«Senza scandalo, la Mostra è un funerale coi lustrini»

Tinto Brass è un vero signore, oltre che un grande cineasta ultranovantenne. In questi giorni di Mostra di Venezia, segue lo sfilare dei film e delle star dalla sua casa di Isola Farnese, borgo fuori Roma dove vive con la moglie Caterina Varzi, evitando di abbandonarsi alla percezione di non essere profeta in patria. Tuttavia, in questa intervista alla Verità, qualcosa dice. In modo elegante.
Maestro, com’è la Mostra di Venezia vista da Roma?
«Non ho particolare interesse a seguirla. Una sfilata di pavoni che si crogiolano nel loro vuoto, senza il coraggio di osare e che si applaudono a vicenda per film che non scuotono più nessuno. Di cinema vero, quello che ti prende a schiaffi, neanche l’ombra. Tutti attenti a non pestare i piedi, a non offendere, a fare film che vanno bene per tutti. Il trionfo del perbenismo, dove ogni provocazione è soffocata da una cappa di conformismo. Se non c’è scandalo, se non c’è eros, se non c’è rischio, allora non c’è cinema. Venezia sembra sepolta sotto una montagna di chiacchiere e ipocrisie. Ci vorrebbe una rivoluzione formale, qualcuno che getti tutto all’aria e riporti un po’ di vita. Finché il festival resterà questa messinscena, non sarà che un funerale con i lustrini».
L’ultima volta che ci è stato fu nel 2013 per la proiezione di un documentario sulla sua opera.
«S’intitolava IstintoBrass ed era diretto da Massimiliano Zanin. È un lavoro a cui tengo moltissimo perché realizzato in uno dei momenti più difficili della mia vita. L’ho rivisto di recente con una certa commozione. La mia memoria era stata completamente azzerata da un’emorragia cerebrale di cui sono stato vittima nel 2010, e nel film recitavo me stesso. Avevo imparato a memoria un copione sulla mia vita scritto da mia moglie Caterina. È stata lei a raccogliere ogni dettaglio utile dal mio archivio per permettermi di raccontarmi».
Quest’anno i Leoni d’oro alla carriera sono andati alla statunitense Sigourney Weaver e al grande regista australiano Peter Weir. Si poteva guardare più vicino, visto che lei ha vissuto sempre a Venezia e l’ha omaggiata in La chiave e Senso ’45?
«Sono felice che questi riconoscimenti siano andati a grandi figure come Sigourney Weaver e Peter Weir. In cinquant’anni qualcosina al cinema italiano credo di averla data anch’io. La mia cifra stilistica è segnata dal forte legame con Venezia e il Veneto. Basti pensare che nella Vacanza Vanessa Redgrave recita non in italiano, ma addirittura in veneto. Il film vinse il premio della critica alla Mostra del 1971. Eppure, dalla mia terra sono stato bandito. Per questo, me ne sono andato. Poi però il richiamo delle radici, degli odori, dei cibi, delle immagini della mia Laguna, si fa sentire».
Tra i film italiani in concorso c’è Diva futura che racconta la storia dell’agenzia che lanciò Ilona Staller, Moana Pozzi ed Eva Henger. Ha conosciuto Riccardo Schicchi o qualcuna delle sue pornodive?
«Ah, Schicchi… Sì, l’ho conosciuto. Era un visionario. Uno di quelli che sa vedere oltre le convenzioni, e in quanto tale non poteva che essere un personaggio controverso. Proprio per questo mi è sempre stato simpatico. Sapeva sfidare il perbenismo con ironia, e poi aveva un talento innato nel creare icone di sensualità. In un certo senso, eravamo affini. Anche se i nostri approcci erano diversi. C’era un desiderio comune di esplorare la sensualità senza moralismi. Schicchi ha dato spazio a donne che hanno saputo prendersi la loro libertà, diventando simboli di un’epoca. Ilona Staller è quella che ho preferito. Una donna capace d’incarnare il desiderio in maniera spontanea, con una sfrontatezza che spiazzava. Ma anche un candore perverso che la rendeva molto affascinante».
A proposito di scandalo, cosa pensa di Queer di Luca Guadagnino tratto dal romanzo di William S. Burroughs in cui un omosessuale quarantenne, interpretato da Daniel Craig, storico James Bond, s’innamora di uno studente?
«Non avendolo visto, non posso pronunciarmi. La storia può essere forte. La riuscita di un film non dipende da cosa racconta, quanto da come la si racconta. È il modo in cui il regista riesce a tradurre la storia in immagini, emozioni e ritmo a fare la differenza».
Qualcuno ipotizza che possa vincere il Leone d’oro.
«Vedremo. Sono felice che presidente di giuria sia una donna. Sono sicuro che, con la sua sensibilità, Isabelle Huppert saprà guidarla alla scelta giusta. Anche Gianni Canova, presidente per le Opere prime è stata un’ottima scelta. Un uomo libero e un critico intelligente. La sua conoscenza e passione per il cinema mi confortano nell’idea che, alla fine, vincerà il meno peggio (ride)».
Pedro Almodóvar ha presentato The Room Next Door, un film sull’eutanasia: c’è troppa morte a Venezia quest’anno?
«Sul tema dell’eutanasia non posso che essere d’accordo con Almodóvar: tutto il mondo dovrebbe avere una legge che la consenta. La libertà di un uomo si evince anche dalle sue scelte di fronte alla morte e alla malattia. In situazioni irreversibili, si ha diritto di scegliere di morire. Il mio ultimo film, Vertigini, affronta proprio il tema della dolce morte. Una sorta di testamento spirituale che purtroppo non sono ancora riuscito a realizzare. Lo proposi ad Alain Delon, ma mi rispose che era un tema troppo forte per lui».
