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Amadeus, Insinna e quelle integrazioni difficili

Il primo verdetto è arrivato: più che elevare lui il Nove a tv generalista è la rete ad aver normalizzato Amadeus. Almeno, stando alla sospensione anticipata di Chissà chi è il prossimo 21 dicembre. Onore al realismo dell’ex direttore artistico di Sanremo: inutile incaponirsi, aveva ammesso un mese fa intervistato da Rtl 102,5. Come si era ipotizzato, il format dei Soliti ignoti si è appiattito sui livelli di Cash or trash che, infatti, lo rimpiazzerà con le sue repliche. Si è assestata, invece, tra il 6 e il 7% (attorno al milione di telespettatori), La Corrida, nella serata affollata del mercoledì. Per la primavera Amadeus prepara uno show e un programma per l’access primetime. Che riflessione trarre dalla battuta d’arresto del suo primo tentativo? «Non sono un pifferaio magico», aveva concesso lui sempre in quell’intervista, e l’ ammissione illumina altre situazioni. Perché, tranne poche eccezioni, nessun conduttore lo è. Le eccezioni, come già detto, sono Maurizio Crozza e Fabio Fazio, conduttori orientati, che si rivolgono a una community consolidata che si identifica nella loro tv. Per il resto, i diversi pubblici, o target, vanno rispettati. Cambiare rete per un conduttore è un po’ come cambiare testata per un giornalista: assai improbabile che chi ti leggeva su un quotidiano continui a farlo in un altro, tanto più se di orientamento diverso. A conferma ci sono i dati modestissimi di Famiglie d’Italia, il preserale di Flavio Insinna su La7. Doveva fare da traino al tg, invece è lui quello da rivitalizzare. Il pubblico del canale di proprietà di Urbano Cairo, una rete all talk show schierati, come può recepire il più mammone dei conduttori di varietà? Altre controprove: la fatica ad avvicinare il 5% di share di Massimo Giletti su Rai 3. E, riavvolgendo un po’ il nastro, la difficile tenuta di Bianca Berlinguer su Rete 4. Pochi cambi di rete riescono col buco. Perché, anche in tv, certe integrazioni forzate stentano. E fanno pensare ai rimpatri.

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Scintille tra Marco e Lilli. Gustoso scambio di battute a Otto e mezzo tra Marco Travaglio e Dietlinde Gruber sul patriarcato: «Anche tu sei nella lista con Cacciari e Bocchino», lo ha stigmatizzato la padrona di casa. «In quale lista mi avete messo stavolta? Mi pare che si fa una certa confusione tra paternalismo, patriarcato e maschilismo», ha replicato Travaglio. Lilli: «La differenza è molto chiara». Marco: «Comunque, saremo ancora liberi di dire quello che pensiamo, siamo invitati qua per questo». Lilli: «Perché, vi sembra di non essere liberi?». Marco: «Ho sentito parlare di liste…».

 

La Verità, 22 novembre 2024

I fantasmi che ballano alla Corrida di Amadeus

La Corrida di Amadeus in onda in diretta sul Nove (mercoledì, ore 21,30, share del 6%, 1,1 milioni di telespettatori) è un people show con due fantasmi sullo sfondo. Il primo è quello della Rai, ovviamente. Perché, sintonizzandosi sulla rete di Discovery si è portati inevitabilmente a chiedersi perché un programma così debba andare in onda nella cornice un po’ stretta di un canale al tasto 9, appunto, del digitale terrestre (e 149 della piattaforma Sky). Il secondo fantasma è quello di Corrado Mantoni, indimenticato inventore, addirittura in radio, dell’antenato dei talent show quando il sottotitolo, ripetutamente citato da Amadeus, era «dilettanti allo sbaraglio». La sagoma sorniona di Corrado, infatti, affiora alla mente dei non più giovanissimi ogni qualvolta la telecamera inquadra lo stupore, la perplessità, la compassione e la benevolenza del conduttore durante le esibizioni. La maggioranza delle quali è vocata alle sonore stroncature della platea ribollente. Se ne salvano giusto tre o quattro che approdano allo spareggio per decretare il vincitore, promosso alla puntatona finale del 25 dicembre. È proprio la somma di incoscienza e sfrontatezza dei concorrenti a dissolvere per un po’ quei due fantasmi, in realtà difficili da tenere a bada. Collaborano allo scopo il maestro Leonardo De Amicis, disposto a ogni improvvisazione per tenere in carreggiata gli ospiti, e «il capopolo», l’altra sera un vivace Frank Matano, chiamato a recuperare i concorrenti stroncati dal pubblico. Un people show è per definizione nazionalpopolare, ma la facciatosta è indispensabile e quasi tutti i dilettanti sono di origine meridionale. La siciliana Maria Carmela Luisa Pappalardo, per esempio, non sa cantare, ma si prende la scena ballando sfrenata e dedicando i suoi strani libri al cast. Per di più incorre nella gaffe di citare una Corrida cui ha partecipato condotta da Carlo Conti in Rai, rianimandone il fantasma. Che rispunta con un concorrente di professione claquer in un’azienda «che tu conosci molto bene, ci hai lavorato per anni», ammicca il sosia di Piero Pelù prima di concludere: «Qui di soldi non ne scuciono». Chissà se nella testa di Amadeus cresce il dubbio di aver sbagliato a lasciare la Rai per passare in una rete con un palinsesto bipolare, diviso tra i programmi-community di Fabio Fazio e Maurizio Crozza e l’intrattenimento pop.

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Giletti risale Invitando Imane Khelif, la pugile iperandrogina che ha gareggiato nel torneo femminile di boxe a Parigi, e indagando sui patronati della Cgil all’estero, lunedì scorso Lo stato delle cose di Massimo Giletti è arrivato al 4,7% di share con 762.000 spettatori.

