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C’è Celentano smaschera sia C’è Grillo che Adrian

Il flop dei telepredicatori. La serata no dei guru. La caduta dei venerati showman. Beppe Grillo e Adriano Celentano, in onda in contemporanea e in concorrenza, sono sprofondati entrambi. Uno su Rai 2, l’altro su Canale 5: 4.34% di share (poco sopra il milione di telespettatori) per C’è Grillo, 11.88% (poco più di 3 milioni) per la prima parte di Adrian (la seconda cala di un milione e un punto di share). Fine di un’epoca, svolta storica, cambio di stagione? Una cosa è certa: di fronte alla comune e già complicata quotidianità, apocalissi, sciagure planetarie, catastrofismi, utopie e distopie varie non sono più di moda. Non lo sono i loro profeti, soprattutto se, come in questo caso, si esprimono con linguaggi datati e formule anacronistiche.

L’altra sera, facendo zapping da un canale all’altro sembrava di essere improvvisamente tornati indietro di un ventennio. Sulla rete diretta da Carlo Freccero c’era il comico genovese pre fondazione M5s che sghignazzava su Una storia italiana, opuscolo elettorale di Silvio Berlusconi, anno domini 2001. O, addirittura, con un altro tuffo nella macchina del tempo, sfotteva, sardonico, il viaggio di Bettino Craxi in Cina con corte al seguito. Preistoria, rivista oggi: inevitabili i bassi ascolti. Su Canale 5, tra un amplesso e l’altro, un orologiaio supereroe combatteva a colpi di arti marziali i poteri forti di una dittatura di stampo orwelliano. Solo che, anziché essere nel 1984, ci si doveva credere nel 2068: brutta storia se un fumetto fantascientifico risulta vecchio o persino vintage come sta accadendo ad Adrian. Insomma, due show stanchi e che denunciano l’età. È il malinconico destino che accomuna i due telepredicatori: il fatto di essere degli ex.

Solo che le similitudini finiscono qui. Perché tra il format realizzato con immagini d’archivio da Rai 2 e lo show celentaniano più atteso della storia della televisione italiana le differenze sono tante e sostanziose. C’è Grillo, per esempio, è costato 30.000 euro in tutto. E solo perché il suo protagonista ha rivendicato lo sfruttamento dei diritti d’immagine delle esibizioni realizzate in Rai. In secondo luogo, il risultato di audience è stato solo di poco inferiore alla media di rete, attorno al 6% di share. Malgrado ciò, pochi minuti dopo la pubblicazione dei dati di ascolto, il folcloristico dem Michele Anzaldi, ha chiesto la testa del direttore di Rai 2, twittando: «Freccero senza vergogna aveva giustificato la serata dicendo che serviva a far crescere ascolti, invece ha trascinato la sua rete in fondo alla classifica Auditel: ora si dimette?». A corto di argomenti, gli uomini del Pd non sanno più a cosa attaccarsi. E un’audience appena inferiore alle attese diventa pretesto per chiedere le dimissioni di un dirigente. Nell’autunno del 2016 non si ricordano analoghe richieste di dimissioni per il direttore di Rai 1 dopo la messa in onda di Dieci cose, il programma ideato e realizzato da Walter Veltroni che si fermò all’11% (2,3 milioni di telespettatori), uno dei minimi storici dell’ammiraglia Rai. Dal canto suo Freccero ha respinto al mittente le critiche e le richieste di dimissioni, attribuendo la défaillance alla presenza di Luigi Di Maio su Rete 4, ospite di Quarta Repubblica di Nicola Porro: «Il Di Maio politico ha battuto il Grillo non politico. Questo la dice lunga sulla mia indipendenza e su quanta differenza c’è tra il mio lavoro e il lavoro politico del M5s. Se fossimo “pappa e ciccia” avrei chiesto a Di Maio di non fare concorrenza a Grillo». Fine della querelle.

