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«Portai Sacchi a cena ad Arcore, era interista»

Mai concesso interviste. Mai parlato, se non alle conferenze stampa per dire: questo programma sarà così, quest’altro colà. Silenzio anche quando Paolo Bonolis lo attaccò in diretta su Canale 5 a margine del debutto di Serie A, deludente contenitore domenicale. Ettore Rognoni, 63 anni, nato a Milano, figlio del carismatico conte Alberto, fondatore del Cesena calcio, per decenni protagonista della Lega ed editore del Guerin sportivo che svezzò fior di giornalisti, è stato per 25 anni responsabile del palinsesto sportivo di Mediaset, azienda che ha lasciato nel 2013. Programmi come Pressing, L’Appello del martedì, Controcampo e Maidiregol dipendevano da lui.

Che cosa fa oggi?

«Mi occupo della famiglia che, per diverse ragioni, richiede la mia costante presenza. È questo il principale motivo per cui, cinque anni fa, pur potendo rimanere, ho preferito lasciare Mediaset».

Come si è chiuso il rapporto?

«Molto serenamente. Avendo lavorato lì dal 1983, e dal 1988 come responsabile dei programmi sportivi, sarei potuto rimanere in una posizione protetta».

Invece?

«Fino a un certo punto la redazione sportiva aveva goduto di una discreta autonomia. Nel 2013, con il potenziamento di Premium, affidata a Yves Confalonieri, mi proposero di fare il direttore editoriale per coordinare i contenuti pay e in chiaro. Mi parve un ruolo formale e, in concomitanza con le nuove esigenze di famiglia, preferii lasciare».

Perché la chiamavano «Er Penombra»?

«Solo Paolo Bonolis iniziò a chiamarmi così, non so se per un fatto fisico o di altra natura. Però so che ha attecchito».

Sport e giornalismo ha cominciato a masticarli fin da bambino?

«Mio padrino di battesimo fu Adolfo Bogoncelli, patron della Simmenthal, mentre per la cresima fu Angelo Moratti, presidente della grande Inter. Quando a 12 anni fui sospeso da scuola, per controllarmi mio padre decise che avrei passato i pomeriggi nella redazione del Guerin sportivo».

Una punizione che divenne una palestra.

«Ho conosciuto personaggi straordinari. Rileggevo l’Arcimatto di Gianni Brera, una rubrica di nove cartelle che scriveva in 20 minuti e correggeva in due ore, alla fine delle quali mi diceva: <Sono rincoglionito, passalo tu>. Un ragazzo che correggeva Brera… Luciano Bianciardi, invece, rispondeva alle domande sullo sport di personaggi del mondo del cinema, della televisione e della politica. Io dovevo sollecitare le domande ogni settimana».

Un ritratto di suo padre in dieci parole.

«Una notte del 1951 a Firenze doveva scrivere lo statuto della Figc da proporre ai dirigenti delle società. Alloggiavano tutti in un hotel sul Lungarno. All’epoca si usava lasciare le scarpe in corridoio da lucidare. Dopo aver scritto lo statuto, le prese due paia alla volta e le gettò in Arno; la mattina dopo i grandi capi si presentarono alla riunione in ciabatte. Era un goliarda, ma serissimo sulle cose importanti. Nel suo libro sui grandi giornalisti, Il Flobert, Enzo Ferrari scrisse che era <un eroe del paradosso, davanti alla cui intelligenza bisogna togliersi tanto di cappello>».

Quando capì che il giornalismo sportivo sarebbe stato il suo mondo?

«Dopo l’università frequentai un corso a Coverciano per dirigenti sportivi ideato da Italo Allodi, altro genio dimenticato. Nel 1983, dopo il Mundialito, rinunciai alla vicedirezione nel gruppo Conti ed entrai in Fininvest come ragazzo di bottega a 600.000 lire al mese».

A Milano marittima era vicino di ombrellone di Arrigo Sacchi.

«Anche se ha 10 anni più di me frequentavamo le stesse persone».

Era già entrato nel calcio?

«Era un appassionato, tifoso dell’Inter».

Ah…

«A fine anni Sessanta mio padre organizzava a Cesenatico un Processo al calcio… Aldo Biscardi ha preso tutto da lì. C’erano il pm, la difesa, la giuria presieduta da Ferrari. Partecipavano Angelo Moratti, Franco Carraro, Brera, Aldo Bardelli, Gualtiero Zanetti che dirigeva la Gazzetta dello Sport. Sacchi faceva il rappresentante di scarpe, ma si avvicinò a quel mondo. Anni dopo, quando allenava il Bellaria in serie D, mi telefonò: <Siccome non ho fatto il calciatore a grandi livelli non mi accettano ai corsi di Coverciano>. Ero un ragazzino, ma ne parlai con Allodi, amico di famiglia, e Arrigo fu presentato come allenatore delle giovanili del Cesena. L’anno dopo vinse il campionato primavera».

Il passaggio al Milan come avvenne?

«Marzo 1987, il Milan aveva perso in coppa Italia con il Parma e Adriano Galliani voleva conoscere Sacchi. Organizzammo una cena ad Arcore. Tutto bene, ma alle 2 di notte, al casello di Melegnano, mi disse che il venerdì avrebbe incontrato Flavio Pontello, patron della Fiorentina. Lo invitai a rifletterci, ma il mattino dopo confermò la decisione. Chiamai Galliani, il Dottore era a Roma per ingaggiare Pippo Baudo, Raffaella Carrà ed Enrica Bonaccorti. La sera del giovedì ripetemmo la cena ad Arcore, stavolta con Paolo Berlusconi, Fedele Confalonieri e Marcello Dell’Utri. Sacchi firmò un contratto in bianco e avvisò Pontello che era del Milan».

