ma trovo più pericolosi quelli che rispolverano la lotta di classe. Il clima non è buono: oggi c’è chi per criticare Giorgia Meloni riesuma Toni Negri».

È giusto chiedersi come ha fatto Gian Paolo Serino su Dagospia come sia stato possibile che noi adulti abbiamo formato dei giovani «turisti della vita»?

«È giusto chiederselo pensando ai genitori che ricorrono al Tar quando i figli vengono bocciati o puniti perché autori di atti violenti. Una volta genitori e insegnanti erano presidi della formazione dei ragazzi. Di fronte alla disgregazione dell’autorità famigliare e scolastica e degli altri corpi intermedi rimane intatta solo quella dello Stato. Forse non è un caso».

Il termine negazionismo viene usato per equiparare il dissenso a proposito del clima e del Covid alla negazione dell’Olocausto o per gettare un anatema su chi dissente?

«È un’operazione oscena perché banalizza la tragedia dell’Olocausto. Accusando qualcuno di negazionismo lo uccido socialmente, rendendolo impresentabile, degradandolo alla stregua di nemico che non merita di essere riconosciuto come controparte».

Anche il Capo dello Stato Sergio Mattarella non gradisce la discussione su questi temi?

«L’intervento del Presidente della Repubblica, pur comprensibile in un’ottica di richiamo generale alla responsabilità, mi sembra abbia prestato il fianco al consolidamento di una narrazione a senso decisamente unico. Non a caso le sue parole sono state subito rilanciate da una precisa parte politica in ottica anti-governativa».

 

La Verità, 29 luglio 2023

«Il Covid allunga il ‘900 e boccia la globalizzazione»

Con la sua faccia da attore del cinema e la statura, e con le macchine ferme nel garage della casa tra gli ulivi della collina di Velletri, Aurelio Picca me lo immagino come una fiera in cattività. Inquieta. Niente ristoranti, niente spaghettate sul lago. Lettura. Un po’ di scrittura. Attesa. Quando lo chiamo, accetta al volo: «Ma non mettete la solita foto con la pistola…».

Come sta, Picca? Che fa?

«Penso, in questo periodo va così. Guardo la mia vita e conto le stagioni. Dicevamo che non esistevano più. Invece, con la pandemia la percezione è cambiata. Siamo usciti da un inverno complicato e mo’ siamo in questa primavera… Fino a poco tempo cercavo di eternizzare la giovinezza in un rilancio continuo, anche nei libri… Ora comincio a srotolare le stagioni».

All’hotel Miralago, Alfredo Braschi, suo alter ego in Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (Bompiani), si specchia in Laudovino De Sanctis per fare il suo bilancio. Il suo qual è?

«Diciamo che sono contento che questo ex ragazzino è diventato un uomo attraverso il lavoro che – anche se ne ho fatti mille – per me è la letteratura. Me l’hanno insegnato da bambino che con il lavoro ti costruisci il tuo nome. Mi sento come tutti gli uomini, pieno di rimpianti per aver vissuto poco. Invece, forse ho vissuto tanto, mi sento quello che volevo essere».

Cioè?

«Non uno scrittore per le copertine, ma uno scrittore con la sua piccola leggenda. Non volevo far parte della storia, ma della leggenda e credo di esserci riuscito. Quindi, quando certi apparati culturali mi fanno dei torti, non sanno che mi fanno un favore. Per me questi torti sono una vittoria perché rafforzano ciò che volevo e ho ottenuto: la singolarità, la mia assoluta libertà».

Le caste di sacerdoti non reggono lo scandalo?

«Non lo tollerano, ma non per questioni morali. Per questioni vitali».

Per un fatto di maniera da una parte e di sangue dall’altra.

«Sono gli ultimi feticci tarlati della decadenza della cultura italiana. Non c’è niente da fare. Il problema è che io sono uno scrittore scandaloso perché metto in gioco la mia vita, il mio carattere, la mia innocenza, la mia virilità, la mia fragilità. Paradossalmente, è ciò che dovrebbe dare energia, l’energia del talento. E dovrebbe permettere di gustarsela. Invece, questa vitalità è vista come qualcosa di eversivo rispetto a un copione che vuole restare sul piano della comunicazione, della ripetizione, dell’annacquamento. Non deve cercare l’assoluto, non deve avere lo scandalo della verità».

Lei è uno scrittore non conforme.

«Gli apparati sono contraddetti dalla gente che mi legge e mi ama, anche certi lettori privilegiati. Sono stato apprezzato dai Luigi Baldacci, Geno Pampaloni, Domenico Rea, Alfredo Giuliani. Io che non ho avuto un padre, ho trovato il lasciapassare dei padri della letteratura. Quelli che stanno negli apparati non hanno né passato né futuro. Sono bloccati nel carpe diem, in un eterno presente, dilatato come se non avessimo una storia. Ma questo è blasfemia, è nichilismo».