Più grave risulta l’involontario effetto rétro dello show di Celentano. A parte i costi sanremesi delle serate – si parla di 20 milioni – le rinunce a catena dei partner (Teo Teocoli, Michelle Hunziker, Ambra Angiolini) e le prese di distanza di Milo Manara, qui il Molleggiato e il Clan hanno proprio perso la scommessa con il tempo. La faccenda dispiace maggiormente pensando al fatto che il protagonista di show come Francamente me ne infischio e Rockpolitik era sempre stato un grande anticipatore, un perfetto interprete dello zeitgeist. Ora sta tentando di raddrizzare la baracca, provando a giocare sul fatto di aver consapevolmente «sabotato gli ascolti di Canale 5» e accettando di cantare (sempre struggente Pregherò). Ma che tutta l’impostazione sia datata lo confermano anche gli sgangherati monologhi di Natalino Balasso e soprattutto di Giovanni Storti, che ha paragonato i pullman degli sgomberi dei migranti dei giorni scorsi ai treni delle deportazioni degli ebrei ad opera dei nazisti.

Paradossalmente, proprio il confronto con C’è Celentano, trasmesso da Rai 2 a inizio gennaio – stesso format di C’è Grillo ma con il protagonista di Adrian – smaschera le debolezze dei due show paralleli. Le canzoni e i duetti del Molleggiato riviste quella sera (14.38% di share, quasi 3 milioni di spettatori) conservavano freschezza e attualità di momenti rappresentativi di una storia. Qualità che le gag del comico genovese, identificate con un’èra politica archiviata, e il cartoon del Molleggiato, troppo ambizioso e in realtà datato, non possono avere.

 

La Verità, 30 gennaio 2019

Crozza gioca (non troppo) con Caschetto burattinaio

Per l’esordio della seconda stagione sul Nove Crozza si è contornato di nuovi «Fratelli». Niente Matteo Renzi e senatore Razzi. Ripescato dal repertorio il solo Beppe Grillo in occasione della travagliata investitura di Luigi Di Maio alla kermesse pentastellata di Rimini. Marco Minniti, sceriffo anti immigrati che piace più a destra che a sinistra, Giuliano Pisapia, leader imbranato e sprovvisto di carisma, Vittorio Feltri che sforna titoli truculenti e l’ineffabile maestro yoga Roberto Laurenzi intercettato su youtube che va a sostituire lo chef vegano Germidi Soia, sono le new entry della nuova collezione (venerdì, ore 21.17, share del 3.5% che diventa 5 sommando gli ascolti degli altri canali del gruppo). La share non è eccelsa e forse Crozza non è più al centro del dibattito politico mediatico come un paio d’anni fa. Però, no problem. Con navigata ironia il comico genovese ci ha giocato sopra fin dalla prima canzonetta. «Forse farei più share andando in pizzeria… Incontro molti fan che mi dicono: adesso dove sei, è un peccato che in tv non ti si veda più… Guarda che forse ti sbagli tu. Ti do le prove, anche se piove sono sul Nove, capito dove?».

Maurizio Crozza nella parodia di Beppe Caschetto

Maurizio Crozza nella nuova parodia di Beppe Caschetto, suo agente

Il colpo di teatro, però, è lo sdoganamento parodistico di Beppe Caschetto, il suo (e di molti altri) agente. Inafferrabile: «Su internet ci sono solo due foto sgranate». Potentissimo: «Tutto quello che vedete in tv, dal meteo a Sanremo, l’ha deciso lui». Luciferino: «Se fa un patto col diavolo ci rimette il diavolo». A tutti chiede: «Come state? Fatturate?». La maschera di Crozza lo presenta come un Gene Hackman in salsa emiliana. Che propone a Roberto Saviano di fare il giudice di X Factor e al capo della fiction Mediaset una serie con Geppi Cucciari nel ruolo di madre Teresa. Inarrestabile, dialoga persino con papa Francesco per suggerirgli come risultare ancor più popolare. Molto esposto a causa del discusso contratto di Fabio Fazio, in questo momento Caschetto è nel mirino della Commissione di Vigilanza e di Michele Anzaldi che scalpita per una legge che ridimensioni il ruolo dei manager, impedendo loro di operare contemporaneamente da agenti e produttori. Un tantino autoreferenziale, obiettivo della gag è smontare l’idea del burattinaio occulto. Basteranno due risate?

La Verità, 24 settembre 2017

Ps.«Sempre sul Nove ci starò ancora un po’, che voglia o no», piagnucolava ancora Crozza in quella canzoncina. Ma con qualche significativa licenza. Tutti i lunedì in seconda serate rifarà capolino su Rai 1: con un colpo da maestro il potente Caschetto è riuscito a procurargli la copertina di Che fuori tempo che fa di Fabio Fazio.

