«Perché la radio(visione) ha un grande futuro»

Buongiorno Lorenzo Suraci, mi dà una definizione di sé stesso?

«Sono un ragazzino pieno di entusiasmo».

Oppure, parlando della sua professione, l’uomo radio?

«Perché no? Anche se adesso non sono più solo l’uomo della radio, ma della radiovisione».

Volevo arrivarci. La radio che si vede è un ossimoro?

«È una realtà cresciuta negli anni grazie all’innovazione tecnologica. I contenuti li crea la radio, ma vengono fruiti attraverso l’immagine su tutti i dispositivi, dalla televisione al computer allo smartphone. Fino a qualche anno fa l’immagine era monopolio della televisione; ora ha preso fuoco, è ovunque».

Siete stati tra i primi ad accorgervene?

«Prima l’aveva fatto la Rai che però non ci ha creduto fino in fondo. Noi abbiamo continuato a seguire l’evoluzione tecnologica».

Lorenzo Suraci, il radiovisionario. Bastano poche parole per rivedere la definizione di partenza. E, con quella, anche le gerarchie dei media. Tutt’altro che vintage, la radio è ancora moderna, versatile e capace di adeguarsi alla fruizione della società liquida. Suraci – un calabrese «capatosta» che vive a Bergamo, ha sposato una bergamasca e lavora a Milano nella sua Rtl 102,5, l’emittente che batte i canali Rai, Radio Deejay e tutte le altre – ha la storia e la curiosità giusta per dare una seconda vita a un mezzo che si ritiene del passato.

Quante emittenti possiede?

«La prima è Rtl 102,5, quella che ci dà da mangiare. Nel 2015 ho rilevato Radio Zeta, una stazione di tango, valzer e musica folk diffusa in Lombardia e Piemonte, che ho trasformato in un’emittente nazionale che trasmette anche in digitale. Infine, nel 2017 ho acquisito Radio Padania».

La radio della Lega?

«Salvando una radio da sicura morte pensavo di compiere una buona azione. Invece mi sbagliavo perché sono stato osteggiato da tutti, dai politici alle associazioni fino agli amici e concorrenti delle altre emittenti locali. Ho dovuto acquistare nuove frequenze per avere il 60% di copertura nazionale e la concessione commerciale per aumentare il tetto di pubblicità fino al 20%».

Adesso non è più orientata politicamente?

«Radio Padania è rimasta solo sul digitale, mentre io, con altro personale, sulle sue frequenze ho lanciato Radiofreccia, un canale che propone rock internazionale».

Qual è il segreto di Rtl 102,5 l’emittente più seguita con quasi 7 milioni di ascoltatori?

«È la prima radio con copertura territoriale capillare perché trasmette su tutti i dispositivi. Il segnale si può captare ovunque, a casa, sul digitale, su internet, con le app sul telefonino… Una volta la radio erano il transistor e l’autoradio. Ora c’è la radiovisione, un sistema di comunicazione che, con il lockdown, è come fosse nato adesso».

Le telecamere mostrano ciò che avviene in studio?

«Non è solo la visual radio che per esempio fa Radiorai con la diffusione in streaming. Il nostro è un prodotto specifico sul quale lavoriamo da vent’anni. Il fatto di essere visibili modifica anche i contenuti e il modo di proporli. I nostri dj sono conduttori evoluti, anche perché trasmettono in diretta, 24 ore al giorno».

La radio palestra per la televisione?

«Basta pensare a Claudio Cecchetto, Gerry Scotti, Amadeus, Carlo Conti, Fiorello: sono tutti partiti dalla radio e sono i conduttori televisivi più forti. Mentre non vale il contrario, tanti personaggi della tv non funzionano in radio».

Qual è il programma di punta di Rtl 102,5?

«Punto all’eccellenza, ma non ho mai fatto preferenze. Le 24 ore della giornata sono tutte uguali. Di notte per camionisti, guardie giurate, personale sanitario, lavoratori notturni, la radio è l’unico mezzo che tiene loro compagnia. Non a caso spesso siamo i primi a informare su certi disastri notturni».

Recentemente avete preso anche Massimo Giletti.

«Da qualche mese è nella nostra squadra. In ottobre, quando Bruno Vespa e suo figlio Federico hanno deciso di sospendere la collaborazione che durava da diversi anni, ci siamo chiesti che fare. Così ho pensato a Giletti, con il quale c’è un’amicizia di lunga data. Gli ho mandato un messaggino e dopo due ore mi ha dato l’ok».

Come si diventa il tycoon delle radio libere partendo da Vibo Valentia e da una discoteca di Bergamo?

«Essere dipendenti delle poste, com’erano i miei genitori, vuol dire doversi trasferire spesso. Dopo l’università a Milano ho iniziato a fare l’impresario di cantanti con mio zio. Ma quando mi sono sposato e non potevo più andare in giro, con un ex compagno architetto, un altro imprenditore edile e lo zio abbiamo pensato a una discoteca».

E la radio?

«Serviva a promuoverla. Nel 1990 la legge Mammì decise che le emittenti dovevano essere o nazionali o locali. Io, nato in Calabria, trapiantato al nord e figlio di statali volevo arrivare a Roma, ma la legge ci obbligava alla copertura di tutto il territorio. La Rai stava partendo con Isoradio, riempii un camion di parabole e in pochi mesi portai il segnale in Sicilia».

È filato tutto così liscio?

«Tutt’altro. Dopo aver investito 140 milioni scoprimmo che il segnale non usciva da Bergamo. Pensai che ci avessero fregati. Era esploso il Far west delle frequenze e quelle di Brescia, Milano, Cremona, Varese erano state occupate da altri. Pian piano dovetti riacquistarle una ad una e potenziare il segnale».

