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«Canto contro l’Europa che impone leggi assurde»

Dopo 50 anni di carriera in cui ha scritto per sé, per i Decibel e per grandi interpreti della musica italiana, e dopo 40 vite (senza fermarmi mai), la ricca autobiografia pubblicata da La nave di Teseo, Enrico Ruggeri conserva l’energia per creare un album come La caverna di Platone, da oggi disponibile in digitale, in cd e in doppio vinile (con 5 bonus track). Tredici brani schietti, tra citazioni personali e memorie, attraversati da una gran voglia di autenticità, e che non disdegnano di prendere posizione sulla guerra, sugli inganni del pensiero ufficiale e sull’Europa.
Non bisogna mai sentirsi appagati, Ruggeri?
«Essere appagati non è una bella situazione per un artista. Credo di avere ancora tante cose da dire e raccontare».
L’album si apre con Gli eroi del cinema muto, un brano commovente ma non nostalgico, che tratteggia le figure di quegli attori che rendevano tutte le sfumature dei sentimenti «senza una sola battuta»: un bel punto di vista rispetto alla società parolaia attuale.
«È il mio pezzo preferito».
Perché?
«Mi sono commosso anch’io, scrivendolo, perché è una bella storia. Quando è arrivato il sonoro la generazione di super-divi degli anni Dieci, Venti e Trenta del secolo scorso è stata spazzata via dal futuro. Quasi nessuno è sopravvissuto a quello tsunami. È un pezzo malinconico ed epico, in cui mi pare di aver dosato bene gli ingredienti. Sono contento che l’album inizi con un “Benvenuti” (a questi eroi)».
Trasmettevano la gamma dei sentimenti senza parlare.
«Con lo sguardo dovevano comunicare una sensazione. Arte complicata».
Figure che sono un monito per il nostro presente alluvionato di parole?
«Siamo immersi in un diluvio di parole superflue. Grandi testi ce ne sono sempre meno, sproloqui sempre di più».
Il leit motiv del brano successivo, Il Poeta, dedicato a Pier Paolo Pasolini dice: «Il libero pensiero ha un prezzo da pagare». È questa la lezione che deriva dalla sua vicenda?
«Ma anche da quella di Socrate o dai tanti bruciati sul rogo, da Oscar Wilde a Ezra Pound, fino a Pasolini. Dagli intellettuali scomodi. Come si dice oggi, Pasolini era un personaggio divisivo. Come se uscire dalla narrazione corrente sia in sé stesso un difetto. Invece, i grandi erano e sono divisivi, perché esserlo significa stimolare il dialogo e il confronto. Giorgio Gaber era divisivo, Pasolini super divisivo, persone che non piacevano a tutti».
Nel brano successivo «piovono rose e spade nel cielo di Milano», anche se «non si vede il sole…». Milano è l’avanguardia italiana, possiamo esserne soddisfatti?
«Dal punto di vista della vitalità sì, da tanti altri no. È una città divisa, qui lo dico nell’accezione peggiore, esasperata, violenta. Tuttavia, resto ottimista perché ha in sé un humus di collegamento con il futuro che mi fa ben sperare».
Qual è il suo sguardo sulla morte di Rami Elgaml e i fatti che ne sono seguiti?
«È una brutta storia, strumentalizzata, sulla quale è difficile prendere posizione. Diciamo che le regole vanno rispettate. Ma purtroppo oggi è difficilissimo fare gli agenti o i carabinieri in una città come Milano, dove si deve sempre stare attenti. C’è un’esplosione sociale qui, come in tutta Europa, e purtroppo si specula. Vedo più la caccia all’errore che alla soluzione».
E di come vengono trattati carabinieri e poliziotti cosa pensa?
«Gente che guadagna poco più di mille euro al mese non si merita di essere attaccata. Sto citando Pasolini».
Nella canzone pacifista Zona di guerra, ripete «qui Dio non c’è».
«È una canzone che parla del fatto tragico di per sé della guerra. Ancora più atroce quando colpisce una città abitata da bambini, come a Gaza, perché diventa una strage di innocenti».
«Qualunque sia, Dio non c’è».
«È un posto dove ci sono il Dio dei cristiani, il Dio degli ebrei e quello degli islamici: comunque sia, non c’è. Non si vede».
Che rapporto ha con il sacro?
«Sono un credente, con tutte le perplessità e le fatiche di essere un credente. Ma lo sono».
La caverna di Platone che dà il titolo all’album parla dell’«ultima ingannevole illusione»: qual è questa illusione?

