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L’all in su Conte di Travaglio&Co. su La7 e La9

Molti più accordi che disaccordi. Anzi, di disaccordi veri non c’è traccia. Del resto, siamo tra noi, siamo in famiglia, non c’è motivo di litigare e nemmeno di dissentire. Era molto rilassata l’atmosfera l’altra sera sul Nove, il canale dove il Fatto quotidiano, la testata televisivamente più sovrarappresentata, ha piantato le tende con i suoi presidi informativi, a cominciare da Accordi & disaccordi (venerdì, ore 22,55, share del 3%, 571.000 telespettatori). In fondo la Nove è solo La7 più due e, con la striscia di Sono le venti di Peter Gomez all’ora dei tg e la serata del venerdì aperta da Fratelli di Crozza, la linea filogovernativa che le firme del Fatto assicurano con la loro assiduità alla rete di Urbano Cairo, fa svelta a rimbalzare di un paio di tasti sul telecomando. Prodotto per Discovery da Loft, il canale tv del Fatto, Accordi & disaccordi, con la & commerciale, lo conducono Luca Sommi e Andrea Scanzi che solitamente intervistano un ospite politico. Alla fine della serata, però, escusso come un oracolo, la guest star è sempre Marco Travaglio. L’altra sera, con un Gad Lerner fresco di trasloco nel quotidiano più filogovernativo del bigoncio, la sensazione di familiarità avvolgeva come un profumo d’intesa. L’atmosfera informalissima come le mise dei giornalisti, era incrinata solo da Sommi, l’unico in studio e in giacca e cravatta, che tentava di salvare le apparenze porgendo domande, pur sempre con una robustissima spalmata di garbo: Gad, tu che hai avuto una grande carriera di giornalista e hai fatto la storia della televisione, come mai sei andato a Pontida a gettare benzina sul fuoco? Non l’avesse detto. Forse sei vagamente poco informato, ha risposto, piccato, Gad. Che, si sa, è più abituato a farle che a subirle le domande e, forse, i disaccordi non li ama nemmeno in epoca di distanziamento sociale. Per recuperare, Scanzi gli ha subito chiesto di spiegare perché, lasciando Repubblica, si è accasato proprio a casa loro. Ma il giorno stesso delle dimissioni, Marco lo ha chiamato e dunque… Dopo la puntuale citazione di Gomez per completare la sfilata delle firme, a suggello si è collegato in sahariana verde dallo studio di casa un Travaglio sguarnito del cipiglio da talk con contraddittorio che inalbera quand’è ospite a giorni alterni di La7, chez Lilli Gruber o Giovanni Floris. Negli altri giorni, infatti, tocca allo stesso Scanzi e ad Antonio Padellaro, quest’ultimo habitué pure di Piazza pulita. Non prendiamoli sottogamba, quella dei colleghi del Fatto è una strategia seria. Sia mai che il sostegno al governo Conte patisca dei vuoti d’aria.

 

La Verità, 7 giugno 2020

«E se la Gruber fosse la Papessa straniera del Pd?»

Provocazione, sberleffo, contropiede culturale. Pietrangelo Buttafuoco ha appena pubblicato Salvini e/o Mussolini (PaperFirst), sapido libello in forma di dizionario sulla scorta di Jefferson e/o Mussolini di Ezra Pound, anno 1936.

Prendere in parola i sapienti scandalizzati dagli eccessi salviniani è un divertissment?

Diciamo che provo a disinnescare i riflessi condizionati che gravano sia su Salvini che su Mussolini. Chi odia il leader leghista dice che è come il Duce, chi lo ama pure. Nel corto circuito si scorge tutta la pigrizia italiana.

Perché scavando si scopre che le presunte similitudini sono fasulle?

Esattamente. Come il «chi si ferma è perduto» pronunciato da Salvini e attribuito a Mussolini, che in realtà è di Dante Alighieri. O il «tanti nemici, tanto onore» che correttamente è «molti nemici, molto onore», e fu coniato dal condottiero tedesco Georg von Frundsberg davanti ai militi veneziani in una battaglia del 1513.

Senta, Buttafuoco, ma non era Bettino Craxi l’erede di Mussolini?

Disegnandolo con gli stivaloni, Giorgio Forattini faceva eco al sentimento del Craxi dei giorni migliori. Il quale, a sua volta, viveva una forma di attrazione affettuosa per la Buonanima. Tanto che si recò a Giulino di Mezzegra, sul Lago di Como, per far mettere una lapide nel posto dove fu ucciso. Il sentimento che dominava in lui era l’essere patriota, amante dell’Italia tutta, in tutte le sue epoche.

Anche a Bruno Vespa, che nel suo ultimo libro è ripartito dal Ventennio, tutti gli interpellati hanno smontato il parallelismo, salvo Dario Franceschini.

Solo lui ha evocato l’insopportabile fantasma dell’arco costituzionale che si trascina il sabba dell’intolleranza. Guarda caso, il nemico di quel dogma fu proprio Bettino Craxi.

L’antifascismo in assenza di fascismo è un boomerang della sinistra di piazza e di salotto?

Lo è perché il popolo ha sempre un fiuto laterale rispetto ai proclami e ai copioni glamour. Un po’ come quando la Chiesa cerca di distrarre i fedeli dai santi, ma le processioni e la devozione popolare riportano in auge il bisogno di celebrare il sacro.

Senza il fascismo, paragonare Salvini a Mussolini è fargli un regalo?

È un tentativo di esorcismo che può provocare la moltiplicazione di quelli che dicono «magari!».

Facendo scattare l’allarme per il ritorno dell’uomo forte?

Il fascismo non fu fascista per come lo intendiamo noi. In questo dizionario molti luoghi comuni cadono, a cominciare da quello sull’immigrazione.

Spieghi.

Faccetta nera è il tentativo di far diventare italiani gli africani. Tra le potenze coloniali eravamo l’unica che faceva dei territori d’oltremare delle province, con i prefetti e le moschee.

Salvini e Mussolini gemelli diversi e non solo per peso specifico?

Molto diversi. Il Capitano incarna il politico di destra e condivide il momento favorevole con Giorgia Meloni, a dimostrazione di una ricca offerta post ideologica. Mentre l’esperienza di Mussolini resta una pagina nell’album del socialismo. Eretico quanto si vuole, ma sempre socialista.

Nei primi anni della sua azione.

E anche alla fine, con la Rsi.

Per la classe politica attuale il confronto con il Novecento non può che essere impietoso.