 

La Verità, 16 novembre 2024

L’autunno dei flop Rai nato con la riforma Fuortes

L’autunno dei flop. Verrà ricordata così questa stagione dalle parti della tv pubblica, sulle sorti della quale, sotto l’altisonante intestazione «Stati generali della Rai», oggi e domani esperti e analisti si eserciteranno alla ricerca della formula magica per liberarla dal controllo della politica (non sbellicatevi). Alcuni programmi sono già malinconicamente caduti al suolo per inesistenza di pubblico. L’altra Italia di Antonino Monteleone (Rai 2) ha chiuso, mentre di Se mi lasci non vale di Luca Barbareschi (Rai 2) ieri sera è andata in onda l’ultima puntata. Altri, come Lo stato delle cose di Massimo Giletti (Rai 3) e La confessione di Peter Gomez (Rai 3) penzolano dai rami come foglie esposte al vento. Probabilmente sopravviveranno, malgrado l’esiguità delle platee affezionate, raramente sopra il 4% di share. Attenzione, non si sta parlando della débâcle di fuoriclasse della televisione italiana. Non hanno clamorosamente floppato Michele Santoro o Giovanni Minoli, guardando al passato, Enrico Mentana e Bruno Vespa, per stare al presente. No, in fondo, con l’eccezione di Giletti, si tratta di figure non ancora consacrate che registrano una battuta d’arresto nel loro percorso.
Chi soffre maggiormente l’autunno freddo del pubblico è la Rai stessa, nel suo complesso. Dalla sua cattedra, Aldo Grasso ha prospettato tre ipotesi fra le cause dei tonfi. La difficoltà a fare programmi di successo in un contesto mediale in evoluzione, l’incapacità dei dirigenti scelti dalla destra di governo e, tra il qui lo dico e qui lo nego, la mediocrità dei conduttori citati. Inutile dire che giornaloni e siti antigovernativi hanno sposato la tesi più facile: tutta colpa di TeleMeloni. Che, in fondo, è un modo più brutale di attribuire i flop all’incapacità dei dirigenti scelti dalla destra. Probabilmente, qualcosa c’è, e ci arrivo tra un po’. Ma forse si tratta solo di un concorso di colpa a una causa strutturale che viene da lontano. Mi riferisco alla famigerata riforma per generi della Rai. Quella ideata nel 2019 dall’allora amministratore delegato Fabrizio Salini e concretamente attuata dal suo successore Carlo Fuortes in pieno governo Draghi. Perché anche nella tv pubblica vigono le formule e le tempistiche valide per politica. Palazzo Chigi e Viale Mazzini ereditano quello che lasciano i governi e le governance precedenti. Se i dirigenti apicali, dall’amministratore delegato Giampaolo Rossi al direttore generale Roberto Sergio, i direttori delle testate e delle strutture produttive sono stati definiti – non tutti, eh! – da questa maggioranza politica, l’attuale assetto produttivo della Rai è nato con la riforma dei generi. Una riforma che sta palesando tutti i suoi limiti, mentre i pregi rimangono molto presunti o impliciti. Con la creazione delle strutture produttive orizzontali che forniscono intrattenimento, fiction, cinema, approfondimenti, documentari, sport e cultura sono state abolite le reti e la suddivisione verticale che comportavano.

In un intervento pubblicato dal Fatto quotidiano nel novembre 2021 significativamente intitolato «Fine delle trasmissioni» Carlo Freccero si chiedeva che cosa avrebbe prodotto il nuovo piano editoriale? «La fine della televisione generalista e l’affermazione della logica delle piattaforme, grandi “magazzini” indifferenziati di prodotti omologati», si rispondeva nella sua proverbiale visione apocalittica l’ex direttore di Rai 2. Con la creazione delle aree produttive per genere sarebbero sparite «le strutture che differenziano la tv tradizionale dagli altri media e da altri contenitori». Da «primo editoriale delle reti» e «scansione della vita sociale», il palinsesto sarebbe diventato «l’esposizione del magazzino», un serbatoio «di materiali interscambiabili e, come tali, privi di una specifica destinazione».

È esattamente ciò che sta accadendo. L’abolizione delle reti ha estinto le rispettive linee editoriali corrispondenti alle diverse identità culturali delle reti stesse, in favore di una proposta di televisione liquida, indistinta, da pensiero debole. Non esistendo più il direttore di rete, viene a mancare il confronto quotidiano tra i conduttori e il responsabile del palinsesto. Mancano gli aggiustamenti, le correzioni, il work in progress. Per fare un esempio, un direttore di Rai 2 che negli anni, al giovedì sera che fu di Michele Santoro, ha visto stentare o chiudere in anticipo Virus di Nicola Porro, Nemo di Enrico Lucci, Popolo sovrano di Alessandro Sortino, Seconda linea di Francesca Fagnani e Alessandro Giuli e Che c’è di nuovo di Ilaria D’Amico avrebbe bruciato in quella serata già presidiata da Diritto e rovescio su Rete 4 e Piazzapulita su La7 l’ex Iena che fino ad allora non aveva mai condotto un programma in proprio? O magari l’avrebbe fatto crescere in altri giorni o in altre fasce orarie? E, in fondo, questo non è un errore simile a quello commesso un anno fa con Nunzia De Girolamo, catapultata senza esperienza giornalistica e familiarità con il pubblico di Rai 3 al timone di Avanti popolo in una serata già satura di approfondimenti come il martedì? E sempre parlando di consuetudine con i telespettatori, che dire della prevedibile fatica di Giletti su Rai 3 con Lo stato delle cose? A differenza delle piattaforme, con la loro fruizione in streaming, cui il consumatore attinge come agli scaffali del supermercato prelevando i prodotti a sua scelta, la tv generalista implica un rapporto più caldo e propositivo tra editore e telespettatore.

Ora tornare indietro non è facile. Però, forse, è il caso di cominciare a riflettere. Non si costruiscono successi a dispetto dei target. Come i giornalisti non possono essere trattati da tassisti usandoli per dire ciò che preme ai dirigenti senza accettare il confronto, così i programmi e i palinsesti non sono interscambiabili. E i conduttori non sono figurine da spostare a piacimento. Per quanto possa sembrare paradossale e romantico, pubblico, conduttori e reti hanno un’anima, una storia e un’identità che vanno rispettate e valorizzate. Per costruire un coro a più voci che soddisfi le diverse platee. L’alternativa è una televisione anonima e impersonale prossima alla resa allo strapotere delle piattaforme globali.

 

