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Pec, app, algoritmi… Basta, voglio scendere dal Web

Potremmo chiamarlo riflusso analogico. O fuga dal digitale. Sono le due facce della stessa medaglia, non si sa qual è il dritto e quale il rovescio, tanto i due sentimenti si alimentano a vicenda. Viene prima l’allergia montante verso tutto ciò che riguarda la tecnologia sempre più sofisticata e invadente? O, all’opposto, tutto parte dalla voglia di una vita più semplice, rassicurante e meno ansiogena? Come spesso accade, è la televisione a svelare i sintomi della nuova tendenza. Niente di clamoroso, forse è ancora solo una mutazione embrionale. Ma i segnali sono lì da interpretare.

La prima spia si è intravista con l’inizio della nuova stagione. Su Rai 1, in prima serata, nell’orario di massimo ascolto, è comparso un millennial con in mano una cornetta telefonica degli anni Sessanta. Roba da boomer. Non più lo smartphone usato da Amadeus, Stefano De Martino comunica con «il Dottore» di Affari tuoi (l’autore del programma è Pasquale Romano) con un telefono fisso a rotella. Un salto dal digitale all’analogico. Un «mix match» tra generazioni. Perché un 35enne al timone di un programma ottimista e che qualche volta fa vincere migliaia di euro, con quella cornetta trasmette un messaggio rilassante e complice anche al pubblico stagionato della tv generalista.
Il secondo sintomo dell’evoluzione è il successo della serie sugli 883, il duo pop formato da Max Pezzali e Mauro Repetto che si affermò quando De Martino andava all’asilo. Oltre al pregio di essere un racconto privo di infarinature ideologiche e ambientato in una città come Pavia poco frequentata dai media, Hanno ucciso l’uomo ragno (diretta da Sydney Sibilia, prodotta da Groenlandia per Sky Atlantic) ci ha fatto riassaporare il gusto della vita senza cellulari – ne spunta uno alla fine, ma Pezzali se lo dimentica – senza internet, senza password, senza social, senza app, senza algoritmi, senza intelligenza artificiale. In una parola, senza ansie digitali. Che pacchia, la vita senza internet!, ha annotato qualche osservatore, lasciandosi prendere dalla nostalgia di una quotidianità più easy. All’epoca, se vogliamo mantenere il telefono come paradigma, c’erano le cabine telefoniche a gettoni. Eravamo all’inizio degli anni Novanta, ultimo decennio ancora prevalentemente analogico, quando la rivoluzione dei byte stava gattonando nelle start up della Silicon Valley.

Il terzo indizio che ci avvicina al concetto della prova, ma ci fa fare un altro balzo all’indietro nella nostra macchina del tempo, è l’accoglienza trovata dall’ispettore di polizia cui dà corpo Giuseppe Battiston nella serie di Rai 2 Stucky, tratta dai racconti di Fulvio Ervas e ambientata a Treviso, altra cittadina a misura d’uomo. Muovendosi a piedi tra portici, canali e osterie dove si sorseggia del buon prosecco, Stucky non usa cellulare e conduce indagini molto vintage, annotando i suoi appunti su un taccuino e disponendoli poi sul tavolo del locale dell’amico invece di creare file da archiviare nel Cloud. Se una collaboratrice gli illustra l’esito di una ricerca su Google con l’algoritmo la invita ad andare al sodo. La parola chiave di questa rivincita del boomer è tradizione. Tradizionale è il cibo, tradizionale il metodo di archiviazione delle prove, tradizionale il ricorso alla psicologia per orientare le indagini.
Se i tre indizi hanno sfumature diverse, di comune tra loro c’è la ricerca di una vita più dolce e confortevole. Rispetto alla tecnologia digitale sempre più sofisticata, ma anche più fredda ed estranea, si cercano strumenti caldi ed empatici. A volte, anche accettando una resa inferiore o più esposta all’usura. I segnali sono diversi. Il ritorno del vinile, per esempio. Nel 2023, per il secondo anno consecutivo, negli Stati Uniti i 33 giri hanno superato i compact disc: 43 milioni contro 37 (certificati dalla Recording industry association of America, l’equivalente della nostra Federazione industria musicale italiana) e questo nonostante gli Lp costino mediamente di più dei Cd, al punto che gli incassi sono quasi il triplo (1,4 miliardi di dollari contro 537 milioni). Fatte le debite proporzioni, la situazione è la medesima anche in Italia. E la tendenza si sta espandendo. Chi predilige una fruizione agile della musica sceglie supporti digitali o attinge direttamente alle piattaforme streaming. Chi la vive come un momento di conforto personale tende a preferire il formato analogico, magari più ingombrante, ma più affettivo.
Non si tratta tanto di vagheggiare un nostalgico ritorno al passato. Il riflusso analogico è propiziato anche dagli effetti collaterali della digitalizzazione. Troppo invadente, troppo ansiogena. È sempre così: l’avvento di una rivoluzione tecnologica all’inizio evidenzia i lati positivi. E noi ci entusiasmiamo per i vantaggi che il nuovo Eldorado ci regala. E che, per carità, nessuno vuole ridimensionare. Anzi. Tuttavia, un po’ alla volta, stanno emergendo anche le conseguenze della rivoluzione. Ai tre indizi che alimentano la nostalgia analogica fanno da contraltare altrettante controprove. Per esempio: il ripetersi di violazioni di banche dati e di fenomeni di dossieraggio da parte di soggetti e lobby opache, ha messo in crisi il mito della sicurezza del Web. Esistono spie, esistono hackers, esistono truffe online, esistono start up che agiscono nelle zone grigie di un mondo ancora poco regolamentato dalle leggi. Sono situazioni nelle quali è difficile orientarsi e difendersi. Così cresce la diffidenza perché anche l’Eldorado ha i suoi difetti e i suoi costi. Bisognerebbe cambiare spesso le password per evitare gli hackeraggi e le violazioni dei virus. Bisognerebbe fare gli aggiornamenti delle app. Bisognerebbe consultare spesso la Posta elettronica certificata. O, almeno, allertare le notifiche in tempo reale perché ormai il postino non suona più nemmeno una volta. E gli enti pubblici, sia locali che centrali, hanno preso l’abitudine di comunicare sanzioni e provvedimenti via Pec.