Oggi il contesto è a-ideologico e perfino anti-ideologico. Il secolo scorso imponeva uno sforzo intellettuale molto superiore. Oggi domina la superficialità, che è transeunte ed evapora subito non avendo fondamento.

Per rimanere nel populismo, Beppe Grillo sta durando più di Guglielmo Giannini, l’uomo qualunque.

Perché, grazie a Carlo Freccero e Antonio Ricci, ha avuto la possibilità di irrobustirsi con il dadaismo.

La traversata dello Stretto di Messina aveva echi dannunziani: poi?

Sono spariti perché ha dovuto sgattaiolare nella buca della rispettabilità borghese. Mettendosi con il Pd si è consegnato mani e piedi al sistema.

Addio cambiamento.

Invece di proseguire l’impresa nella libera città di Fiume si è buttato tra le braccia del Cagoia, il triestino che disse «mi no penso ghe per paura», divenuto simbolo di viltà. L’unico che può essere uno strepitoso Guido Keller è Alessandro Di Battista.

Verrà il suo momento?

Quanto meno come Keller avrà la possibilità di alzarsi in volo e gettare un pitale su tutti gli anticasta che si stanno facendo salvare la poltrona proprio dalla casta.

Per il Cagoia Giuseppe Conte, che in un pomeriggio passa da un governo di centrodestra a quello più a sinistra dell’Occidente, ci sono precedenti?

Iscriverlo nel capitolo del trasformismo sarebbe persino nobilitante. Invece è proprio perfetto per la caricatura del «paglietta», il giurista sciuè sciuè, ampolloso dicitore.

Senza contenuto.

Buono per tutti gli usi. Prima si diceva che era il vice dei suoi vice, adesso è sicuramente vice del suo portavoce, Rocco Casalino. Con l’emergenza coronavirus, dal Conte 2 siamo passati al Casalino 1.

Restando tra spregiudicati volteggi, chi è l’antenato di Matteo Renzi?

Amintore Fanfani, «il Rieccolo».

Medesima provenienza.

E caratteraccio. Purtroppo per Renzi, invece che da Ettore Bernabei è affiancato da Marco Carrai.

Giorgia Meloni alleata di Salvini somiglia al Gianfranco Fini coccolato dai giornaloni in chiave anti Berlusconi?

Ci provano, ma non ci riusciranno perché lo spessore della Meloni è molto superiore a quello di Fini. Non è una comprimaria, ma una protagonista.

Come dice il sociologo Luca Ricolfi.

La Meloni ha l’imbarazzo dei destini. Può fare il sindaco di Roma, ritagliarsi una stagione da premiership o andare in Europa. O, infine, può far saltare il risiko dei poteri forti. In questa veste mi ricorda la Sposa interpretata da Uma Thurman in Kill Bill che, armata di katana, consuma la sua vendetta.

 E il fatto che sia donna…

È un vantaggio. Nel libro l’ho paragonata all’Italo Balbo della trasvolata atlantica che, pur con tutto il politically correct, ha ancora la strada intitolata a Chicago. Anche lei non deve temere la contraerea italiana.

Salvini la tollererà.

A destra è una ricchezza che siano in due o tre, hanno diversi potenziali premier.

Tipo?

Se serve un garante c’è Roberto Maroni; se serve chi ha esperienza ci sono Maurizio Gasparri e Roberto Calderoli; se serve qualcuno pronto alla battaglia frontale i nomi abbondano.

Invece la sinistra?

Ha l’establishment, i tecnici e le dinastie, ma non ha la politica. Infatti si fa sempre sedurre dal Papa straniero: Bergoglio, Roberto Saviano, Greta Thunberg, le Sardine, Carola Rackete…

Nicola Zingaretti?

È un socialdemocratico alla Mario Tanassi. Quanto al suo operato di amministratore è peggio di quello di Virginia Raggi. Ma nessuno lo dice.

Il gemello diverso di Massimo D’Alema è Enrico Berlinguer?

Il confronto giusto è con Palmiro Togliatti che, a sua volta, era il D’Alema dei suoi tempi.

Molto elogiativo.

Per i comunisti ho un debole perché non sono di sinistra.

Nel senso della sinistra da salotto di oggi?

Esatto. Il mio più caro amico è stato Stefano Di Michele, collega al Foglio, un contadino abruzzese che non si mischiava con i birignao. E destino vuole che lavori con un fior di comunista come Peppino Caldarola.

Luigi Di Maio?

Pinuccio Tatarella ne avrebbe fatto uno statista. Ne aveva le potenzialità, purtroppo è finito nella trappola di Grillo.

Che lo sta consumando.

Non potrò mai credere che sia contento di governare con il Pd.

Le Sardine le confrontiamo con i girotondi?

Eppure, oplà, sono loro la prosecuzione del qualunquismo sotto l’ala protettiva del conformismo. L’approdo nel mainstream lo dimostra.

Sinistra di piazza e di reality?

Non solo. Quando mai un antagonista è esposto nella vetrina del potere. Manca che siano ricevuti dal Papa e avranno percorso tutte le tappe del politicamente corretto.

Andranno prima da Antonio Spadaro che li ha già adottati.

Spadaro è un Andreotti capovolto, non devoto a Dio come il vecchio Giulio. Se potessi farne un romanzo, me lo vedo baciare Totò Riina piuttosto che Salvini.

Il cui avversario alle future elezioni sarà Giuseppe Sala?

Mi sembra un po’ troppo fighetto, tendenza Bignardi.

Nel suo talk show si è palesato potenziale leader.

Lui il Papa straniero? Mmmh… facile governare Milano, voglio vederlo a Scampia.

Ci sono precedenti da Palazzo Marino a Palazzo Chigi?

Governare l’Italia partendo da Milano ci sono riusciti solo Mussolini, Craxi e Berlusconi. Non credo che la compagnia gli piaccia.

Però siamo tornati all’inizio.

Già, ma il Papa straniero potrebbe essere una Papessa.

Lilli Gruber?

Se ne avesse voglia. Il sangue altoatesino potrebbe aiutarla.

Con lei la sinistra di salotto avrebbe vinto.