Come fa chiuso in casa senza ristoranti?

«Non sono un mondano pur conoscendo la mondanità. Il mio è il monachesimo della libertà».

Spieghi.

«Posso stare pure due mesi filati a casa perché ho la testa libera. Poi alle 10 di sera vado a cena a Nettuno. Questo mi manca, ci dicono di restare a casa. Con il tesserino da giornalista potrei andare dove mi pare, ma dovrei giustificarmi. La limitazione è più psicologica che altro. Io mi muovo in un teatro di visione, i Castelli romani come Los Angeles. Per bilanciare questo azzeramento, basta cambiare visione e cogliere il grumo di energia dove sta».

Per esempio?

«Con un po’ di soldi rubati ai miei sperperi vorrei comprare un angolo di un palazzotto alla Don Rodrigo qui a Velletri, con un portale tardo nobiliare del Seicento. Serve per arpionarmi alla realtà, qualcosa che non galleggia nel vuoto».

Per darsi un progetto reale.

«Per me che sono un sepolcrale, la cosa più reale è lo strazio per la morte. L’ho già detto in un’altra intervista, le bare che si son viste sfilare ci hanno buttato addosso la morte. E adesso è già rimossa, numerizzata nel taglio basso dei giornali. Mentre è la cosa più sacra che abbiamo».

Il palazzo di Don Rodrigo è un pezzo di passato che la porta nel futuro.

«Ho un’idea di futuro su cui sto scrivendo un pamphlet per Einaudi. Una cosa per ragazzi, contro Pinocchio che è solo un burattino, un pezzo di legno. Invece, propongo di ripartire da Cuore di Edmondo De Amicis o da I ragazzi della via Paal. Dopo la pandemia credo ci sarà un nuovo neorealismo, tutti dovremo ri-alfabetizzarci».

In che senso?

«Ridare il nome alle cose reali. Lo sforzo principale va fatto sulla scuola. Oggi i ragazzi non sanno distinguere un rovere da un castagno, scrivono con il pennarello in stampatello, non conoscono il corsivo. Bisogna cambiare le priorità, altrimenti lo Stato continua a dare i fondi alle solite compagnie di teatro e di cinema che producono la solita comunicazione, il solito linguaggio televisivo declinato in tutti i modi. Invece le istituzioni educative devono ripartire dalla nostra storia. Per rinominare le cose in un sistema di vita, in un ordine coerente».

Nel libro, mentre sta raccontando l’attesa di Laudovino del riscatto per il sequestro di Giovanni Palombini, lei scrive: «Il tempo correva. Il tempo non è lento». Com’è il tempo della pandemia?

«È una specie di purgatorio degli orrori, giacché si parla tanto di Dante… Nel suo purgatorio le anime sono briganti e sanno di dover stare lì in attesa. Noi non siamo come le anime dantesche che pregano in una luce azzurrina, con l’oceano sotto la montagna. Noi siamo bruciati perché siamo in una risacca putrida dove il tempo è abolito. Viviamo un non tempo. Il presente ha senso se stai al lavoro, per congiungere passato e futuro. Ma siccome si cancella il passato, questo lavoro è abolito e viviamo un tempo psicotico».

Un tempo vuoto o pieno?

«Assolutamente vuoto perché non c’è più confine. Come nella testa delle persone, anche nello spazio. Sono state abolite le patrie, le identità. Tutto galleggia sospeso».

C’è più o meno voglia di lottare?

«Non c’è voglia di lottare. La lotta si è trasformata in una reazione muscolare, nella finzione dell’agire. Il vero problema è cosa accadrà dopo».

Durante il primo lockdown si parlava di più del dopo.

«Perché eravamo già sull’orlo del precipizio, la crisi economica, il Medio oriente, la Cina che avanzava, la Russia respinta. Eravamo già vicini al collasso. Il primo lockdown era una sospensione, assomigliava alla crisi del petrolio degli anni Settanta, uno stop passeggero. Ora invece siamo dentro il cul de sac del vuoto. La pandemia cambia tutto lo scenario».

Addirittura.

«Sì, tutto. Finora dicevamo che il Novecento era il secolo breve e che nel nuovo millennio i gruppi della new economy hanno creato la globalizzazione. A me sembra che la pandemia abbia allungato il Novecento, mostrando la fragilità della globalizzazione. Si sta chiarendo che non era una costruzione voluta dai popoli, ma messa su con gli stuzzicadenti dal potere, dalla finanza e da internet. Strumenti non per tutti e di tutti, ma delle oligarchie».