Se ai nativi digitali la giungla tecnologica non fa paura, a patirne gli effetti sono gli ultra-50enni e 60enni. Con l’espansione dell’intelligenza artificiale, la foresta digitale promette di diventare ancora più fitta. Quando si chiama il centralino di un’azienda privata con ambizioni d’inclusione e sostenibilità accade spesso che, dopo averti messo in attesa perché «tutti gli operatori sono momentaneamente occupati», risponda un’assistente virtuale dalla seducente voce femminile che ti interroga sul motivo della chiamata, per poi rinviarti alla telefonata «di un nostro operatore sul numero dal quale ci sta chiamando». Praticamente, un giro dell’isolato per tornare al punto di partenza. La circolazione stradale è un’altra prateria dell’innovazione a colpi di byte. L’amministrazione comunale di Verona ha fatto un nuovo scatto nel futuro installando in alcuni punti della città sensori dotati di intelligenza artificiale che, con la buona intenzione di migliorare lo scorrimento del traffico, potranno raccogliere dati per vedere se le auto sono in regola, se hanno commesso infrazioni e, intanto, magari elevare un po’ di multe. Perché no?

Il sistema di vita cinese è sempre più vicino. Sorvegliati, monitorati, scannerizzati. Tutto, ma proprio tutto, passa dal cellulare. Ma se gran parte degli adulti, tecnicamente naif ma dotati di spirito critico, riescono a tenere la giusta distanza da certe seducenti «diavolerie», totalmente indifesi sono i bambini e gli adolescenti. Nell’ultimo anno, in alcuni Paesi del Nordeuropa, a cominciare dalla Svezia, ci si è accorti che l’adozione dei tablet nella scuola materna ed elementare stava riducendo drasticamente la capacità di lettura degli alunni. Così, si è deciso di tornare ai libri, ai quaderni e alla penna per proteggere i loro processi cognitivi e di apprendimento. Meno sicuro è il tentativo di recupero della generazione Z, quella successiva ai millennial, che in un saggio già divenuto un testo sacro di psicologia sociale, Jonathan Haidt ha definito La generazione ansiosa (Rizzoli). L’avvento dell’ansia porta la data di nascita dell’iPhone, anno 2007, e dell’esplosione «dell’iperviralità dei social media» (2009). Un anno dopo, gli smartphone si dotano di fotocamere frontali e, nel 2012, Facebook acquisisce Instagram, completando l’escalation. «La generazione Z», prosegue Haidt, «è la prima della storia ad attraversare la pubertà con in tasca un portale che la distoglieva dalle persone vicine e la attirava verso un universo alternativo, esaltante, instabile, che creava dipendenza…». Questa attività, aggravata dai successivi lockdown pandemici, ha cancellato il gioco all’aria aperta, il contatto corporeo, il rapporto diretto con amici e famigliari, producendo quella che il grande psicologo americano chiama la «grande riconfigurazione dell’infanzia».
Chissà, forse è il caso di mettere un attimo in pausa la rivoluzione…

 

Panorama, 27 novembre 2024

«L’Ia peggio del Truman show. Modifica il cervello»

