«Non siano i giudici a legiferare sui nuovi diritti»

Uomo di studi, uomo di legge, uomo di fede: Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e titolare della delega sui Servizi segreti, è la vera eminenza grigia del governo di Giorgia Meloni. Dopo esser stato eletto più volte nei partiti del Polo delle Libertà ed esser stato sottosegretario all’Interno nei governi Berlusconi, nel 2013 ha rinunciato a ricandidarsi ed è tornato in magistratura. Nell’ottobre scorso è stata la premier a richiamarlo in servizio. Contestualmente, si è dimesso da vicepresidente del Centro studi Rosario Livatino, il magistrato ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 e dichiarato beato. «L’ultima intervista che ho concesso è stata per la morte di Benedetto XVI; un’eccezione per la quale si può dire che ne do a ogni morte di Papa». La figura di Livatino, sul quale Mantovano ha scritto con altri colleghi Un giudice come Dio comanda (Il Timone), è l’occasione per una seconda eccezione.

Tra pochi giorni saranno due anni dalla beatificazione di Livatino e in queste settimane la mostra «Sub Tutela Dei» a lui dedicata sta girando l’Italia. Perché è importante continuare a riflettere sulla vita di questo magistrato?

«Rosario Livatino non è un personaggio lontano nella storia: quando è stato ucciso stava per compiere 38 anni. Se fosse vivo sarebbe andato in pensione da pochi mesi. Molti colleghi che hanno lavorato con lui sono ancora in attività. Quindi è un uomo del nostro tempo, che col suo esempio ha tanto da insegnare ai magistrati e ai giuristi di oggi».

In che cosa consisteva la sua diversità?

«La prima, la più evidente, è che per Livatino il giudice parla coi suoi provvedimenti e, al di fuori di essi, su di essi non ha nulla da dire. In dodici anni di attività egli non ha mai rilasciato una intervista, non ha mai preso parte a un programma tv, non si è mai lasciato sfuggire una indiscrezione, una valutazione, una anticipazione su ciò di cui si occupava. Sarebbe però riduttivo limitare il riserbo di Livatino a una modalità silente nel rapporto coi media. Quel riserbo è stato un riconoscimento di limiti, che esistono anche per la giurisdizione, e ciò è stato per lui un dato sostanziale. Già allora il principale nodo critico della magistratura italiana era la pretesa di superiorità etica del magistrato, quell’“attivismo giudiziario” che decide che esistono vuoti normativi, e che punta a colmarli andando oltre i confini della interpretazione, per giungere alla creazione normativa vera e propria, e non soltanto per i cosiddetti nuovi diritti. Nelle rare occasioni in cui Livatino ha parlato in pubblico ha preso le distanze dal giudice che inventa del diritto, oltre il dettato della legge, perché si autoinveste di una funzione salvifica. Questo è il punto cruciale, cui fanno da corollario l’aspirazione angosciante a ricoprire posti di vertice, o la spartizione correntizia degli incarichi».

Nel 1990 non esistevano gli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata di oggi. Anche Livatino rimase vittima della solitudine che otto anni prima aveva condannato il generale Carlo Alberto dalla Chiesa?

«Più che di solitudine, parlerei di strumenti disponibili. Nel 1990 non esisteva una legislazione sui collaboratori di giustizia: le prime disposizioni in materia interverranno qualche mese dopo, nel gennaio 1991. Vuol dire che in un territorio a fortissima penetrazione mafiosa, qual era l’agrigentino, Livatino ha dovuto fare a meno di quelle informazioni che, provenienti dall’interno dei clan, negli anni seguenti contribuirono a disarticolarne tanti. Non esisteva il cosiddetto 41 bis, il “carcere duro” per i mafiosi. Sul piano organizzativo, non vi erano né la Procura nazionale, né le procure distrettuali antimafia, e quindi erano costanti i problemi di coordinamento fra le circa 160 procure disseminate sul territorio italiano, e fra esse e le sezioni giudicanti di riferimento, mentre non pochi degli uffici giudiziari più esposti avevano organici ridotti al lumicino: al Tribunale di Agrigento, dove lui lavorava, erano scoperti 5 posti sugli 11 previsti. In sintesi, Livatino – come i suoi colleghi dell’epoca in terra di mafia – operava a mani nude contro una criminalità radicata e aggressiva. E questo rende ancora più significativo il lavoro che ha svolto».

È documentato che sapesse di essere esposto alle strategie delle cosche. Come mai non si sottrasse a quel destino che gli si era in qualche modo palesato?

«Dalle sintetiche annotazioni sulla sua agenda emerge la certezza, fonte di angoscia, che il suo destino fosse segnato, e al tempo stesso la convinzione che egli non poteva interrompere il lavoro avviato. Questo chiama in causa non soltanto il senso del dovere, bensì l’affidamento alla volontà del Signore».

Perché alla sua morte è riconosciuto il carattere di martirio? In che modo in quella che sembra una vendetta della mafia c’entra la sua fede cristiana?

«La sua fede cristiana era nota ai suoi assassini, tanto che fra loro lo chiamavano “santocchio”. In più d’una pagina dell’agenda compare un piccolo segno di Croce, sotto il quale si trovano le tre lettere S.T.D., iniziali dell’espressione Sub Tutela Dei. Come spiega il professor Giovanni Tranchina, che di Livatino fu docente di diritto penale, quelle lettere ricordano “le invocazioni con le quali, in età medievale, si impetrava la divina assistenza nell’adempimento di certi uffici pubblici”».