La Verità, 6 novembre 2024

Con Lo stato delle cose Giletti gioca d’anticipo

Porte girevoli in televisione. Per un Amadeus che se ne va lamentando l’assenza di affetto di matrigna Rai c’è un Massimo Giletti che vi fa ritorno sottolineando di averla sempre considerata «casa mia», e questo vabbè. Più significativo un altro accenno: «Adesso dietro la telecamera 2 c’è un signore che si chiama Anthony (inquadratura), ma quando feci il mio primo programma, dietro quella telecamera c’era suo padre. Questa è la bellezza di tornare in Rai». Il nuovo inizio di Giletti nella tv pubblica, dopo la parentesi a La7 e i primi approcci con alcuni speciali, è nel lunedì sera di Rai 3, non la domenica contro Fabio Fazio né il martedì, già saturo di talk show. E forse non è solo una scelta di ripiego perché, piazzato a inizio settimana, può costringere la concorrenza ad agire di rimessa.
Anche il titolo, Lo stato delle cose, nasconde l’ambizione di fornire notizie e nozioni affinché il pubblico si faccia la propria opinione. Un’ambizione che sfiora l’equidistanza e l’«oggettività» (virgolette obbligatorie), proposte attraverso faccia a faccia con gli ospiti e confronti fra posizioni diverse (lunedì, ore 21,25, share del 5,4%, 840.000 telespettatori). L’incipit è affidato all’intervista a Matteo Renzi sul futuro dell’alleanza di centrosinistra. Sarà campo largo o campo santo? E come risponde a Giuseppe Conte che l’ha definito una tigre di carta, come Mao Tse Tung descrisse gli avversari della rivoluzione? Giletti ha il pregio di porre le domande che porrebbe ai politici la gente comune. E un altro pregio ha mostrato, l’altra sera, interrompendo il dialogo con il senatore di Rignano per non perdere di vista l’attualità e aggiornare sulla situazione al confine con il Libano con l’inviato Daniele Piervincenzi. Vivace anche lo scambio fra il generale Roberto Vannacci e l’«attivista» Francesca Pascale, esageratamente aggressiva con l’eurodeputato («Non si deve permettere questi sorrisini…»; «Io sorrido quanto mi pare»): entrambi molto ipotetici fondatori di nuovi partiti. Quando è entrato in studio Michael Cohen, grande accusatore di Donald Trump nel caso dell’ex pornostar Stormy Daniels, ci si è chiesti se Giletti si stia spostando a sinistra. Per ora, ricordando che siamo comunque su Rai 3, non sembra che il suo approfondimento sia un’altra fumeria d’oppio o l’ennesima palestra antigovernativa. Vedremo.

Post scriptum Lunedì sera, dopo un accenno di ripresa nel fine settimana, sul Nove Chissà chi è di Amadues è riprecipitato al 2,8% (590.000 spettatori). Il motivo? Forse l’edizione straordinaria del Tg1 dedicata alle notizie provenienti dal Medio Oriente. Forse.

 

La Verità, 2 ottobre 2024

Una Rai in mezzo al guado scommette su De Martino

In difesa sul fronte dell’intrattenimento, stuzzicante nella fiction, incline all’azzardo nell’informazione. Potrebbe essere questa la sintesi della prossima stagione Rai, un’azienda ancora in mezzo al guado. Per descrivere la Rai come la si è percepita ieri alla presentazione dei palinsesti 2024-25 al Centro di produzione di Napoli, con tutto lo stato maggiore schierato, le immagini da realtà incompiuta si sprecano. Con molto dispiacere dei giornaloni e di quei docenti che insufflano presunti e facilmente smascherabili rapporti Ue sullo stato dell’informazione del servizio pubblico, lo schema di TeleMeloni risulta ampiamente obsoleto. E, per certi versi, se parlassimo di un progetto di alto profilo, potrebbe essere persino un male perché, almeno, avremmo a che fare con una fisionomia, una personalità definita. Invece no, sembra di stare davanti a un’entità ibrida, sensazione acuita dai toni retorici e lievemente enfatici del video autocelebrativo («ci teniamo sempre per mano e continuiamo a crescere insieme guardando al futuro») che introduce gli speech dei dirigenti. Sarà perché le nomine della governance, con l’atteso avvicendamento tra l’attuale amministratore delegato Roberto Sergio e il direttore generale Giampaolo Rossi, sono state posticipate a dopo l’estate («e la Rai avrebbe bisogno di avere quanto prima i nuovi vertici», parola di Rossi); o sarà perché la stessa riforma che ha ridisegnato per generi la struttura produttiva, cancellando la suddivisione verticale per reti, è tuttora molto perfettibile prima di ammetterne l’inadeguatezza, sarà per tutto questo, fatto sta che, malgrado i 308 nuovi titoli e i 256 talent della squadra, le scommesse prevalgono sulle certezze. Cioè, in termini calcistici, se andrà tutto bene, si potrebbe pareggiare. Non tanto con la concorrenza («giochiamo due campionati diversi per mission aziendale e target di pubblico», si è ripetuto) quanto con la Rai del passato.

Terminata la lunga filippica, eccoci al dunque. Nell’intrattenimento, il primo obiettivo è tamponare la voragine di Amadeus, mai citato in due ore e mezza di comunicazioni. Le contromisure sono note: per sostituirlo al Festival di Sanremo si è pedissequamente scelto l’usato sicuro di Carlo Conti, evitando di considerare il coinvolgimento di Mina nella direzione artistica che, pur certamente complesso, avrebbe garantito un forte rimbalzo non solo mediatico (l’evento slitta nella settimana dall’11 al 15 febbraio per non sovrapporsi alla Coppa Italia). Alla conduzione di Affari tuoi, invece, viene promosso Stefano De Martino, il volto su cui Viale Mazzini punta parecchie fiches, se è vero che, senza averlo testato per il pubblico di Rai 1, gli è stato proposto un contratto di quattro anni, si dice a 8 milioni, con un’opzione per Sanremo, dopo le due edizioni affidate a Conti. Restando nell’intrattenimento, oltre alle conferme di tutti i programmi di punta, c’è quella del momento di pausa di Fiorello: «Lo sento tutti i giorni», assicura Sergio, «quest’anno non vuole fare altra tv, ma confido che per il 2025 lo tireremo via dal divano». Sembrano comunque scongiurate le ipotesi di un suo passaggio al gruppo Discovery e ci si augura che l’ad non debba pentirsi di aver proclamato che «non vedo la Nove concorrente della Rai». Al posto di Viva Raidue!, nella stessa rete e fascia oraria ci sarà Binario 2, un buongiorno all’Italia dalla Stazione Tiburtina di Roma, condotto da Carolina Di Domenico e Andrea Perroni ai quali, considerato il predecessore, si manifesta sentita solidarietà. Chi, invece, non lascia, ma raddoppia è Mara Venier che aggiunge la conduzione di Le stagione dell’amore, un dating dedicato alla terza età (sabato pomeriggio su Rai 1), all’intoccabile Domenica in. In ottobre su Rai 2 Teo Mammuccari sarà un comico Spaesato a Roma e, in dicembre, nel preserale della stessa rete, Renzo Arbore festeggerà con Gegè Telesforo i 70 anni della Rai.

Non dovendo metabolizzare addii eccellenti, la fiction sembra il genere meglio definito. Oltre alla quarta e ultima stagione dell’Amica geniale, le novità sono due miniserie di Rai 1 rivolte al pubblico meno giovane: Mike, interpretato da Claudio Gioè, dedicato ai 100 anni dalla nascita di Mike Bongiorno, e Leopardi – il poeta dell’Infinito che segna il debutto alla regia di Sergio Rubini. Altri titoli: Brennero, un crime ambientato a Bolzano in cui la caccia a un serial killer richiede la collaborazione fra ceppi etnici differenti, Sempre al tuo fianco, sei serate con Ambra Angiolini nel ruolo di responsabile delle emergenze della Protezione civile e, su Rai 2, Stucky, con Giuseppe Battiston nei panni di un commissario di provincia tratto dai romanzi di Fulvio Ervas.