Fissata in agenda qualche settimana fa, l’intervista a Mauro Crippa, gran capo dell’informazione Mediaset e autore, con Giuseppe Girgenti (docente di Storia della filosofia antica all’università Vita-Salute San Raffaele di Milano), di Umano poco umano. Esercizi spirituali contro l’intelligenza artificiale (Piemme), è slittata più volte a causa di impegni e imprevisti. Nel frattempo, nel mondo della televisione, sono accaduti alcuni fatti su cui sarebbe interessante conoscere il suo pensiero. Ma, dato che i temi di questo fortunato saggio che oppone nove esercizi spirituali alle mirabilie dell’intelligenza generativa sono più stimolanti, l’addio di Amadeus alla Rai, la nascita del terzo polo tv americano e le avance di Mediaset a Bruno Vespa saranno «argomento di un’altra intervista», dice lui. Bene, dico io: la prendo come una promessa.
Filosofo e saggista, non sei solo un manager che taglia teste, strappa giornalisti ai concorrenti e dice che «voler bene è una debolezza»?
«Non condivido la premessa, ma la prendo come una provocazione. In realtà, sono molto attaccato al giornalismo e ai giornalisti. Oggi più che mai».
Siamo in pericolo?
«Il nostro futuro non è più solo materia da convegni. Oggi, se qualcosa di non umano può scrivere un articolo migliore, lo farà. Con l’intelligenza artificiale già succede. Non solo può scrivere meglio, ma anche a costi inferiori. Il gruppo editoriale tedesco Axel Springer sostituisce i giornalisti con sistemi di Ia. Negli Stati Uniti alcune emittenti radio sono completamente gestite da dj sintetici. Questi editori dicono: deleghiamo alcuni compiti all’Ia così i giornalisti si concentrano sulla parte nobile del mestiere. Sciocchezze. La raccolta dati è la parte più importante del giornalismo perché fornisce le basi della notizia. Se è un robot a raccogliere i dati, l’articolo è suo e non di chi lo mette in bella».
Questo saggio è la tua tesi di laurea integrata dal relatore?
«No, con umiltà mi sono avvicinato alla filosofia e devo molto a Giuseppe Girgenti, uno che nel classico ci vive letteralmente».
Il vostro timore non è che l’Ia conquisti tutti gli spazi dell’attività umana, ma che il nostro cervello si artificializzi.
«Con la tecnologia alcune abilità scompaiono altre sopraggiungono. Per esempio, non sappiamo più andare a cavallo. Ma, Nietzsche a parte, con un cavallo normalmente non si parla. L’Ia invece è una rivoluzione parlante. Ho capito quanto sia pericolosa la sera che mi sono ritrovato ad arrabbiarmi con Alexa».
È stata la scintilla che ti ha illuminato?
«In quel momento, Alexa non mi stava solo dando delle informazioni, ma seguiva un filo di conversazione coinvolgente che suscitava qualche emozione».
Perché la nostra artificializzazione è più grave dell’imbonimento prodotto dalla televisione?
«La televisione ha un potere di condizionamento limitato e comunque concorre a formare la pubblica opinione sulla base di un lavoro giornalistico. Con il digitale abbiamo invece un rapporto uno a uno, interattivo e immersivo. Siamo bombardati in maniera intensa, individuale e particolare. Nelle cosiddette eco chambers troviamo ciò che vorremmo trovare. L’infosfera lo sa e ci induce a seguire le nostre attitudini peggiori. Ora che si avvicinano le elezioni americane si tornerà a parlare di inquinamento della democrazia. Nell’infosfera scompare la differenza ontologica tra verità e menzogna, tra fake e non fake. Ma se io sbaglio in televisione qualcuno mi telefona e può farlo 24 ore al giorno, provate a cercare Mark Zuckerberg».
Ti iscriviamo di diritto tra gli apocalittici o si può dire che l’Ia ha fatto anche cose buone?
«Iscrivimi pure, sono in compagnia di alcuni dei fondatori dell’Ia. Certo che ha fatto anche cose buone, ma per ognuna bisogna cercare gli effetti collaterali. “There is no such thing as free lunch” (Non esiste un pranzo gratis ndr), recita un detto inglese. Salvare un solo essere umano con un’applicazione medica sarebbe già un grande traguardo. Ma accanto ai successi dell’Ia nella diagnostica e nella ricerca di nuovi farmaci, registriamo anche la tendenziale riduzione della figura del medico quasi alla stregua di un operatore informatico».
Poi c’è il controllo delle nostre azioni. Una sera parlavo di un brano di Madonna di cui non ricordavo il titolo, così ho digitato sul cellulare «Madonna» e, come prima canzone, Google ha immediatamente associato il suo nome a Frozen, il titolo che mi mancava.
«Dovremmo studiare a memoria Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff, un testo che ci fa capire quanto siamo sorvegliati e “apprezzati” dai padroni della rete anche riguardo ai nostri comportamenti futuri».
Le camere dell’eco dei social sono l’amara scoperta di una democrazia finta?
«L’agorà antica era una palestra di opinioni diverse e di combattimenti feroci sulle idee. I parlamenti democratici vengono da lì. Le community sono casse di risonanza totalitarie che alimentano un pregiudizio fino a farlo diventare articolo di fede».
Con algoritmi e social pilotati viviamo in un grande Truman show?
«Il Truman show è una distopia superata. Oggi le tecnologie entrano in noi, addirittura nel nostro cervello attraverso i chip creati dalla Neuralink di Elon Musk. Che si stiano perdendo i confini dell’umano lo denunciano con forza i cattolici. “L’uomo non diventi cibo per algoritmi!”, ha detto papa Francesco in occasione della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali».
Perché «intelligenza» e «artificiale» sono un ossimoro?
«Perché stridono come un’unghia sulla lavagna. L’intelligenza umana è una dotazione viva, con una componente emotiva. L’uomo ha un’esperienza originaria, mamma e papà lo hanno nutrito ed educato, forgiando il suo essere con esperienze inimmaginabili in una macchina».
La quale non ha coscienza, cioè non sa di sapere.
«La macchina ha potenza ma, direbbe Nietzsche, non ha volontà di potenza. Se anche i suoi creatori non sanno cosa aspettarsi da lei, figuriamoci se possiamo stare tranquilli».
La nuova frontiera è l’intelligenza generativa: c’è la pretesa di sostituire l’uomo e anche il Creatore?
«Generativa significa che può autoalimentarsi e autoespandersi. Non so dire se questo arrivi a usurpare il ruolo di Dio. Quanto all’uomo, se esiste una macchina più veloce, intelligente e onnisciente di noi, siamo destinati a delegarle simboli e forme di linguaggio, cioè la parte più alta e peculiare delle nostre abilità. Una volta che questo processo si compie rivelandosi efficace, è difficile tornare indietro».
Possiamo esemplificare?
«Se per selezionare del personale in una rosa di mille candidati un algoritmo la screma fino a 30, perché dovrei tornare ai colloqui di tutti gli iscritti? L’Ia è comoda ed economica, ma così le conferisco il potere di selezionare gli esseri umani. Nei sistemi militari avanzati la si usa per stanare il nemico, ma non mi pare che stiano diminuendo le vittime tra i civili».
Tra le cose buone ci sono i progressi in campo medico, perché bisogna fare attenzione?
«La circolazione dei dati in rete si scontra con i diritti alla riservatezza. Se con la medicina predittiva si sa che fra un paio d’anni avrò una malattia potenzialmente letale o invalidante, chi mi darà un lavoro o mi concederà un mutuo per la casa?».
È casuale che i regimi nazista e stalinista avessero medici tra i loro capi?