«Pensiamo che ci stiano mostrando la verità, invece ce ne sono mille. Siamo come i prigionieri della caverna che vedevano solo una proiezione del mondo reale e poi scoprono che non esiste una verità assoluta».
Siamo ingannati?
«Più che altro siamo smarriti: leggi una cosa, poi vedi il contrario. Anche sui social si combattono guerre e rischiamo di restare vittime delle tante versioni che ci danno».
Anche l’amore tra un uomo e una donna può essere un’illusione?
«È un’illusione bellissima, che ci porta avanti. Non si può stare da soli, la vita è condivisione e l’amore è la forma più intensa di condivisione».
Poi c’è un brano enigmatico che parla di un problema che accomuna tutti, puoi essere un barbone o un’ereditiera, un tossico o il padrone del sistema: qual è questo problema?
«È il male di vivere, il bisogno di felicità che non dipende da fattori esteriori e passeggeri. Altrimenti non si spiegherebbe perché a New York vanno tutti dallo psicanalista, mentre nell’Africa nera dove si muore di fame, la figura dello psicanalista non c’è».
Invece, «il problema» c’è anche lì?
«Sì, ma lì hanno anche altri problemi. Ognuno ha priorità dettate dal proprio stato psicologico e dalla propria condizione sociale».
La ricerca della felicità accomuna il barbone e l’ereditiera?
«È difficile da raggiungere, indipendentemente dalla collocazione nella scala sociale del mondo».
In Das Ist Mir Wurst (Non mi importa ndr) mette a confronto la storia della grande Europa con le sue cattedrali e i suoi teatri, con «l’Europa delle banche, delle multinazionali, dei centri di potere, della manipolazione del pensiero» che «non è la mia Europa».
«Sono due concezioni opposte. Quand’ero bambino sentivo parlare del sogno di un’Europa comunitaria, unita dalla cultura e dalla fratellanza. Invece, viviamo in un luogo in cui all’improvviso ci danno delle regole. Una mattina ci svegliamo e se proviamo a bere da una bottiglietta d’acqua non si stacca più il tappo, poi dobbiamo cambiare la macchina e mettere il cappotto alla casa perché ce l’ha chiesto l’Europa. Questa Europa è una somma di leggi cervellotiche, non decise dai cittadini. È la protervia del potere ai danni della gente».
Canzone coraggiosa.
«Mi è venuta così e non sono tornato indietro».
La bambina di Gorla è dedicata a sua madre?
«Mia madre insegnava tre giorni alla settimana nel quartiere Gorla a Milano. Per fortuna sua e mia, perché altrimenti non sarei nato, la bomba su quel quartiere cadde in un giorno in cui non aveva lezione. Naturalmente è un racconto che ho ascoltato fin da quando ero bambino. La giornata della memoria per rendere omaggio a quei bambini dimenticati si celebra il 29 ottobre».
Lei ha scritto molte canzoni per le donne e sulle donne. Come prima più di prima parla della solitudine di una donna nel difendere il suo amore: pensa che oggi il contrasto ai femminicidi che funestano la nostra quotidianità sia efficace?
