La Mostra e l’inscalfibile egemonia della sinistra
E poi dicono che «la destra vuole prendersi il cinema» (Stefano Cappellini, Repubblica, 29 agosto). O, al contrario, parlando della solita egemonia culturale, che «non c’è nessun cambio di passo, nessuna svolta, nessun cambiamento reale». In una parola, «nessuna discontinuità» (Marcello Veneziani, La Verità, 6 settembre). A suo modo, la faccenda è semplice: in materia di cinema e di cultura, può succedere che, anche nelle riflessioni di commentatori abitualmente illuminati, la realtà sfochi a vantaggio delle opposte visioni e opinioni. Quella realtà che riappare, invece, in tutta la sua solidità e la sua testardaggine al momento dei verdetti delle giurie, nei palinsesti dei festival, nei comizi gratuiti e frequenti dei veneratissimi maestri.
Sabato sera l’81ª Mostra d’arte internazionale del cinema di Venezia ha licenziato un palmarès inequivocabile. Il Leone d’oro per il miglior film è andato a The Room Next Door (La stanza accanto) di Pedro Almodóvar, opera apprezzata da gran parte della critica, che afferma la necessità di una legge sull’eutanasia: «Porre fine alla propria vita è un diritto dell’essere umano. Chi deve fare le leggi deve tenerne conto», ha dettato il regista spagnolo ricevendo il premio. «Bisognerebbe però rispettare e non intervenire in queste decisioni», ha intimato a chi non condivide il suo dogma. Il Leone d’argento – Gran premio speciale della giuria è stato assegnato all’italiano Vermiglio di Maura Delpero, una pregevole storia ambientata alla fine della Seconda guerra mondiale in una famiglia montanara con un padre maschilista. Il Premio speciale della giuria, presieduta da Isabelle Huppert, l’ha conquistato l’estenuante e desolante April della regista georgiana Dea Kulumbegashvili che l’ha presentato come «un film femminista, sugli aborti clandestini». Premiato per Ecce Bombo, miglior restauro della sezione Classici, Nanni Moretti ha invece colto l’occasione, davanti al neoministro della Cultura Alessandro Giuli, per chiamare alla militanza registi e produttori che dovrebbero essere più «reattivi nei confronti della nuova pessima legge sul cinema». Cioè: la riforma sul tax credit che ha rivisto i criteri di assegnazione dei fondi pubblici, la migliore fatta dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano, andrebbe cancellata per consentire al cinema schierato dalla solita parte di continuare a produrre, come con Dario Franceschini, opere che non arrivano in sala o spariscono dopo un weekend. Tutto questo, solo per stare alla serata finale conclusa dalla proiezione di L’orto americano di Pupi Avati, film di chiusura della manifestazione e, dunque, allarmante sintomo dell’incipiente controllo della destra sul cinema italiano.
Scorrendo invece a ritroso il cartellone della Mostra si scopre che era farcito di denunce di militanze di destra: sempre estrema, prevaricatrice, totalitaria. A cominciare dalle trame più intime ed esistenziali, come in Jouer avec le feu, il bel film francese di Delphine e Muriel Coulin (Coppa Volpi a Vincent Lindon) che racconta l’impotenza di un padre nel fermare la deriva nazista di uno dei due figli; o come in Familia di Francesco Costabile, ispirato alla vicenda reale di Luigi Celeste, anch’egli militante di estrema destra, che uccise il padre per proteggere la madre vittima di continue violenze. Per proseguire con storie politiche in senso stretto, come in film e documentari che stigmatizzano autocrati, leader sovranisti e dittatori: su tutti, 2073 dell’inglese Asif Kapadia, che compone una galleria di responsabili dell’apocalisse globale con Silvio Berlusconi, Vladimir Putin, Jair Bolsonaro, Viktor Orbán, Narendra Modi, Javier Milei e Giorgia Meloni. E per finire con il vero evento di questa edizione, ciliegina sulla Mostra: l’anteprima mondiale di M – Il figlio del secolo che si apre con un Mussolini che si rivolge ai posteri: «Mi avete amato, mi avete odiato, mi avete ridicolizzato. Avete scempiati i miei resti perché di quel folle amore avevate paura, anche da morto. Ma ditemi, cosa è servito? Guardatevi attorno: siamo ancora tra voi». Dello stesso tenore il comizio in sala stampa di Antonio Scurati alla presentazione della sua creatura: «Lo spettro del fascismo si aggira per l’Europa, ma non siamo noi a evocarlo, non è il mio romanzo, non è questa serie. Sono altre forze che hanno questa responsabilità».
Ecco. Questo è lo stato delle cose. Questo è l’assetto del «potere culturale preesistente e persistente» (Veneziani) per cui non si trova in giro, non solo in Italia, un regista o un autore cinematografico che si definisca «di destra». Nei giorni scorsi mi è parso sintomatico non esser riuscito a individuarne uno che potesse sostenere un’intervista distaccata e autorevole su «destra e cinema». Sarà perché non esistono due mondi più distanti tra loro di questi? Consiglio a tutti, da una parte e dall’altra, di mettersi il cuore in pace. La traversata da compiere si profila bella lunga. Ci vuol altro che la nomina di qualche direttore e di qualche manager per scalfire e ancor più per ribaltare la pluridecennale egemonia della sinistra.
La Verità, 9 settembre 2024