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I chierici dell’atlantismo danno il pass al dissenso

Il fastidio, il disappunto, l’insofferenza, l’irritazione, la contrarietà: scegliete voi il sostantivo che più vi aggrada, la sostanza non cambia. La postura psicologica, l’atteggiamento mentale e il senso di superiorità con cui i sacerdoti della cultura, intellettuali autorevolissimi, titolari di cattedre accademiche e giornalistiche, analizzano il dibattito in corso sulla guerra in Ucraina è sempre la medesima. Man mano che le posizioni pacifiste conquistano consensi il disappunto dei benpensanti si fa gradualmente più intollerante. Gli esempi virtuosi sono Enrico Mentana, che si onora «di non invitare chi sostiene o giustifica l’invasione russa in Ucraina», e Bruno Vespa, che «ha sempre tenuto la barra dritta», lo elogia Aldo Grasso sul Corriere della Sera. Tutti gli altri conduttori di talk, rimandati al tribunale dell’ortodossia teleatlantica. «C’è chi insegue il prof. Orsini e chi intervista il presidente Zelensky e queste sono differenze sostanziali», rincara il critico televisivo del principale quotidiano nazionale. Dietro la difesa del contraddittorio c’è «un senso di abbandono e di incombente catastrofe», si allarma. Perciò è più che mai urgente «porre un confine tra la libertà di opinione e il circo con le ballerine russe». Cioè, chi dissente non è quasi mai attendibile, è impresentabile, inadatto (unfit) al vero dibattito democratico.

In alcuni casi, come nella campagna che Il Foglio persegue da giorni, l’insofferenza verso gli «altrimenti pensanti», come si chiamavano i dissidenti nell’era dell’Unione sovietica, si carica di moral suasion nei confronti del troppo liberale Urbano Cairo. Suvvia, è così bravo come editore del Corriere della Sera, «che a sfogliarlo ogni mattina si sente di nuovo il profumo della classe dirigente», cosa aspetta a mettere in riga i feudatari di La7 «descamisada»? La strategia della persuasione non disdegna i toni del bullismo verso gli irregolari. Nelle redazioni dei giornali seri, almanacca Giuliano Ferrara, «non esplodono i narcisismi comici di professori della serie B promossi nella serie A della Grande Storia per il loro quarto d’ora di fama». Però, «l’editore dovrebbe riflettere», consiglia il fondatore del Foglio, perché «siccome da nessuna parte spuntano le bischerate putiniane e i negazionismi tipici dei talk show di fattura nazionale italiana», qui è in gioco «la tenuta mentale e morale di un mezzo di comunicazione di larga udienza e influenza». In buona sostanza, se non si fa pulizia di questi impresentabili «anarcosituazionisti», faremo presto a mollare La7 al suo destino di televisione inaffidabile.

È la demonizzazione del dissenso, prosecuzione dell’arte della guerra nel campo dell’informazione. «In termini psicoanalitici si tratta di una proiezione inconscia dell’aggressività degli spettatori», spiega Massimo Recalcati. «È in piccolo quello che accadde con la guerra. Esiste una torbida attrazione umana per lo scontro, la violenza, il conflitto, la lotta a morte, la contrapposizione bellica. L’aspetto preoccupante», prosegue il cattedratico sulla Stampa, «è che sempre più la nostra televisione si presta ad alimentare questa logica primitiva facendo molto spesso scivolare dietro le quinte i contenuti del dibattito». Detto in modo più diretto, la televisione è diventata un territorio per spiriti primordiali e istinti belluini. E tutto in nome dell’audience, qualcosa di riprovevole e deprecabile. Quasi quanto i sondaggi che evidenziano in modo corale la contrarietà degli italiani all’invio di armi in Ucraina. Si manifesti con gli ascolti tv o nei rilevamenti degli istituti di ricerca, l’orientamento dell’opinione pubblica resta un fatto superfluo.