«È un po’ strumentale. Si parla di patriarcato, ma in realtà il patriarcato era una situazione in cui l’uomo aveva un potere tale che la donna non poteva andarsene. Il patriarcato è stato un errore storico grave, ma oggi è diverso. Soprattutto, i giovani non sanno accettare un “no”. Perché sono abituati ad avere tutto. Così succede che se lei ne va con un altro l’uomo impazzisce: piuttosto che con un altro, meglio con nessuno. Mi sembra che sia la disabitudine alla sconfitta, l’incapacità a metabolizzarla, a produrre tante di queste situazioni».
In Cattiva compagnia, dice: «Se soffri di solitudine probabilmente sei in cattiva compagnia… Perdendo occasioni, mi sono seduto lontano dai buoni»: è la sua storia artistica?
«Direi di sì. Raramente sono stato parte di una maggioranza, ho sempre fatto la mia corsa da un’altra parte, sia artisticamente che concettualmente».
Torna in mente il ritornello della canzone su Pasolini: «Il libero pensiero ha un prezzo da pagare».
«Si gira attorno a quell’argomento, andando controcorrente si paga un prezzo salato».
Mi fa un esempio?
«Non appartenendo a nessuna corrente musicale, non rientro nei circoli di quelli che si invitano tra loro. Al contrario, nel mio programma musicale (Gli occhi del musicista, in onda su Rai 2 ndr) ho invitato Davide Van De Sfroos, Eugenio Finardi, Cristiano De André, gente che non va mai in tv».
Cultura alta e bassa: Gloria di Umberto Tozzi ha la stessa dignità della Locomotiva?
«Sono due canzoni diverse. La Locomotiva ha un bellissimo testo e basta, Gloria ha un testo meno pregnante, ma è cantato e arrangiato benissimo. Giocano in due campionati diversi».
La canzone impegnata è più pregiata o no?
«Le componenti di una canzone sono tante. Spesso quella d’autore non ha grande musica e ha arrangiamenti un po’ sciatti, poi c’è l’interpretazione. Io ho cercato di scrivere bei testi, lavorando parecchio per proporre arrangiamenti innovativi. Nella categoria della canzone d’autore tra coloro che hanno dato importanza agli arrangiamenti mi vengono in mente Franco Battiato e Fabrizio De André con Mauro Pagani».
In Benvenuto chi passa da qui, cantata con suo figlio Pico Rama, dice: «C’è un bambino in me, chiede solo di essere amato per quello che è». Anche in Il cielo di Milano c’è un bambino che giudica noi adulti. Che padre è Enrico Ruggeri?
«Un padre che fa fatica a fare il padre perché oggi è un ruolo compresso, travolto di tanti fattori. Pico ormai ha 34 anni, ma con i due adolescenti è più difficile. Una volta una spiegazione e l’esempio del padre contavano per 80% nella formazione di un ragazzo, adesso contano il 10%. Siamo una voce in mezzo a mille».
È un padre amico?
«In teoria non bisognerebbe esserlo. Sono un padre civile e cordiale, ma pronto a intervenire».
Arrivederci e addio, che parla del nostro rapporto con il tempo, chiude l’album: che cosa vuol dire questo doppio saluto?
«Vivendo il presente, non sappiamo mai se il nostro saluto è un arrivederci o un addio».