«Nella storia mondiale la gestione della salute ha spesso avuto elementi totalitari. I grandi sistemi sanitari sono stati inventati dal nazismo, dal fascismo e dai regimi comunisti. Non è un caso che la più feroce dittatura francese derivata dalla rivoluzione del 1789 agisse tramite il Comitato di salute pubblica».
È giusto essere vigili anche rispetto ai piani globali dell’Oms?
«Mi aspettavo questa domanda. Le preoccupazioni di intellettuali e filosofi come Massimo Cacciari possono essere criminalizzate, tuttavia è vero che nelle vaccinazioni di massa si avverte una concezione totalitaria della salute. Se, paradossalmente, ci fosse chi vuole ammalarsi, cosa facciamo, lo mandiamo al confino?».
Si torna alla sorveglianza e al controllo di azioni e intenzioni?
«La domanda è: quale società immaginiamo? Se dobbiamo essere tutti belli, sani e in perfetta forma è utile ricordare che l’intelligenza umana non porta a questo. Ma porta alla vita, che è anche disordine, malattia e, infine, morte».
Perché alla pornografia della rete che rende il sesso sempre più virtuale opponete la lezione di Ulisse?
«Le sirene sono come gli algoritmi che assecondano e amplificano le tendenze già presenti nel fruitore. È una seduzione fatta di assecondamento e amplificazione di ciò che l’utente vuole. È un meccanismo tossicomanico. Ci innamoreremo di intelligenze aliene, e siccome gli algoritmi sanno cosa vogliamo non ce ne libereremo più».
Pensando alla diffusione della ludopatia, proponete la proibizione anche di piattaforme di gaming, videogiochi e social?
«Sono di fresca pubblicazione i dati sull’esplosione della ludopatia tra i giovanissimi generata da attività online. Un media come la televisione è giustamente sottoposto a una griglia di controlli, regole e divieti. Perché non può essere regolamentato anche l’uso della rete, un mezzo infinitamente più aggressivo e selvaggio?».
Mentre insegnanti e padri perdono autorevolezza, l’Ia sale in cattedra con tutorial e nuove professioni?
«L’autorità si basa sulla gestione della conoscenza e sull’utilizzo di mezzi coercitivi per fare rispettare le regole. Oggi i ragazzi sono educati dagli influencer, i loro maestri virtuali. La percezione dei giovani è quella di un mondo orizzontale, senza regole e senza qualcuno in carne e ossa da seguire. Le grandi esperienze pedagogiche del Novecento, oggi in buona parte rimosse, gravitavano attorno a grandi maestri, sacerdoti e non, che stavano personalmente con i loro allievi».
L’ultimo esercizio spirituale è prepararsi alla morte?
«Sulla morte e il superamento dell’estremo stop l’Ia dispiega tutta la sua forza. È stato possibile creare una canzone dei Beatles da poche note gracchianti, farne un successo planetario e mostrare i Fab Four suonare ancora insieme, a mio avviso con un effetto grottesco».
Ora con i defunti si parla.
«E non con monosillabi, ma si conversa e si dialoga. Tecnicamente, si realizzano campionature vocali ricombinate dall’Ia con livelli di definizione via via crescente».
E questo non è un grande Truman show?
«È peggio, è il post-umano. Infatti, noi siamo umani in quanto moriamo. Se non moriamo più, non siamo più umani».