Sospettati d’intelligenza con il nemico, da settimane i conduttori dei talk show sono costretti a giustificare il proprio lavoro e gli editori devono spiegare ad autorità politiche esterne come la commissione di Vigilanza sulla Rai e quella di controllo sui Servizi segreti (Copasir) perché nelle loro televisioni si invitano Tizio o Caio. È inquietante ciò che sta accadendo a #Cartabianca di Bianca Berlinguer dopo che l’idea d’invitare il professor Alessandro Orsini ha scatenato il fuoco di fila di numerosi esponenti di un partito che si chiama democratico. Siamo alla «morte dei talk», scrive in un lungo articolo su The Post International Carlo Freccero: «Oggi si processa il concetto stesso di dissidio e conflittualità».

«Penso che il talk show per l’approfondimento giornalistico per un’azienda che fa servizio pubblico non sia l’ideale», ha scandito l’amministratore della Rai Carlo Fuortes davanti alla Vigilanza. «È un format più adatto all’intrattenimento, ai temi leggeri, non a quelli importanti». Per i temi importanti, gli esperti devono essere approvati da codici deontologici e super-organismi. Difendere il criterio del conflitto delle interpretazioni, per esempio invitare ospiti filorussi e anti-Nato, per Recalcati equivale a «invitare a un dibattito sulla pedofilia un pedofilo praticante», o «sulla Shoah uno storico negazionista». Siamo davvero arrivati a questo? Davvero il pubblico televisivo non ha sufficiente maturità per valutare e pesare le diverse posizioni? L’allarme diffuso durante la pandemia contro la partecipazione ai talk show di no-vax ha impedito all’Italia di essere uno dei Paesi con la più alta percentuale di vaccinati al mondo?

La pax culturale e la tregua del buon senso richiedono l’allineamento dei disturbatori. Accantonata quando bisognava schierarsi con l’Ucraina o con la Russia, improvvisamente rispunta la complessità. I se e i ma riaffiorano per fare la radiografia al dissenso. I custodi dell’atlantismo vogliono distribuire il pass di quello accettabile. Allo scopo, potrebbero creare una nuova commissione da aggiungere a quella di Vigilanza. E chiamarla Sorveglianza ed esclusione. Ovviamente, in nome della democrazia.

 

La Verità, 17 maggio 2022

«Ora la vera provocazione è essere normale»

Piero Chiambretti, fa sempre lo stesso programma?

«Sì, non cambio niente per cambiare tutto».

L’opposto del Gattopardo: lei che animale è?

«Qualcuno mi vede come un panda, qualcun altro come un carlino. Siccome la mia carriera è nata con l’acquisto di un cocker, potrei essere un cocker. Purtroppo, non Joe Cocker».

Con un cast così eccentrico potrebbe essere anche un domatore di animali?

«Più che domatore sono domato dal cast. Animali di razza».

Oppure è un burattinaio che muove i suoi pupazzi pronunciando quel «là» come se tirasse un filo invisibile?

«È così. Cerco di usare due linguaggi, quello verbale e quello visivo, che ne formano un terzo, che è poi quello che arriva al pubblico. Nella speranza che ne capisca almeno uno».

Con rinnovato entusiasmo, da un paio di settimane Piero Chiambretti è tornato al centro di CR4La Repubblica delle donne su Rete4. Di rinnovato c’è anche il contratto con Mediaset, altri due anni: «Due alla volta posso arrivare a 100; i contratti si rinnovano, la vita finisce», chiosa, dolceamaro. Così, però, si è spento il suono delle sirene che saliva dai palazzi Rai, ma soprattutto dai lidi di La7 che l’ha corteggiato a fari spenti. Nella tv berlusconiana è contento, tanto più ora che, dopo tre anni di trasferta romana, è tornato a registrare a Milano con un budget più rotondo e carta bianca su tutto.

Lei è nella manica di Piersilvio Berlusconi?

«Tutti lo siamo se lavoriamo qui».

Il programma si chiama La Repubblica delle donne, vi occhieggia Greta Thunberg e la bellezza è rappresentata da una ballerina nera: insegue le mode?

«La ballerina nera era solo nella prima puntata. Nella seconda parleremo di amore, poi cambieremo ancora. Se qualcuno intravede un orientamento è sempre traslato, oltre i luoghi comuni. Parlando di donne, Greta non si può non citare per il suo impegno. La sua immagine prevalente è con l’ombrello, io la rappresento solare».