C’è meno voglia di lottare. E di amare?

«Io vedo una solitudine sterminata che i social, invece di alleggerire, aumentano. I contatti reali sono quasi azzerati e i nuovi media danno l’illusione di averli. Sono lo Xanax della solitudine, un surrogato. È la stessa differenza che passa tra la sensualità e la sessualità, e la pornografia orizzontale».

Segue la politica?

«Da dilettante intelligente».

Che sensazione le provoca?

«Sono anti ideologico perché vengo da una cultura repubblicana e laica che però credeva in Dio. Noto che la sinistra non fa più gli interessi degli ultimi e di chi lavora e invece è alleata del grande capitale. Mentre, curiosamente, una certa destra, ancora da definire, si è avvicinata alle classi subalterne, al popolo. Credo che, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia, in Italia serva una destra repubblicana, antifascista e anticomunista. Una destra conservatrice, in grado di saldare le istanze del popolo alle istituzioni. Era l’idea della Voce di Giuseppe Prezzolini».

Ottimista?

«Paradossalmente, la pandemia potrà creare le condizioni per un fermento libero dalle sovrastrutture ideologiche che finora hanno controllato l’arte e la cultura italiana. A destra vedo premesse migliori che a sinistra. Capisco più gli ex comunisti alla Marco Rizzo di tante figure di presunti innovatori».

Perché vede più possibilità a destra?

«Apprezzo Giancarlo Giorgetti, una persona giovane ma di vecchio stampo, che sta dentro le cose senza apparire. Salvini è rimasto movimentista. È una situazione che deve trovare equilibrio. Se ce la faranno, potrebbero innescare un’evoluzione che potrà essere utile anche alla sinistra. Altrimenti, se si sbrodola tutto, si perderà un’occasione».

Ha paura della malattia?

«Sì, mentre non ne ho della morte. La malattia mi rompe i coglioni perché ti accorgi che sei vecchio, è la perdita del sogno della giovinezza».

Perché in Francia la amano?

«Perché hanno il coraggio di riconoscere il talento, l’individualità. Hanno messo su Le Figaro littéraire la mia foto da ragazzo che gioca con la propria fragilità».

Che destino avrebbe avuto Michel Houellebecq in Italia?

«Forse non l’avrebbero pubblicato o forse solo un piccolo editore… Hanno accettato Oriana Fallaci perché era trasversale e ha scritto a favore dell’Occidente e dell’America. In altri tempi non so se avrebbe trovato la stessa sponda. Certi rimasugli di intellighenzia italiana si dimostrano pavidi con i potenti e superbi con il talento».

Scriverà un romanzo sulla Roma dei premi letterari?

«Non è il mio genere. Ho già sette otto grandi libri da scrivere. In testa, sono già scritti. Devo solo mettermi a lavorare, non ho tanto tempo. Perché non voglio morire troppo vecchio».

 

 

La Verità, 3 aprile 2021

«Assurda la cacciata di Spacey, reciterei con lui»

Buongiorno Carlo Verdone, cominciamo dalla buona notizia: come si sta con due anche nuove di titanio?

Mi sembra d’essere ringiovanito di trent’anni. Ricominciare a fare movimenti che avevi dimenticato è come guadagnare un pezzo di vita.

La notizia cattiva è che i cinema ancora non aprono.

E il fatto è fonte di grande apprensione e tristezza. Tutti noi del settore temiamo che il pubblico cambi atteggiamento. Le persone di mezza età che amavano la sala resteranno spettatori, ma i giovanissimi che già prima la frequentavano poco si abitueranno sempre più al display?

Si vive una volta sola, il suo ultimo film, aspetta da un anno.

Per amore della visione in sala io, il produttore e il distributore stiamo temporeggiando, ma è un ultimo tentativo. Se i cinema non riapriranno presto non potremo fermare l’uscita in piattaforma perché altrimenti il film invecchia.

Qualcuno ha già fatto questa scelta.

Lo credo bene, non tutti hanno la forza economica per resistere come Aurelio De Laurentiis e Vision distribution.

Lei accetta docile o un po’ s’incazza?

Credo che prima o poi arriverà il via libera degli esperti al 40% di spettatori. A meno che le nuove varianti del virus non complichino ancora la situazione.

Lei è un rigorista o un vitalista?

Una parte di me è rigorosa e molto ubbidiente. Un’altra parte vuole vivere, vedere, stupirsi, emozionarsi.

Con la sua esperienza in materia di salute, che cosa suggerirebbe per contrastare la pandemia?

Non ho idee in più, suggerirei di attenersi alle prescrizioni. Quest’anno ha visto traccia dell’influenza? No, perché abbiamo portato le mascherine. Nessuno tra le persone che conosco l’ha avuta, mentre cinque miei amici sono morti di Covid.