 

La Verità, 17 gennaio 2025

Breve apologo sui buoni che ci guardano dall’alto

I buoni digrignano i denti. I buoni schiumano rabbia. I buoni inarcano il sopracciglio. I buoni sanno che gli altri sbagliano. Perché, loro, la sanno lunga. Più lunga. Perciò hanno una risposta per tutto.

I buoni non restano spiazzati. I buoni sono pronti a resistere. A lottare ancora. Alla fine, vedrete, avranno ragione loro.

E, comunque, un po’ se lo aspettavano.

I buoni osservano con aria di sufficienza. I buoni non si scompongono. I buoni sono dalla parte giusta della storia. Che all’ultimo li premierà.

I buoni non sono volgari. Parlano bene. Hanno un vocabolario esteso. Moderno. Un vocabolario che ha fatto l’ultimo aggiornamento. Espungendo certe espressioni sfacciate, certe parole sconvenienti.

I buoni sono pensosi. Appoggiano la mascella tra il pollice e l’indice aperti a squadra. Hanno la montatura degli occhiali all’ultima moda e le lenti sempre pulite.

I buoni hanno letto i libri giusti. Delle case editrici giuste. Vanno ai festival che fanno tendenza. Sono abbonati alle piattaforme chic.

I buoni frequentano i locali giusti. Viaggiano verso nuove mete. Fanno diete salutari.

I buoni sono vaccinati a tutto. E contro tutto.

I buoni non si sporcano le mani. Non si confondono con certe storie. Restano a una certa distanza. Scuotono il capo per commiserazione.
I buoni tirano le fila. Hanno le carte in regola. Uniscono i puntini. Hanno sempre l’ultima parola.
I buoni scrivono sulle testate importanti. I buoni fanno opinione. Fanno tendenza. Dettano le mode. E gli argomenti di conversazione degli aperitivi.
I buoni sono letti e ascoltati dalle persone che contano. Ma disdegnano il potere, loro.

I buoni hanno in mano i nuovi media. I buoni sono smart. Sono sexy. Sono trendy. Sono green. Sono cool.

I buoni influenzano. Persuadono. Scolpiscono i pensieri. Forgiano il pensiero.
I buoni sono democratici. Democraticissimi. Sono pronti a immolarsi perché anche gli altri possano esprimersi. Ma qualche volta no, se non la pensi come loro non ti fanno parlare. Per un bene superiore, s’intende. Il bene della democrazia.

I buoni sanno come devono andare le cose. Per loro, ma anche per gli altri. Perché sono dei bravi pedagoghi. E se le cose non vanno come dovrebbero, non è colpa loro ma di chi non ha capito.

I buoni sanno che cosa è giusto desiderare. Cosa è meglio auspicare. Cosa augurarsi. Per il bene di tutti.

I buoni volano alto. Molto alto. A volte troppo. La realtà è qui e ora, un po’ più in basso? Fa niente.
Quando questa roba che sta in basso si presenta, improvvisa, «qualcosa dev’essere andato storto». Sì.

Però i buoni non arretrano. Non demordono. Sono indomiti.

Il fatto è che i buoni sono superiori. Veramente superiori. E ti guardano da lassù.
Perché sono i migliori. E hanno una parola buona per tutti. Cioè, soprattutto per quelli come loro. Un po’ come i Farisei…

Come dite? I buoni sono sempre stati così. Certo. Ma adesso lo sono un po’ di più. Sono ancora più buoni. Ancora migliori di prima. Però, forse, nemmeno loro sono contenti di questa vita schifosa. Già.

Ma, come diceva un vecchio burlone, «potrebbe essere peggio. Potrebbe piovere».

L’autismo dei migliori avvelena ogni dialogo

Siamo diventati un Paese autistico. Cioè, lo siamo da tempo, ma è come se la pandemia da Covid-19 avesse radicalizzato e accelerato una tendenza in atto. Forse era inevitabile. Era inevitabile che l’avvento di un fatto inedito come un’epidemia planetaria portasse a esasperare le differenze, a divaricare le weltanschauung, le diverse visioni del mondo. Da una parte c’è infatti l’ideologia con i suoi derivati, il primo dei quali è il complesso di superiorità strisciante nell’area progressista. Dall’altra c’è il pragmatismo, magari un po’ qualunquista del buon senso. Le conseguenze delle due concezioni sono uno spettacolo quotidiano sotto gli occhi di tutti. Parlando della pandemia, nel primo caso si pontifica a reti e giornali pressoché unificati, sicuri di essere dalla parte giusta della storia. Nel secondo si rischia di amplificare posizioni poco credibili e spesso molto rudimentali. Tuttavia, considerando il fatto che, come si è soliti dire, la scienza procede per approssimazioni e giunge a regole definitive solo dopo infinite prove sul campo, forse sarebbe il caso di non distribuire certezze e imporre comportamenti come fossero dogmi assoluti e incontrovertibili. Lo dico da vaccinato fino alla terza dose.