Iva Zanicchi che dà 4 a Eugenio Scalfari per aver travisato Bergoglio, le rivelazioni intime delle gemelle Kessler, Malgioglio in gabbia come un uccello, lei che chiede alle ministre se hanno paura della morte: ospiti o membri del cast sono capitoli di un racconto?

«Provo a fare tv d’autore dentro una tv commerciale, sempre stando attento al gusto pop. È il mio stile. Avere libertà è una bella garanzia, altrimenti non saprei difendermi in caso di errori. Sarebbe più frustrante sbagliare su input di un altro. Sfido a trovare in Italia una rappresentazione televisiva come la mia. Ci sono tante imitazioni, ma prevedono l’originale».

Le sue donne sono compatte dalla parte del Me too?

«Non credo. Nella scorsa stagione Alessandra Cantini si tolse le mutande a mia insaputa e sostenne che le donne non sono vittime, ma artefici di certe situazioni. Scoppiò un putiferio e ho avuto conferma che non bisogna mai finire in mezzo a donne che litigano. Io mi addestro con l’osservazione di mia figlia Margherita di 8 anni, una ragazzina informata, ironica e intelligente più dei maschi».

E lei cosa pensa del Me too?

«Sono tranquillo, nella mia vita non ho mai fatto un’avance che non fosse una battuta ironica. Né ho mai sfruttato il ruolo di capocomico per secondi fini».

Nella prima puntata c’erano Drusilla Foer, Cristiano Malgioglio e Alfonso Signorini: che cos’è per lei la normalità?

«Come dice Amanda Lear, oggi il vero provocatore è l’impiegato di banca, talmente ordinario da risultare provocatorio».

La diversità è sovrarappresentata?

«La tv è lo specchio della realtà, il nostro programma è uno specchio rotto».

Essendo rotto consente un bel margine.

«Ogni puntata fa storia a sé. Nelle prossime, per esempio, si alzerà la quota rosa e si abbasserà la quota cipria».

Nel borsino dei social abbiamo visto Jennifer Aniston, Diletta Leotta, Chiara Ferragni e, unico maschio, Matteo Salvini, come mai?

«Salvini non è una donna, ma dal punto di vista dei social tra lui e Diletta Leotta non c’è nessuna differenza perché entrambi postano, hanno followers e vogliono piacere. Il discorso si fa più interessante se si circoscrive alla politica e si confrontano Salvini, Zingaretti e Renzi. Qui le differenze sono più evidenti».

Gli altri programmi della rete lo hanno spesso ospite.

«Rete 4 è il quartier generale del salvinismo. In mensa e nei camerini girano gatti e gente che beve mojito. Io non l’ho mai incontrato, l’ho invitato l’anno scorso, ma poi gli impegni, più suoi che nostri, hanno complicato l’ospitata».

Teme La Repubblica delle donne?

«Non credo, anzi…».

Le piace la nuova versione di Mario Giordano?

«L’ho visto poco però sono contento per lui. Pochi mesi fa era nella lista nera, aveva perso la direzione di un tg e si sussurrava potesse andare in Rai. Trovarlo ora allungato e vincente mi fa piacere. Chi lavora in tv non può mai dare nulla per scontato perché non ci sono garanzie né sindacati che ti difendono. Da ragazzo temevo le interrogazioni, oggi ogni volta che vado in video mi sembra di fare un esame di laurea».

Il tentativo di rivitalizzare Adrian e lo show di Celentano è stato accanimento terapeutico televisivo?

«Ognuno fa il proprio gioco, i critici criticano e Celentano fa sé stesso, con la sua voglia dire delle cose. Al di là degli errori commessi, con una storia come la sua, tanti a 83 anni avrebbero cominciato ad amministrarsi per proteggere nome e reputazione. Dobbiamo ammirare il suo coraggio di mettersi in gioco, preferisco un disastro di successo che un timido tran tran che non crea mai sorpresa».

A Celentano ha detto che è l’antenato di Greta. Che, a sua volta, è seguace di chi?

«Forse del colonnello Bernacca e del meteo».