I 4 motivi del declino di Campo Dall’Orto

L‘ennesimo tentativo di mettere «i partiti fuori dalla Rai» è finito nel solito modo. Stavolta la resa è ancora più clamorosa perché, per riformarla, proprio la politica nella persona dell’ex premier Matteo Renzi, aveva, con un’apposita legge, trasformato il direttore generale in amministratore delegato. Salvo poi pentirsene, appena constatato che l’uomo incaricato voleva davvero lasciare i partiti fuori dalla porta. È la prima volta che un leader politico silura il manager prescelto. Tanto più in un momento in cui i numeri dell’azienda, ascolti e introiti pubblicitari, risultano positivi. Teoricamente tutto potrebbe raddrizzarsi dopo l’incontro di Antonio Campo Dall’Orto e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Ma la sensazione è che i margini di manovra del Superdirettore resterebbero minimi. Difficile che lo spirito zen basti a resistere.

Ecco una breve lista dei motivi che, dopo la resa di Carlo Verdelli, hanno determinato anche il tramonto di CDO. Con relativa percentuale.

Michele Anzaldi, portavoce di Matteo Renzi

Michele Anzaldi, portavoce di Matteo Renzi

  • Arroganza della politica. Cioè, nella fattispecie, dei renziani. Lo si è già detto e scritto a ripetizione: la maggiore indipendenza della Rai equivale al suicidio dei politici. Gli uomini del Palazzo sono abituati a spadroneggiare, decidere nomine, fare e disfare direttori e conduttori. Nel caso specifico, Michele Anzaldi e i suoi soci in Vigilanza e nel Cda non hanno tollerato soprattutto la gestione di Rai 3. Lo spazio conquistato da Bianca Berlinguer dopo il flop di Gianluca Semprini a Politics; l’autonomia di Report, libero di fare giornalismo d’inchiesta senza riverenze; il progetto di affidare a Milena Gabanelli la direzione della nuova testata d’informazione sul web. Indipendenza? Autonomia? Non scherziamo. È un caso che il capolinea arrivi quando si deve votare sulle news e alla vigilia di elezioni molto incerte? La verità è che Campo Dall’Orto non era abbastanza asservito. Oltre l’ultima spiaggia. 50%
  • Ambizioni del presidente. Dopo aver determinato l’isolamento di Carlo Verdelli, costretto alle dimissioni in seguito alla bocciatura del suo piano dell’informazione (che non ha potuto illustrare in Cda), Monica Maggioni ha votato contro anche la versione prodotta da Campo Dall’Orto. Bocciata anche la scelta di Milena Gabanelli alla direzione della testata web. La presidente-giornalista voleva farlo lei il piano per le news? Dark lady. 20%
Monica Maggioni, presidente della Rai

Monica Maggioni, presidente della Rai

  • Gestione confusa e ostacolata. Probabilmente, al di là dei suoi interessi di portafoglio, ha ragione Fabio Fazio a lamentare che mai come in questo periodo l’attacco della politica è stato pesante. Prima la bomba dei compensi per dirigenti e artisti (nemmeno alla Bbc le star hanno il tetto), poi quella delle troppe assunzioni esterne, infine quella della pubblicità contingentata per fasce orarie. Non era facile sciogliere tutti questi nodi. Groviglio inestricabile. 15%
  • Ingenuità di Campo Dall’Orto. In questa situazione serviva fare squadra, tessere alleanze interne, soprattutto nel Cda. Non averlo fatto per un difetto di sagacia è stato il principale errore del dg. Troppo educato, troppo per bene, per resistere e governare la nave nella tempesta, in mezzo a troppi giochi di potere. Campo Dall’Orto parlava di media company, i pasdaran renziani controllavano i troppi ospiti non allineati dei talk show. Tecnico, non politico. 15%