Più incerta appare la linea degli approfondimenti. Detto di Serena Bortone che approderà a Radio 2 con un programma pomeridiano per la quale, ha sottolineato Sergio, «non c’è stata alcuna censura, né prima né ora visto che ha rifiutato due nostre offerte, una su Rai 1 e una su Rai 3», dopo il ritorno di Roberto Saviano con quattro serate di Insider il lunedì sera sulla Terza rete, si registra quello in pianta stabile di Massimo Giletti con Lo stato delle cose, un programma che intreccia faccia a faccia, piazze e filmati. Altri ritorni: Giovanni Minoli, con una striscia di Mixerstoria al mattino su Rai 3,e Maria Latella, nella seconda serata del martedì dove, con Amore criminale di Veronica Pivetti, si rinuncia definitivamente alla competizione con gli altri talk. Competizione che invece si spera di riaprire su Rai 2 al giovedì, storica serata di Michele Santoro, con le inchieste dell’Altra Italia di Antonino Monteleone. Auguri.

 

La Verità, 20 luglio 2024

I 70 anni della Rai celebrati con il manuale Cencelli

Ce l’ha messa tutta Massimo Giletti nello smoking da officiante delle grandi occasioni per gestire la celebrazione dei settant’anni anni della televisione italiana, una ricorrenza che, pur coinvolgendo Maria De Filippi ed Enrico Mentana, corrisponde all’età della Rai. Ce l’ha messa tutta, ma alla fine, anche per colpe non sue l’occasione è andata sprecata. Per il conduttore, la serata coincideva con il ritorno nella casa madre dopo gli anni a La7 e il distacco dalla rete di Urbano Cairo. Certi momenti troppo istituzionali sono sempre una trappola insidiosa. Innanzitutto, perché tra i tanti possibili cerimonieri, è difficile sceglierne uno senza far torto agli altri e forse anche per questo se n’è affidata la conduzione a un volto rientrante. In secondo luogo, perché la divisione degli spazi tra i vari protagonisti è sempre in agguato e può finire, com’è accaduto, per ingessare la cerimonia di LaTvfa70 in una faticosa spartizione democristiana (Rai 1, ore 21,35, share del 20%, 2,5 milioni di telespettatori). Così abbiamo assistito a una lunga e un po’ burocratica autocelebrazione nella quale per tutta la sera, da Amadeus a Piero Chiambretti, ha aleggiato l’interrogativo su chi condurrà il prossimo Sanremo. Una ricerca che, nonostante l’ironia di due tra i candidati convenuti, Antonella Clerici e Paolo Bonolis, rischia di sconfinare nello psicodramma. Ad accentuare l’enfasi ci si è messo anche il fatto che il protagonista della serata è stato Pippo Baudo che di Festival ne ha amministrati tredici. Sebbene in collegamento, il conduttore l’ha sollecitato a svelare particolari della lunga carriera, il più godibile dei quali è stato quello del gelido incontro con Bettino Craxi presidente del Consiglio, all’indomani del monologo di Beppe Grillo sul viaggio dei socialisti in Cina. Giletti ha gestito l’alternarsi di ospiti e intermezzi delle Teche Rai, nel tentativo di far emergere brani ed episodi dietro le quinte non arcinoti, tra brevi esibizioni e qualche talk piuttosto improvvisato, come quello che a tarda notte ha radunato Bruno Vespa, Enrico Mentana, Iva Zanicchi e Simona Ventura. Insomma, una serata costruita con il manuale Cencelli della tv, rimasta prigioniera di un approccio impiegatizio, privo di quell’orgoglio culturale che avrebbe potuto trasformarla in un grande evento capace di esibire tutto il meglio dello sconfinato repertorio. Al kolossal dell’amarcord è mancata anche la spontaneità delle sane rimpatriate, in occasione delle quali si gioca a vedere chi c’è, chi manca (Milly Carlucci, Mara Venier, Loretta Goggi) e chi, invece, ha voluto sdegnosamente rifiutarsi di esserci.

 

La Verità, 1 marzo 2024

«Tra le reti generaliste Rai è davanti a Mediaset»

Dopo lungo corteggiamento, Roberto Sergio, dal maggio scorso amministratore delegato della Rai, mi ha chiesto di preparare una decina di domande: «poi vediamo come fare!». Una volta pronte, mi ha invitato a mandarle via mail e, sebbene abbia ripetutamente proposto un confronto telefonico, ciò non è stato possibile. Quello che segue è lo scambio di domande e risposte, avvenuto in due riprese, con il massimo dirigente della tv pubblica.

Dottor Roberto Sergio, qual è il suo bilancio dei primi nove mesi alla guida della Rai?

«Molto positivo. Assieme al direttore generale Giampaolo Rossi e con il forte supporto del Consiglio di amministrazione abbiamo portato l’azienda a una chiusura 2023 con una riduzione dell’indebitamento finanziario netto da 650 a 560 milioni, meno 90 milioni, e un pareggio di bilancio con uno stanziamento importante per favorire il ricambio generazionale in logica digitale».

La Rai ha perso leadership nella vita del Paese? I programmi che creano dibattito vanno in onda su altre televisioni?

«La Rai è e continuerà a essere leader nella vita del Paese e continuerà a contribuire alla costruzione dell’identità nazionale, consentendo ai cittadini di riconoscersi dentro una memoria che appartiene a tutti. Non mi pare affatto che Report, Presa Diretta, Far West, Agorà fino ad Avanti popolo non creino dibattito, anzi, direi il contrario».

Tuttavia, sembra che l’agenda sia dettata da programmi di altre televisioni. Per esempio, dopo il ritorno in tv di Beppe Grillo di qualche settimana fa, domenica papa Francesco sarà ospite di Che tempo che fa sul Nove. State pensando a qualche volto, a qualche giornalista che possa ridare leadership al servizio pubblico?

«La leadership del servizio pubblico non è in discussione tantomeno ora. Papa Francesco lo scorso 28 maggio per la prima volta ha visitato uno studio televisivo, partecipando a una trasmissione Rai. Lo scorso primo novembre il direttore del Tg1 ha realizzato una lunghissima intervista con il Pontefice».

Avete un po’ subito la perdita di alcuni volti importanti e rappresentativi come Fabio Fazio o Bianca Berlinguer? Si poteva contrattaccare come fece Biagio Agnes quando chiamò Celentano per rispondere al passaggio di Pippo Baudo e Raffaella Carrà a Canale 5?

«Erano altri tempi e Biagio Agnes un gigante. Comunque, Monica Maggioni, Francesco Giorgino, Geppi Cucciari e il ritorno di Renzo Arbore e Pippo Baudo oltre ai possibili arrivi di Piero Chiambretti e Massimo Giletti mi paiono una risposta della Rai interessante».