Viva RaiPlay! è il programma più innovativo dell’anno?

«Non lo so. Quando sento la parola innovazione mi viene la pelle d’oca».

Non le piace la tv multipiattaforma?

«L’innovazione vorrei vederla nello stile e nel linguaggio più che nel cambio di piattaforma. Poi certo, insistendo su certi tasti, diventano familiari a tutti».

Ha visto Carola Rackete da Fabio Fazio?

«Non seguo la tv».

Prego?

«Cito Gianfranco Funari: facciamo tv per non guardarla. Non è snobismo, non la guardo per non essere influenzato da quello che fanno gli altri. Così posso illudermi di avere avuto una grande idea, ignorando che magari è in onda su tutti i canali».

Come vede le sardine?

«Mi sembrano un movimento che può far bene alla democrazia. Un movimento di opinione com’erano all’inizio i 5 stelle che, con tutto il rispetto, sono andati fin troppo lontano».

Sono fiancheggiatrici dell’establishment?

«Non saprei, stiamo attenti alle etichette. Sono nate in rete, l’importante è che non finiscano irretite».

Sua mamma scrive ancora poesie?

«Altro che, a Natale uscirà il quinto libro. S’intitolerà Farfalle di verso, il ricavato andrà in beneficenza».

L’editore?

«Finora ero io, per questo non ha sfondato. Adesso ci siamo affidati a Franco Cesati, un editore di Firenze, molto raffinato e presente online».

Quanto frequenta i social?

«Mediamente Instagram, poco Facebook. Più che altro ci sto per mostrare i backstage, postare delle frasi. Preferisco l’osservazione esterna».

È sessista la campagna per il Salone Margherita di proprietà della Banca d’Italia che vuole venderlo e che si conclude con la promessa di avere in omaggio Valeria Marini?

«Ma no, è un gioco… Valeria ce la teniamo ben stretta perché è un valore aggiunto anche nella versione taroccata o ritoccata. È la testimonial del nostro appello al ministro Dario Franceschini perché salvi il teatro».

Piacerà ad Aldo Grasso?

«Non lo leggo da una quindicina d’anni».

È torinista come lei, Giordano, Massimo Gramellini e Mattia Feltri.

«Spero che rimanga tale. Pochi ma buoni, ci vogliamo tutti bene…».

Sarà nella giuria di Sanremo Giovani con Pippo Baudo, Paolo Bonolis e Carlo Conti.

«Non basta invitare i giovani per fare una tv giovane. Per questo hanno scelto noi».

Dopo i sessant’anni si diventa più rigidi o più fluidi?

«Per quanto mi riguarda, più rigidi, più critici e autocritici. In una parola, più severi».

Tranne che in tv?

«Già, ma è solo televisione».

 

Panorama, 4 dicembre 2019

 

Renzi, Veltroni e Dandini: ecco la flashback tv

Cronaca di una serata flashback nella tv italiana. Su Rete 4 a W L’Italia oggi e domani c’è Matteo Renzi con un titolo déjà vu: «Adesso parlo io». Qui siamo al tempo imperfetto e la share si ferma al 2.53%. Su La7 ospiti di Piazza pulita ci sono prima Walter Veltroni, segretario del Pd fino al 2009, poi Pier Luigi Bersani, suo successore anche nel partito (passato prossimo; 4.81%). Su Rai 3 invece ritorna La tv delle ragazze con Serena Dandini: passato remoto segnalato anche nel titolo: Gli stati generali 1988-2018 (5.98%).