Dopo il Metoo e con la cultura woke il cinema è cambiato in meglio o in peggio?
«In meglio? Ma non diciamo sciocchezze! Ogni idea, ogni scena, ogni parola deve superare il filtro della moralità imposta da questa nuova forma di inquisizione. Un’inquisizione che ha preso il posto della censura vecchio stile, ma con un volto più ipocrita. Tutto deve essere pulito, conforme, corretto. Ma la vita non è così, e il cinema che riflette questa realtà asettica è un insulto ai nostri istinti. Noioso e prevedibile: una lezione di buone maniere mascherata ad arte. Se questo è il cambiamento, allora preferisco mille volte il cinema di un tempo, che non aveva paura di scioccare, di provocare, di mettere il dito nella piaga».
Cosa pensa del fatto che i film candidati all’Oscar devono rispettare le quote? Ci dev’essere un omosessuale, un nero, un disabile eccetera…
«Le regole e le quote sono per i burocrati, non per i cineasti. Il cinema è libertà, espressione di una visione intima e profonda. Non puoi dire a un artista quali storie raccontare o chi deve apparire nei suoi film. Forzare certi criteri vuol dire imbavagliare l’immaginazione. L’inclusione dev’essere una scelta naturale. Se inizi a mettere dei paletti, il cinema perde la sua anima anarchica, la sua capacità di scandalizzare e sovvertire le regole. E il cinema senza scandalo, senza provocazione, senza libertà, è morto».
Oggi sarebbe più facile dirigere Caligola?
«Oggi sarebbe impossibile realizzare un film del genere. Caligola, film del 1979, è indissolubilmente legato alla figura di Malcom McDowell e a un cast straordinario: Teresa Ann Savoy, John Gielgud, Peter O’ Toole, Adriana Asti, Helen Mirren, Leopoldo Trieste… L’intenzione era quella di lasciare sullo schermo il segno di un apologo destabilizzante del potere e della violenza. Un tema affascinante che però non ritenevo e non ritengo alla portata di attori e attrici italiani, abituati alla fascia televisiva protetta. La scelta di un attore non dipende dalla nazionalità, ma dalla sua capacità d’interpretare il ruolo. Ho diretto grandi interpreti come Gigi Proietti, Giancarlo Giannini, Franco Branciaroli, Alberto Sordi, Silvana Mangano, Monica Vitti, Stefania Sandrelli, ma anche figure del tutto sconosciute. Per questo considero sterili le polemiche sollevate da Pierfrancesco Favino. Non si tratta di escludere gli attori italiani, ma di trovare l’interprete giusto, indipendentemente dal Paese di provenienza».
Come finirà la causa per violazione del diritto d’autore?
«Finisce in tribunale. Nonostante lunghe trattative, un accordo recentemente raggiunto non è stato rispettato, portando all’impossibilità di ulteriori negoziati».
Con sua moglie Caterina Varzi, attrice, psicanalista e penalista si è ben tutelato?
«Caterina è una donna forte e determinata, si prende cura del mio archivio e della mia opera con grande dedizione. Riempie la mia vita di calore e gratificazione e non posso che esserle grato per tutto ciò che fa».
Il suo cinema è molto controverso.
«Sono amareggiato perché la questione dei diritti d’autore si ripresenta in altre situazioni legate ai miei film, con furbetti di ogni sorta. A detta degli esperti in materia, sono il regista più indebitamente sfruttato al mondo».
Sembra anche a lei, come scrivono alcuni giornali, che la destra si sta impossessando del cinema?
«Mi sembra che ci sia da parte di Giorgia Meloni una precisa dichiarazione di intenti: liberare la cultura italiana, quindi anche il cinema, dall’egemonia della sinistra. Pietrangelo Buttafuoco, uno degli intellettuali più riconosciuti della destra, è stato nominato Presidente della Biennale, l’istituzione che sovrintende a una serie di eventi che riguardano anche la Mostra del cinema. Tutto normale in una logica di alternanza politica».
Che cosa pensa del caso che ha coinvolto il ministro Gennaro Sangiuliano?
«Da Cleopatra a Sangiuliano, la storia si ripete: il potere rimane il più intrigante degli afrodisiaci. Non spetta a me stigmatizzare il tradimento, che è uno dei leitmotiv dei miei film erotici. La questione è più complessa sul piano politico. La storia ha la mannaia pesante e, in questo caso, impone coerenza. Se si è dimesso Vittorio Sgarbi, è giusto che anche Sangiuliano lo faccia».
L’ultimo film italiano che le è piaciuto e quello che ha disprezzato.
«Zamora è quello che recentemente ho apprezzato. Del più brutto non ricordo il titolo».
Se avesse una bacchetta magica che cosa farebbe per risollevare il cinema italiano?
«Trasformerei il cinema in un’esperienza sensoriale che sfida le convenzioni e abbraccia l’innovazione, incoraggiando nuovi talenti a esprimersi in un’esplosione di immagini e passioni. Nella mia convinzione di sempre: solo la forma, il significante, può dare un significato al nonsense della realtà. Come le ninfee di Monet, i girasoli di Van Gogh, frammenti di universo cui aggrapparsi come zattere di salvataggio nella deriva di un mondo in guerra. Che, se non posso cambiare, voglio rendere più abitabile. Grazie alla bellezza della forma e delle forme. E allo splendore del vero».

 

La Verità, 7 settembre 2024