 

La Verità, 20 aprile 2024

Non siamo soggetti della vita, ma dello storytelling

Del resto, la serie s’intitola Black Mirror e il gioco di specchi tra realtà e realtà virtuale è talmente moltiplicato nelle sue rifrazioni che, alla fine, l’emicrania rischia di essere il fatto più reale di tutti. Rilasciata da Netflix il 15 giugno, la sesta stagione dello show più distopico del pianeta si compone di cinque episodi, ognuno a sé stante. Come già nelle precedenti, anche questa sequenza di storie rappresenta i peggiori incubi causati dall’invadenza della tecnologia e dall’inquietante potere della sorveglianza, spesso confermati e qualche volta persino superati dagli eventi, come abbiamo visto durante la pandemia. Stavolta l’acuto è in Joan è terribile, primo capitolo dell’antologia firmato da Charlie Brooker, che narra di una giovane dirigente d’azienda che divide la sua giornata tra il ménage con il compagno, le responsabilità professionali poco gratificanti e i colloqui con la psicanalista alla quale confida di essere alla ricerca di «una storia di vita» di cui sentirsi protagonista. Forse accettare l’invito dell’ex che si è improvvisamente rifatto vivo è il modo giusto per diventarlo…

Purtroppo, appena rientrata a casa, sintonizzata su Streamberry, cioè Netflix, la giovane dirigente rivede le azioni e i turbamenti di tutta la sua giornata nella serie Joan è terribile interpretata da Salma Hayek. È la famosa intelligenza artificiale che risparmia alla piattaforma il costo degli sceneggiatori trasformando la vita delle persone comuni in altrettanti prodotti televisivi. Non siamo più protagonisti della vita reale, ma soggetti per lo storytelling. Il voyeurismo e la propensione a spiare nel privato degli altri non più dal buco della serratura ma con l’occhio delle telecamere fa il resto. Tutti guardano Joan è terribile e ne disprezzano la protagonista, pedinata dovunque dall’algoritmo finché si scopre che le rifrazioni del reale sono infinite. E allora non resta che andare alla sorgente del flusso e agire con mezzi, in realtà, tutt’altro che virtuali…

Il bersaglio della satira di Brooker è la piattaforma dello streaming (appunto Streamberry) abituata a lavorare in base agli input degli algoritmi, messi sotto accusa anche nel secondo episodio (Loch Henry). Non inganni il tono leggero della denuncia, forse indispensabile affinché Netflix producesse. Curiosamente, è proprio il registro della commedia ad aver deluso parte della critica. Ma anche se l’apocalisse dell’arretramento dell’umano è rappresentato con le chiavi dell’ironia, lo specchio rimane ugualmente nero.

 

La Verità, 22 giugno 2023

Gerry, il milanismo non si compra con gli algoritmi

Caro Gerry Cardinale,

legga bene fino alla fine le parole che seguono. Sono un vecchio tifoso del Milan, la società di cui è divenuto proprietario il 31 agosto scorso e che, con le sue prime azioni, sta maltrattando brutalmente. Il primo gesto di cui si è reso protagonista è stato licenziarne la storia e il carisma nella persona di Paolo Maldini. Il secondo atto, quasi peggiore del primo, è stato vendere l’anima del Diavolo, cioè Sandro Tonali. Sono attonito. Subito, quando ha preso a circolare l’indiscrezione che Tonali era nel mirino del Newcastle, ho postato un tweet di totale incredulità. Non potevo ammettere che l’Ac Milan si macchiasse di un errore simile e che un giocatore tifoso fin da bambino, che si era ridotto l’ingaggio per favorire il suo passaggio definitivo al club dopo il primo anno in prestito, disputato al di sotto delle aspettative, potesse lasciare la squadra del cuore. Invece, era vero. Non mi sono ancora ripreso e chissà se e quando ci riuscirò.

Sono convinto che molti tifosi condividano questo mio stato d’animo. Di delusione profonda. Di disamore crescente.

Ci ho pensato a lungo, prima di scriverle, provando a contare fino a dieci, a cento. Ma, più il tempo passava, più le mie convinzioni si rafforzavano… Vede, caro Gerry Cardinale. Tonali era leader in campo, esempio del cosiddetto milanismo, un sentimento che o si prova o è difficile spiegarlo. Uno che affrontava a brutto muso Dumfries durante il derby con l’Inter perché voleva far rialzare rapidamente Theo Hernandez dopo un fallo, dicendogli: occupati della tua squadra, ai miei ci penso io. Era il capitano dei prossimi dieci anni, milanista fino al midollo. Era il perno, il giocatore su cui costruire i successi del futuro insieme ad alcuni altri già nella rosa costruita da Maldini (e Massara): Leao, Maignan, lo stesso Hernandez, Bennacer, Tomori, Thiaw.

L’Inter, per fare un esempio, ha dichiarato incedibile Barella. Forse, anzi, sicuramente, sono un ingenuo perché, dopo che ha licenziato in dieci minuti Maldini, sbaglio ad aspettarmi che apprezzi questo tipo di ragionamenti. Disapprovo queste sue azioni. Sono convinto che in Europa la storia conti più che in America. E il calcio non sia un mondo qualsiasi, un’industria come quella degli elettrodomestici o delle automobili. Ci sono altre variabili, altre componenti, umane oserei dire, che gli algoritmi stentano a interpretare.