È la tv degli ex, riportati in vita dalla macchina del tempo che troneggia nei nostri salotti. Sembra una serata revival, meglio: una sorta di Isola dei famosi della politica, con ex famosi in cerca di rilancio. Cosa dice, per esempio, l’ex Renzi? «Noi (maiestatis) siamo ontologicamente diversi da Lega e 5 stelle». E esemplifica parlando dei vaccini, cavallo di battaglia di stretta attualità. Nello stesso momento, da Corrado Formigli l’ex Veltroni sta dicendo che gli elettori del M5s non andrebbero insultati (Renzi aveva appena sentenziato che appartengono a un movimento di estrema destra). La vera novità della serata però è La tv delle ragazze. Per inciso: la sera prima su Rete 4 c’era La Repubblica delle donne di Piero Chiambretti e la domenica sera su Rai 3 invece va in onda Le ragazze condotto da Gloria Guida, e ora Dandini si chiede perché gli uomini siano così sgomenti. Dal canto suo esibisce in quota azzurra The Maschilisti, ennesimo travestimento di Elio e le storie tese. L’ospite politico è naturalmente Emma Bonino che esorta a perseguire ulteriori conquiste femminili «perché nessuno ci regalerà niente». Tra la parodia del telegiornale del cambiamento e la valletta gialloverde, Sabina Guzzanti inscena una Maria Elena Boschi che si esercita per Ballando con le stelle e tratteggia un Marco Travaglio in pieno delirio narcisista. Le citazioni del programma originale sono chiosate da un’intervista al suo creatore Bruno Voglino. Scorrono i volti più o meno storici della satira al femminile con la sola, incomprensibile, esclusione di Alessandra Casella. Chiude la serata Francesca Reggiani alias Federica Sciarelli alla ricerca della sinistra scomparsa che «non si trova dal 4 marzo. Qualcuno la dà per morta». La diagnosi c’entrerà qualcosa con tutta questa tv passatista? Sarà mica una forma di accanimento terapeutico?

Aldo Grasso ha scritto che fra vent’anni per capire la società del 2018 gli storici guarderanno talk e reality. Meglio avvertirli di tralasciare la serata dell’8 novembre per evitare vertigini da flashback.

La Verità, 10 novembre 2018

Bertolino antifuga cervelli Fazio e Crozza sbagliano

Fondazione Tim sull’innovazione È sbarcato ieri su La7 MeravigliosaMente, programma sull’innovazione di Enrico Bertolino e realizzato da Zerostudio’s per Fondazione Tim. A metà tra l’educational e la divulgazione scientifica, il comico visita in altrettante puntate cinque università dell’eccellenza italiana (Pisa, Genova, Padova, Milano, Torino). La prima notizia è che esistono nonostante le classifiche internazionali. La seconda è la comunicazione smart con cui Bertolino incontra ricercatori di robotica che progettano pancreas per diabetici gestibili con wi-fi, o ingegneri che studiano il trasporto con levitazione magnetica che ridurrà di 2/3 i viaggi sulle linee Tav. Il tutto in agenda «tra due anni».

Errori di programmazione/1 Il primo è Che fuori tempo che fa, il talk show di Fabio Fazio nella seconda serata del lunedì su Rai 1. Con l’eccezione della copertina di Maurizio Crozza, la tavolata con gli ospiti sembra una sorta di «avanzi» del Tavolo con Nino Frassica della domenica. In passato c’è chi ha proposto qualcosa di dignitoso con il marchio Avanzi, ma stavolta c’è da confrontarsi con lo schiacciasassi Grande Fratello Vip. E non basta il traino della Nazionale, tanto più se dopo la fine del match c’è mezz’ora di bar sport, per far superare la sensazione di già visto.

Errori di programmazione/2 L’altro svarione riguarda Fratelli di Crozza in onda su Nove al venerdì (3.5%) come nelle annate su La7, dove quest’anno c’è Propaganda Live di Zoro che gli rosicchia il pubblico militante. Più male gli fa su Tv8 la prima tv in chiaro di X Factor che lo supera regolarmente (4.5% circa). Se non si vogliono cambiare abitudini tocca rassegnarsi.

Correzione per Skroll Dopo un mese di preserale nell’illusione che facesse da traino a Mentana, Andrea Salerno ha deciso di spostare la striscia di Marco D’Ambrosio alias Makkox prima di un altro tg, quello della notte. Gli ascolti delle 19.30 erano scesi sotto l’1%, mentre la replica dopo mezzanotte resisteva attorno al 2% (e il doppio di telespettatori). I frequentatori dei social sono nottambuli.