Sì. Solo che la Merkel all’italiana, anziché avere le radici nella gloriosa Germania est, ha l’asso nella manica di Urbano Cairo…

 

Panorama, 11 marzo 2020

Il coronavirus e le diverse lezioni di Formigli e Klopp

Rispondendo alle domande di un’agenzia di stampa sull’emergenza coronavirus, Urbano Cairo, proprietario di La7 nonché editore di Rcs ha detto che «oggi non serve a nulla essere ottimisti. Anzi, è necessario essere realisti, persino pessimisti». E, incalzato, ha aggiunto: «Mi preme dire che l’emergenza sanitaria mi ha convinto che ci vogliono misure “cinesi”, molto più dure di quelle messe in campo fino a oggi». Non più tardi di un mese fa, quando in Italia l’epidemia era a livelli embrionali, per sfidare la psicosi che serpeggiava nella gente comune, alcuni prestigiosi conduttori della sua televisione (Corrado Formigli e Myrta Merlino) si sono fatti portare in studio degli involtini primavera, cucinati in qualche ristorante cinese di Roma, per degustarlo in diretta. «Noi siamo amici della scienza», era stato il mantra del conduttore di Piazza pulita. «Potete andare nei ristoranti cinesi, siate razionali, crediate nella scienza». La scienza è quella stessa che, allo stato dei fatti, non ha il vaccino contro il Covid-19? Due giorni dopo, pur consultando Roberto Burioni, e con molta meno enfasi, è stata la conduttrice dell’Aria che tira a imitare Formigli. La parola d’ordine era minimizzare l’insorgere dei contagi, a dispetto dei sovranisti che, cominciando dai governatori del Nord, dipingevano scenari apocalittici. Lo scopo era combattere il razzismo, non il virus (Toni Capuozzo).

Purtroppo, da qualche decennio i conduttori di programmi di approfondimento, più che approfondire si schierano da una parte o dall’altra. In occasione della crisi sanitaria più grave del secolo (finora), adottare comportamenti superficiali ha una gravità che, forse, un editore dovrebbe considerare. Ma se si segnalasse a Cairo l’incongruenza di questi atteggiamenti, verosimilmente risponderebbe che ha sempre lasciato libertà ai suoi conduttori. Scendendo nella piramide gerarchica, La7 ha in Andrea Salerno un direttore che dovrebbe dare una linea editoriale alla rete. Infine, ci dovrebbe essere l’umiltà degli stessi conduttori che, per altro, spesso sproloquiano sul primato della competenza. Purtroppo, spesso la partigianeria offusca la responsabilità e il senso della misura. Ora a Formigli bisogna riconoscere il cambio di rotta dell’ultima, istruttiva, intervista al direttore del dipartimento di malattie infettive del Sacco di Milano, Massimo Galli. I buoi però ormai sono a spasso. Come certi giovanotti sui Navigli. Dare un’occhiata al video in cui l’allenatore del Liverpool Jurgen Klopp rimbalza la domanda di un giornalista sul coronavirus potrebbe essere istruttivo.

 

La Verità, 10 marzo 2020

«L’Italia ha bisogno di una start up del fare»

Montecarlo, Cagliari, Londra, Milano… Flavio Briatore è un globetrotter della concretezza. Più che mai ora, dopo la pubblicazione su Instagram del logo del Movimento del Fare che simboleggia una mano con dita rosse e verdi, palmo bianco e pollice che punta verso l’alto. L’iniziativa era attesa e, nell’aria frizzantina di questo settembre che registra le insoddisfazioni di Carlo De Benedetti e le tentazioni politiche di Urbano Cairo, ha dato la stura alle interpretazioni. Per correggere le quali è stato necessario un secondo post: «Il #MovimentodelFare è indipendente, non è legato ad alcun partito, né di destra né di sinistra».

Con la pubblicazione del logo ha rotto gli indugi: la freccia che punta verso l’alto è il simbolo della rinascita italiana?

Certo, puntiamo in alto per fare rinascere l’Italia. Ma la cosa importante da chiarire è che si tratta di un movimento apartitico e apolitico.

Niente a che vedere con un partito?

Niente, nessun legame né a destra e né a sinistra.  La nostra idea è radunare in vari settori come il turismo, la salute, la giustizia, lo sport, l’ambiente e l’economia, persone in grado di offrire la loro esperienza, mettendola a disposizione del Paese.

Professionisti, imprenditori…

Persone che, se non fossero unite in un movimento, sarebbero inavvicinabili. Persone che hanno lasciato il segno nel proprio campo, che non possono fare i politici passando ore ed ore in Parlamento perché hanno le loro attività da mandare avanti.  Ma che possono e vogliono dedicare qualche ora la settimana per fare da consulenti in vari settori.

«Fatti, non parole», secondo un vecchio slogan pubblicitario?

Esatto. Le faccio un esempio. Qualche giorno fa ho incontrato il governatore sardo, Christian Solinas, per studiare come rivitalizzare la Sardegna, bellissima ed una volta sulla cresta dell’onda, ma che oggi perde colpi rispetto a Ibiza, Saint Tropez, Marbella. Un esempio? Perché i calciatori vanno tutti a Ibiza o a Mikonos?

Già, perché?

Perché ci sono più eventi ed attrattive, tutto l’anno. Abbiamo pensato che la Sardegna deve allungare la stagione turistica, creando occasioni ed eventi che la rendano una destinazione appetibile non solo in piena estate. Ci sono tante idee e non solo per la Sardegna, e anche con l’aiuto di Lucio Presta, sto mettendo insieme un gruppo di professionisti.

Perché queste idee vengono a un imprenditore?

Vengono a chi è sul mercato, gira il mondo e ha attività commerciali non solo in Europa ma anche nel resto del mondo. Il movimento vuole aiutare a modernizzare il Paese con proposte manageriali, e lo facciamo a titolo gratuito perché altrimenti costeremmo troppo. Proposte che potranno essere adottate, ignorate, migliorate.

Stretta logica imprenditoriale.

Che i politici di professione non hanno e non possono avere. Prendiamo i grillini: prima di entrare in Parlamento pochi di loro facevano la dichiarazione dei redditi perché non avevano mai lavorato. Come possono trovare soluzioni adatte a un mercato sempre più sofisticato? Io penso di poter dare qualche consiglio sul turismo: ho fatto dieci volte il giro del mondo, conosco bene il Medio ed Estremo Oriente, l’Europa, gli Stati Uniti… E questo vale anche per professionisti di altri settori, dalla salute allo sport alla giustizia, dove un responsabile sceglierà i suoi collaboratori per formare un dream team di esperti.

Cos’è, un’opera di volontariato?

In un certo senso sì. Diciamo che sarà una grande start up gratuita a servizio dell’Italia, che userà principalmente Instagram come mezzo di comunicazione, niente oracoli.

Chi vorrebbe al suo fianco?

Per ora niente nomi. Ma parliamo di gente valida e a tutti i livelli, giovani e anche i meno giovani perché l’esperienza è una grande risorsa. Dalle e-mail e dalle segnalazioni vedo che c’è molto entusiasmo. Persone che si propongono anche per il fatto che si tratta di un movimento apolitico.