Il suggerimento è maggior disciplina e uso delle mascherine?

Appena viene proclamata la zona gialla le strade dello shopping si riempiono. Capisco la gioia dei negozianti, ma credo che ci vorrebbero più responsabilità e autocontrollo. Maggior disciplina significa meno morti. Ricordiamoci anche degli anziani, che sono una categoria fondamentale per la formazione dei giovani e per la memoria storica di una società.

Aspetta con ansia il vaccino?

Certo. Come arriva me lo faccio. Un’ora fa mi hanno avvertito della morte di un’altra mia amica.

Ha paura della morte?

No. Ho paura solo del dolore che posso lasciare nella mia famiglia e nelle persone alle quali voglio molto bene quando non ci sarò più.

I suoi figli?

Non ne parliamo, quando si affronta l’argomento si incupiscono e cambiano stanza. Il brutto della morte è vederla arrivare. Per noi è un interruttore che si spegne. Poi se uno è cattolico può trovare conforto e forza in qualche modo nella fede. Non ci sono alternative.

Lei è credente?

Certo. E lo sto diventando sempre di più negli anni. Non per paura, ma perché è un percorso lungo e complicato. La fede si trova, si perde, si ritrova. Mi ha dato ragione anche il Papa quando gli ho parlato.

Mi ha detto che i veri credenti sono quelli che la perdono, ma continuano a camminare in salita e poi magari la ritrovano con più forza. Mi ha detto di dubitare dei cattolici di professione.

Dopo La casa sopra i portici, dedicato all’abitazione paterna, Carlo Verdone torna in libreria con La carezza della memoria (Bompiani), sorta di viaggio nel passato sulla scorta del ricco baule di fotografie da riordinare che ci svela il lato malinconico del più poliedrico attore brillante italiano.

Perché l’ha intitolato La carezza della memoria?

Perché provo sollievo nel ricordo, pure in quelli dolenti. E anche nella nostalgia.

Cosa vuol dire quando scrive: «Sono un uomo che ha vissuto nello stupore continuo»?

Mio padre, grande educatore, mi ha educato allo stupore, al gusto del bello.

È questo stupore che le permette di raccontarsi liberamente?

Penso di sì, non ho ancora il cuore indurito. Spero di continuare a stupirmi come mio padre fino a 90 anni. Lo stupore deriva dalla curiosità, dalla voglia di stare con gli altri, di amare la gente.

Come mai uno che ha avuto il suo successo è ancora attraversato da trepidazioni e paure?

La cosa giusta l’ha detta mio fratello: «Hai scritto un libro di grande umiltà». Se si legge con attenzione ci si accorge che il protagonista non sono io, ma gli altri.

Cosa vuol dire essere un «pedinatore di italiani»?

Essere curioso delle persone. Riuscire a scovare, anche in quelle apparentemente più grigie, un dettaglio che le rende involontariamente comiche.

Il ritratto di Maria F. ha accenni poetici.

È stata una storia breve, struggente e impossibile. Era una prostituta. Nella mia vita non ho pianto molto e questo è un guaio. Quando ho scritto il suo capitolo ho dovuto nascondere la commozione anche a mio figlio.

La stupisce che Bruno Gambarotta, storico comico e dirigente Rai di Torino, e una terrorista abbiano indovinato il suo futuro di successo?

È una coincidenza sorprendente. Quella donna che incontrai sul treno e che mi fissava con occhi intelligenti raccontò pochissimo di lei. Io ero un perfetto sconosciuto. Quando scendemmo a Torino all’una e mezza di notte, mi disse: «Tu ce la farai». In seguito scoprii dai giornali che faceva parte di una banda armata. Chissà cosa aveva visto.

La stessa cosa che vide Gambarotta?

Avevo partecipato alla seconda stagione di Non stop, il programma fucina di comici del grande Enzo Trapani. Gambarotta mi convocò nel suo ufficio: «La prossima volta che verrai a Torino sarà in Mercedes». Non male come profezia.

Si è rivelata azzeccata.

Come mai, pur essendo popolato di gente coatta e bische, questo libro è venato di malinconia?

È la mia anima, c’è poco da fare. Qualcuno confonde la malinconia con la depressione, ma non c’entra niente. È una tonalità totalmente diversa, come si vede già in Un sacco bello e Bianco rosso e Verdone. Meno male che ho questa malinconia, altrimenti farei film vuoti.

Un altro personaggio straordinario è Zdenek Digrin che, senza essere un fotografo, è stato suo maestro di fotografia?

Non direi.

Le disse di non fare fotografie «per soddisfare chi le vedrà. Sennò farà solo cartoline. Segua i suoi colori, le atmosfere della sua anima».