Vede, caro Cardinale, ci sono tifosi come me che hanno iniziato a tifare Milan da bambini, quando indossava la maglia rossonera un certo Gianni Rivera che lei sa certamente chi è. Fu il primo italiano a vincere il Pallone d’oro nel 1963 (c’era già stato Omar Sivori, ma era oriundo argentino con cittadinanza italiana), l’anno in cui il Milan conquistò, prima squadra italiana, la Coppa dei campioni, antenata della Champions league. Capitano di quel Milan era un certo Cesare Maldini, padre di Paolo, appunto. Rivera era estetica e intelligenza, le stesse che si videro nel celeberrimo 4-3 di Italia-Germania, mondiali del Messico 1970, riconosciuta «la partita» del XXº secolo. Con Rivera in campo, nel 1978-79 il Milan vinse il decimo scudetto della stella. Suo compagno era Franco Baresi che, dieci anni dopo, sarebbe stato il capitano del Milan guidato da Arrigo Sacchi, intuizione visionaria di Silvio Berlusconi, il presidente  («Un presidente! C’è solo un presidente!», cantavano i tifosi al suo recente funerale) che avrebbe creato la squadra eletta dall’Uefa la migliore di sempre, inanellando vittorie e trofei a tutte le latitudini. In quel Milan giocavano Marco Van Basten, Ruud Gullit, Frank Rijkard e un certo Paolo Maldini, rossonero per tutta la vita e capitano dopo Baresi. Ancora estetica e intelligenza. Tramontati gli olandesi, arrivarono Zvonimir Boban e Dejan Savicevic, Andrij Shevchenko e Ricardo Kakà, solo per citare gli stranieri, allenati da Fabio Capello e Carlo Ancelotti, entrambi ex giocatori rossoneri e successivamente tra i migliori e più vincenti coach della storia del calcio. Arrivarono molti altri successi.

Oggi, la cessione di Tonali per 80 milioni al Newcastle viene raffrontata proprio a quelle di Shevchenko e Kakà, tra le più remunerative e dolorose della nostra storia, il primo al Chelsea (per 45 milioni), il secondo al Real Madrid (per 67). Sia l’uno che l’altro non sfondarono nelle nuove squadre (curiosamente allenate entrambe da Josè Mourinho) e, dopo un paio d’anni, tentarono un malinconico ritorno al Milan. Che non funzionò. Gli incantesimi si infrangono e non sono riproducibili a comando.

Va detto, la nostra storia non è sempre stata scintillante. Le appartengono anche le scivolate in serie B e gli anni di patimenti e mediocrità. Anni in cui non si è smesso di tifare, anzi. Anni in cui gli spalti di San Siro erano comunque pieni di folla. Anche questa è la storia cui lei ha mancato di rispetto licenziando in quel modo Maldini. Che, detto per inciso, da uomo può anche sbagliare e commettere errori. Mettendo tutto sulla bilancia, però, il saldo è ampiamente positivo, non fosse altro per la rapidità con cui, merito di tutto l’ambiente a partire da Stefano Pioli, il club è tornato competitivo e vincente pur con una rosa oggettivamente inferiore a quella dei principali concorrenti.

Oltre alla storia, non dichiarando incedibile Tonali, lei ha frustrato molti sogni. Certo, un altro bravo centrocampista si potrà trovare, glielo auguro (e non so più se dire «me» lo auguro), ma difficilmente saprà interpretare il milanismo che ho provato a delineare. Lei penserà che ci sono proposte impossibili da rifiutare e che con l’incasso di questa cessione si potrà rifare la squadra con nuovi giocatori. La modernità viaggia su altri criteri, penserà dall’alto della sua esperienza di manager e grande uomo d’affari. Può darsi che sia così. Da inguaribile romantico la penso al contrario. Non tutto può essere ridotto a questo calcio cinicamente mercenario. E, forse, la scelta per l’Inter di Marcus Thuram che corteggiavamo da tempo potrebbe accendere la spia e farla riflettere.

Qualche anno fa era in voga lo spot di un papà che andava al supermercato con la figlia piccola e sceglieva i prodotti con lei, pagando con una carta di credito. La spesa era un appuntamento abituale, un divertimento complice tra il papà e la bambina e il claim finale dello spot recitava: ci sono cose che non si possono comprare, per tutto il resto c’è Mastercard. Ecco, caro Cardinale, ci pensi e provi a farmi tornare l’amore per il Milan, se ci riesce. So che con RedBird ha avuto molte soddisfazioni economiche in altre discipline sportive. Ma per noi tifosi di calcio le uniche soddisfazioni che contano sono le vittorie e l’amore per i nostri colori. Ci pensi bene. Pensi bene se sente di essere all’altezza di questa storia. Altrimenti è meglio che lasci a chi è sicuro di esserlo.

Distinti saluti.

«Costruiamo il futuro, no alla società del controllo»

Caro Giordano Bruno Guerri, per cominciare le chiedo un piccolo sforzo di fantasia: oggi che consiglio darebbe Gabriele d’Annunzio a Giorgia Meloni?

«Se parlasse ai suoi tempi direbbe di rifare grande l’Italia. Ma non credo che oggi D’Annunzio spingerebbe il nazionalismo, semmai l’innovazione: perché è questo il modo per difendere la nazione».

Invece lei, uomo contemporaneo, come valuta i primi due mesi del nuovo governo?