Vi rivolgerete agli enti locali e al governo?

Certo, ma possiamo dialogare con tutti. Potremmo aiutare e supportare le start up, suggerire come riformulare quelle che non sono riuscite ad affermarsi.

Si prefigge di aiutare l’Italia, ma vive all’estero.

La residenza in Italia non è indispensabile, anche Sergio Marchionne l’aveva all’estero. Da 37 anni sono iscritto all’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero ndr) e le mie opportunità di lavoro e di crescita le ho avute all’estero. Ma voglio ricordare che grazie alle vittorie con la Benetton in Formula Uno (3 campionati del mondo ndr) ho portato con orgoglio sui podi di tutto il mondo l’inno di Mameli.

I politici sono pronti per questo tipo di confronto?

È un’idea costruttiva e noi siamo pronti a dare una mano. Poi saranno loro a decidere se accettare le nostre proposte, ignorarle o rigettarle.

Che cosa pensa del nuovo governo?

In questo momento mi sembrano tutti concentrati sugli affari di Palazzo e vedo poche proposte. Mi auguro che capiscano che sono al governo per gestire il presente e il futuro del Paese e non quello delle loro carriere.

Lei che è il Trump italiano, come giudica il tweet del presidente americano in favore di Conte?

Secondo me Trump ha fatto un endorsement semplicemente perché ha apprezzato il savoir faire di Conte durante la crisi. E poi conoscendolo già, preferisce continuare a trattare con lui piuttosto che con un nuovo personaggio.

Ma Conte si preparava a guidare un governo di sinistra.

Oggi a sinistra, domani a destra. Continuiamo a chiedere elezioni, ma non ricordo qual è l’ultima volta che l’esito del voto ha stabilito chi doveva essere il premier. Ormai ci siamo abituati al fatto che le scelte dei cittadini contano quasi zero.

Il nuovo governo ha abbastanza a cuore le esigenze del mondo produttivo?

Temo di no. Invece, bisogna puntare sulla produzione, chi cerca il benessere deve favorire il mondo produttivo.

Come si fa se il principale partito del nuovo governo persegue la decrescita felice?

Credo che i Cinque stelle comincino a capire che non devono spingere su quel tasto perché gli elettori non li stanno più premiando. Dopo 15 mesi di governo c’è stata una specie di rivoluzione, innescata da Renzi che ancora una volta ha dimostrato di essere un politico con un ottimo intuito.

Dopo il reddito di cittadinanza si pensa al salario minimo.

Solo misure assistenzialistiche. Se i 700-800 euro del reddito di cittadinanza venissero dati agli imprenditori si creerebbe lavoro, si potrebbero assumere i disoccupati, con il vantaggio che almeno ci sarebbe un controllo in cambio di una prestazione d’opera. Invece, si riceve un sussidio, si fa un po’ di lavoro nero e si tira avanti senza controlli.

Auspica il taglio del cuneo fiscale?

Certo, in Italia il costo lavoro è insostenibile. Se un dipendente prende 2000 euro, all’azienda ne costa 4000. Se ci fosse una tassazione al 30% nessuno penserebbe di evadere. Ma con il 60% di tasse le aziende sono in seria difficoltà.

Perché secondo lei Forza Italia, capeggiata da un imprenditore geniale come Silvio Berlusconi, è diventata marginale?

Un grande imprenditore deve circondarsi di buoni manager che facciano crescere l’azienda. Non ci sono più le one man band. Se un marchio passa dal 40% del mercato al 7% vuol dire che qualcosa non va bene.

Forza Italia?

Forza Italia è Berlusconi. Purtroppo la sua squadra è rimasta sempre più o meno la stessa e non ha funzionato.

Anche Urbano Cairo accarezza l’idea di fondare il suo partito.

Cairo ha dimostrato di essere molto bravo. Ha risanato La7 e il gruppo Rcs e si è imposto come uno dei grandi manager italiani. Non so se abbia tempo di scendere in campo politico, perché è ovvio che questo impegno lo distoglierebbe dalle sue attività aziendali, con conseguenze sulle performance delle stesse.

Il nuovo governo farà le grandi opere?

Me lo auguro. Dobbiamo fare la Tav e anche il ponte sullo stretto di Messina. Tutte le nazioni ripartono con le opere pubbliche perché creano lavoro e fanno girare l’economia. Le opere pubbliche non sono aziende private dove il rapporto costi-benefici è fondamentale. Niente di più sbagliato. Sono invece opere a servizio dei cittadini, generano lavoro e sono investimenti a lungo termine per il futuro del Paese: ferrovie, autostrade, aeroporti, porti. Il Sud può rinascere puntando tutto sul turismo, creando le infrastrutture necessarie. Abbiamo un clima ottimo, sole, mare e posti magnifici. Il Sud potrebbe diventare davvero la Florida d’Europa.

Perché il Twiga di Otranto non è decollato?

Beh… Era una licenza che avevamo dato a dei bravi imprenditori locali che volevano fare un upgrade di strutture già esistenti. Siamo stati bloccati e il progetto è sfumato.

Perché la politica italiana non fa niente per sostenere il turismo?

Il ministero del Turismo, che dovrebbe essere il più importante per l’Italia, non ha neanche una sede centrale propria.  Sono andato a trovare il ministro Gian Marco Centinaio che aveva le deleghe, mi ha ricevuto negli uffici dell’agricoltura. In compenso, le varie regioni hanno uffici prestigiosi di rappresentanza all’estero, da New York a Hong Kong con burocrazia e costi enormi, assolutamente inutili. Il turismo dev’essere centralizzato e il pacchetto Italia va promosso e sviluppato in modo unitario.

Cos’è, miopia, inettitudine, mancanza di pianificazione?

Le tre cose insieme. Le faccio un altro esempio: Viareggio è la capitale italiana della nautica, i costruttori sono tutti lì, ma non c’è un porto. La Costa azzurra, che è un terzo della nostra Sardegna, ha il triplo dei suoi porti. Ripeto, se i politici mi dessero retta, daremmo vita a una Florida europea.

Charles Leclerc è avviato a superare i successi di Michael Schumacher e Fernando Alonso scoperti da lei?

Visto che cosa ha fatto ultimamente, non solo a Monza, penso che sia un predestinato. Dipenderà da come lavorerà e coltiverà il suo enorme talento.