I capolavori di Taodue L’altro giorno a proposito di Squadra mobile. Operazione Mafia Capitale di Canale 5 Aldo Grasso ha scritto che «vengono in mente tante cose». A cominciare dal «cinema dell’impegno civile (i film dei fratelli Taviani, di Germi, di Petri, di Pontecorvo, di Rosi, di Scola…) così centrale negli anni ’70 del Novecento. Le non poche serie della Taodue da Distretto di polizia a R.I.S., da Squadra antimafia a Le mani dentro la città, solo per citare alcuni titoli, affondano le loro radici culturali proprio in quella stagione in cui il nostro cinema provava a raccontare misteri e storture del nostro Paese».

La Verità, 15 ottobre 2017

La fabbrica delle serie americane è ancora nuova?

E se “la nuova fabbrica dei sogni” stesse cominciando a invecchiare? Non dico che sia già vecchia. No. Dico che forse è una fabbrica un po’ matura, che inizia a mostrare qualche segno di cedimento, qualche principio di ruga. La superficie del piccolo schermo – e dei pc, dei tablet, persino degli smartphone, dove i millenials più spesso le guardano – non è più così levigata. La nuova fabbrica dei sogni – Miti e riti delle serie tv americane è il saggio pubblicato da Aldo Grasso e Cecilia Penati (Il Saggiatore), frutto di ricerche e analisi approfondite del genere più in voga nella televisione mondiale, dalla metà del secolo scorso fino a oggi. La conclusione è che la serialità americana è divenuta un genere in piena regola, e che oggi “si fatica a trovare un romanzo moderno o un film che sia più interessante di un buon telefilm”. La tesi è sviluppata da Grasso nel primo capitolo, l’unico da lui firmato (il secondo, di excursus storico, è di Cecilia Penati, mentre gli altri tre – farciti di inglesismi che farebbero impazzire Camillo Langone – non sono firmati). “La serialità televisiva è forse la vera espressione del nostro tempo, al centro di infiniti raggi di vincolante degnità, la via di transito dei molti significati che ci circondano e che spesso ci appaiono illeggibili”. Le serie sono il genere più contemporaneo della tv del terzo millennio. Per linguaggio, innovazione, costruzione dell’immaginario. La loro consacrazione è un fatto conclamato e indiscutibile.

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Don Draper in Mad Men

È sull’americanità del fenomeno che forse si può rivedere l’assunto. Negli ultimi cinque anni si è passati progressivamente dal monopolio pressoché esclusivo di Hollywood alla sua centralità, fino ad un primato che, se pur resta solido, comincia afare i conti con la produzione europea. Ci sono state serie scandinave come The Bridge e The Killing delle quali gli americani hanno realizzato dei remake. C’è stata Gomorra, che è andata in onda in italiano, sottotitolata, nei network d’oltreoceano. Per contro, mentre la produzione a stelle e strisce aumenta, incentivata anche dall’avvento di Netflix, Amazon e Apple, la qualità delle storie, sempre più industrializzate, inizia ad attenuarsi. È soprattutto in termini d’innovazione che le serie americane sembrano perdere penetrazione. Dagli anni zero di Mad Men, LostThe Wire, I Soprano, West WingBreaking Bad, Six Feet Under, Glee, solo per citarne alcuni, negli anni dieci, pur in presenza di una crescita quantitativa, si è passati a House of Cards, True Detective (prima stagione), Mr Robot. Certamente, il primato americano persiste, soprattutto grazie a una produzione che mantiene un livello di sofisticazione medio più elevato. Ma la forbice tra America e Europa si riduce. “Il telefilm – prosegue Grasso – è un misto tra autorialità pura e design, fra idea e fabbrica, una miscela meravigliosa e impossibile di creatività e ripetizione, di ricalco e riscrittura”. La figura cardine di questo sistema è lo showrunner, colui che “fa correre” lo show, mediazione tra creativo-ideatore e produttore esecutivo, che in Europa è comparsa solo di recente. Il libro tratteggia storia e sensibilità di alcuni dei più interessanti tra loro, da J.J. Abrams (Alias, Lost) a Matthew Weiner (Mad Men, I Soprano), da Aaron Sorkin (West Wing, The Newsroom) fino a David Simon (The Wire), mettendone in luce ossessioni e predilezioni, stili narrativi e formule linguistiche. Poi, negli States esiste un canale come HBO, che ha fatto scuola svezzando e formando generazioni di autori e sceneggiatori. E già questo, da solo, basta a tenere ben solide le basi del primato…