Com’era Silvio Berlusconi editore?

«Geniale e con convinzioni definite. Però, a volte, poche, ti concedeva di aver ragione. I comitati programmi ad Arcore erano momenti singolari».

Pressing, L’Appello del martedì, Controcampo: cocktail di sport e leggerezza?

«L’idea era contaminare il calcio con lo spettacolo e la comicità. Il primo fu Calciomania con Paolo Ziliani, poi Maidiregol con la Gialappa’s, Teo Teocoli, Gene Gnocchi e Antonio Albanese. A Pressing di Raimondo Vianello, Omar Sivori e Marco Tosatti davano autorevolezza. All’Appello del martedì c’erano ospiti come Franco Zeffirelli e Dario Fo».

E Giannina Facio.

«Una volta facemmo un collegamento con Paolo Villaggio e Moana Pozzi, nuda. Giannina Facio non voleva essere coinvolta, ma era lì… Non so se ora, da compagna di Ridley Scott, ricorda l’episodio. Maurizio Mosca era un genio della non gestione. Carlo Freccero, che dirigeva Italia 1, non interveniva prima, ma ci supportava dopo e, soprattutto, si divertiva».

Un programma fortunato.

«Beniamino Placido aveva scritto che il varietà non era finito perché c’era L’Appello del martedì. Ma poi venne la puntata con Roberto Bettega e Zeffirelli. Si parlava del libro La Juventus e le coppe di Bruno Bernardi della Stampa, e Zeffirelli disse una cosa come: <Quali coppe? L’Heysel?>. Bettega abbandonò lo studio e qualche giorno dopo Berlusconi mi chiese di cambiare smorzando i toni».

La Juventus influenza i media come qualcuno dice?

«Per me è un falso problema. È molto attenta all’immagine e tende a sospettare complotti dietro le critiche a causa della cultura della comunicazione della famiglia Agnelli, tutelata da sempre. Ma non va oltre i limiti».

Mai subito pressioni?

«Mai. Forse il mio cattivo carattere spaventava. La Juventus usa le pubbliche relazioni come si fa nella società della comunicazione. Per esempio, Luciano Moggi non voleva Alberto D’Aguanno come inviato, ma io non mi scomponevo. Pressioni che esercitano anche altri. Una volta Galliani contestò in diretta Aldo Serena per un commento sull’arbitro Trentalange e disse che, fosse dipeso da lui, gli avrebbe tolto la seconda voce nelle telecronache. Cosa che invece continuò a essere».

Che idea si è fatto del rapporto tra gli arbitri e la Juventus?

«Come minimo si può pensare a una sudditanza psicologica, mentre in alcune epoche c’è stato anche qualcosa di più. Sono cambiati designatori e presidenti, però la sensibilità dei dirigenti arbitrali è sempre rimasta molto forte nei confronti del potere».

Che giudizio dà dell’attuale offerta sportiva di Mediaset?

«Per motivi personali non seguo molto i programmi, ma solo gli eventi. In questo momento, dopo l’occasione dei mondiali, non mi sembra che Mediaset sia molto presente. Non seguo le rubriche che vanno in onda molto tardi».

Perché Serie A andò male?

«Il programma partì con le migliori premesse, ma alle prime difficoltà Bonolis mi attaccò in diretta e chiese di spostarlo a Roma. Piccinini e la redazione si opposero e lui dovette rinunciare. Ma anche con Enrico Mentana il programma non decollò».

Con Sky com’è cambiato il racconto del calcio?

«Eccellente professionalità giornalistica e produttiva ma eccesso di autoreferenzialità».

La trasmissione che manca all’offerta di oggi?

«Controcampo».

Il telecronista che apprezza di più?

«Sandro Piccinini».

Sciabolata tesa e sciabolata morbida?

«È uno che legge prima e meglio le partite. Tra i giovani, mi piacciono Federico Zancan e Massimo Callegari».

E tra gli opinionisti?

«Giampiero Mughini è un osservatore intelligente, male utilizzato. Apprezzo Giuseppe Cruciani e Paolo Condò».

Assistiamo a uno scontro tra risultatisti e spettacolari, calcio pratico e calcio estetico?

«È sempre stato così. Brera diceva che il calcio è femmina, che le nostre squadre avevano un atteggiamento passivo, prima di reagire: difesa e contropiede. La Gazzetta era schierata contro il Corriere dello Sport di Bardelli, teorici del bel gioco. In termini diversi queste scuole sopravvivono. Fabio Caressa scettico verso il situazionismo dell’Ajax contro la concretezza della Juventus ne è un esempio».

Allegri o Adani?

«Allegri, anche se non mi è simpatico ed è insofferente alle critiche, come si è visto in passato. Ma stavolta Adani ha fatto un’entrata in gioco pericoloso».

Cosa vorrebbe dire una finale di Champions League tra Ajax e Barcellona?

«Sarebbe una finale tra due modi di giocare molto spettacolari. Credo che il Barcellona potrebbe risultare vulnerabile dai ragazzi dell’Ajax. Anche se non è del tutto escluso che passi il Tottenham».

Maradona o Pelè?

«Maradona».

Io sono per Cruijff.

«Anch’io. Seguii i mondiali del ’74 tifando Olanda in finale. L’altro mio idolo era Gigi Riva».

Messi o CR7?

«Messi».

È più organico al Barcellona di quanto lo sia Ronaldo nella Juventus?

«Il campione funziona nella squadra, non oltre. L’obiettivo di Allegri era quello. Sono curioso di vedere se montano o smontano questa Juventus, cercando di supportare gli ultimi anni di Ronaldo».

 

La Verità, 5 maggio 2019