Ciro Grillo, figlio di Beppe, è stato denunciato con tre amici per stupro da una ragazza milanese. La serata era iniziata al Billionaire di Porto Cervo, la denuncia è stata fatta nella caserma dei carabinieri di via Moscova a Milano. Secondo lei come ha fatto una notizia così a restare coperta 40 giorni?

Premesso che quando uno esce dal Billionaire può fare quello che vuole, penso che se non fosse stato il figlio di Grillo non ne avrebbe parlato nessuno. Non getterei la croce su dei ragazzi prima di sapere con certezza che cos’hanno fatto. Mi sembra strano che la denuncia sia arrivata dieci giorni dopo i fatti.

 

Panorama, 18 settembre 2019

«La mia vita scandita dalle telefonate non arrivate»

Quanta vita, Rita dalla Chiesa. L’infanzia e la gioventù in caserma. Il padre ucciso dalla mafia. Il primo matrimonio, troppo precoce. Il secondo, con Fabrizio Frizzi di dieci anni più giovane. Il giornalismo, la televisione, il successo. Una rivelazione, questo Mi salvo da sola (Mondadori), autobiografia dolceamara ma molto vera, rapidamente entrata nella top ten delle vendite. Occhi verdi e capello biondo, la incontro in una pasticceria di Ponte Milvio a Roma.

Che cosa l’ha fatta decidere di mettersi così a nudo rivelando sentimenti tanto personali?

«La testardaggine di una dirigente della Mondadori e una giornata di sole a Torre Canne, un paesino tutto bianco della Puglia dov’ero in vacanza con mia figlia e mio nipote. Ho guardato il mare e le loro teste vicine, ho aperto il computer e ho cominciato a scrivere».

Senza riserve?

«Quasi. Mi sono autocensurata su Fabrizio. È stata una forma di discrezione che non ha tolto nulla al racconto. Sono cose belle, che appartengono a me e lui».

È un libro di telefonate non arrivate. Quella dei carabinieri per la morte di suo padre, quella dei vertici di Mediaset dopo la chiusura di Forum

«C’è anche quella del mio compleanno del 31 agosto. Era sempre mio padre a farmi per primo gli auguri, ma quel giorno no. Era offeso perché avevo mandato mia figlia in vacanza dai nonni materni e non da lui. Le antenne di mamma mi dicevano che Capri era più sicura di Palermo. Poi c’è la non telefonata dei Carabinieri per avvisarmi che era stato ammazzato. L’Arma è la mia seconda famiglia, ma in quel momento comandava un generale che non amava mio padre. La terza telefonata non arrivata è quella dei dirigenti Mediaset quando hanno saputo che stavo andando a La7».

Il giorno dell’uccisione di suo padre nessuno l’avvertì?

«No. Telefonarono il mio ex marito, papà di Giulia, e il mio compagno di allora. Entrambi mi chiesero se ero sola a casa, e lo ero. Più tardi ebbi la conferma dei miei sospetti».

La sua reazione fu una doccia lunga una notte, accucciata a terra, e «l’urlo silenzioso» che porta ancora dentro.

«Non sono mai riuscita a piangere per la morte di mio padre, di mia madre prima, e di Fabrizio poi. Mentre ho pianto per la perdita del marito di mia figlia, guardando mio nipote Lorenzo che adorava suo padre».

Spesso le figlie femmine idealizzano il padre: il suo aveva qualche difetto?

«Tantissimi. Avevo idealizzato il suo rapporto con mia madre. Si erano incontrati quando lui aveva 18 anni e lei 15, avevano superato insieme anche la guerra. Ho fatto un gran casino nella mia vita sentimentale perché cercavo un uomo come mio padre. Ma forse ero io a non essere come mia madre. Troppo ribelle. Probabilmente ero la pedina mancante nel rapporto di coppia. Tranne che con Fabrizio».

Un padre che aveva sconfitto il terrorismo era facile idealizzarlo?

«Io soprattutto lo stimavo. Avevo profonda ammirazione di un uomo con il quale si poteva parlare di tutto e che ti spiegava tutto. Non l’ho idealizzato perché ne riconoscevo certi spigoli del carattere, simile al mio».

Perché di sua madre non riesce a parlare?

«La sua morte è stata uno choc ancora più forte. A 52 anni se n’è andata in mezz’ora. In quell’infarto c’era tutta la preoccupazione per la vita che conduceva mio padre. Era una donna di grande intelligenza e cultura, laureata in lettere e filosofia, ma ha rinunciato a tutto per papà e per noi. Anche la perdita di mio padre è stata un trauma enorme. Ma in qualche modo lui aveva scelto una vita che lo esponeva. Non mi perdono di aver vissuto più a lungo di loro. E di non aver fatto in tempo a regalar loro un grande viaggio».

Mi racconta qualcosa di inedito di Frizzi?

«Non ha mai frequentato i piani alti di Viale Mazzini. Non ha mai avuto santi protettori».

Aveva l’affetto della gente, come si è visto dalle lunghe code alla camera ardente dopo la sua scomparsa.

«La gente lo amava, io lo sapevo perché giravo con lui. Era pieno di generosità verso chiunque. Per condurre serate di beneficenza partiva anche di notte senza prendere mai un euro, a differenza di tanti suoi colleghi. Era buono e in tv si vedeva. Si vedeva che lottava come un leone per dedicare la vittoria sulla malattia alla figlia Stella, tanto desiderata. Ha accettato qualsiasi cura, è tornato a lavorare quasi subito. In tante famiglie c’è qualcuno che lotta…».

Come si è spiegata il divorzio da Mediaset?

«Non me lo sono spiegata, ancora oggi mi fa stare male. Non tanto per Forum, avrei potuto fare altro, quanto per i rapporti con le persone. Quando hanno saputo che mi stavo accordando con Urbano Cairo avrebbero potuto chiamare. Ho lavorato con loro 32 anni. C’eravamo io, Corrado, Mike Bongiorno, Sandra e Raimondo, Maurizio Costanzo. Eravamo una famiglia, si lavorava con, non per. Mi ero esposta anche quando si paventava la chiusura di Rete 4 e quando c’era stata la discesa in campo di Berlusconi».

Com’era il rapporto con lui?

«È sempre stato affettuoso, mi ha anche proposto di entrare in politica. L’anno scorso mi ha chiesto se volevo “tornare a casa?”. Gli sono riconoscente perché ha saputo creare una realtà che ha dato lavoro a tanta gente. Sono sicura che lui non ha condiviso questo distacco. Ma qualcuno lo ha deciso, non so chi. Non credo sia un problema di età. Vedo che tra le conduttrici è la stagione delle signore più che delle signorine».