Questa lunga premessa serve solo per sottolineare che le guerre di religione hanno fatto il loro tempo. Purtroppo, però, spesso accade che l’autismo dei buoni avveleni i pozzi del dibattito, riducendo drasticamente gli spazi del dialogo fin quasi a renderlo impossibile. L’abbiamo visto in modo esemplare l’altra sera quando, mentre stava tentando d’illustrare dei dati, l’ex presidente di Pubblicità Progresso e consigliere Rai, Alberto Contri, è stato costretto ad abbandonare #cartabianca per non sottostare alla gragnuola d’insulti scagliati dal giornalista saltafila Andrea Scanzi. Il tutto con l’approvazione degli altri ospiti (tranne uno) e nonostante il tentativo di Bianca Berlinguer di sedare gli animi. È un copione che si rifrange all’infinito, come l’immagine tra due specchi, nelle strisce d’informazione quotidiana di La7, di cui Otto e mezzo è l’esempio più plastico. La conduttrice, infatti, con i suoi cortigiani abituali, è la campionessa assoluta di questo autismo dei migliori. Quello che mal tollera le voci dissenzienti, le depotenzia nella loro capacità espressiva. Il catalogo è ricco. Nonostante la giornalista-scrittrice si spertichi negli inviti pubblici ad abbassare il grado di testosterone in politica per dare finalmente spazio all’empatia femminile, appena si appropinquano alla sua cattedra Giorgia Meloni o Maria Elena Boschi subiscono un trattamento da posto di polizia venezuelano. Al di là dell’appartenenza di genere, la discriminazione riguarda diffusamente le posizioni di tipo conservatore e si applica ai temi etici, alla giustizia, alla gestione dei flussi migratori oltre che, ovviamente, al Covid. Il problema è che la conduttrice di Otto e mezzo prolifera dentro e fuori la rete di appartenenza dove, non a caso, la tentazione di promuovere «un’informazione meno democratica» è di casa.

Secondo Ernesto Galli della Loggia il peccato è già ampiamente commesso: «Nell’arena pubblica specie radiotelevisiva», ha scritto restando voce solitaria sul Corriere della Sera, «capita quasi sempre, infatti, che il punto di vista culturalmente conservatore sia implicitamente spogliato di qualunque contenuto e dignità ideali, e quindi preliminarmente stigmatizzato come indegno di vera considerazione». Nel dibattito televisivo «la modernità diviene un feticcio da adorare» e a illustrarne le meraviglie, ha proseguito lo storico, viene regolarmente «chiamato il noto scrittore X o il brillante filosofo Y, a obiettare ad esse, invece, un qualche maldestro parlamentare della Lega o di Fdi, al massimo il giornalista di qualche foglio di destra». Regolarmente maltrattato.

Il trampolino di lancio è sempre quello, l’autismo dei buoni. Cioè l’incapacità di mettersi in discussione e di ascoltare visioni diverse. Come definire per esempio il comportamento del Fatto quotidiano in materia di giustizia? La sequela di smentite alle sue tesi giunte dalle sentenze sulla mega tangente Eni o sulla trattativa Stato-mafia sono per caso servite a ridurre il digrignar di denti che attraversa le pagine del quotidiano diretto da Marco Travaglio? Ancor più testardi dei fatti, si prosegue monoliticamente nella medesima direzione.