A quanto si legge Massimo Giletti è già rientrato: c’è un progetto che lo vedrà nuovamente protagonista?

«Stiamo lavorando. Le idee non mancano».

(Qui avrei voluto chiedere: Ci può anticipare quella più interessante?)

Pino Insegno al Mercante in fiera e Nunzia De Girolamo con Avanti popolo sono due tentativi di «riequilibrio» non riusciti?

«Nel primo caso la fretta e un posizionamento sbagliato non hanno reso giustizia a un artista con 40 anni di lavoro e importanti successi realizzati. Il format di Avanti popolo aveva necessità di tempo per affermarsi in una giornata, il martedì, difficilissima, e con Nunzia, bravissima conduttrice come si è visto a Ciao maschio ed Estate in diretta, pronta a reinterpretarsi in una veste nuova. In entrambi i casi una pretestuosa e preventiva campagna stampa e politica ha sicuramente contribuito a rendere più difficile il loro lavoro».

I palinsesti autunnali sono stati preparati in poco tempo, quali sono le idee di punta di quelli dell’inverno-primavera 2024?

«In considerazione dei positivi risultati di ascolto, assieme al direttore generale Rossi abbiamo ritenuto di andare, in gran parte, in continuità con gli attuali e in aggiunta la programmazione dedicata ai 70 anni della Tv, celebrati a partire dal 3 gennaio».

In realtà, nel 2023 si è registrato il sorpasso nell’ascolto medio giornaliero di Mediaset sulla Rai.

«Lei dice? Bisognerebbe fare un ragionamento molto articolato e complesso. Posso solo dirle che se si considerano le generaliste Rai mantiene la leadership. Non andrebbe mai dimenticato che la Rai ha meno canali del maggiore competitor e soprattutto canali che non sono commerciali, ma di servizio pubblico».

(Qui avrei voluto sottolineare che da tempo «la Rai ha meno canali del maggiore competitor», ma finora il sorpasso non si era verificato. Inoltre, non si può trincerarsi dietro la funzione di servizio pubblico e contemporaneamente chiedere l’innalzamento del tetto di raccolta pubblicitaria come l’azienda si accinge a fare)

Fiorello è il più grande intrattenitore italiano, uno che andrebbe tutelato dall’Unesco come patrimonio del buonumore, ma la sua cifra è la leggerezza: in questo clima serve anche qualcuno che mostri capacità di indirizzare l’agenda anche con altri linguaggi?

«Fiorello, come amo dire, è unico e irripetibile ed è difficile parlare di personaggi in grado di reggere il passo con altri tipi di linguaggi. Questa prossima stagione il compito sarà affidato a titoli di fiction e documentari di altissimo livello e siamo certi di importanti risultati di ascolto».

Ne ha in mente qualcuno in particolare?

«I titoli sono tanti, così come le produzioni che offriremo, tutte di altissimo livello».

Come tutti gli anni la Rai riguadagnerà centralità con il Festival di Sanremo. Amadeus ha detto che la politica non deve entrare all’Ariston: visti i trascorsi, è da considerare un avvertimento o un pentimento?

«Io non posso rispondere del passato. Nel caso del festival 2024 la politica non è e non deve essere all’ordine del giorno. Poi, ogni cantante, ospite, co-conduttore ha la propria storia e la propria identità».

(Lei che cosa si aspetta dal prossimo Festival?)

Cosa c’è di concreto nei contatti con Piero Chiambretti e Barbara D’Urso?

«Con Chiambretti c’è una trattativa in corso, che mi auguro si chiuda presto. Con la D’Urso nulla, non la conosco».

Cosa c’è di vero nell’accusa che viene fatta alla cosiddetta TeleMeloni di aver progettato una fiction filofascista?

«Innanzitutto, non esiste TeleMeloni, esiste la Rai Radio Televisione Italiana che quest’anno celebra i 100 anni della radio e del servizio pubblico e mai come ora è pluralista e rappresentativa delle identità culturali, politiche e di genere del nostro Paese. Non so quale fiction filofascista possa avere progettato Maria Pia Ammirati, direttrice Fiction dall’11 novembre 2020».

Quanto è sicuro che il faccia a faccia tra Giorgia Meloni e Elly Schlein andrà in onda sulle reti Rai?

«Non lo sappiamo, e comunque sarebbe logico che fosse ospitato dalla rete ammiraglia Rai».

Chi potrebbe condurlo?

«E se fosse una giornalista? Quando sarà il momento prenderemo la miglior decisione possibile».

(Quindi la vostra candidata è Monica Maggioni?)

Nel mondo dell’informazione in generale nota una certa ipersensibilità derivante dal fatto che si vorrebbe che la Rai suonasse sempre il solito spartito?

«Nel mondo della disinformazione, vorrà dire. Chi afferma che la Rai perde ascolti, che i tg e in particolare il Tg1 va male, che io e Rossi siamo ai ferri corti, dice il falso. Nel tentativo, fallito, di delegittimare gli attuali vertici che hanno l’obiettivo di ridare lustro, immagine e orgoglio alla Rai. E soprattutto di rendere l’azienda libera e plurale con quel riequilibrio reso necessario da una visione passata miope e di parte».

 

La Verità, 12 gennaio 2024

 

Lasciate Fabio Fazio dov’è, nella Ztl di Rai 3

Aiuto, ricomincia. Anzi, è già ricominciato. Come nell’imminenza del rinnovo di ogni contratto. Puntuale e immancabile come la dichiarazione dei redditi, riparte il tormentone di Fabio Fazio fuori dalla Rai. Lo cacciano. Anzi no. È lui che se ne va, che non può restare a queste condizioni. Non può continuare a lavorare nella tv «in mano alle destre» (vedi Lucia Annunziata). Simpatico come un 730 da compilare, il tam-tam è iniziato con largo anticipo sulla scadenza, fra due mesi, del contratto. Si profila un’altra maledetta primavera di forse sì e forse no. Ogni volta un caso di Stato e, francamente, non se ne può più. Eppure c’è chi preferirebbe lasciarlo dov’è, Fazio. E potrebbero pensarci anche i padroni del vapore, Giorgia Meloni e i suoi uomini. Sarebbe un’astuzia che potrebbe spiazzare i fautori dell’«ora tocca a noi». Ma, in realtà, non se ne può più di vedere il «fratacchione» frignare per la mancanza di libertà. Magari gli si potrebbe sforbiciare la cresta del cachet da 1,9 milioni a biennio strappato nel maggio 2021. Continuare a lavorare con la squadra collaudata è pur sempre buona cosa, piuttosto che ricominciare da zero in una tv marginale come Nove, gruppo Discovery…