Perché non ricorse alla scorta?

«In quegli anni, a differenza di quanto accaduto nei decenni successivi, il ricorso alla tutela personale era veramente limitato, e interessava i magistrati più esposti negli uffici di maggior rilievo. Dai verbali della prefettura di Agrigento di quel periodo non si ricava che Livatino abbia rifiutata la scorta, quanto che di essa non si sia mai parlato, che non sia mai stata all’ordine del giorno».

Perché il 9 maggio 1993 poco dopo aver incontrato i genitori di Livatino Giovanni Paolo II pronunciò nella Valle dei Templi il vibrante invito alla conversione dei boss mafiosi?

«Quel discorso di appena un minuto segna uno spartiacque nel magistero ecclesiale sulla criminalità mafiosa. Nel trattare della mafia, il Papa che alla misericordia di Dio ha dedicato il suo ministero, richiama l’inappellabilità del giudizio divino. La condanna, prima ancora che civile, è religiosa: la sola strada che i mafiosi hanno di fronte a sé è rispondere positivamente al “convertitevi!”, pronunciato come un ordine, più che come un invito. Giovanni Paolo II insegna nel modo più chiaro che la mafia non è una semplice sommatoria di colpe individuali, ma è una vera struttura di peccato: è la preordinazione, la programmazione e la realizzazione di atti contro l’uomo. È un porsi contro Dio in modo non occasionale, bensì pianificato e strutturato: ciò tanto più in quanto i clan strumentalizzano i simboli della fede per i loro rituali».

Anche se si è dimesso da vicepresidente del Centro studi è a conoscenza di qualche iniziativa che riguarda la memoria del giudice?

«Il Centro studi sta dando vita a un comitato, che sarà composto da insigni giuristi, perché in occasione del Giubileo 2025 Livatino sia riconosciuto patrono dei magistrati. È singolare che gli avvocati abbiano più d’un Santo protettore e i giudici no. Vi è l’occasione per colmare la lacuna».
La maggioranza dei magistrati accetterà questa proposta o opporrà qualche forma di contrasto?

«Livatino è esempio, e con ciò stesso pietra d’inciampo. Lo è in quanto martire della fede, e in quanto il martirio è avvenuto indossando la toga. Quando mai una persona che abbia il suo profilo raccoglie consensi unanimi? Il problema non è questo, bensì quello di recuperarne a tutto tondo la dimensione di magistrato, senza riportare espressioni che mai ha adoperato, senza farne un “santino” e senza strumentalizzarlo, bensì mostrando, attraverso le sentenze, i decreti e le requisitorie da lui redatte, quanto la sua professionalità sia coerente col rigore etico, e quanto entrambi siano fondati su una fede non ostentata, ma concretamente vissuta. Pensa che tutto ciò abbia un elevato indice di gradimento in una parte della corporazione?».

Il diritto alla vita, la difesa della famiglia tradizionale, il contrasto all’eutanasia e alla maternità surrogata, il rispetto dell’equilibrio legislativo e giudiziario sono i principi del Centro studi Livatino e sono stati i temi di un suo intervento alla conferenza di Fratelli d’Italia di un anno fa. È sbagliato dire che sono anche i punti cardinali del lavoro del nuovo governo?

«Premesso che la famiglia non è tradizionale o progressista, ma è quella descritta dagli art. 29 e seguenti della Costituzione, cioè “società naturale fondata sul matrimonio”, il governo in carica intende dare risposte concrete e non ideologiche a quel frequente abbandono di persone fragili, che spesso diventa pretesto per invocare la morte procurata: il ddl anziani e il riferimento al suo interno al rilancio delle cure palliative va esattamente in questa direzione. Sulla maternità surrogata seguiamo con attenzione i lavori parlamentari, che vedono la discussione delle proposte di legge di cui è relatrice Carolina Varchi. I punti cardinali sono il rispetto della persona, mai da considerare merce, e l’aiuto reale alle difficoltà connesse a gravi patologie o disabilità».

Che suggerimento darebbe Livatino riguardo all’attuale confronto tra il ministro della Giustizia Carlo Nordio e la magistratura in seguito al caso Artem Uss e all’ispezione disposta dal Guardasigilli alla Corte d’Appello di Milano?

«Non sta bene fare il gioco di chiedersi che cosa avrebbe detto o fatto una persona che non c’è più, a maggior ragione quando ha lo spessore di Livatino. Quello che posso dire, senza fare sedute spiritiche, è che condivido l’informativa sul punto resa in Parlamento dal ministro della Giustizia. Ciò che, a mio avviso fondatamente, Nordio censura nell’ordinanza che, ponendo agli arresti domiciliari il cittadino russo Artem Uss, ha causato le condizioni della sua successiva evasione, non è una lettura differente delle esigenze cautelari, e in particolare del pericolo di fuga, bensì di non aver speso un rigo di motivazione sul punto, nonostante le documentate note di allarme inviate ai giudici milanesi dal Dipartimento della Giustizia Usa e dal ministero di via Arenula. Ecco, nei provvedimenti redatti da Livatino non ve n’è uno solo che abbia trascurato un punto importante della motivazione necessaria».

 

La Verità, 25 aprile 2023