Dubbi non sono ammessi. Dopo esser stato contestato da larga parte dei movimenti femministi e fermato in Parlamento, ora il disegno di legge Zan contro l’omotransfobia viene riesumato dalla rete Re.a.dy (Rete nazionale delle pubbliche amministrazioni anti discriminazioni) che unisce regioni ed enti locali a guida progressista attraverso «azioni informative e formative» rivolte «a tutta la popolazione» per promuovere iniziative di sostegno dell’agenda Lgbt. In pratica, Re.a.dy opera per affermare un ddl Zan strisciante e mascherato in appoggio alle giornate del Gay Pride, nell’ambito del quale l’associazione stessa è nata. Siccome si è dalla parte del giusto, si procede imperterriti. Lo stesso si può dire per le campagne per la legalizzazione della cannabis e il suicidio assistito promosse in pieno stato d’emergenza. Il quale, evidentemente, ha importanza intermittente. Come ha ben reso il tweet di Gavino Sanna (presidente dell’Associazione consumatori del Piemonte): «Maestà, il popolo ha fame. Dategli bagni inclusivi e linguaggio gender neutral». Ma forse l’esempio più involontariamente comico di autismo dei buoni è la recente intervista concessa da Carmen Consoli al Corriere della Sera. Dopo aver spiegato di aver scelto il padre di suo figlio in un catalogo per la fecondazione assistita praticata in una clinica specializzata a Londra, rispondendo a Walter Veltroni che le chiedeva quale fosse oggi «la virtù che sta sparendo più pericolosamente», la cantante siciliana ha detto: «Empatia. Una notevole diminuzione di empatia, una grande rimonta del narcisismo. Crea sterilità. È tutto usa e getta. Le persone si trattano come se fossero un telefonino». Testuale. L’autismo è inscalfibile e impedisce di pensare a sé stessi in modo critico. Nel caso non ha aiutato a farlo nemmeno l’intervistatore, autore a sua volta anche del pamphlet Odiare l’odio, il cui titolo postula da solo che c’è un odio buono e uno cattivo. E, ovviamente, quello buono è il suo.

Recita il vocabolario Treccani alla voce autismo: «In psichiatria, la perdita del contatto con la realtà e la costruzione di una vita interiore propria, che alla realtà viene anteposta, come condizione propria della schizofrenia e di alcune manifestazioni psiconevrotiche».

Post scriptum Per fortuna esistono piccole, ma significative eccezioni. Esempi di rottura dell’impermeabilità nei confronti del reale e di chi la pensa in modo diverso. Li enumero sinteticamente. La convention di Atreju, dove sono sfilati i leader di tutti i partiti. La decisione di Repubblica di arruolare Luca Ricolfi tra i suoi editorialisti. La revisione dei toni critici di Antonio Socci su papa Francesco. Non è detto che dietro questi esempi ci siano intenzioni romantiche. Di sicuro non ci sono complessi di superiorità.

 

La Verità, 16 dicembre 2021

 

L’azzardo di Ammaniti è una distopia di nome Anna

Niente male come azzardo. Produrre una serie distopica nella quale un virus ha falcidiato gli adulti in un momento in cui una vera pandemia sta mietendo vittime soprattutto tra gli anziani. O la va o la spacca. Il rischio potrebbe comportare il rifiuto del pubblico televisivo, già quotidianamente sommerso da un’informazione apocalittica. Abbiamo i telegiornali farciti dalla contabilità pandemica e tutti i canali intasati di talk show pullulanti di virologi ed epidemiologi che disegnano scenari più o meno foschi: ci mancava Anna, miniserie in sei episodi tratta dall’omonimo romanzo (Einaudi), pubblicato nel 2015 da Niccolò Ammaniti, qui alla seconda prova da regista per Sky Italia (dopo Il Miracolo). Prodotta da Wildside del gruppo Fremantle e coprodotta da Arte France, The new life company e Kwaï, scritta dallo stesso Ammaniti con Francesca Manieri, la serie Sky original andrà in onda dal 23 aprile, giorno in cui tutte le puntate saranno disponibili per la visione sequenziale.
All’epidemia soprannominata «la rossa», un virus che si manifesta con strane macchie sulla pelle prima di attaccare gli organi vitali fino alla morte, sono sopravvissuti solo i bambini e gli adolescenti. In loro il virus «è dormiente», per adesso. In una Sicilia di rottami e rifiuti, dove la natura fagocita i resti della civiltà, resiste solo la legge della sopravvivenza. Ma quando Anna (l’esordiente Giulia Dragotto) fa ritorno nella casa dentro il bosco dove sfanga la giornata, il fratellino Astor (Alessandro Pecorella, anche lui debuttante) non c’è più, rapito dalla banda dei Blu. Oltre all’aiuto di Pietro (Giovanni Mavilla), coetaneo complice e rivale, Anna può contare sul Libro delle cose importanti nel quale la mamma (Elena Lietti) ha trascritto regole e consigli utili ad affrontare la vita «quando io non ci sarò più». Una sorta di lascito, di bussola per l’esistenza in cattività. «Fuori dal bosco ci sono tanti pericoli, ma voi insieme li affronterete. Siete fratelli, siete una famiglia», sottolinea, sebbene abbia istericamente allontanato il compagno al primo palesarsi dell’infezione. Tra piccole insidie e grandi agguati, tra un flashback e qualche reminiscenza da Io non ho paura, tra qualche visione onirica e le apparizioni del fantasma materno, inizia la caccia al fratellino rapito. Che è ricerca del legame con il passato e possibilità di costruzione di un futuro.

