«I nuovi diritti rimuovono il dato della natura»
Perle nella conchiglia di un linguaggio piano, ma denso e profondo. Sono le risposte del cardinal Camillo Ruini, 89 anni, 17 dei quali trascorsi come presidente della Conferenza episcopale italiana. Insieme con Gaetano Quagliarello ha pubblicato da Rubbettino Un’altra libertà – Contro i nuovi profeti del paradiso in terra. Un dialogo sulla società contemporanea e il ruolo della Chiesa, curato da Claudia Passa. Un dialogo che il cardinale ha preferito non allargare ad altri argomenti nevralgici, come l’incontro con Matteo Salvini e il dibattito sul celibato dei sacerdoti.
La riflessione che conduce con Gaetano Quagliariello prende le mosse dall’Evangelium vitae nella quale Giovanni Paolo II attribuiva le minacce alla vita all’estensione del concetto di libertà individuale. A un certo punto osserva che, confermata l’attualità di quell’enciclica, «oggi la situazione si è appesantita». In che cosa vede questo appesantimento?
«Lo vedo in particolare, per quanto riguarda l’Italia, sul versante della fine della vita, dove purtroppo si è fatto spazio al suicidio assistito e all’eutanasia, pur cercando di evitare queste parole».
Con la crisi delle ideologie e del marxismo in particolare, anziché «perseguire la costruzione della società perfetta si cerca l’esistenza perfetta». Ne è una conferma la trasformazione dei partiti comunisti in partiti radicali di massa. È da qui che nascono i «nuovi diritti» e la rivoluzione antropologica in atto?
«I cosiddetti nuovi diritti e la rivoluzione antropologica nascono da una parte dall’assolutizzazione della libertà individuale, per la quale i desideri diventano diritti, dall’altra parte dallo sviluppo scientifico e tecnologico che ha reso possibile una trasformazione dell’uomo ottenuta non per via economica e politica, come pensava Marx, bensì intervenendo direttamente sulla nostra realtà biologica. Il fallimento dell’utopia marxista, sancito dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine dell’Unione sovietica, ha spinto molti marxisti a trasferire dalla società all’individuo la loro ricerca del paradiso in terra, come aveva previsto Augusto Del Noce».
È un’errata concezione della libertà individuale che autorizza l’uomo a disporre della vita e della morte attraverso l’interruzione della gravidanza e le pratiche eutanasiche?
«Direi di sì. Si tratta sempre di una falsa assolutizzazione della nostra libertà, come se ci fossimo dati la vita da soli e avessimo imparato da soli a comportarci da persone libere».
In materia di eutanasia, dal caso di Eluana Englaro a quello di Alfie Evans fino a quello di Dj Fabo, abbiamo assistito alla supplenza o invadenza di organismi giuridici in assenza di normative. Pensa si debba ammettere una presenza troppo flebile della comunità cristiana e delle massime gerarchie su questi temi?
«Penso sia giusto distinguere: avremmo potuto e dovuto fare di più, ma non si deve dimenticare che in molti casi, compresi quelli da lei citati, la Chiesa ha parlato chiaro e forte, anche se molti mezzi di informazione hanno preferito ignorare la sua voce».
Un esempio di libertà sganciata dalla responsabilità è dato dal fatto che, mentre si considera intoccabile il diritto all’aborto, si vogliono aver figli ricorrendo alle biotecnologie e all’utero in affitto?
«Il vero problema è che non si considera il figlio come una persona, ma come qualcosa di cui i genitori possono disporre, sopprimendolo se non è gradito, o invece procurandoselo in qualsiasi modo, anche con il ricorso all’utero in affitto».
Già nel 2005 Papa Benedetto XVI mise in guardia dalla «dittatura del relativismo». Oggi questo comportamento si è rafforzato sulla spinta del pensiero politicamente corretto, nuova «religione secolare»?
«Il relativismo fa certamente parte del “politicamente corretto”. La “dittatura del relativismo” pretende che il relativismo sia l’unico atteggiamento giusto e valido, cadendo così in una curiosa contraddizione perché proprio il relativismo sarebbe giusto in sé e non relativo ai nostri punti di vista».
C’è il pericolo che attraverso il politicamente corretto si affermino le dittature delle minoranze?
«Non si tratta soltanto di un pericolo, ma di una cosa che si è verificata varie volte, in particolare riguardo alla concezione del matrimonio e della famiglia».
I nuovi diritti hanno in comune la relativizzazione o l’annullamento del dato di natura?
«Purtroppo sì. L’idea di fondo è che una natura umana propriamente non esista e che noi siamo integralmente plasmati dall’ambiente in cui viviamo, dalla nostra cultura, dalle nostre scelte».
Come interpretare la tendenza a equiparare i rapporti omosessuali a quelli eterosessuali aperti alla procreazione e la diffusione crescente della teoria del gender?
«È un aspetto della dittatura del relativismo. L’omosessualità è sempre esistita e nel corso della storia il matrimonio si è configurato nelle forme più diverse, pensiamo alla poligamia e anche alla poliandria. Mai nessuno però aveva pensato a un matrimonio tra persone dello stesso sesso. Che oggi lo si rivendichi come una conquista di civiltà è il segno della profondità della crisi che ci attanaglia».