Da Viale Mazzini filtrano i rumors di scatoloni che si riempiono. A lungo atteso, il risiko delle nomine è partito. I dirigenti destinati a cambiare aria sono più d’uno, dall’amministratore delegato Carlo Fuortes al direttore dell’Intrattenimento prime time, Stefano Coletta, inventore seriale di flop (da Da grande di Alessandro Cattelan fino a Benedetta primavera). E prima o poi qualcuno farà i conti dei costi della sterminata sequenza d’insuccessi. Il vicedirettore dell’Intrattenimento daytime Angelo Mellone, in quota Fratelli d’Italia, sarebbe in odore di promozione, ma forse non a capo della fiction come lui spera. Protetta dal  solito Coletta che la portò da Rai 3 a Rai 1 sembra in declino la stella di Serena Bortone. Per Silvia Calandrelli, responsabile di Rai Cultura sotto la cui giurisdizione Fazio si è spostato per sfuggire alla direzione Intrattenimento, si dice invece sia arrivata l’ora di una nuova destinazione. Questione di settimane e la governance della tv pubblica sarà diversa.

Secondo i beninformati, a mettere in giro le voci del drammatico addio a Mamma Rai sarebbe lui stesso, EffeEffe. Gioca al rialzo, con la sapiente regia di Beppe Caschetto, che ha un nutrito stuolo di artisti e autori da piazzare come ospiti fissi, ospiti saltuari, ospiti frequenti, collaboratori e consulenti, prima, durante e dopo, al Tavolo, nel salotto, sopra e sotto la panca. Che tempo che fa è il giocattolo perfetto per il pubblico benpensante. Costruito e lubrificato negli anni. Nei decenni, già due (potrebbero pure bastare). Un terzo di buonismo, un terzo di perbenismo, un terzo di progressismo e il piatto è servito. Il nuovo film di Veltroni («ma anche» il nuovo documentario, il nuovo saggio, il nuovo romanzo, il nuovo giallo…). Una predica di Saviano. Una prescrizione vaccinale di Burioni. Una promozione dello scrittore da festival. Qualche regista e qualche attore/attrice del quartiere Prati. Il comico mainstream. Un tot di giornalisti allineati, meglio se del gruppo Cairo, vista la danarosa rubrica che EffeEffe tiene su Oggi (si parla di 6.000 euro al mese, beato lui): ed è sempre meglio essere riconoscenti. I compitini di Luciana Littizzetto. I monologhi moraleggianti di Michele Serra. Varie ed eventuali, sempre nel mood del dagli alle destre ora che il fascismo è di nuovo qui.

I siti specializzati tambureggiano da giorni. Dissodano il terreno. Preparano la strada per il sempre ventilato ritorno da La7 di Massimo Giletti. Uno se ne va e l’altro arriva. Ci sarebbero già stati dei contatti. Giletti rientrerebbe di corsa in Viale Mazzini. Quanto a Fazio, anche due anni fa si era parlato di un approdo su Nove, dove c’è ad attenderlo Maurizio Crozza, anche lui targato Caschetto. Sembrerebbe un gioco facile. La quadratura della tv ai tempi del governo più a destra della storia repubblicana.

Però, forse no. Il colpo a sorpresa potrebbe essere lasciare Fazio dov’è. Nella Ztl della Rai. Dove lo seguono quelli del salotto chic. Gli elettori dem. I convinti del gender. I fautori dell’accoglienza senza se e senza ma. I followers di Fedez. I transfughi di Propaganda live. I delusi da Soumahoro. I lettori di Vanity Fair. I nostalgici delle Invasioni barbariche… Il recinto dei buoni. Spingerlo fuori da Rai 3 vorrebbe dire vederlo atteggiarsi a martire, sentirlo piangere per le libertà costituzionali violate. E magari rischiare l’accusa di scarsa lungimiranza editoriale. Giletti potrà tornare lo stesso in Rai, il posto non manca. Ma lasciare il giocattolino a EffeEffe, concedendogli di restare nella Ztl della tv, vorrebbe dire mostrarsi veri liberali. Riuscendo, contemporaneamente, a depotenziarlo.

«Perché la radio(visione) ha un grande futuro»

Buongiorno Lorenzo Suraci, mi dà una definizione di sé stesso?

«Sono un ragazzino pieno di entusiasmo».

Oppure, parlando della sua professione, l’uomo radio?

«Perché no? Anche se adesso non sono più solo l’uomo della radio, ma della radiovisione».

Volevo arrivarci. La radio che si vede è un ossimoro?

«È una realtà cresciuta negli anni grazie all’innovazione tecnologica. I contenuti li crea la radio, ma vengono fruiti attraverso l’immagine su tutti i dispositivi, dalla televisione al computer allo smartphone. Fino a qualche anno fa l’immagine era monopolio della televisione; ora ha preso fuoco, è ovunque».

Siete stati tra i primi ad accorgervene?

«Prima l’aveva fatto la Rai che però non ci ha creduto fino in fondo. Noi abbiamo continuato a seguire l’evoluzione tecnologica».

Lorenzo Suraci, il radiovisionario. Bastano poche parole per rivedere la definizione di partenza. E, con quella, anche le gerarchie dei media. Tutt’altro che vintage, la radio è ancora moderna, versatile e capace di adeguarsi alla fruizione della società liquida. Suraci – un calabrese «capatosta» che vive a Bergamo, ha sposato una bergamasca e lavora a Milano nella sua Rtl 102,5, l’emittente che batte i canali Rai, Radio Deejay e tutte le altre – ha la storia e la curiosità giusta per dare una seconda vita a un mezzo che si ritiene del passato.

Quante emittenti possiede?

«La prima è Rtl 102,5, quella che ci dà da mangiare. Nel 2015 ho rilevato Radio Zeta, una stazione di tango, valzer e musica folk diffusa in Lombardia e Piemonte, che ho trasformato in un’emittente nazionale che trasmette anche in digitale. Infine, nel 2017 ho acquisito Radio Padania».

La radio della Lega?

«Salvando una radio da sicura morte pensavo di compiere una buona azione. Invece mi sbagliavo perché sono stato osteggiato da tutti, dai politici alle associazioni fino agli amici e concorrenti delle altre emittenti locali. Ho dovuto acquistare nuove frequenze per avere il 60% di copertura nazionale e la concessione commerciale per aumentare il tetto di pubblicità fino al 20%».

Adesso non è più orientata politicamente?

«Radio Padania è rimasta solo sul digitale, mentre io, con altro personale, sulle sue frequenze ho lanciato Radiofreccia, un canale che propone rock internazionale».

Qual è il segreto di Rtl 102,5 l’emittente più seguita con quasi 7 milioni di ascoltatori?