Era un grande intellettuale che incontrai nella Praga degli anni Settanta, un grande studioso di commedia dell’arte italiana e del teatro di Carlo Goldoni. Un uomo mite, di un candore assoluto, alto e con due occhiali da miope grossi così. Ma siccome aveva scritto qualcosa che non andava bene al regime, ha fatto tutta la vita il portiere di notte.

Qual è stato l’incontro che ha segnato maggiormente la sua carriera artistica?

Forse sono due. Il primo è stato Federico Fellini, che veniva spesso a cena a casa nostra. All’epoca seguivo le rassegne underground e le monografie dei cineclub. Quando lo ascoltavo dialogare con mio padre o rispondere a qualche mia timida domanda sui suoi primi film mi affascinava la mente del regista. Così continuai a frequentare assiduamente i cineclub.

Il secondo maestro?

È stato Sergio Leone. Fu lui a impormi di scrivere e dirigere Un sacco bello e Bianco rosso e Verdone oltre a interpretarli. Sosteneva che nessun altro regista avrebbe potuto tradurre sullo schermo la mia comicità come avrei saputo farlo io. Leone fu più che un angelo custode, un demiurgo. Per sei mesi, prima di Un sacco bello mi teneva a casa sua dalle 10 di mattina alle 4 di notte per farmi lezioni di regia. Avevo pensato anche di trasferirmi in una delle sue dependance, non lo feci perché ero sposato da poco.

A parte Roma, dove le piacerebbe vivere?

A Torino. Negli anni Settanta era grigia, un posto di solitudini. Oggi ha un fermento e una grazia nuova. Anche Siena, la città di mio padre, mi piace. Una città medievale, con strade strette e angoli scuri. Sono città nelle quali mi trovo a mio agio, anche se non sono esattamente radiose.

Mi regala un pensiero sulla politica italiana?

Diversi anni fa a una cena da un amico chirurgo ebbi modo di conoscere Mario Draghi, allora al ministero del Tesoro. Mi fece subito l’impressione di una persona per bene. Una persona umile nonostante il curriculum. Quando mi capita di incontrarlo a Città della Pieve, constato che la semplicità si abbina alla preparazione. Non a caso ha frequentato la scuola dei gesuiti.

Ne parla come di un esempio assoluto.

Credo lo sia. Non ha interessi personali ed è colto. All’estero, durante la crisi, si mettevano le mani nei capelli. Lui è credibile. I politici italiani devono essere preparati, per questo bisogna amare gli studi. Vorrei una classe politica che non pensasse alle poltrone e fosse di esempio per la gente, che altrimenti può diventare indisciplinata, volgare, violenta.

L’ultimo libro che ha letto?

Conversazioni di Jorge Louis Borges. Sono lunghe interviste fatte per la radio argentina. Con Borges si spazia dalla letteratura antica a quella moderna alla poesia.

L’ultima scoperta musicale?

Ho scoperto Mark Lanegan, un cantante maledetto, un po’ funereo, ma con una bella energia e bei testi. E sto rivalutando Lana Del Rey, che ha un bravo arrangiatore e scrive testi complessi e intelligenti.

A che punto è la serie per Amazon prime?

Abbiamo finito la sceneggiatura e in maggio inizieremo a girare.

È una storia autobiografica?

Ci sono cose della mia vita quotidiana, qualche amicizia, qualche fisima. È una commedia brillante in dieci episodi.

Il nome di un attore con cui le piacerebbe lavorare?

Kevin Spacey. Trovo incredibile che un attore gigantesco come lui, a causa del bigottismo che l’ha colpito sia ai margini. Basterebbe leggere Hollywood babilonia per accorgersi che tanti hanno fatto le cose più turpi. Noi, che siamo un paese cattolico, abbiamo santificato Pasolini. Spacey faccia il suo percorso di pentimento e riabilitazione, ma non può finire nell’oblio.

Il politicamente corretto non ammette eccezioni.

E bisognerebbe piantarla. Le basi del politicamente corretto sono giuste. Ma non lo sono più quando diventano qualcosa di dogmatico, un’ipocrisia unica, un’aberrazione.

Che cosa fa ridere oggi Carlo Verdone?

Bella domanda. Non c’è molto da ridere… I mitomani, i megalomani sono sempre divertenti. L’altro giorno ero in fila con la mascherina in una di quelle drogherie chic… Spunta un tizio senza mascherina, salta la coda e inizia a sbraitare: «Credete ancora a ’ste cazzate… No ’o capite ch’è ’n complotto? Che ce stanno a perculà…». Risultato: ce ne siamo andati tutti, lui ha indossato la mascherina ed è entrato bello tranquillo. A volte genialità e cafoneria vanno in coppia.

