Tag Archivio per: Brera

Quella volta che Gigi Riva disse no anche a me

Una decina d’anni fa, quando Gigi Riva era prossimo alla settantina, provai a intervistarlo per Rivista Undici di Giuseppe de Bellis. Lui mi ascoltò, ma declinò garbatamente, ribadendo la sua ritrosia in favore di quelle priorità che ne confermavano la statura. Da quel breve dialogo ricavai un ritratto per il sito di Rivista Studio che, forse, ha ancora qualche senso, oggi che ne piangiamo la morte.

Non leggeremo lunghe interviste a Gigi Riva in occasione del suo settantesimo compleanno, il prossimo 7 novembre. No: dovremo arrangiarci con quello che sappiamo e ricordiamo di lui, leggendario Rombo di Tuono. Raramente un soprannome è stato così aderente alla realtà e insieme così evocativo come quello coniato da Gianni Brera dopo Inter-Cagliari 1-3, 25 ottobre 1970, doppietta di Luigi Riva da Leggiuno, Varese. Quell’anno Gigi giocava con lo scudetto sulla maglia appena conquistato, l’unico mai vinto dal Cagliari. Nella squadra allenata da Manlio Scopigno, fumatore più accanito di lui e perciò tollerante, c’erano anche Albertosi, Cera, Domenghini, Gori: un concentrato di baldanza, applicazione, sacrificio e tecnica. Rombo di Tuono era un’immagine calzante, l’iperbole perfetta per descrivere la sua esuberanza fisica, la potenza del tiro da fermo e in corsa, la coordinazione nelle rovesciate, l’imperiosità dello stacco aereo, lo sconquasso che provocava irrompendo nelle aree affollate. Lo sapevano bene gli stopper (non «i centrali»)… Rosato, Castano, Burgnich. Giocavano con una scimmia sulle spalle. Dov’è Gigi? Da dove sbuca?

Riva è stato uno dei più grandi attaccanti di sempre del calcio italiano. Tuttora titolare del record di gol segnati in Nazionale, 35 in sole 42 partite, disputate nel corso di una carriera costellata di infortuni e interrotta dopo l’ennesimo, a soli 31 anni, durante Cagliari-Milan (1-3). Era il febbraio 1976. Il solito Brera gli dedicò una sorta di coccodrillo sportivo, un tributo innamorato. «Il giocatore chiamato Rombo di Tuono è stato rapito in cielo, come tocca agli eroi. Ne può discendere solo per prodigio: purtroppo la giovinezza, che ai prodigi dispone e prepara, ahi, giovinezza è spenta».

Sei anni prima, in quel famoso 1970, oltre allo scudetto e alla classifica dei capocannonieri, vinta anche nel ’68 e nel ’69, aveva conquistato il secondo posto al Mondiale messicano – sconfitta in finale dal Brasile dopo la storica vittoria sulla Germania – e il terzo posto nella classifica del Pallone d’oro dietro Gerd Müller e Bobby Moore. L’anno prima invece aveva sfiorato il successo, superato di soli quattro voti da Gianni Rivera, primo italiano a vincerlo.

Un grande attaccante, dunque. Sicuramente il migliore a difendere la propria vita privata. Non leggeremo mega interviste. Niente celebrazioni. Niente monumenti. «No, guardi. Hanno cominciato a telefonarmi già qualche settimana fa… I maggiori quotidiani. Anche dall’estero, giornali francesi inglesi. E le radio…». La voce ha sempre quel timbro metallico che, abbinato al volto scavato solido prominente, ti spiazza quel tanto da costringerti ad ascoltare. Il carisma di una persona è fatto di tante piccole cose. Un tono di voce, lo sguardo, il parlare dosato, una garbata ma decisa ritrosia. «Ho detto di no a tutti, per non far torto a nessuno. Avrei dovuto passare ore al telefono». Non si è ammorbidito nemmeno davanti ai miei accenni personali: quell’Italia-Germania, prima partita vista a notte fonda, questioni di fuso, al fianco di mio padre, suo grande ammiratore.