Oltre al Far west delle frequenze c’era la guerra dell’audience: Silvio Berlusconi portava via le star alla Rai e lei si concentrava su una radio bergamasca?

«Sì, ho continuato a perseguire il mio disegno. Sapevo che il Far west non poteva durare. Da terrone, avevo in mente l’Italia. Presi Fernando Proce, un dj pugliese, poi uno toscano, un altro romano, uno veneto. Solo uno era milanese».

Quando e perché è nato lo slogan Very normal people?

«Avevo investito tanti soldi per eventi e per il segnale, ma non avevo ancora il claim della radio. Invidiavo One nation, one station di Deejay. Finché una delle prime agenzie alle quali ci siamo rivolti trovò Very normal people».

Claim controcorrente.

«In un momento in cui tutti cercavano di essere fighetti noi abbiamo scelto l’orgoglio della normalità. I primi a sentirsi fighetti e a dissentire erano i nostri speaker. Io ribattevo: se vogliamo avere grandi ascolti dobbiamo essere con la gente, non come la gente. Era il claim di una radio libera, non di élite né schierata».

Nemmeno adesso?

«Certo che no. Qualche giorno fa c’era ospite Matteo Salvini, il giorno dopo il vicedirettore del Manifesto. Non vogliamo etichette. E poi, onestamente, con chi ti schieri oggi? Tendenzialmente siamo filogovernativi».

Perché date fiducia a chi ha la responsabilità di migliorare il Paese?

«Tutti i premier sono stati nostri ospiti. Se viene Salvini protestano i 5 stelle, se viene Luigi Di Maio i leghisti. Abbiamo rapporti con tutti, ma non abbiamo mai chiesto finanziamenti a nessuno. Siamo gelosi della nostra libertà».

Il conto economico è in attivo?

«Siamo 350 persone tra dipendenti e liberi professionisti. Durante il lockdown abbiamo perso 14 milioni di incasso. Una botta che potrebbe ammazzare un elefante. Abbiamo stretto la cinghia razionalizzato costi e scadenze. Ora stiamo pensando al futuro».

Come?

«Provando a offrire opportunità a una quarantina di ragazzi che stiamo formando con stage retribuiti. Buona parte dei nostri speaker sono ultracinquantenni. Affiancando loro dei giovani si crea un mix formativo. Conduttori come Pierluigi Diaco e Fulvio Giuliani hanno scelto di lasciarci e c’è bisogno di favorire il ricambio. Per fortuna ne abbiamo altri come Andrea Pamparana e Davide Giacalone dai quali c’è molto da imparare».

Che tipo di imprenditore è?

«Non delego niente. Ho tante persone che lavorano con me in autonomia. Come può confermare Valentina Facchinetti, figlia di Roby, laureata che si è proposta per creare l’ufficio stampa. Io sorveglio dietro le quinte».

La sua passione è la musica o l’informazione?

«Tutto. Dalle 6 del mattino ho l’auricolare acceso. Poi ci sono i responsabili della musica, dell’informazione, della parte tecnica…».

Ci sono ancora margini per innovare l’editoria radiofonica?

«Sul canale 737 di Sky per esempio c’è Rtl news. Tutti i giorni al mattino si può vedere un canale di informazione fatta da ragazzi dai 20 ai 24 anni. Hanno un linguaggio diverso, quasi uno slang, me ne sono innamorato. È una nuova frontiera da esplorare».

Quando ha iniziato c’era un’altra Italia. Ora ci sono le piattaforme e i social e faticano anche le grandi reti generaliste nazionali. Perché la radio resiste?

«A mio parere, in Italia dove ci sono musica, spaghetti e pizza c’è benessere. Noi diamo musica meglio delle piattaforme che invitano l’ascoltatore a farsi la propria scaletta. All’inizio magari lo fa, ma dopo un po’ preferisce la proposta di un canale. Le piattaforme prendono i contenuti da chi li produce, non pagano le tasse e dicono che la radio è morta. Posso assicurare che è viva e vegeta».

A mente fredda c’è da stupirsi che sopravviva.

«È vero. Uno dei suoi punti di forza è che ha meno pretese. Nei momenti migliori Rtl fatturava 57/58 milioni di euro. Niente rispetto agli incassi di Rcs. Io gestisco l’azienda come mio padre gestiva la famiglia negli anni Sessanta. Non c’è nessuno in cassa integrazione, i giornalisti hanno il contratto nazionale. Guardiamo cosa succede nel calcio…».

Nell’ultimo anno Rtl è calata a causa del lockdown?

«Per lunghi mesi le autostrade sono state deserte e la radio si ascolta molto in viaggio. In contemporanea è cresciuta la radiovisione, ma il sistema di rilevamento non è ancora in grado di adeguarsi alla nuova situazione».

In un mondo in continua evoluzione come fa a stare sul pezzo?

«Ho sempre fame. Dopo aver fatto una cosa sono il primo a criticarla».

Alla Steve Jobs?

«Ero così anche da ragazzino. A Vibo Valentia organizzai la prima partita di calcio femminile. Poi inventai un giornaletto per venderlo nelle case e raccontare la vita del liceo scientifico e classico. Ha presente cos’era la Calabria nel Sessantotto?».

I suoi gusti musicali: Mina o i Beatles, Modugno o i Led Zeppelin?

«Beatles e Led Zeppelin».

Oggi ascolta musica sui cd o in vinile?

«In vinile. Non riesco quasi a dirlo».

 

La Verità, 1 maggio 2021