… E Bianca Berlinguer fa il pieno di ascolti

Un altro piccolo segnale contro Renzi. Un indizio, niente più. Ma fastidioso come un’ape nell’ascensore: la campagna referendaria è in salita, come documentano i sondaggi. #Cartabianca di Bianca Berlinguer, il programma meno amato dal premier e più contrastato dalla direzione di Rai 3, ha fatto il pieno di ascolti: 9,72 per cento di share con 1,4 milioni di telespettatori (e quasi tre milioni di contatti). È solo la prima puntata, presto per tirare conclusioni definitive. Però, se si vuol farsi un’idea al netto delle cautele avanzate qualche giorno fa su queste colonne da Antonello Piroso, si può dire che i buoni ascolti del programma inaugurato dall’ex direttrice del Tg3 non sono musica per le orecchie del premier. Cioè, sono musica stridente con l’ottimismo da vittoria referendaria. E sono pure una discreta stonatura nel palinsesto della Terza rete Rai. Dove le creature bignardiane come Gianluca Semprini (Politics – Tutto è politica) e Asia Argento (Amore criminale) floppeggiano, mentre Berlinguer vince e convince.

Daria Bignardi: le sue creature, Gianluca Semprini e Asia Argento «non tirano»

Daria Bignardi: le sue creature, Gianluca Semprini e Asia Argento «non tirano»

Qualche giorno fa, alla conferenza stampa di presentazione del programma, Daria Bignardi aveva recitato da direttrice convinta e motivante, elogiando la giornalista, «brava a mettersi in gioco», per questa nuova «sfida», «scommessa», «avventura». Son queste le parole più gettonate in simili circostanze. Anzi, la parolina magica di solito è «esperimento» (se va bene siamo stati bravi, se va male stiamo sperimentando…). Tanto che la stessa Berlinguer aveva dichiarato di «mettere le mani avanti», temendo il flop in agguato per un talk show piazzato nel tardo pomeriggio, prima del telegiornale dal quale, peraltro, la stessa Berlinguer era stata traumaticamente detronizzata.

Consapevolissima del rischio, e pure per esorcizzarlo, la giornalista ha invitato nella puntata d’esordio Renzo Arbore, uno dei padri fondatori, e soprattutto uno che cantava Vengo dopo il tiggi nella sigla finale del memorabile Indietro tutta!. Che cosa dobbiamo fare noi che invece veniamo prima del tg, per avere buoni ascolti?, gli ha chiesto la conduttrice. «Bisogna inseguire la doppia lettura, accontentare il gusto sia del pubblico colto che di quello meno esigente», ha rivelato Arbore nei panni del guru. Come che sia, il programma più osteggiato, rinviato e tollerato dall’intera filiera politico-mediatica renziana ha fatto il pieno. Smacco doppio o anche triplo, se si ricordano le quotidiane invettive scagliate da Michele Anzaldi sull’ex direttrice del Tg3, il successivo siluramento a causa della mancata acquiescenza alla linea del Nazareno e l’ostruzionismo di Viale Mazzini a concedere carta bianca alla giornalista. Ostruzionismo confermato dalla scomparsa del promesso programma di seconda serata sempre a conduzione Berlinguer. Detto ciò, alla fine, ci si può accontentare della buona audience della #Cartabianca tardopomeridiana. Un programma nelle cui vene scorre un senso di privazione («Vi sembrerà strano che sia io a dirlo ma mi ci abituerò: linea al tg»). E il peso della carriera di Berlinguer nel convocare ospiti importanti (Ezio Mauro, Arbore, Carlo Freccero) e connettersi con le firme della rete (la redazione di Blob). E un programma dal quale il premier si tiene alla larga, come s’è visto quando l’inviato Gabriele Corsi ha provato ad avvicinarlo alla Leopolda, ottenendo la promessa di un «dopo, dopo» che non è mai arrivato.

Un indizio fastidioso, dunque, la buona audience del programma meno renziano della Rai. Un indizio che va ad aggiungersi all’altro, di qualche giorno fa, quando il premier perse il confronto con il grillino Luigi Di Maio, contemporaneamente in onda a DiMartedì (La7) mentre lui imperversava nello studio di Politics. Certo, due indizi non fanno ancora una prova; pure Geo, predecessore di #Cartabianca, faceva buoni ascolti. Però, intanto, l’ape è lì. E ronza, molesta, nell’ascensore della lunga campagna referendaria…

 

La Verità, 9 novembre 2016

 