 

Panorama, 17 febbraio 2021

 

 

«Abbiamo dimenticato la lezione di Enea»

È stato il primo a ribellarsi al sollievo perché morivano solo i vecchi. Che poi non era vero; cioè, non era vero quel «solo». Mentre la sua ribellione era, ed è, sacrosanta. Austero e refrattario alle apparizioni, l’ultraottantenne Ferdinando Camon è una delle ultime grandi coscienze morali e letterarie italiane. Il rispetto sacro per gli adulti lo accompagna da sempre, se si pensa che l’autobiografico Un altare per la madre uscì nel pieno della rivolta generazionale contro i padri. Senza la disgrazia del coronavirus, nei prossimi giorni Garzanti avrebbe dovuto ripubblicare Il Quinto stato, suo libro d’esordio. Nella casa di Padova dove vive con la moglie Gabriella Imperatori, anche lei giornalista e scrittrice, Camon attende e lavora. «Siamo preoccupati, nervosi e insicuri», confida. «Sento spesso i miei figli, ci scambiamo email. Io non rinuncio ad andare a comprare i giornali. Mi calo la mascherina e rincaso velocemente».

Muoiono più gli uomini che le donne.

E nessuno ha ancora spiegato perché. Dice che potrei mandare mia moglie?

Non mi permetterei…

Io ho imparato che quando serve una cosa se la fai tu è fatta. E poi mi alzo prima di lei.

Qualcuno ha proposto che i militari siano usati per l’assistenza agli anziani, alle famiglie isolate o con disabili…

Sono volontari e quindi professionisti: glielo si può chiedere. Se fossero figli del popolo arruolati dallo Stato, non si potrebbe. Se qualcuno mi portasse la spesa e i giornali a casa sarei contento.

Lei è stato il primo a ribellarsi al sollievo di fronte al fatto che muoiono di più i vecchi.

Sono parte in causa.

L’articolo che ha scritto era tutto men che ovvio.

Mi fa male che diventi una prassi rifiutare il trattamento in cura di chi ha una certa età. Un padre di 70 anni e un figlio di 50 sono stati ricoverati in contemporanea. Il figlio è stato destinato al reparto a, il padre al reparto b. Dopo due giorni hanno fatto le condoglianze al figlio. Il figlio sopravvissuto ha capito che il reparto dov’è stato ricoverato il padre non disponeva delle attrezzature per combattere questa malattia.

Si dice che tra un vecchio e un giovane è meno peggio se muore un vecchio: sbagliato?

Io sostengo che non dobbiamo accettare la selezione. La medicina non esiste per decidere su chi applicarsi, ma per applicarsi a tutti. Poi c’è chi ce la fa e chi no. Ma l’anziano non deve morire perché non viene curato. Ha presente Enea? Scappa da Troia in fiamme caricandosi il padre Anchise sulle spalle. Virgilio lo chiama continuamente «il pio Enea». Noi adesso siamo in una società empia.

Spietata, come la medicina di guerra.

Diciamo che a Enea era ben chiaro che senza il padre in groppa avrebbe potuto essere più veloce e avere più possibilità di salvarsi.

Se c’è da scegliere tra un giovane e un vecchio si cura il giovane.

Se in un reparto c’è un solo ventilatore polmonare per due pazienti è preferito quello che teoricamente ha una vita più lunga davanti. È un discorso economico che capisco. Ma osservo anche che se ci troviamo di fronte a una malattia invasiva e la nostra sanità non ha macchine per curarla, allora la nostra sanità ha fallito.

Ciò che è sotto gli occhi di tutti.

Trovo inaccettabile che, se arriva un anziano di 75 o 80 anni che necessita di un respiratore, l’ospedale lo metta in attesa per vedere se, di lì a poco, può averne bisogno un cinquantenne. Ora questa selezione non avviene più al momento del ricovero ad opera dei medici, ma alla richiesta del soccorso. Chi risponde si fa dire l’età e, se è avanzata, l’ambulanza non parte. Questa è selezione: io rifiuto che qualcuno possa decidere se ho diritto di vivere o no.

Ha scritto che i vecchi sono fragili e preziosi. Che se si rompe un vaso nuovo lo si ricompra, mentre un vaso antico non si trova. Che consapevolezza abbiamo dell’insostituibilità dei vecchi?

C’è un generale, diffuso, deprezzamento dei vecchi. Nella cultura, nella medicina, nella sanità, nelle famiglie. Sono considerati un’appendice. Come se la vita fosse vita fino a settant’anni. Un giornale, uno solo per fortuna, ha scritto che dopo i sessanta si è anziani. Io credo che anche a ottant’anni sia vita progettuale. In tutti i casi non faccio il discorso contrario. Cioè, che un ventenne che sa poco vale meno di un ottantenne che sa molto. Io dico che la vita è vita finché la natura non la spenga.