«Due mesi sono pochi, eppure leggo già molti giudizi taglienti. All’inizio un governo, per di più nato nelle condizioni che sappiamo, si deve organizzare com’è capitato a tutti gli esecutivi. La mia prima sensazione è positiva, Giorgia Meloni mi sembra solida ed essenziale. D’altra parte ravviso la tendenza a un conservatorismo che non mi piace».

Dove lo vede?

«Per esempio, sulla scuola. Il merito è certamente un criterio da valorizzare, ma non vedo ancora gli strumenti per farlo. Oppure la legge sui rave party, intendiamoci, una legge necessaria, ma all’inizio stesa molto male. Gli esempi non mancano».

Se non ho capito male, è contento di non essere diventato ministro.

«Ha capito bene. L’avrei fatto per senso del dovere e gusto della sfida. Sarei entrato in un mondo che non ho mai frequentato se non marginalmente. Ma la mia vita ne sarebbe stata devastata, soprattutto perché avrei dovuto lasciare il Vittoriale».

Presidente e direttore generale della Fondazione Vittoriale degli Italiani dal 2008, Giordano Bruno Guerri, scrittore, storico eminente e già direttore editoriale di marchi prestigiosi, è impegnato a rendere sempre più attraente e moderna la casa museo più visitata al mondo. Nell’anno che si sta chiudendo il Vittoriale ha superato i 260.000 visitatori, 19.000 in meno del 2019, anno record, ma 100.000 in più del 2021. Perciò si può dire che «si è messo alle spalle la crisi del Covid e la guerra e ora prepara nuove iniziative in occasione delle manifestazioni per Bergamo e Brescia Capitale italiana della cultura per il 2023 come GardaLo!, il primo festival culturale della sponda lombarda del lago di Garda».å

Oltre alla cura del Vittoriale, qual è la vita che da ministro sarebbe stata compromessa?

«Adesso, per fare un esempio concreto, sono all’estero con la mia famiglia…».

Come trascorrerà il Natale?

«Visiterò il Marocco. Ritengo sia un bene che i miei figli conoscano il mondo arabo. E poi mi depurerò dall’assalto di luci, presepi e babbi natale».

È una presa di distanza dal cristianesimo o dal consumismo?

«È un allontanamento dai riti e dalle abitudini di questo periodo, dalla finzione di armonia e dai pranzi eccessivi».

Tornando al governo, trova conferma l’idea che Meloni e il suo partito non dispongano di una valida classe dirigente?

«Credo che la classe dirigente la stiano preparando, ma non si forma né in un anno né in dieci. È un lavoro lungo e complesso, nel frattempo si opera con quello che c’è».

L’esecutivo ha perso compattezza sulla legge contro i rave party e sui temi economici?

«Credo ci sia una visione diversa fra i partiti della maggioranza che crea conflitti che si spera restino piccoli. Non vedo un difetto nel correggere alcune decisioni, ma la capacità di riconoscere gli errori e di porvi rimedio».

Un’altra obiezione della campagna elettorale riguardava il ritorno al potere del fascismo in caso di vittoria di Giorgia Meloni.

«Il fascismo è un fenomeno storico morto e sepolto. Credo che nessuno ai vertici di Fratelli d’Italia lo rimpianga. Piuttosto, ci potrebbe essere un ritorno al conservatorismo di Dio, patria e famiglia che non è una formula propria del fascismo, ma tipica anche dei governi democristiani. Personalmente penso che converrebbe puntare energie e risorse in altre direzioni».

Quali?

«Vigilerei sul dominio degli algoritmi e dell’economia digitale sulle persone. A questo proposito apprezzo il comportamento di Giorgia Meloni nei confronti dell’Europa. Che non è una chiusura pregiudiziale, ma la difesa del controllo nazionale di fronte alla pressione economica europea che spesso si configura come un secondo governo, potenzialmente schiacciante».

Con il movimento «Italiani liberi» fondato con l’antropologa Ida Magli avevate messo in guardia da questi pericoli.

«A metà anni Novanta denunciavamo la possibilità di una sopraffazione dei popoli in favore di un’omogeneità non realizzabile in tempi così brevi. Mi sembra che il governo Meloni stia muovendosi nella direzione giusta, collaborando con l’Unione europea ma, quando occorre, mantenendo una politica distinta come sulla gestione degli sbarchi e l’arrivo degli extracomunitari».

O come sull’adesione al Mes: si è detta pronta a firmare con il sangue la decisione di non prenderlo.

«Concordo nel merito della decisione, ma forse certe battute a effetto andrebbero evitate perché l’Europa non è spiritosa».

La cultura del politicamente corretto e l’avvento della pandemia hanno rafforzato la tendenza all’omologazione?

«La pandemia ha aperto un varco terribile all’estensione del controllo degli individui. La possibilità di chiudere tutti in casa, di dire a che ora uscire e a che ora rientrare è un precedente di gestione delle masse molto pericoloso. Se si verificasse una crisi economica di gravi proporzioni, chissà cosa potrebbe fare un governo per limitare l’indipendenza dei cittadini».

È il capitalismo della sorveglianza.