Ora è meno presente in tv.

«Su Rai 1 partecipo a Italia sì di Marco Liorni con Elena Santarelli e Mauro Coruzzi, Marco ci chiama i tre saggi. E, una volta la settimana, a Storie italiane di Eleonora Daniele. Poi ho un programma a RadioNorba».

Lo si scopre solo quando si scende di essere vissuti dentro un Truman Show?

«Sì, finché ci sei immerso non te ne accorgi. Certo, sapevo di fare aria fritta, di non operare al cuore o di alzarmi alle tre del mattino per fare il pane. Se hai un minimo di lucidità hai presente che è un gioco, e che ti può fare male quando scendi. Oltre ai Carabinieri, le persone per cui ho stima fanno mestieri diversi. Mi sono vergognata di quello che guadagnavo quando ho visto quello che mio padre aveva in tasca quando è stato ucciso».

Vedendo la situazione di Roma si è pentita di aver rifiutato la proposta di Giorgia Meloni di candidarsi a sindaco?

«Anzi, sono contenta di aver declinato. Mio padre una volta mi disse di non fargli fare brutta figura: un conto è un errore in una trasmissione televisiva, un altro nella gestione del bene comune. La politica mi appassiona però, non appartenendo a nessuno schieramento, sarebbe stato difficile essere credibile».

Cosa non le è piaciuto del comportamento di Lilli Gruber con Matteo Salvini?

«L’ho trovata particolarmente aggressiva. A volte vedo aggressività nei confronti di alcune persone e condiscendenza verso altri. A casa mia tratto tutti allo stesso modo. Se ho un ospite non lo devo attaccare perché la pensa in modo diverso. Cerco di essere intellettualmente onesta e provo a capire quello che dice».

C’è un’ossessione generale anti Salvini nei media?

«È la stessa che c’era nei confronti di Berlusconi. C’è la paura che possa vincere, che possa essere più forte di loro. Io vorrei che certi programmi mi lasciassero qualche dubbio. Invece, quando vedo che attaccano qualcuno in modo gratuito, mi scatta immediatamente la difesa della persona aggredita anche se non la penso come lei».

Litiga mai con suo fratello Nando che ha sempre militato a sinistra ed è stato parlamentare del Pd?

«Nando mi riconosce il fatto di essere pura perché non faccio parte di nessun coro. Sui social scrivono che sono di destra, altri che sono di sinistra. Qualcuno dice che mio padre si rivolta nella tomba perché mi batto per le minoranze sessuali. Pazienza, è il prezzo del fatto di non essere allineata».

Domenica andrà a votare?

«Certamente, ma proprio a mio fratello l’altro giorno dicevo che non so per chi. Potrei votare Salvini, ma non mi convincono alcune posizioni. Sono d’accordo con lui sulle Ong e su tante altre cose. E il suo pensiero viene spesso riportato in modo estremo. Ma credo che ognuno abbia il diritto di sperare di vivere meglio. Certo, non a scapito nostro, ma non me la sento di tirare indietro la mano».

Quali sono le altre cose su cui concorda con Salvini?

«L’impegno per la sicurezza delle persone e contro le abitazioni violate. L’abbassamento delle tasse e il tentativo di favorire i piccoli imprenditori strozzati dal fisco».

Che pensiero le suscita l’Italia di oggi?

«Mi suscita un grande punto interrogativo. Vedo tanta stanchezza e preoccupazione nella gente che avrebbe voglia di tirare su la testa. Serve un confronto rispettoso».

Che cosa pensa quando guarda le facce delle persone la sera sull’autobus?

«Guardo spesso le facce dentro gli autobus, immagino le storie, le preoccupazioni. Anche negli aeroporti internazionali, guardo le persone che si abbracciano, magari dopo tanto tempo di lontananza. Abbiamo tutti bisogno di un punto di riferimento, di un posto dove rifugiarci».

Mi salvo da sola è un titolo che contiene il riconoscimento del bisogno di salvezza. Farlo da sola è l’esito di troppe delusioni, una forma di presunzione o cos’altro?

«Né troppe delusioni, né presunzione. Noi donne abbiamo realmente una forza che ci porta a non soccombere, siamo più lottatrici. Sono tra quelle donne che non vogliono pesare sugli altri, che non hanno mai cercato l’uomo giusto per svoltare. Ho sempre fatto da sola, anche a costo di farmi del male».

Dopo tante perdite e tradimenti, cosa impedisce che l’amarezza sia l’ultima parola?

«Probabilmente la speranza: una nuova possibilità è sempre dietro l’angolo. Mio nipote mi vuole fidanzata, mi parla dei nonni dei suoi compagni di scuola… Pure a 90 anni crederò nell’amore. In tutte le sue forme».

 

La Verità, 19 maggio 2019

 

«Ho voltato pagina, non torno in Rai»

Anche Milena Gabanelli rallenta per l’estate. Ma, dall’epicentro della sua attività multitasking – due pezzi a settimana per il Corriere della Sera, altrettanti video per il sito di Dataroom, le ospitate su La7 – può rispondere alle domande della Verità e riflettere sulla sua nuova vita fuori dalla Rai.

Poco più di sei mesi di Dataroom: facciamo un bilancio? Più riscontri cartacei o dai video?

«Sono riscontri diversi perché seguono strade differenti: quelli su cartaceo più tradizionali e istituzionali (magari ti telefona un ministro), i video hanno un pubblico più giovane e non si bruciano nella giornata di pubblicazione. Ce ne sono alcuni che diventano virali dopo un mese perché vengono intercettati dalle infinite vie del Web. I numeri in sei mesi? Un centinaio di video, accompagnati da altrettanti articoli di approfondimento».

Il video con più visualizzazioni?

«La storia dell’acquisto del Milan e dei soldi che il cinese non aveva. La domanda di chi fossero quei 700 milioni è sempre aperta e appetitosa».

Altri riscontri?

«Si sta alimentando il dialogo con quel mondo che si informa solo nelle piazze virtuali. Un’utenza molto difficile, diffidente, piena di pregiudizi e poco disponibile al confronto, anche perché quasi nessuno ha voglia di esporre le proprie viscere a chi sembra non ascoltarti nemmeno. Ti chiedi: ma perché devo replicare a uno che dopo averti smontato il pezzo con considerazioni basate sul nulla, ti manda “a darla via per strada”? Bisogna essere un po’ masochisti, no? Però il verminaio può solo proliferare se non si fa la fatica di entrarci e confrontarsi. Rispetto a qualche mese fa vedo che è un po’ cambiato il tono; sanno che rispondo e quindi interloquiscono in modo meno violento e io preferisco dialogare con chi non la pensa come me».

