«L’algoritmo ci sfrutta, ma ci crediamo potenti»
Ho letto d’un fiato La dittatura degli algoritmi – Dalla lotta di classe alla class action (Krill Books) di Paolo Landi, consulente di comunicazione per imprese e studioso di new media. Ma più procedevo nella lettura più ne ero turbato e, contemporaneamente, cresceva la tentazione di scendere da questo mondo iperconnesso e ipersorvegliato.
Noi utilizzatori dei social network viviamo in un gigantesco «Truman show»?
«Non so se vorrei scendere dal sistema in cui siamo sprofondati perché la vita è troppo bella e, più che scendere da qualcosa, preferisco salirci e capire dove sto andando».
È proprio questo capire a produrre spavento?
«Quando si capiscono certe cose si possono avere risposte sgradevoli».
Nell’ultimo capitolo parla di «un capitalismo che evolve verso un’unità del mondo sempre più fittizia, dove la rappresentazione del reale si sovrappone al reale stesso»: è la descrizione del «Truman show»?
«Far sembrare le nostre vite in un certo modo anche se non sono in quel modo è uno dei dogmi dell’èra digitale. Non è un caso se si parla di avatar, di nickname, di virtuale, di metaverso. Noi siamo le persone reali e poi siamo quelli che ci rappresentiamo sui social. Non sempre queste due persone coincidono, ma i social sono così pervasivi che l’autorappresentazione virtuale vince su ciò che siamo realmente».
Gli algoritmi sono il dispositivo di questa distopia dolce?
«Come in Truman show la realtà parallela diventa la realtà vera. Viviamo in una dimensione di cui non conosciamo i dati. Nell’èra analogica era più facile capire chi deteneva il potere, oggi è più difficile perché è un potere quasi astratto e tanto raffinato da farci credere di esser noi a comandare e a determinare le sorti della vita e del mondo. In realtà, continuiamo a essere strumenti».
«Cibo per gli algoritmi» ci ha ammonito papa Francesco qualche giorno fa.
«Sarebbe bello non esserlo, ma purtroppo è difficile sottrarsi perché i social arrivano ovunque e sono usati da una massa in continuo aumento».
Nella sua riflessione usa i testi di Karl Marx come termine di paragone perché il capitalismo industriale è divenuto capitalismo digitale?
«Non mi atteggio a filosofo, ma resto un comunicatore che si appassiona alla rivoluzione digitale perché oggi sembra che il mondo sia fatto solo di comunicazione. C’è un esempio che rende la trasformazione da un capitalismo all’altro. Gli ultimi della scala sociale, quelli che Marx chiamerebbe sottoproletari, sono i runner che ci portano la pizza a casa. Il capitalismo digitale fa credere loro di essere imprenditori perché gestiscono il loro tempo, possono guadagnare di più se rispondono a più chiamate e vanno più veloci. È un cerchio perfetto: dallo sfruttato che sapeva di esserlo perché conosceva il padrone allo sfruttato di oggi che crede di essere lui il padrone».
Come cambia il concetto di merce?
«Se guardiamo a Chiara Ferragni capiamo il nuovo modo di concepire la merce. Chiara Ferragni lavora sempre senza lavorare mai. Chi la paga non è proprietario delle sue braccia né del suo tempo, lei è imprenditrice e operaia allo stesso tempo. È merce, ma esaltando al massimo la sua individualità».
Da questo deriva anche la dematerializzazione dell’economia?
«Il paradigma finanziario prende il sopravvento e l’economia perde di materialità, come la perdono l’impresa e la fabbrica. Assistiamo a una specie di terziarizzazione del mondo. Gli italiani non vogliono più fare determinati lavori perché si sentono almeno potenzialmente ricchi. I criteri che prima stabilivano il censo, sui social sfumano fino a sparire. Il parrucchiere e l’avvocato, la dogsitter e il funzionario di banca sembrano uguali e la scala sociale si ridisegna».
I giovani non vogliono più fare l’ingegnere o il medico perché bisogna studiare troppo?
«La Silicon Valley ci ha abituato a pensare la ricchezza come frutto di un’idea. Si diventa ricchi non perché si lavora duramente o si studia, ma perché si ha un’idea. Come Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e Elon Musk. Le corporation sono nate da un’idea avuta in età giovanile. Il sistema basato su sacrificio e costruzione quotidiana è obsoleto. Dire guadagnati da vivere “con il sudore della fronte” oggi suona ridicolo».
Scrive che «la rivoluzione digitale è il sovvertimento delle regole che proietta il nostro secolo nella speranza o nell’illusione di un mondo nuovo». Quale delle due?
«Punto sulla speranza perché credo che la fase pionieristica che stiamo vivendo ci alleni a essere uomini nuovi che utilizzano strumenti inventati da noi. Penso che il progresso lavori in direzione del miglioramento della vita dell’uomo. Tuttavia, certe volte mi vengono dei dubbi e un po’ di paura».
Siamo immersi in un’avvolgente illusione?
«A volte lo penso, ma non perdo la speranza».
Possiamo dire che il caso Chiara Ferragni è emblematico di questa incertezza?