«Possiamo chiamarlo così ed è sempre più pressante. Non solo nella sorveglianza, ma anche nell’indirizzo del pensiero e dei comportamenti. Il politicamente corretto è già una componente e un risultato di questo indirizzo che non si limita al divieto di pronunciare la parola “negro”, ma tende a promuovere una forma di pensiero unico».

Qualcosa si è visto negli annunci di alcuni politici di vertice europei che si sono auto-investiti del compito di vigilare sul comportamento del governo italiano.

«Il pensiero unico avanza e si estende. Mi ha molto confortato sapere che in America alcuni intellettuali come Noam Chomsky stanno fondando nuove università per rompere questo accerchiamento».

L’emergenza sanitaria giustificava la richiesta di maggiore disciplina ai cittadini?

«Io non sono no vax e penso che la salute venga prima di tutto. Ma si è visto che si sono commessi degli errori e che la stretta dei governi italiani, al plurale, è stata inferiore solo a quella del governo cinese. Che ci siano stati eccessi è comunemente riconosciuto. È particolarmente grave che per proteggerci dal Covid si sia danneggiata la salute riguardo ad altre malattie più gravi, per esempio rinviando o cancellando gli esami preventivi per il cancro. Sembra sia stata un’esercitazione generale per un controllo strettissimo. Lo si vede anche oggi… La difesa a oltranza del pos e il rifiuto di alzare il tetto al contante potrebbero preludere a nuove forme di controllo».

Viviamo in una specie di distopia?

«Il timore è che questo sia l’inizio, non un episodio estemporaneo».

Ci vorrebbe un volo sopra Bruxelles come quello di D’Annunzio su Trieste?

«Non credo basterebbe. Probabilmente lo abbatterebbero».

L’accusa di ritorno al potere del fascismo è un’intimidazione preventiva prima che Meloni muova le sue pedine?

«Certamente. Il pericolo fascista viene usato come un manganello dalle sinistre. Che deve fare quella povera donna più che piangere durante la visita al museo ebraico di Roma?».

È stato un pianto un po’ tardivo?

«E quando doveva farlo, appena nata? Non mi sembra che abbia mai manifestato amore per il fascismo. C’è quella sua intervista a 16 anni… Ma lei si riconoscerebbe in ciò che pensava a 16 anni? È politicamente scorrettissimo rinfacciargliela, per altro da parte dei più strenui militanti del politicamente corretto».

È giusto che il nuovo governo estenda la sua influenza nei posti di comando o dovrebbe mostrarsi più liberale?

«A me sembra sia una cosa normale, sempre avvenuta e sia giusto che avvenga. L’esempio americano di spoil system è limpido e nessuno si scandalizza. Piuttosto dev’esserci attenzione affinché vengano scelti uomini di qualità perché se sostituisci un bravo avversario con un amico inetto ti giochi una fetta di credibilità».

Dopo decenni di egemonia culturale della sinistra è giusto puntare a una nuova mappa?

«Ho paura delle egemonie di sinistra come di quelle di destra. La cultura è un unicum in movimento e non ha colore… Non auspico che si passi dal rosso al nero, ma che si realizzi un processo di maturazione attraverso la scuola e nelle istituzioni, senza preoccuparsi di instaurare nuove egemonie».

Qualcuno osserva che Meloni è troppo timida, per esempio sulla Rai.

«Il governo è in carica da due mesi e sta affrontando la legge di bilancio e il Pnrr. Buttarsi sulla Rai sarebbe una mossa goffa e sbagliata. Credo sia una necessità da affrontare in un secondo momento, sempre se ci saranno gli uomini giusti per farlo».

Concorda con la decisione del ministro Giuseppe Valditara di vietare l’uso dei cellulari in classe?

«Certamente, il cellulare è uno strumento privato che permette attività che non c’entrano con il lavoro scolastico. Spero che verrà un momento in cui le classi saranno dotate di computer per favorire una didattica più adeguata e moderna. Una cosa è aiutare la ricerca, un’altra andare su TikTok. Finché non si potrà fornire tutti di i-pad è corretto proibire il cellulare. I miei figli li mando a scuola senza telefono senza che me lo dica il ministro».

Non legge Tolkien né Roger Scruton: che autore consiglierebbe a Meloni?

«Premetto che non detesto Tolkien, ma non ho interesse per Il Signore degli anelli. Personalmente trovo affascinante Yuval Noah Harari, l’autore di Homo Deus. Breve storia del futuro e 21 lezioni per il XXI secolo».

Vorrebbe maggiore attenzione alla contemporaneità?

«Auspico una classe dirigente più vigile e progettuale sul futuro. Per esempio, il problema della denatalità è gravissimo perché si rischia la scomparsa di un popolo e di una cultura. Giustamente ci vantiamo del made in Italy, ma quando non ci saranno più persone in grado di realizzarlo sparirà. Servono misure energiche per favorire la natalità, uno dei problemi principali del nostro Paese».

Il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo dice che nel 2070 ci saranno 11 milioni d’italiani in meno.

«Il cittadino comune se ne frega del 2070, ma è giusto che gli uomini di Stato si pongano questo problema come priorità assoluta. Progettare il futuro è il massimo compito della politica».

 

La Verità, 24 dicembre 2022