Il no ai grandi giornali e alle televisioni di oggi riporta alla mente il gran rifiuto degli anni d’oro, quando Inter Milan e soprattuto Juventus tentarono in tutti i modi di accaparrarselo. Puntuale il tormentone arrivava come una malattia estiva da calciomercato. All’epoca negarsi alla Juve era praticamente impossibile. Incomprensibile. Cocciuto, quel Riva. Cocciuto e strano. «Quando giocavamo in trasferta, a Milano, a Torino, ci chiamavano pecorai. Oppure banditi. Avevamo dalla nostra migliaia di sardi all’estero, in quell’Italia del nord». Erano pullman di tifosi che arrivavano dalla Germania o dall’Olanda, «nei loro occhi non leggevi la gioia dello sportivo, ma del sardo: era orgoglio». La Costa Smeralda non esisteva, l’Aga Khan non aveva ancora trasformato l’isola in una meta di moda. «E noi, che pure eravamo solo dei calciatori, le demmo un nome. Come potevo andarmene?». Così, come un «Bartleby, lo scrivano» del calcio, Gigi pronunciò il più definitivo dei suoi «preferirei di no». Era un uomo del nord che aveva scelto la Sardegna come terra d’elezione. Terra schiva, ombrosa e leale come lui.

Essere Gigi Riva non è il mestiere più facile del mondo. Non lo è da sempre. Quando il padre Ugo muore, 1953, Luigi ha nove anni. La mamma Edis lavora in una filanda e fa le pulizie per arrotondare. Ma le rinunce sono tante. A cominciare dalla spensieratezza. Gigi viene mandato in collegio dai preti, a Viggiù, a Varese, anche a Milano. Scappa più volte. Non sopportava «il peso, l’umiliazione di essere poveri, le camerate fredde, il mangiare da schifo, il cantare ai funerali anche tre volte al giorno, il dover dire sempre grazie signora grazie signore a chi portava il pane, i vestiti usati, e pregare per i benefattori, e dover stare sempre zitti, obbedienti, ordinati, come dei bambini vecchi». Direttori e presidi convocano la madre perché si riprenda quel ragazzo refrattario all’obbedienza, allergico allo studio, introverso, nostalgico dei boschi, degli amici e delle partite all’aria aperta.

Un altro no lo pronuncia a 16 anni, finalmente uscito dal collegio, quando i dirigenti del Laveno voglio acquistarlo dal Leggiuno. All’ultimo momento si sono fatti avanti i padroni del Varese, serie B, allenato da Ettore Puricelli, che oltre a un posto in fabbrica gli promettono un motorino. Ma è tardi, le donne di casa, la madre e Fausta, una delle tre sorelle, si oppongono e Gigi finisce al Laveno. Poi al Legnano, dal quale, nell’intervallo di Italia-Spagna juniores che si disputa all’Olimpico, il presidente Arricca lo acquista per 37 milioni, soffiandolo a Dall’Ara, patron del Bologna. È il 13 marzo 1963, il Cagliari milita in serie B e l’anno prima, ultima di una serie di disgrazie, se n’è andata anche la mamma, stroncata da un cancro. Il giorno del funerale, 5 luglio 1962, l’unica sorella sana rimasta è in ospedale a partorire. Così, men che diciottenne, tocca a Gigi accompagnare da solo il feretro al camposanto.

Nel decennio di grandi cambiamenti che inizia e che contagia anche il calcio, Riva è l’espressione di una forma di ribellione atipica, introversa. Non ha il tratto eccentrico e beat di Luigi Meroni, un comasco trapiantato a Torino, pittore e artista dandy, morto tragicamente in un incidente stradale. Né il carattere antisistema di Gianni Rivera, un piemontese integrato a Milano, leader della contestazione di regole e gerarchie sclerotizzate. La sua è una ribellione esistenziale, trattenuta, taciturna. Che affonda in quell’adolescenza di dolori e rinunce. E Cagliari è il posto giusto dove macerare quella ribellione orgogliosa che si sposa col temperamento schivo, ma solido e terragno di quei posti. Qualche anno dopo quello scudetto, Albertosi, Domenghini, Cera se ne vanno uno alla volta, chi al Milan, chi alla Roma, chi altrove. Se ne va anche Scopigno. Lui resta: «Mi piaceva la gente, mi piaceva la terra; potevi fare il primo bagno già ad aprile, andare a pesca, a funghi in campagna, non c’era lo stress della grande città né la noia e i pettegolezzi della provincia».