Il diritto a emigrare sembra contare più adesioni del diritto a crescere dove si è nati. L’emergenza migratoria dev’essere affrontata con l’accoglienza senza limiti o attraverso la pianificazione della politica?
«Non si tratta solo di un’emergenza, ma di un fenomeno di lungo periodo. Per governarlo bisogna coniugare le esigenze della solidarietà e dell’accoglienza – non dimenticando mai che per un cristiano ogni uomo è un fratello – con quelle del rispetto della legalità e della sicurezza dei cittadini, reprimendo le organizzazioni criminali che prosperano sull’emigrazione clandestina, sullo spaccio della droga e sullo sfruttamento della prostituzione. Sviluppare una cultura dell’accoglienza non significa affatto rinunciare ai nostri valori, senza dei quali non c’è futuro per noi».
Il multiculturalismo è un valore in sé stesso?
«La molteplicità delle culture è un dato di fatto, da accogliere positivamente, ma non è un valore in sé, tanto meno il valore primo e il criterio decisivo a cui fare riferimento. In particolare per i credenti in Gesù Cristo il valore primo non può essere altro che Cristo stesso: proprio da lui impariamo ad amare il nostro prossimo, compresi coloro che la pensano diversamente da noi».
Un’altra emergenza è la salvaguardia del pianeta che nelle sue forme più intransigenti arriva a equiparare l’uomo alle altre specie animali, quando a non a considerarlo nocivo per la terra. Fatto salvo il rispetto del pianeta, come ritrovare equilibrio nel rapporto con l’ambiente?
«Rispettare e salvaguardare il nostro pianeta è oggi un’esigenza prioritaria, una questione di vita o di morte per l’intera umanità. Tutto questo però non ha nulla a che fare con l’equiparazione dell’uomo agli altri animali. Per la fede cristiana l’uomo è l’unica creatura visibile fatta a immagine di Dio. Ma anche su un piano semplicemente razionale la singolarità dell’uomo emerge chiaramente: è sufficiente pensare a quel fatto imponente che è lo sviluppo della cultura. Sia la fede sia la ragione ci dicono inoltre che dobbiamo impiegare questa nostra superiorità non per distruggere il resto della natura, ma per custodirlo».
L’ambizione di realizzare l’esistenza perfetta, che escluda imprevisti, dolore, handicap, si basa sulla presunzione di onnipotenza della scienza?
«La scienza autentica – in concreto i veri uomini di scienza – conosce meglio di noi i limiti della scienza stessa. Un’esistenza perfetta rimane comunque un’illusione pericolosa, che si ritorce contro di noi».
A suo avviso come può essere letta l’esplosione del coronavirus e il senso di insicurezza che comporta? Che riflessione ci impone sulla scienza, sulla caducità dell’uomo, sull’accettazione del limite?
«L’esplosione del coronavirus è un enorme imprevisto che condiziona la nostra vita e ci ha obbligati a modificare repentinamente i nostri modi di vivere, di lavorare, di rapportarci a vicenda. Certo, è una conferma di quel che ho appena detto sui nostri limiti. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: proprio questa pandemia sollecita l’impegno di tutti, ci fa meglio comprendere l’importanza della solidarietà, mette in luce un coraggio, una dedizione, una capacità di sacrificio che ci ha sorpreso positivamente. Così il coronavirus è un grande appello a essere migliori: detto con le parole del Vangelo, un appello a convertirci».
E che riflessione suggerisce sulla globalizzazione?
«L’intensificazione dei rapporti e degli scambi a livello mondiale contribuisce certamente alla rapida diffusione di questa epidemia. Non dimentichiamo però che cent’anni fa il contagio della “spagnola” non fu meno violento».
Dall’esplosione dell’epidemia conviviamo con la paura. Solo una presenza portatrice di speranza può aiutare a vincerla, come accadde agli apostoli sulla barca con Gesù mentre il mare era in tempesta. In un momento così crede che la Chiesa dovrebbe far sentire di più la sua voce ai credenti e a tutti i cittadini?
«Di fronte al coronavirus, e in genere di fronte ai mali che ci minacciano, come credenti chiediamo nella preghiera l’aiuto di Dio. Questa semplice richiesta ci fa riscoprire un aspetto fondamentale della nostra fede, che Dio cioè non è soltanto un Signore lontano e un po’ astratto, ma è il Padre che si cura di noi e che tiene nelle sue mani le vicende del mondo».
In conclusione, se dovesse suggerire una parola o un esempio ai cristiani del Terzo millennio, che cosa direbbe?
«Preferisco limitarmi all’esempio, che è quello datoci da Giovanni Paolo II. Gli sono stato vicino per vent’anni, ho visto come egli viveva alla presenza di Dio e perciò non aveva paura ed esortava tutti a non avere paura e a fidarsi di Dio. Viviamo in anni difficili, per la Chiesa e per l’Italia, e spesso ci siamo allontanati da Dio, ma Dio non si è allontanato da noi: la nostra vita e la nostra speranza possono e devono fondarsi su di Lui».
La Verità, 15 marzo 2020