Cosa pensa della situazione delle case di riposo?

Sono dei lazzaretti. Dei posti dove vengono confinati i destinati alla morte. L’epidemia miete con la falce a gran colpi. Muoiono a decine ogni notte, si infettano facilmente, non sono protetti, non hanno strumenti di salvezza. Sono la punta avanzata di una società che abbandona i vecchi.

Muoiono in solitudine.

Nell’abbandono. È una morte che contrasta con la nostra idea di morte. Noi siamo cresciuti con l’idea che se un vecchio muore, il nipote che sta in America prende un aereo e viene qua. Adesso nessuno prende aerei. Il vecchio muore solo e viene sepolto da solo.

Spesso senza il conforto dei sacramenti.

Non c’è funerale, non c’è nulla. La Chiesa autorizza chiunque sia vicino, se solo è battezzato, a dargli un segno di croce. È una morte disperata.

Se sei mesi fa le avessero prospettato una situazione così…

Non ci avrei creduto. Ho difficoltà a crederla reale ancora oggi. Il condominio dove vivo, vuoto. L’ascensore, vuoto. La strada, vuota. All’edicola non c’è mai nessuno. È un mondo che ho difficoltà ad accettare.

La morìa degli anziani è la perdita della memoria, come l’incendio della Biblioteca di Alessandria?

Sì, con gli anziani va perso un mondo. Il mondo dei padri, e dei padri dei padri, non ha più testimoni e non ha più ricordi.

Si ha la percezione di questa perdita?

L’uomo massa non ce l’ha. La stragrande maggioranza delle persone non ce l’ha.

Che conseguenze avrà?

Si perde una grande spinta nell’opinione pubblica, nel senso di comunità. I vecchi leggono, pensano, parlano. Una società privata di questa spinta è monca.

La morìa degli anziani è anche un sollievo per le casse dell’Inps?

Certo. Il che non significa che l’Inps sia tra gli untori.

No.

Come in quella poesia di Konstantinos Kavafis, Aspettando i barbari. Il villaggio si ferma, penseranno i barbari a fare le nuove leggi… Ma i barbari non arrivano, e il sindaco dice: «Era una soluzione, quella gente». Non c’è dubbio che il presidente dell’Inps possa pensare che, dopo tutto, la riduzione degli anziani sia una soluzione.

Siamo immersi in una cultura giovanilistica?

Certo. Nella società, nel costume, negli interessi, nei consumi: tutto è incentrato sui più giovani.

Questa cultura è anche figlia della rottamazione?

Rottamazione è una parola orrenda perché si riferisce alle macchine che si buttano per aprire il mercato a nuovi prodotti. Non è ciò che deve avvenire tra gli uomini. Non seppelliamo gli anziani per far spazio ai giovani. Anche se quando c’è da investire lo si fa solo per loro.

Con la preghiera nella piazza san Pietro deserta, papa Francesco, suo coetaneo, ha compiuto il gesto che rimarrà nella mente di tutti noi?

È stato l’atto che solo un grande può compiere. Ha capito che la sua platea era universale. Ha fatto un discorso orbi, anche se non c’era l’urbi. Si è rivolto al mondo, anche senza la piazza.

È l’unico che contesta la cultura dello scarto, che taglia fuori vecchi e bambini.

Chi li taglia fuori non ce l’ha con i vecchi, ma vuole risparmiare. L’economia prevale sull’etica.

Il regista ultraottantenne Pupi Avati ha scritto una lettera alla Rai per chiederle di stravolgere i palinsesti e sintonizzarli sul particolare momento con contenuti più culturali. In questi giorni gli anziani sono più protagonisti dei cinquantenni?

Non sono più protagonisti perché la società non assegna loro questo ruolo. Ma avrebbero la cultura per svolgerlo. La cultura classica contiene risposte. Ho letto che si vogliono riproporre i Promessi sposi perché c’è sete delle cose che restano. Gli anziani hanno vissuto nell’epoca dei libri duraturi, i giovani sono cresciuti nell’epoca del prendi e getta.

Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy, spesso citato per La strada, sembra Un altare per la madre trasferito in America mezzo secolo dopo: il titolo è più che mai attuale qui e ora?

Più che un paese, non è una civiltà per vecchi. Non è una società per vecchi. Il vecchio è superfluo.