Giannini con Floris: questione di (non) stile

Massimo Giannini parteciperà in qualità di opinionista fisso a quattro puntate di diMartedì di Giovanni Floris su La7. Nella prima si vedrà un faccia a faccia tra i due conduttori, nella seconda chissà. Continua a leggere

Perché la politica alza la voce per Vespa e Riina

Immaginavo di vedere più compattezza nel mondo dei media sull’intervista di Bruno Vespa a Salvo Riina. Immaginavo una difesa più netta dell’informazione, pur con qualche distinguo necessario, dettato soprattutto dall’errore della firma della liberatoria avvenuta solo dopo il colloquio. Non è questione solo formale: se la liberatoria non viene firmata prima, l’intervistatore non ha il coltello dalla parte del manico e può avere difficolta ad affondare domande e critiche. Questo è il punto debole di tutta la faccenda, il nervo scoperto di Vespa. Detto ciò, guardandosi intorno c’è poco da stupirsi. Il superego di big dell’informazione e artisti è sempre in agguato. Dire che “non è giornalismo intervistare chi ha un libro in uscita” (Enrico Mentana) è argomento più che opinabile. Tre quarti delle interviste televisive avvengono per libri e film in uscita. Avviare una raccolta di firme e organizzare sit-in per chiedere le dimissioni di Vespa (Sabina Guzzanti) rende palese la frustrazione per il tuo film ignorato. Niente di più.

Altre firme, da Travaglio a Gramellini, hanno difeso il pur imperfetto lavoro di Vespa. Sull’Unità, parlando di quell’intervista Chicco Testa ha scritto che “il male era lì davanti a noi, visibile, chiaro e trasparente. Facilmente giudicabile da chiunque… Fosse per me, riproporrei quella intervista nelle scuole e inviterei a commentarla il giovane Schifani. Così, per mostrare qual è l’evidenza della differenza fra il bene e il male”. A Che tempo che fa Roberto Saviano ha decodificato i messaggi del figlio del Capo dei capi. Un lavoro di traduzione minuzioso, da conoscitore delle logiche della criminalità organizzata. “Per combattere la mafia bisogna conoscerla”, aveva detto Vespa. Saviano la conosce. Ma, citando Montaigne quando dice che la parola detta appartiene per metà a chi la pronuncia e per l’altra metà a chi la ascolta, ha sottolineato che “noi non siamo stati capaci di ascoltare la nostra metà di parola”. Forse questa decodifica sarebbe stato meglio farla subito, più a ridosso dell’intervista. Ma resta il fatto che, prima trasmettendola e commentandola con il figlio di una vittima e l’esponente di un’associazione anti-pizzo, e poi traducendola, la Rai ha fatto servizio pubblico. Che non è una formula per giustificare l’idea paternalistica che i telespettatori abbiano bisogno di protezione perché privi di strumenti critici.

https://youtu.be/s3ddSBLsvtU

In passato giornalisti adorati come idoli – Biagi, Zavoli, Montanelli – hanno intervistato campioni assoluti del Male senza che nessuno, non dico quasi l’intero arco costituzionale come stavolta, si sia stracciato le vesti. Vien da chiedersi perché questa intervista sia diventata un caso tanto eclatante. Perché la politica ha alzato così tanto la voce, mentre in passato (Ciancimino jr da Santoro, solo per fare un esempio recente) aveva assistito passiva? Perché, mentre i conduttori e i giornalisti Rai (Gabanelli, Iacona, Giannini, Giammaria, Porro) non sono preoccupati del coordinamento editoriale di Carlo Verdelli, i politici (Anzaldi, Bindi, Gasparri) temono bizzarramente la censura? Come mai questo capovolgimento di fronti? Dopo l’audizione di Campo Dall’Orto e Maggioni in Commissione Antimafia della settimana scorsa, quella del responsabile editoriale Verdelli e del direttore di Raiuno Andrea Fabiano in Vigilanza (mercoledì), sollecitato dall’ineffabile Michele Anzaldi anche l’Agcom si occuperà della vicenda. Audizioni. Esami. Test. Giornalisti e operatori della comunicazione devono presentarsi davanti a organismi politici. Devono rendere conto, giustificarsi, discolparsi come a un processo. Ottenere un’assoluzione. Un’approvazione. Va bene, questa volta passi, però non rifarlo più (intanto, probabilmente, Vespa sarà ridimensionato). Ma che sistema è? Non è una liturgia da ancien regime. Non s’era detto che la politica doveva “fare un passo indietro” dalla Rai? Che la riforma doveva portare a un servizio pubblico meno controllato dai partiti e più vicino al modello Bbc? Così aveva annunciato il premier. E non si sono dati i superpoteri al direttore generale perché avesse ampia libertà decisionale e d’azione? Campo Dall’Orto ha più poteri, più soldi che arriveranno dal canone in bolletta, e libertà di scegliere gli uomini come ha dimostrato con la nomina di Verdelli. Con queste condizioni, se non riesce a riformare lui il servizio pubblico chi ci riuscirà?