«È sicuramente emblematico dell’epoca in cui viviamo, ma soprattutto prefigura il nostro futuro. Chiara Ferragni è stata una pioniera perché ha capito prima di tutti che lei stessa era il brand e non c’era bisogno di altre sovrastrutture attorno a questo brand. Lei rappresenta il livello più alto di retribuzione e ricchezza, i runner il livello più basso degli imprenditori di sé stessi. Ci fanno credere di essere artefici del nostro destino solo perché non timbriamo il cartellino, mentre dipendiamo da chi manovra queste tecnologie e siamo più sfruttati degli operai delle fabbriche fordiste».
Che cos’è il «comunismo distopico» di Chiara Ferragni?
«Paradossalmente, il suo turboliberismo individualista coincide con il comunismo di Marx. Il prevalere dell’uomo sullo sfruttamento realizza la liberazione dall’alienazione del lavoro che Marx aveva immaginato».
Che cosa ha sbagliato nelle campagne del pandoro Balocco, delle uova di Dolci preziosi e della bambola Trudi?
«Secondo me, niente. Le responsabilità sono delle imprese che l’hanno ingaggiata. Lei ha fatto il suo mestiere e credo non debba rendere conto a nessuno se fa beneficenza o no. Forse un errore è stato devolvere un milione di euro dopo le accuse perché è sembrata una excusatio non petita».
Si è prestata a una campagna ingannevole?
«Penso che la Balocco abbia molta responsabilità. Accade spesso che si destini in anticipo la cifra della beneficenza, perché spesso queste campagne producono poco. Se invece si sono venduti molti pandori, allora si poteva conguagliare la cifra anticipata. Ma su questo Chiara Ferragni non c’entra».
Ha prestato sé stessa per una campagna fasulla?
«Al massimo avrebbe potuto dire alla Balocco di devolvere 100 euro in più del cachet riconosciuto a lei. Vedo più la responsabilità dell’azienda di quella della testimonial».
La procura di Milano parla di «unico disegno criminoso».
«Mi sembra un’esagerazione. Vedremo».
Il governo ha deciso di regolamentare la beneficenza.
«Ha fatto bene».
Alcuni seguaci di Chiara Ferragni sono passati alla class action?
«Naturalmente c’è un’onda emotiva, ma non credo scalfirà l’immagine che si è costruita nel tempo e che mi sembra abbastanza solida».
Com’è visto chi si arricchisce con dei selfie e dei sorrisi da chi non arriva a fine mese?
«Bella domanda. Purtroppo, l’economia che ci aspetta emarginerà ancora di più i poveri. Il divario digitale è questo».
Come convivono ricchezza virtuale e povertà reale?
«Convivono perché siamo in una fase di passaggio tra fabbrica fordista e mondo digitale. Il mio libro è un tentativo di svelare l’inganno di far credere ai poveri di non esserlo mentre continuano a esserlo profondamente».
Il frazionamento in community e minoranze è funzionale al capitalismo globalizzato?
«Sia il capitalismo digitale che quello analogico si basano su “divide et impera”. Perciò si rilancia il corporativismo, donne contro uomini, neri contro bianchi, gay contro etero. È un capitalismo molto individualizzato, che ci spinge a essere sempre più soli».
Perché la sinistra ha sposato formule e linguaggi delle corporation digitali?
«È un grande equivoco. Il tema delle disuguaglianze è solo in parte un problema di linguaggio. A noi europei sofisticati risulta ingenua la riduzione linguistica del problema delle ingiustizie sociali e della parità di genere che arriva dall’America».
Abbiamo scoperto le echo chamber, le camere dell’eco: le piattaforme giocano al gatto col topo con gli utenti?
«I social sembrano il massimo della democrazia, in realtà separazioni e divisioni si consolidano nei social. Veniamo canalizzati nelle echo chamber, bolle nelle quali interagiamo con chi la pensa come noi e ha gusti simili ai nostri».
È una libertà condizionata.
«Non ci rendiamo conto che i social sono prodotti commerciali. E che le piattaforme dove postiamo un parere sono come un marchio di scarpe o una bevanda. Fatichiamo a comprendere che quando scriviamo su X stiamo arricchendo chi lo possiede perché non siamo abituati all’astrattezza del prodotto».
I social sono un luogo di conformismo e omologazione?
«Totalmente».
Il capitalismo digitale preferisce individui soli, isolati, perché sono consumatori più manovrabili?
«Il capitalismo tradizionale aveva creato i sindacati. Oggi nessuno lotterebbe per un diritto pensando che potrebbe servire a chi verrà dopo di lui. L’individualismo è così radicalizzato che si preferisce licenziarsi piuttosto che unirsi agli altri e lottare per dei diritti come si faceva un tempo. Siamo nell’epoca della solitudine».
Il single è più orientato al consumo di un padre di famiglia?
«È più orientato all’edonismo che alla responsabilità».
La disillusione della fiaba digitale è iniziata?
«Le masse sono ancora preda della fiaba. Una parte delle élite comincia a essere consapevole dell’illusione e dell’inganno».
Cominciano a essere più interessanti, più liberi e indipendenti coloro che non frequentano i social?
«Chi sta completamente fuori guadagna in libertà, ma perde stimoli e opportunità. Si è contemporanei se si vive il proprio tempo in ogni suo aspetto. Uno dei miei più grandi amici non frequenta i social e non guarda la tv. Quelli che stanno fuori sono nascosti, non si sa chi sono».
Hanno già fatto la class action dai social?
«Non c’è ancora class action dai social, ci sono disamoramenti temporanei. Ormai, i social network fanno parte della nostra vita».
La Verità, 27 gennaio 2024