Nel 2001, in un’intervista al Giornale all’interno di una serie in cui alcune personalità svelavano il loro «film della vita», Riva raccontò del Dottor Zivago con Julie Christie. «Era un film in cui c’era tutto, vale a dire bravi attori, bei costumi, belle scene, una storia che ti prendeva. Un altro elemento era la natura. Come accompagnatore della Nazionale sono stato spessissimo nell’ex Unione Sovietica. Nei prossimi mesi andremo in Ucraina, in Lettonia, in Estonia… Lì gli spazi, le distanze, i paesaggi sono un qualcosa che ti lascia senza fiato. Aggiunga alla natura Julie Christie e il cerchio si chiude, è perfetto. Lei non era soltanto una brava attrice e una bella donna, era molto di più». La Nazionale l’ha abbandonata poco più di un anno fa con due parole: «Sono stanco». Le trasferte gli costavano, gli acciacchi lo limitavano, non voleva fare «il dirigente che zoppica». E poi c’era lo stress, la tensione di stare a bordo campo, il Lexotan per mantenere la calma. Anche ai tempi del Cagliari era così. Se era squalificato, la domenica pomeriggio, anziché andare in tribuna saliva in auto e andava a farsi un giro a Costa Rei. Poi s’informava sul risultato. Allo stadio continua a non andarci. Legge i quotidiani, il Corriere, la Gazzetta, l’Unione Sarda. Guarda la partita il giorno dopo. Frequenta qualche amico. Tutte le sere cena da Giacomo, «che ha un ristorante di pesce, ma a me fa il minestrone di verdure. Mangio da solo o, se capita, in compagnia». Prandelli aveva provato più volte a convincerlo a tornare nello staff della Nazionale. Ci fosse stato lui a parlare con Balotelli e Cassano magari qualcosa sarebbe andata diversamente. Di sicuro la gestione del disastro. In quell’intervista sul cinema raccontò che tra gli attori prediligeva Clint Eastwood: «Parla poco e non ti delude». Il suo ritratto. Il ritratto di gente più che mai indispensabile al calcio di oggi. Raccontò anche che non andava più al cinema da quando avevano vietato fumare nelle sale. Perciò, ora, ero curioso di sapere quante sigarette fuma. E quanto gli manca Gianni Brera. Ma lui ha preferito di no: «Festeggerò con i miei figli», ha detto gentile. »È la cosa che m’interessa di più».

 

Rivista Studio, 6 novembre 2014

Gigi Riva… che mostrò che non si può comprare tutto

Fuma sempre molto, Gigi Riva, e dorme sempre poco. Così racconta Riccardo Milani in Nel nostro cielo un rombo di tuono, un lungo, forse troppo, docufilm, da ieri visibile su Sky Cinema 2, Sky Sport Summer e Sky Documentaries prodotto da Wildside e Vision Distribution. Il regista lo riprende avvolto nelle volute delle sigarette che si accende a ripetizione, seduto nella poltrona davanti al camino della sua casa di Cagliari. È il posto dei ricordi e dei racconti, snodati dalla voce un po’ metallica che esce dal volto squadrato, pensoso. Una storia lunga da mettere insieme, dall’infanzia a Leggiuno, presto orfano di padre, il collegio dai preti, la perdita della madre, l’amore per il calcio, il temperamento schivo come quello dei sardi che subito lo adottano quando, nel 1963, approda al Cagliari in Serie B. Sette anni dopo, insieme a Ricky Albertosi, Angelo Domenghini, Pierluigi Cera, Comunardo Niccolai e Bobo Gori, guidato dall’allenatore filosofo Manlio Scopigno mentre lui fa gol «a grappoli», il Cagliari conquisterà il primo e unico scudetto della sua storia. Fu la realizzazione di un sogno, la scoperta di una terra fino allora nell’ombra, il riscatto di un popolo di «pecorai» e «banditi», come «ci chiamavano quando giocavamo in trasferta, a Milano o Torino». Sempre in quel 1970, ai Mondiali del Messico, dopo la memorabile semifinale con la Germania, arrivò il titolo di vicecampione del mondo con la maglia azzurra. Si ritirò dopo l’ennesimo infortunio e Gianni Brera gli dedicò una sorta di epitaffio sportivo: «Il giocatore chiamato Rombo di tuono è stato rapito in cielo, come tocca agli eroi. Ne può discendere solo per prodigio: purtroppo la giovinezza, che ai prodigi dispone e prepara, ahi, giovinezza è spenta».