Sembra già che la politica si sia pentita e voglia tornare a controllare il giocattolo. Non vuole che le sfugga di mano. Vuole tornare all’ancien regime. Come già accaduto altre volte. Per Renzi riformare la Rai è, in un certo senso, come eliminare il Senato elettivo: tagliare un ramo del suo albero. E allora ecco qua: audizioni in Commissione di Vigilanza, Authority al lavoro, altre liturgie in cui dirigenti e direttori devono chinare la testa. Il 6 maggio prossimo è in calendario il rinnovo per la concessione del servizio pubblico che qualcuno chiede non sia più appannaggio esclusivo della Rai, ma venga allargato anche ad altri soggetti editoriali, con conseguente proporzionale ridistribuzione del canone. È probabile che il rinnovo slitti di qualche mese.

Giannini, la Rai e la giusta distanza dalla politica

Non c’è pace in Viale Mazzini. Oggi Antonio Campo Dall’Orto assume i nuovi poteri da amministratore delegato conferiti dalla riforma voluta da Renzi, che porta sotto il controllo del governo la nomina del direttore generale, esponendolo a critiche potenziali crescenti. Anche per Carlo Verdelli, direttore editoriale dell’informazione, arrivano i primi grattacapi. Per il 5 febbraio Rainews24, il canale diretto fino a pochi mesi fa da Monica Maggioni, ha indetto una giornata di sciopero per protestare contro il ritardo nella scelta del nuovo direttore. La circostanza è quanto meno curiosa se si considerano due elementi. Il primo, che Campo Dall’Orto e Verdelli hanno già individuato in Antonio Di Bella il futuro numero uno della testata. Il secondo, che la Maggioni ha in più occasioni manifestato soddisfazione per la scelta di Verdelli. Insomma due dettagli che stabiliscono la precisa rotta di collisione della protesta di Rainews.

Anche dalle parti di Raitre le acque sono piuttosto agitate. Nel giro di 48 ore, prima Riccardo Iacona poi Massimo Giannini hanno usato i microfoni della rete per mettere i paletti all’azienda e alla politica. Ieri sera, il conduttore di Ballarò ha speso l’intero editoriale

per dare l’altolà ai renziani capeggiati da Michele Anzaldi, segretario Pd in Vigilanza, che ne aveva chiesto il licenziamento per la spericolata metafora sui “rapporti incestuosi” da lui usata a proposito del caso Boschi-Banca Etruria. “La Rai mi può licenziare. Il Pd, con tutto il rispetto, proprio no”, ha scandito Giannini, con buona pace di chi ama gli editti. Sono però arrivati i dati di ascolto della puntata, appena il 3,96 per cento di share (con sorpasso di Floris su La7) a innescare il tweet di Fabrizio Rondolino: “Gli spettatori, non il Pd o la Rai, licenziano”. Insomma, come per gli allenatori di calcio, tutto dipende dai risultati.

Domenica, invece, Iacona aveva inusualmente esternato il dissenso per la decisione dei vertici aziendali di slittare oltre la fascia protetta un servizio sul sexting e il cyberbullismo tra gli adolescenti (peraltro, piuttosto orientato, ma qui soprassediamo) all’interno di Presa diretta. In quel caso, il solito Anzaldi aveva approvato la scelta di Raitre, mentre a paventare la censura addirittura con un’interrogazione in Vigilanza era stato Michele Fratojanni di Sinistra italiana. Cioè, in quel caso i politici erano serviti…

Insomma, trovare la giusta distanza tra la Rai e la politica continua ad essere un enigma di non facile soluzione.