«È la prima radio con copertura territoriale capillare perché trasmette su tutti i dispositivi. Il segnale si può captare ovunque, a casa, sul digitale, su internet, con le app sul telefonino… Una volta la radio erano il transistor e l’autoradio. Ora c’è la radiovisione, un sistema di comunicazione che, con il lockdown, è come fosse nato adesso».

Le telecamere mostrano ciò che avviene in studio?

«Non è solo la visual radio che per esempio fa Radiorai con la diffusione in streaming. Il nostro è un prodotto specifico sul quale lavoriamo da vent’anni. Il fatto di essere visibili modifica anche i contenuti e il modo di proporli. I nostri dj sono conduttori evoluti, anche perché trasmettono in diretta, 24 ore al giorno».

La radio palestra per la televisione?

«Basta pensare a Claudio Cecchetto, Gerry Scotti, Amadeus, Carlo Conti, Fiorello: sono tutti partiti dalla radio e sono i conduttori televisivi più forti. Mentre non vale il contrario, tanti personaggi della tv non funzionano in radio».

Qual è il programma di punta di Rtl 102,5?

«Punto all’eccellenza, ma non ho mai fatto preferenze. Le 24 ore della giornata sono tutte uguali. Di notte per camionisti, guardie giurate, personale sanitario, lavoratori notturni, la radio è l’unico mezzo che tiene loro compagnia. Non a caso spesso siamo i primi a informare su certi disastri notturni».

Recentemente avete preso anche Massimo Giletti.

«Da qualche mese è nella nostra squadra. In ottobre, quando Bruno Vespa e suo figlio Federico hanno deciso di sospendere la collaborazione che durava da diversi anni, ci siamo chiesti che fare. Così ho pensato a Giletti, con il quale c’è un’amicizia di lunga data. Gli ho mandato un messaggino e dopo due ore mi ha dato l’ok».

Come si diventa il tycoon delle radio libere partendo da Vibo Valentia e da una discoteca di Bergamo?

«Essere dipendenti delle poste, com’erano i miei genitori, vuol dire doversi trasferire spesso. Dopo l’università a Milano ho iniziato a fare l’impresario di cantanti con mio zio. Ma quando mi sono sposato e non potevo più andare in giro, con un ex compagno architetto, un altro imprenditore edile e lo zio abbiamo pensato a una discoteca».

E la radio?

«Serviva a promuoverla. Nel 1990 la legge Mammì decise che le emittenti dovevano essere o nazionali o locali. Io, nato in Calabria, trapiantato al nord e figlio di statali volevo arrivare a Roma, ma la legge ci obbligava alla copertura di tutto il territorio. La Rai stava partendo con Isoradio, riempii un camion di parabole e in pochi mesi portai il segnale in Sicilia».

È filato tutto così liscio?

«Tutt’altro. Dopo aver investito 140 milioni scoprimmo che il segnale non usciva da Bergamo. Pensai che ci avessero fregati. Era esploso il Far west delle frequenze e quelle di Brescia, Milano, Cremona, Varese erano state occupate da altri. Pian piano dovetti riacquistarle una ad una e potenziare il segnale».

Oltre al Far west delle frequenze c’era la guerra dell’audience: Silvio Berlusconi portava via le star alla Rai e lei si concentrava su una radio bergamasca?

«Sì, ho continuato a perseguire il mio disegno. Sapevo che il Far west non poteva durare. Da terrone, avevo in mente l’Italia. Presi Fernando Proce, un dj pugliese, poi uno toscano, un altro romano, uno veneto. Solo uno era milanese».

Quando e perché è nato lo slogan Very normal people?

«Avevo investito tanti soldi per eventi e per il segnale, ma non avevo ancora il claim della radio. Invidiavo One nation, one station di Deejay. Finché una delle prime agenzie alle quali ci siamo rivolti trovò Very normal people».

Claim controcorrente.

«In un momento in cui tutti cercavano di essere fighetti noi abbiamo scelto l’orgoglio della normalità. I primi a sentirsi fighetti e a dissentire erano i nostri speaker. Io ribattevo: se vogliamo avere grandi ascolti dobbiamo essere con la gente, non come la gente. Era il claim di una radio libera, non di élite né schierata».

Nemmeno adesso?

«Certo che no. Qualche giorno fa c’era ospite Matteo Salvini, il giorno dopo il vicedirettore del Manifesto. Non vogliamo etichette. E poi, onestamente, con chi ti schieri oggi? Tendenzialmente siamo filogovernativi».

Perché date fiducia a chi ha la responsabilità di migliorare il Paese?

«Tutti i premier sono stati nostri ospiti. Se viene Salvini protestano i 5 stelle, se viene Luigi Di Maio i leghisti. Abbiamo rapporti con tutti, ma non abbiamo mai chiesto finanziamenti a nessuno. Siamo gelosi della nostra libertà».

Il conto economico è in attivo?

«Siamo 350 persone tra dipendenti e liberi professionisti. Durante il lockdown abbiamo perso 14 milioni di incasso. Una botta che potrebbe ammazzare un elefante. Abbiamo stretto la cinghia razionalizzato costi e scadenze. Ora stiamo pensando al futuro».

Come?

«Provando a offrire opportunità a una quarantina di ragazzi che stiamo formando con stage retribuiti. Buona parte dei nostri speaker sono ultracinquantenni. Affiancando loro dei giovani si crea un mix formativo. Conduttori come Pierluigi Diaco e Fulvio Giuliani hanno scelto di lasciarci e c’è bisogno di favorire il ricambio. Per fortuna ne abbiamo altri come Andrea Pamparana e Davide Giacalone dai quali c’è molto da imparare».

Che tipo di imprenditore è?

«Non delego niente. Ho tante persone che lavorano con me in autonomia. Come può confermare Valentina Facchinetti, figlia di Roby, laureata che si è proposta per creare l’ufficio stampa. Io sorveglio dietro le quinte».

La sua passione è la musica o l’informazione?

«Tutto. Dalle 6 del mattino ho l’auricolare acceso. Poi ci sono i responsabili della musica, dell’informazione, della parte tecnica…».

Ci sono ancora margini per innovare l’editoria radiofonica?

«Sul canale 737 di Sky per esempio c’è Rtl news. Tutti i giorni al mattino si può vedere un canale di informazione fatta da ragazzi dai 20 ai 24 anni. Hanno un linguaggio diverso, quasi uno slang, me ne sono innamorato. È una nuova frontiera da esplorare».

Quando ha iniziato c’era un’altra Italia. Ora ci sono le piattaforme e i social e faticano anche le grandi reti generaliste nazionali. Perché la radio resiste?