Da quante persone è composta la redazione di Dataroom?

«Da due giornalisti e due grafici, però si interagisce anche con tutti i colleghi del Corriere».

In base a quali criteri sceglie gli argomenti?

«Scelgo temi che possono essere rappresentati attraverso l’oggettività dei numeri, in modo da comprenderne le ricadute e le possibili soluzioni. Faccio un esempio: di quanto aumentano ogni anno gli acquisti online? Parallelamente di quanto è aumentato il traffico pesante in città per le consegne della merce acquistata su internet? La maggior parte di questi furgoni sono classe euro 3. In conclusione: ogni volta che acquisti online un prodotto venduto anche nel negozio sotto casa, contribuisci ad aumentare l’inquinamento».

Anche questo è giornalismo di servizio.

«Il giornalismo è per sua natura di servizio, altrimenti è solo servo».

Da servizio pubblico, sarebbe stato perfetto in Rai.

«Sarebbe, ma così non è stato».

Parlando di Rai, qualche giorno prima che fossero nominati i consiglieri di amministrazione, ha scritto un pezzo pieno di numeri in cui ha sottolineato il ritardo dell’informazione online: un vuoto lasciato dal rifiuto dell’ad Mario Orfeo di accogliere il suo progetto di Rai.it.

«Il rifiuto fu del Consiglio d’amministrazione prima dell’arrivo di Orfeo, che lo subordinò alla riforma complessiva del piano news. E quando lo scorso giugno arrivò Orfeo ha preferito non porre più la questione. Alla fine non hanno fatto né la riforma né il sito di news online. Credo sia l’unica tv pubblica al mondo a non averlo».

Quel pezzo poteva essere letto come una ripicca o come una candidatura a futura memoria: né l’uno né l’altro?

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«I grandi media non capiscono il governo»

La generosità non è la prima dote che viene in mente quando si pensa a un grande giornalista. Invece, Enrico Mentana è uno generoso. Non solo perché non si risparmia nelle lunghe maratone televisive, ma perché ora si è messo in testa di restituire «almeno in parte la fortuna che ho avuto nel fare questo mestiere», creando un giornale online di giovani e per giovani (ma non solo). Poi è generoso anche nelle interviste.

Essere multitasking va bene, ma oltre al tg, le maratone, Bersaglio mobile, le ospitate, Facebook e la radio, ti mancava anche un giornale online?

«Personalmente non mi manca, ma penso che il giornale online diventerà come il film che si vede in casa. Fin quando esisteranno giornali, il futuro sarà questo».

A che punto è la selezione?

«Finora sono arrivati circa 8.000 profili».

Dirai stop a?

«10.000. L’idea è del 7 luglio, la pubblicazione dell’indirizzo mail del 17, ai primi di agosto chiudo. Una quindicina di giorni sono sufficienti per inviare un curriculum».

Ne resteranno?

«Vorrei fare 20 praticanti. Stiamo parlando di un prodotto no profit. Se dovesse produrre utili verrebbero reinvestiti nell’assunzione di nuovi giovani».

La raccolta pubblicitaria la farà la società di Cairo?

«Questa è l’unica parte che risponderà alla logica del profitto. Se sarà Cairo sarò contento perché ha le strutture per farlo bene. Però si sono fatti avanti anche altri».

Nome della testata?

«Quando l’avrò lo scriverò su Facebook, dopo averlo depositato».

Tempi di lancio?

«Al momento opportuno i tecnici detteranno tempi e modi. Io sono solo il give back della situazione, colui che vuole restituire almeno in parte la fortuna che ha avuto nel fare questo mestiere».

Di sicuro c’è solo che si fa?

«Cosa lo potrebbe impedire? Nell’era del mobile, questa dovrebbe essere la prima testata digitale rivolta ai giovani. Finora ci si è impegnati in varie direzioni per far assumere i figli, propri».

Tempo d’impegno personale?

«Non potrò essere il direttore, a meno che Cairo non me lo conceda. Ne sarò l’editore, ma non mi posso certo sdoppiare».

Qualcuno ipotizza che vuoi fare il direttore editoriale di La7.

«Che vantaggio ne trarrei? Per certi colleghi la strada rettilinea non è mai quella giusta».

Cairo come la sta prendendo?

«Presidia le sue Colonne d’Ercole e il rapporto con i dipendenti. Io stesso lo sono a tempo indeterminato».

L’ha precisato anche lui.

«So bene che non posso fare come mi pare. C’incontreremo per definire le modalità di nascita e sviluppo di questa creatura, per evitare che finisca per ledere i legittimi interessi dell’editore».

Farai concorrenza al Corriere.it e le energie spese per questo progetto potevano concentrarsi nello sviluppo di La7.it.

«Non sono convinto che lo spin off sul Web di un prodotto giornalistico che sta su altri media possa alzare l’asticella all’infinito. Per i contenuti forti il sito di un giornale deve aspettare l’uscita in edicola, una testata nativa digitale no. Se improvvisamente l’editore di Repubblica decidesse di assumere 30 ragazzi per il sito potrei illudermi di aver sollecitato un mercato che invece mi sembra statico e privo d’iniziative».

Come valuti il comportamento dei grandi media verso il nuovo governo?

 

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«Non sarò il terzo uomo tra Salvini e Di Maio»

Buongiorno presidente, come sta?

«Bene, grazie».

Come stanno andando le sue molteplici attività?

«Anche loro attraversano un ottimo stato di salute».

Dopo un lungo inseguimento, Urbano Cairo abbassa la guardia e accetta di fare il punto della situazione. Nei giorni scorsi qualcuno ha visto nel proprietario di La7, Rcs e Cairo editore, nonché del Torino calcio, la figura terza che poteva rappresentare una sintesi tra le posizioni di Matteo Salvini e quelle di Luigi Di Maio.

Che cosa c’è di vero, presidente?

«Sono indiscrezioni giornalistiche di cui nessuno mi ha parlato. Non c’è stato alcun contatto».

La politica però la tenta. Qualcuno ha scritto di un suo possibile impegno, magari tra una legislatura, quando potrebbe servire un leader dell’area moderata.

«Terrò conto di questa osservazione. Ma presiedo un gruppo imprenditoriale con 4.500 dipendenti, un impegno che mi assorbe 24 ore al giorno».

Eppure anche lei in passato non l’ha escluso.

«Nella vita non bisogna mai escludere nulla. Ma non è minimamente di attualità».