Quella di Milani è una sorta di elegia un po’ nostalgica a più voci, con gli amici dell’epoca, gli anziani che assistettero all’avventura, i compagni di squadra che la condivisero, Roberto Baggio, campione altrettanto antidivo, Nicolò Barella che ha frequentato la scuola calcio a lui intitolata, Gigi Buffon e Gianfranco Zola, talento di calcio e umiltà sarda. E poi Massimo Moratti e Sandro Mazzola a contrappuntare i momenti del gran rifiuto di Riva alla Juventus, quasi un Bartleby del calcio. Tra tutti, si nota l’assenza di Gianni Rivera, che con lui in Nazionale si trovava a occhi chiusi.

Ciò che fa pensare è l’insegnamento tratto dal regista, più che mai attuale nel calcio mercenario di oggi: «Grazie a Gigi Riva ho capito che per noi che cercavamo e cerchiamo ancora adesso un mondo più giusto sarebbe bastato e basta ancora… avere il coraggio, pagandone il prezzo, di saper dire di no a chi pensa di poter sempre comprare tutto».

 

La Verità, 28 giugno 2023

«Portai Sacchi a cena ad Arcore, era interista»

Mai concesso interviste. Mai parlato, se non alle conferenze stampa per dire: questo programma sarà così, quest’altro colà. Silenzio anche quando Paolo Bonolis lo attaccò in diretta su Canale 5 a margine del debutto di Serie A, deludente contenitore domenicale. Ettore Rognoni, 63 anni, nato a Milano, figlio del carismatico conte Alberto, fondatore del Cesena calcio, per decenni protagonista della Lega ed editore del Guerin sportivo che svezzò fior di giornalisti, è stato per 25 anni responsabile del palinsesto sportivo di Mediaset, azienda che ha lasciato nel 2013. Programmi come Pressing, L’Appello del martedì, Controcampo e Maidiregol dipendevano da lui.

Che cosa fa oggi?

«Mi occupo della famiglia che, per diverse ragioni, richiede la mia costante presenza. È questo il principale motivo per cui, cinque anni fa, pur potendo rimanere, ho preferito lasciare Mediaset».

Come si è chiuso il rapporto?

«Molto serenamente. Avendo lavorato lì dal 1983, e dal 1988 come responsabile dei programmi sportivi, sarei potuto rimanere in una posizione protetta».

Invece?

«Fino a un certo punto la redazione sportiva aveva goduto di una discreta autonomia. Nel 2013, con il potenziamento di Premium, affidata a Yves Confalonieri, mi proposero di fare il direttore editoriale per coordinare i contenuti pay e in chiaro. Mi parve un ruolo formale e, in concomitanza con le nuove esigenze di famiglia, preferii lasciare».

Perché la chiamavano «Er Penombra»?

«Solo Paolo Bonolis iniziò a chiamarmi così, non so se per un fatto fisico o di altra natura. Però so che ha attecchito».

Sport e giornalismo ha cominciato a masticarli fin da bambino?

«Mio padrino di battesimo fu Adolfo Bogoncelli, patron della Simmenthal, mentre per la cresima fu Angelo Moratti, presidente della grande Inter. Quando a 12 anni fui sospeso da scuola, per controllarmi mio padre decise che avrei passato i pomeriggi nella redazione del Guerin sportivo».

Una punizione che divenne una palestra.

«Ho conosciuto personaggi straordinari. Rileggevo l’Arcimatto di Gianni Brera, una rubrica di nove cartelle che scriveva in 20 minuti e correggeva in due ore, alla fine delle quali mi diceva: <Sono rincoglionito, passalo tu>. Un ragazzo che correggeva Brera… Luciano Bianciardi, invece, rispondeva alle domande sullo sport di personaggi del mondo del cinema, della televisione e della politica. Io dovevo sollecitare le domande ogni settimana».

Un ritratto di suo padre in dieci parole.