 

Panorama, 8 aprile 2020

Nel cristianesimo c’è l’idea di morte che cerchiamo

Stimolato da un tweet, ieri mattina ho letto con una certa curiosità la riflessione di Antonio Scurati sul Corriere della sera intitolata «Quando va in pezzi l’idea di modernità». Tema invitante. Quale sarà la modernità che si sta sgretolando? Ed è proprio così? «In Occidente», di fronte all’apocalisse, «dovremmo ricostruire una coscienza collettiva della finitudine umana, una cultura della morte», esorta il vincitore del premio Strega. Giusto. Purtroppo però, quest’allarmata meditazione rimuove una cosa da nulla che si chiama cristianesimo.

Ben oltre lo scambio di accuse tra minimizzatori e presunti catastrofisti – nonché razzisti perché volevano subito adottare drastiche misure preventive – ora che si sono registrati i primi decessi indigeni, l’avvento del Coronavirus e la relativa esplosione della sindrome da contagio scuotono alla radice una certa idea di progresso e di Occidente. Diventano palesi i limiti della scienza e della medicina. Diventano evidenti i rovesci della medaglia chiamata globalizzazione. I pilastri della modernità di questi decenni si chiamano scienza, tecnologia, globalizzazione. Magari scritte con la maiuscola. Tutte cose buone, s’intende. Irrinunciabili, e cui continuare a ricorrere. Forse, però, anche qualcos’altro serpeggia in queste ore; un’altra parola descrive il sentimento dominante. È l’impotenza, il senso di sproporzione di fronte a qualcosa di più grande delle nostre risposte. Sentimento non facile da ammettere, per noi uomini del Terzo millennio.

Con l’esplosione del Covid-19 stiamo scoprendo che la fine del mondo può non essere una deflagrazione, uno schianto prodotto da un pulsante premuto sulla consolle della guerra nucleare, come narrato in decine di film e romanzi che qualche anno fa erano di fantascienza. Con il diffondersi dell’Aids, le esplosioni di Chernobyl e Fukushima, i contagi della Sars e le ramificazioni del terrorismo islamico, quel cinema e quella letteratura sono diventate opere vintage. E la realtà è più subdola e allarmante, perché la fine del mondo o la sua riduzione a un cumulo di macerie come in La strada di Cormac McCarthy, potrebbe avvenire per il propagarsi di un’invisibile particella umida diffusa da un colpo di tosse. Uno starnuto ci seppellirà? Non male come beffa.

A complicare il quadro ci si è messo pure il politicamente corretto, ormai partner abituale delle sciagure, fastidioso come la nebbia di notte in autostrada. In un impeccabile articolo sul Quotidiano nazionale Massimo Donelli ha citato la circolare dell’Università della Svizzera italiana di Lugano, dove insegna, nella quale il rettore chiedeva «a tutti i membri, compresi gli studenti, della comunità accademica di ritorno dalla Cina di studiare/lavorare da casa per un periodo di 14 giorni». Nella progredita Svizzera niente accuse di razzismo e xenofobia, come quelle scaricate addosso ai governatori del Nord Italia che suggerivano di sottoporre ad analogo trattamento i bambini reduci da laggiù. Più o meno nelle stesse ore, il sindaco di Milano Giuseppe Sala si faceva fotografare nella Chinatown cittadina per compiacere i suoi elettori cinesi. «Siamo stati capaci di trasformare una questione virale in una questione razziale», ha concluso Donelli. Autocritiche però non se ne vedono.

Scurati suggerisce equilibrio tra le reazioni d’isteria e d’inerzia di fronte al diffondersi del morbo. Le emergenze portano a galla la nostra vera natura, di che pasta siamo fatti, quale consistenza abbiamo. Ma, in assenza di vaccini, non si sa in forza di che cosa si può raggiungere quell’equilibrio. E chi è ansioso, fragile o solo? O, al contrario, è snob, cinico o stanco? Di fronte all’apocalisse, la modernità dell’equilibrio non regge. Così come si mostra carente l’Occidente della tecnica. «Dopo decenni di malintesa e malriposta euforia edonistica», bisogna affermare che la «coscienza collettiva della finitudine umana» esiste già. Si chiama cristianesimo e ha originato l’Occidente moderno. Ma è un Occidente che non sconfinfera ai nostri intellò, propensi alle terze vie dell’etica e delle buone maniere.

«Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora», ammoniva Gesù al termine della parabola delle dieci vergini in attesa dello Sposo (Mt 25, 1-13). A Padova, dove vivo, si è registrato il primo morto italiano da Covid-19. In questa stessa città è vissuto san Leopoldo Mandić, frate cappuccino noto per la sua abnegazione di confessore, morto di cancro all’esofago, da poco proclamato patrono dei malati di tumore. Presto, sono sicuro, qualcuno troverà anche il patrono dei malati di Coronavirus. Ma chissà se piacerà a Scurati.

 

La Verità, 23 febbraio 2020