«A mio parere, in Italia dove ci sono musica, spaghetti e pizza c’è benessere. Noi diamo musica meglio delle piattaforme che invitano l’ascoltatore a farsi la propria scaletta. All’inizio magari lo fa, ma dopo un po’ preferisce la proposta di un canale. Le piattaforme prendono i contenuti da chi li produce, non pagano le tasse e dicono che la radio è morta. Posso assicurare che è viva e vegeta».

A mente fredda c’è da stupirsi che sopravviva.

«È vero. Uno dei suoi punti di forza è che ha meno pretese. Nei momenti migliori Rtl fatturava 57/58 milioni di euro. Niente rispetto agli incassi di Rcs. Io gestisco l’azienda come mio padre gestiva la famiglia negli anni Sessanta. Non c’è nessuno in cassa integrazione, i giornalisti hanno il contratto nazionale. Guardiamo cosa succede nel calcio…».

Nell’ultimo anno Rtl è calata a causa del lockdown?

«Per lunghi mesi le autostrade sono state deserte e la radio si ascolta molto in viaggio. In contemporanea è cresciuta la radiovisione, ma il sistema di rilevamento non è ancora in grado di adeguarsi alla nuova situazione».

In un mondo in continua evoluzione come fa a stare sul pezzo?

«Ho sempre fame. Dopo aver fatto una cosa sono il primo a criticarla».

Alla Steve Jobs?

«Ero così anche da ragazzino. A Vibo Valentia organizzai la prima partita di calcio femminile. Poi inventai un giornaletto per venderlo nelle case e raccontare la vita del liceo scientifico e classico. Ha presente cos’era la Calabria nel Sessantotto?».

I suoi gusti musicali: Mina o i Beatles, Modugno o i Led Zeppelin?

«Beatles e Led Zeppelin».

Oggi ascolta musica sui cd o in vinile?

«In vinile. Non riesco quasi a dirlo».

 

La Verità, 1 maggio 2021

Giusto che Lerner vada in onda, Salvini ha sbagliato

Caro direttore,

concedimi qualche riga per manifestare il mio dissenso sulla campagna contro Gad Lerner di questi giorni. Non che l’editorialista di Repubblica – dov’è stato rilanciato con una certa enfasi dalla direzione di Carlo Verdelli che anche da direttore editoriale dell’informazione Rai l’aveva richiamato in servizio –  non smuova antipatia e avversione con le sue liste di proscrizione, l’intercessione per «le classi subalterne» dall’alto dell’elicottero dell’Avvocato Agnelli e dello yacht dell’Ingegner De Benedetti, le lamentazioni di censure dal pulpito del talk show più glamour di Rai1 dove promuovere il suo Approdo nuovo di zecca su Rai3. Ci sono tutti i motivi perché uno così vada di traverso e provochi contrarietà. All’incirca gli stessi che smuove Fabio Fazio che gli ha fatto da cerimoniere nell’ospitata di cui sopra, e che è pagato in modo esorbitante con il denaro pubblico del canone. Per inciso, lo dissi personalmente al suo agente, Beppe Caschetto, alla presentazione dei palinsesti di due anni fa, quando il passaggio di FF alla rete ammiraglia fu annunciato in pompa magna: «Beppe, vedrai che questo megastipendio diventerà un boomerang». Tanto più ora che Fazio ha scelto scientificamente la rotta di collisione sui porti chiusi salviniani, invitando ogni domenica qualcuno che li contestasse e accampasse ragioni per l’accoglienza urbi et orbi. Riassumendo: il caso Fazio e il caso Lerner si assomigliano per la faziosità dei contenuti, le lamentazioni e la propensione all’autoproclamazione di martiri in favore di telecamera e i giornaloni a fare il tifo. La somiglianza si stempera solo a proposito dei compensi, iperbolico quello di Fazio, tanto che, dopo il ridimensionamento, si accaserà su Rai2, poco proporzionato quello di Lerner se rapportato agli ascolti, solitamente modesti dei suoi programmi.

Detto tutto questo, c’è un motivo ancor maggiore per cui, forse ingenuamente, non avrei inaugurato la campagna contro l’ex conduttore di Milano, Italia. Ed è il principio del liberalismo, l’accettare e il confrontarsi con opinioni contrarie, una certa magnanimità che, ahimè, spesso finisce per mancare agli uomini di potere. Vincere va bene, stravincere meno, recitava un vecchio adagio. Ritengo che Matteo Salvini abbia sbagliato a innescare questa polemica su Lerner, offrendo il pretesto a certe sinistre prefiche di piangere su editti inesistenti. Lo ha fatto da ministro degli Interni, da segretario leghista, da vicepremier? In tutti i casi, mi pare inopportuna. Criticare il volto noto che lamenta censura proprio mentre ha a disposizione microfoni e vetrine tv, va bene. Ma a questo, per conto mio, ci si dovrebbe fermare. Forse anche per malizia. Lerner faccia il suo programma, senza censori sul piede di guerra: sarà un testimonial suo malgrado del liberalismo della Rai al tempo dei gialloverdi (o forse è il caso di dire verdegialli?). Questo sì sarebbe davvero «governo del cambiamento»: tenere lontane le mani della politica dalle scrivanie di Viale Mazzini. Lo hanno promesso anche i governi precedenti senza mai riuscirci, come documentano le dimissioni di Verdelli e ancor prima di Antonio Campo Dall’Orto, indotte dal fuoco amico renziano. Se il governo verdegiallo vuol davvero cambiare, non vieti il ritorno in tv degli avversari ed eviti di mettere becco sulle scelte di amministratore delegato e presidente Rai. A quel punto chi potrà azzardarsi a parlare di bavaglio, censure e mancanza di democrazia? Anche quella di non occuparsi di nomine e di palinsesti della tv pubblica è una promessa che Salvini potrebbe e dovrebbe mantenere.

Siccome però, il pluralismo è sacro in tutte le direzioni, il cambiamento si dovrebbe e potrebbe vedere dall’aggiunta di voci dissonanti rispetto al pensiero unico, un po’ nel solco di quello che sta tentando di fare, magari disordinatamente, Carlo Freccero a Rai2. Qualche suggerimento per promuovere una narrazione alternativa? Ecco i primi che mi vengono, d’istinto, senza pensarci troppo: Alessandro D’Avenia, Paola Mastrocola, Antonio Socci, Davide Rondoni e Giovanni Lindo Ferretti per i temi di approfondimento culturale, Marcello Veneziani, Pietrangelo Buttafuoco e Costanza Miriano per l’attualità, Pupi Avati per la fiction, Federico Palmaroli (Le frasi di Osho) per la satira, oltre al recupero di Milena Gabanelli e Massimo Giletti…

C’è molto da fare, come si vede. E probabilmente c’è spazio per molti, se non proprio per tutti.

Un caro saluto.

La Verità, 3 giugno 2019