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Elliot Anderson, protagonista di Mr. Robot

Il secondo spunto offerto dal volume è che anche i telefilm sono stati vittima della critica alla tv cattiva maestra, ritenuti causa dell’abbassamento della cultura di massa costruita sul minimo comun denominatore. Ci sono voluti decenni per riconoscer loro un adeguato livello di “artisticità”. In verità, non credo che anche per le serie sia valsa la famosa Curva del Dormiglione (Steven Johnson in Tutto quello che fa male ti fa bene, Mondadori). Ovvero che, secondo l’esperienza de Il Dormiglione di Woody Allen, dopo la sveglia fra 150 anni, ci accorgeremo che le merendine e le torte alla crema facevano bene. Nuocciono sempre al colesterolo e alla glicemia e nuoceranno anche fra due secoli. Merendine e salsicce sono reality e cronaca nera raccontata in modo morboso. Non i telefilm, mai stati trigliceridi in eccesso o grassi saturi della dieta. Semmai, da un territorio di esclusiva evasione, hanno conquistato lo status di opera letteraria, in grado di rappresentare la nostra civiltà e, ad un tempo, di psicanalizzarla.

Anche i telefilm si sono evoluti. Da Bonanza a True Detective, da Happy Days a Mr Robot. Rispetto a 40/50 anni fa, ora Hollywood esibisce ossessioni e perversioni, effetti collaterali del sogno americano. Ma a ben guardare, si tratta di sogni comuni anche di qua dell’oceano. Pure in Europa, attraverso le serie si realizza una grande seduta psicanalitica, un processo catartico, un tentativo di esorcizzare e sgravare la coscienza, metabolizzando attraverso la scrittura e lo storytelling, le nostre paure e le nostre deviazioni. “È tutta una questione di personaggi, personaggi, personaggi… Ogni cosa dev’essere al servizio delle persone. È questo l’ingrediente segreto dello show”, ha osservato Damon Lindelof, uno degli autori di Lost. In fondo, tutta la serialità racconta l’ambizione dell’uomo di essere artefice incontrastato delle proprie fortune, di affermarsi attraverso la conquista del potere, del successo, cercando di gratificare il proprio ego in tutti i modi. Spingendo il limite sempre più in là, come si vede anche in Mad Men, in HoC, in Vinyl, in Breaking Bad. Con il rischio che i nostri sogni si tramutino in incubi.

Aldo Grasso e il montaggio che non c’è

Ha totalmente ragione Aldo Grasso su Maggioranza assoluta, il nuovo programma di Italia Uno condotto da Pierluigi Pardo, partito giovedì scorso in seconda serata. Come chiamarlo? Un talk show sul modello delle primarie americane? Cinque concorrenti si sfidano su temi di attualità (unioni civili, sex revolution, illegittima difesa: tutta roba super complicata) in base alla “forza delle idee” e il pubblico decide chi eliminare attraverso il televoto e i social media. Per la prima puntata gli sfidanti erano Roberto Formigoni, Vladimir Luxuria, Filippo Facci, Francesca Barra e il comico Andrea Pucci, tutti frequentatori abituali a vario titolo di altri programmi, in particolare delle reti Mediaset. Tutti personaggi del rutilante mondo vip che trasmettono la vaga sensazione di avere un’occupazione principale che gli va stretta e di volere fare altro. Anche il conduttore, giornalista sportivo, telecronista di calcio e conduttore di Tiki Taka, con questo programma si lancia nel dorato mondo dei talk. Il fatto è che l’insieme, progetto format ospiti e conduttore, manca di credibilità.

Ha dunque ragione Aldo Grasso: di un programma così non si sentiva il bisogno. Dove purtroppo il re dei critici televisivi ha meno ragione è quando scrive che la regia di Roberto Cenci è “a stento salvata dal montaggio”. Montaggio? Ma con le eleminazioni determinate dal televoto e dai social non è un programma in diretta? Anche Omero ogni tanto sonnecchia…