Scacco ai partiti nella Rai in cinque mosse

Fuori i partiti dalla Rai è uno di quei propositi che contende il primato di non credibilità a quello di riportare trasparenza negli arbitraggi della Serie A. O, in alternativa, a quello, altrettanto abituale e annoso, della semplificazione burocratica. Puntuale, a ogni cambio di governo, leader e segretari di partito proclamano ai quattro venti l’obiettivo di affrancare la tv pubblica dalla politica. Stavolta, dal piedistallo della lottizzazione perpetrata negli ultimi anni, è stato l’ineffabile Enrico Letta, subito imitato dall’ex premier Giuseppe Conte, a pronunciare la frase fatidica, proprio mentre manovrava per influenzare le nomine in divenire dei nuovi vertici. Lo stupore è in modica quantità. La prima volta che si è sentito annunciare il «vasto programma» il Muro di Berlino era ancora in piedi, la Democrazia cristiana vinceva le elezioni e la Seicento multipla circolava sull’Autostrada del Sole. Da allora sono cambiati quattro o cinque papi, internet ha cambiato il mondo e Ciriaco De Mita, riconosciuto sponsor dell’ormai leggendario Biagio Agnes, fa il sindaco di Nusco. Quest’ultimo esempio è solo per dire che ci sono cose che non cambiano mai. Come appunto la governance del servizio pubblico radiotelevisivo: passano i decenni, si scavallano i secoli e sentiamo ripetere che bisogna estromettere la politica dalla tv di Stato. Chi ci riuscisse davvero sarebbe unanimemente riconosciuto benefattore dell’umanità, meritandosi un monumento a futura memoria al posto del cavallo morente di Viale Mazzini o davanti a Palazzo Montecitorio, fate voi. Il fatto che al proclama non seguano mai le azioni dipende da un semplice assunto: la politica dovrebbe tagliare il ramo su cui sta a cavalcioni. La Rai è, infatti, il posto delle prebende, la riserva del regime, il giardino del potere. Inevitabile che lo scetticismo domini, motivo per cui questo articolo nasce morto prima ancora di essere scritto. Se una minuscola fiammella lo giustifica è il fatto che stavolta al governo c’è una maggioranza ampia, guidata da un premier che appare poco ricattabile dai vari schieramenti. Ecco dunque alcuni suggerimenti non richiesti a chi volesse prendersi la briga.

  1. Il primo intervento dovrebbe essere la creazione di una Fondazione pubblica, un Ente per l’audiovisivo o un Comitato dei saggi, su modello della Bbc inglese, composto da personalità della cultura di riconosciuta autorevolezza da pescare nell’ambito delle università, degli enti locali e dell’editoria, nominato dal Parlamento e in cui ogni membro dovrebbe avere il voto dei due terzi dei parlamentari. L’organismo avrebbe il compito di esaminare i curriculum dei componenti del Consiglio di amministrazione dell’azienda in base alle competenze in materia di comunicazione, nuove tecnologie, politiche aziendali eccetera, tra i quali verrebbero scelti, previa approvazione dell’azionista, ovvero ministero dell’Economia e presidente del Consiglio, l’amministratore delegato e il presidente.
  2. I massimi vertici del servizio pubblico avrebbero un mandato di cinque anni, necessari per realizzare una politica editoriale adeguata a un’azienda di 13.000 dipendenti che deve affrontare un mercato globale sempre più sofisticato e agguerrito. L’allungamento del mandato servirebbe a rafforzare le figure apicali, rendendole meno fragili ed esposte ai mutamenti degli assetti della politica. Allo stesso scopo è auspicabile l’eliminazione del tetto dell’emolumento, così da rendere competitivo e appetibile il ruolo sul mercato. Non è infatti plausibile che un manager di un’azienda privata debba accettare drastiche decurtazioni del compenso per insediarsi in Rai. Lo confermano i numerosi dinieghi registrati anche durante la ricerca in corso dei nuovi vertici. A puro titolo di confronto, il compenso dei massimi dirigenti Mediaset o Sky moltiplica per sei il tetto di 240.000 euro dei manager pubblici.
  3. Andrebbe abolita la Commissione di Vigilanza, strumento di retaggio sovietico attraverso il quale i partiti esercitano il loro controllo sull’azienda. Non sono i commissari politici a dover indirizzare la linea dell’emittente pubblica. Il compito spetta al Consiglio d’amministrazione che approva il piano strategico, il budget, gli eventuali scostamenti e delibera in caso di spese straordinarie, superiori a una soglia particolarmente elevata.
  4. Amministratore delegato e presidente verificano il proprio operato esclusivamente con l’azionista, ministro dell’Economia e presidente del Consiglio, come avviene per enti come Eni, Ferrovie dello Stato eccetera.
  5. Essendo la Rai l’unica azienda televisiva pubblica europea che trasmette pubblicità in tutti i suoi canali, diviene più che mai necessario scorporare la produzione finanziata dal canone di abbonamento da quella sostenuta dagli introiti pubblicitari. La separazione sgraverebbe la programmazione di servizio dal confronto quotidiano degli ascolti con la concorrenza privata. L’obiettivo non è innanzitutto abbassare il tetto pubblicitario alla Rai, finendo per dirottare una parte delle risorse nelle tv commerciali, quanto rendere più trasparente e autorevole l’attività del servizio pubblico.

Scacco al controllo politico della Rai in cinque mosse, ricordando che «il meglio è nemico del bene».

 

La Verità, 21 maggio 2021