«Volevo raccontare una ragazzina costretta a superare i propri limiti, a fare la madre senza esserlo», spiega l’autore e regista. «Volevo vedere che cosa fanno i bambini senza gli adulti, come affrontano il futuro. L’adolescenza è una delle mie ossessioni. E siccome sono un biologo, mi è venuta in mente la situazione creata da un virus che li costringe a far da soli. Con l’esclusivo aiuto della memoria, di un’educazione che proviene dal passato e che si condensa in quel libro delle regole».

Insomma, la chiave interpretativa è nel passaggio di contenuti dagli adulti agli adolescenti. Forse è per questo che fin dalle parole dell’incipit rivolte dal fratellino ad Anna – «Mi racconti del fuori?» – echeggia l’aria moraleggiante dell’«andrà tutto bene» del primo lockdown. Raccontare una catastrofe epidemica in un momento come questo sperando di non creare sovrapposizioni è impresa ardita assai. «L’epidemia da Covid 19 è scoppiata sei mesi dopo l’inizio delle riprese», si avverte all’inizio di ogni episodio. Certo per segnare la distanza dall’attualità. Ma forse, al contempo, anche per segnalare una certa preveggenza autoriale. Chissà se queste sottigliezze convinceranno i telespettatori. Ha un bel dire Nicola Maccanico, vice presidente esecutivo di Sky Italia, che, non essendo voluta, «la sovrapposizione con l’attualità ci ha liberato dal dubbio» di rinviarne la programmazione. Se ci sono, sono «assonanze involontarie. Anna è una meravigliosa storia di fantasia che va a toccare le domande più profonde delle persone». Tutto vero. Ancor più vera è la quotidianità nella quale cade la finzione. Pure Maccanico deve ammettere che «la sera in tv si stenta a trovare una rete in cui non si parli del Covid. Ma», assicura, «Anna è un viaggio diverso, porta speranza». Tuttavia, a conti fatti, è probabile che la storia creata da Ammaniti sedurrà più facilmente quella parte di pubblico che crede che «la pandemia ci renderà migliori». E che, sebbene per fiction, abbia voglia di un’ulteriore immersione nella tragedia dei contagi e della morte. Invece, all’Italia che ha patito davvero per il Covid, la distopia di Ammaniti potrebbe risultare un fastidioso esercizio da laboratorio. Un’epidemia da manuale. La situazione giusta per avviare il ricalcolo della civiltà ad opera dei migliori. Come quello echeggiato dalla sigla della serie, Settembre di Cristina Donà: «Tu mi dicevi che la verità e la bellezza non fanno rumore/ Basta solo lasciarle salire, basta solo farle entrare/ È tempo di imparare a guardare/ È tempo di ripulire il pensiero/ È tempo di dominare il fuoco/ È tempo di ascoltare davvero».

Insomma, la palingenesi dei buoni.

 

La Verità, 13 aprile 2021