«Una notte del 1951 a Firenze doveva scrivere lo statuto della Figc da proporre ai dirigenti delle società. Alloggiavano tutti in un hotel sul Lungarno. All’epoca si usava lasciare le scarpe in corridoio da lucidare. Dopo aver scritto lo statuto, le prese due paia alla volta e le gettò in Arno; la mattina dopo i grandi capi si presentarono alla riunione in ciabatte. Era un goliarda, ma serissimo sulle cose importanti. Nel suo libro sui grandi giornalisti, Il Flobert, Enzo Ferrari scrisse che era <un eroe del paradosso, davanti alla cui intelligenza bisogna togliersi tanto di cappello>».

Quando capì che il giornalismo sportivo sarebbe stato il suo mondo?

«Dopo l’università frequentai un corso a Coverciano per dirigenti sportivi ideato da Italo Allodi, altro genio dimenticato. Nel 1983, dopo il Mundialito, rinunciai alla vicedirezione nel gruppo Conti ed entrai in Fininvest come ragazzo di bottega a 600.000 lire al mese».

A Milano marittima era vicino di ombrellone di Arrigo Sacchi.

«Anche se ha 10 anni più di me frequentavamo le stesse persone».

Era già entrato nel calcio?

«Era un appassionato, tifoso dell’Inter».

Ah…

«A fine anni Sessanta mio padre organizzava a Cesenatico un Processo al calcio… Aldo Biscardi ha preso tutto da lì. C’erano il pm, la difesa, la giuria presieduta da Ferrari. Partecipavano Angelo Moratti, Franco Carraro, Brera, Aldo Bardelli, Gualtiero Zanetti che dirigeva la Gazzetta dello Sport. Sacchi faceva il rappresentante di scarpe, ma si avvicinò a quel mondo. Anni dopo, quando allenava il Bellaria in serie D, mi telefonò: <Siccome non ho fatto il calciatore a grandi livelli non mi accettano ai corsi di Coverciano>. Ero un ragazzino, ma ne parlai con Allodi, amico di famiglia, e Arrigo fu presentato come allenatore delle giovanili del Cesena. L’anno dopo vinse il campionato primavera».

Il passaggio al Milan come avvenne?

«Marzo 1987, il Milan aveva perso in coppa Italia con il Parma e Adriano Galliani voleva conoscere Sacchi. Organizzammo una cena ad Arcore. Tutto bene, ma alle 2 di notte, al casello di Melegnano, mi disse che il venerdì avrebbe incontrato Flavio Pontello, patron della Fiorentina. Lo invitai a rifletterci, ma il mattino dopo confermò la decisione. Chiamai Galliani, il Dottore era a Roma per ingaggiare Pippo Baudo, Raffaella Carrà ed Enrica Bonaccorti. La sera del giovedì ripetemmo la cena ad Arcore, stavolta con Paolo Berlusconi, Fedele Confalonieri e Marcello Dell’Utri. Sacchi firmò un contratto in bianco e avvisò Pontello che era del Milan».

Com’era Silvio Berlusconi editore?

«Geniale e con convinzioni definite. Però, a volte, poche, ti concedeva di aver ragione. I comitati programmi ad Arcore erano momenti singolari».

Pressing, L’Appello del martedì, Controcampo: cocktail di sport e leggerezza?

«L’idea era contaminare il calcio con lo spettacolo e la comicità. Il primo fu Calciomania con Paolo Ziliani, poi Maidiregol con la Gialappa’s, Teo Teocoli, Gene Gnocchi e Antonio Albanese. A Pressing di Raimondo Vianello, Omar Sivori e Marco Tosatti davano autorevolezza. All’Appello del martedì c’erano ospiti come Franco Zeffirelli e Dario Fo».

E Giannina Facio.

«Una volta facemmo un collegamento con Paolo Villaggio e Moana Pozzi, nuda. Giannina Facio non voleva essere coinvolta, ma era lì… Non so se ora, da compagna di Ridley Scott, ricorda l’episodio. Maurizio Mosca era un genio della non gestione. Carlo Freccero, che dirigeva Italia 1, non interveniva prima, ma ci supportava dopo e, soprattutto, si divertiva».

Un programma fortunato.

«Beniamino Placido aveva scritto che il varietà non era finito perché c’era L’Appello del martedì. Ma poi venne la puntata con Roberto Bettega e Zeffirelli. Si parlava del libro La Juventus e le coppe di Bruno Bernardi della Stampa, e Zeffirelli disse una cosa come: <Quali coppe? L’Heysel?>. Bettega abbandonò lo studio e qualche giorno dopo Berlusconi mi chiese di cambiare smorzando i toni».

La Juventus influenza i media come qualcuno dice?

«Per me è un falso problema. È molto attenta all’immagine e tende a sospettare complotti dietro le critiche a causa della cultura della comunicazione della famiglia Agnelli, tutelata da sempre. Ma non va oltre i limiti».

Mai subito pressioni?

«Mai. Forse il mio cattivo carattere spaventava. La Juventus usa le pubbliche relazioni come si fa nella società della comunicazione. Per esempio, Luciano Moggi non voleva Alberto D’Aguanno come inviato, ma io non mi scomponevo. Pressioni che esercitano anche altri. Una volta Galliani contestò in diretta Aldo Serena per un commento sull’arbitro Trentalange e disse che, fosse dipeso da lui, gli avrebbe tolto la seconda voce nelle telecronache. Cosa che invece continuò a essere».

Che idea si è fatto del rapporto tra gli arbitri e la Juventus?

«Come minimo si può pensare a una sudditanza psicologica, mentre in alcune epoche c’è stato anche qualcosa di più. Sono cambiati designatori e presidenti, però la sensibilità dei dirigenti arbitrali è sempre rimasta molto forte nei confronti del potere».

Che giudizio dà dell’attuale offerta sportiva di Mediaset?

«Per motivi personali non seguo molto i programmi, ma solo gli eventi. In questo momento, dopo l’occasione dei mondiali, non mi sembra che Mediaset sia molto presente. Non seguo le rubriche che vanno in onda molto tardi».

Perché Serie A andò male?

«Il programma partì con le migliori premesse, ma alle prime difficoltà Bonolis mi attaccò in diretta e chiese di spostarlo a Roma. Piccinini e la redazione si opposero e lui dovette rinunciare. Ma anche con Enrico Mentana il programma non decollò».

Con Sky com’è cambiato il racconto del calcio?

«Eccellente professionalità giornalistica e produttiva ma eccesso di autoreferenzialità».

La trasmissione che manca all’offerta di oggi?

«Controcampo».

Il telecronista che apprezza di più?

«Sandro Piccinini».

Sciabolata tesa e sciabolata morbida?

«È uno che legge prima e meglio le partite. Tra i giovani, mi piacciono Federico Zancan e Massimo Callegari».

E tra gli opinionisti?

«Giampiero Mughini è un osservatore intelligente, male utilizzato. Apprezzo Giuseppe Cruciani e Paolo Condò».

Assistiamo a uno scontro tra risultatisti e spettacolari, calcio pratico e calcio estetico?

«È sempre stato così. Brera diceva che il calcio è femmina, che le nostre squadre avevano un atteggiamento passivo, prima di reagire: difesa e contropiede. La Gazzetta era schierata contro il Corriere dello Sport di Bardelli, teorici del bel gioco. In termini diversi queste scuole sopravvivono. Fabio Caressa scettico verso il situazionismo dell’Ajax contro la concretezza della Juventus ne è un esempio».

Allegri o Adani?

«Allegri, anche se non mi è simpatico ed è insofferente alle critiche, come si è visto in passato. Ma stavolta Adani ha fatto un’entrata in gioco pericoloso».

Cosa vorrebbe dire una finale di Champions League tra Ajax e Barcellona?

«Sarebbe una finale tra due modi di giocare molto spettacolari. Credo che il Barcellona potrebbe risultare vulnerabile dai ragazzi dell’Ajax. Anche se non è del tutto escluso che passi il Tottenham».

Maradona o Pelè?

«Maradona».

Io sono per Cruijff.

«Anch’io. Seguii i mondiali del ’74 tifando Olanda in finale. L’altro mio idolo era Gigi Riva».

Messi o CR7?

«Messi».

È più organico al Barcellona di quanto lo sia Ronaldo nella Juventus?

«Il campione funziona nella squadra, non oltre. L’obiettivo di Allegri era quello. Sono curioso di vedere se montano o smontano questa Juventus, cercando di supportare gli ultimi anni di Ronaldo».

 

La Verità, 5 maggio 2019