Diceva del buono stato di salute delle sue aziende.

«Partirei da Rcs che è l’ultima arrivata, un anno e mezzo fa. Già nel 2016, dopo soli cinque mesi, abbiamo riportato un utile netto. Quest’anno l’utile è di 71 milioni, conseguito non solo col taglio dei costi, ma mantenendo l’occupazione e sviluppando ricavi attraverso il lancio di nuove iniziative (il dorso di Buone notizie e di Corriere Innovazione) e il rilancio e consolidamento di altre, da Io donna a Gazza mondo fino al potenziamento di Oggi, l’unico settimanale familiare con una crescita a due cifre».

La7 è in un momento positivo grazie al fermento della politica. Lei auspica che si torni presto a votare?

«No, io auspico che le cose si sistemino per il Paese. La7 sta vivendo un momento favorevole già da novembre quando, con l’arrivo di Massimo Giletti, Andrea Purgatori e il gruppo di Diego Bianchi il palinsesto si è arricchito. Con la squadra già in forza alla rete mettiamo in campo una proposta solida e credibile. Poi, certo, nell’ultimo mese e mezzo, registriamo un decollo che ci ha portato in primetime al 5%, permettendoci di superare Rete 4 anche in daytime. Tutto questo, grazie al lavoro del direttore Andrea Salerno. Un paio d’anni fa c’era preoccupazione per il debutto di Tv8 e Nove. In realtà, sono altri a doversi preoccupare, noi ci siamo difesi attaccando e siamo soddisfatti».

A volte si ha la sensazione che La7 abbia pochi margini di crescita, essendo una rete semi tematica che si muove in un mercato generalista: è corretto?

«Rispetto allo scorso anno, nel 2018 stiamo crescendo del 20% nella giornata e ancora di più nel primetime. Abbiamo un posizionamento consolidato, che ha nell’informazione e negli approfondimenti il suo core business».

Perché è così seguita in questi momenti?

«Perché il profilo di prim’ordine dei nostri conduttori e opinionisti garantisce autorevolezza e affidabilità. Perché siamo ben focalizzati e abbiamo un posizionamento riconosciuto per cui, quando il pubblico si vuole informare, automaticamente viene su La7. Infine, perché un editore puro ha tutto l’interesse a lasciare totale libertà ai suoi conduttori e giornalisti».

Un editore che ha saputo convertire a proprio vantaggio il malcontento di molti volti Rai, da Giovanni Floris a Massimo Giletti, da Diego Bianchi a Andrea Purgatori, solo per citarne alcuni.

«Questo fa parte delle normali dinamiche di mercato. Qualcuno ha lasciato anche La7. Nel 2016 Maurizio Crozza è andato altrove, eppure, rispetto ad allora, i nostri ascolti aumentano».

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Gruber, Gabanelli e lo strano effetto che fa

Faceva uno strano effetto lunedì sera Otto e mezzo su La7. Padrona di casa era come sempre Lilli Gruber, ospite unica Milena Gabanelli in occasione dell’esordio di Dataroom, la videostriscia che, quando sarà a regime, sarà visibile quattro giorni la settimana sul sito del Corriere della Sera e sui social network, Facebook in testa (lunedì, ore 20.30, share del 6.1%). Lo strano effetto è dovuto al fatto che le due giornaliste sono entrambi ex Rai; anzi, rappresentano un bel pezzo di storia di giornalismo del servizio pubblico, e ora continuano a lavorare con discreto successo su testate concorrenti. Gabanelli, approdata a Rcs, sarà spesso ospite di La7 di Urbano Cairo, diventata il porto franco dove i transfughi di mamma Rai (Myrta Merlino, Giovanni Minoli, Corrado Formigli, Giovanni Floris, Massimo Giletti, Diego Bianchi e il suo clan, e lo stesso direttore, Andrea Salerno) iniziano una second life. Insomma, due colleghe più o meno coetanee, schiene dritte, una con tutte le rughe vissute, ma con un paio di occhialini molto trendy, l’altra un po’ più disegnata e attenta all’effetto che fa. Entrambi molto credenti nel mestiere, convinte del ruolo dell’informazione nella crescita della società civile, protagoniste di un giornalismo asciutto e senza concessioni né al gossip né alla militanza faziosa. Gruber ha interrogato Gabanelli sui motivi del divorzio dalla Rai, su scopi e contenuti del nuovo impegno professionale con Rcs (le famose sinergie), sui rapporti con la politica e quali inviti a candidarsi abbia rintuzzato, sulla mediocrità della nostra attuale classe dirigente, sul criterio che la orienterà alle prossime elezioni («già comprendere la nuova legge elettorale potrebbe fornire un buon suggerimento per il voto»). Al termine, a ’mo di assaggio, il primo pezzo di Dataroom sugli acquisti di prodotti contraffatti online, qualcosa con cui abbiamo spesso a che fare senza sapere bene come funzioni e quali ricadute abbia sull’economia mondiale. Il pregio del Data journalism è proprio questo: rendere intelligibili argomenti opachi attraverso i numeri e la sintesi. Questa è la second life di Gabanelli: «Accettare la sfida di stare nei nuovi media, là dove si forma la futura classe dirigente». Faceva uno strano effetto pensare che la Rai non è stata capace di far suo questo progetto, tanto più nel momento in cui si fa un gran parlare di rivoluzione digitale e nuovi linguaggi. Non sarà che, mentre si prefigge grandi mete, questa Rai somiglia al Pd renziano, più incline a escludere che a includere?

La Verità, 24 gennaio 2018

Rai al palo, La7 in riva al fiume, Iene con Travaglio

Ci sono serate in cui è impossibile limitarsi a recensire una singola trasmissione. L’idea è quella: dopo mesi di polemiche, Massimo Giletti debutta su La7 con Non è l’Arena contro Che tempo che fa di Fabio Fazio e la Rai, mamma e matrigna. Ci sono sere in cui è complicato scegliere, perché c’è sì, l’esordio conflittuale dell’ultimo esodato Rai, ma c’è anche Luigi Di Maio, fresco disertore del duello con Matteo Renzi, ospite di Fazio. E ci sono Le Iene ridens tra i due litiganti, con una puntata atomica: lo scherzo a Marco Travaglio e le rivelazioni di dieci attrici sulle molestie del regista Fausto Brizzi.

Giletti martella sul suo esordio a La7 da settimane. Ospitate ovunque, anche chez Maria De Filippi, tutti alleati contro il figlio viziato di Viale Mazzini. Domenica La7 ha schierato tutti i big per promuovere il nuovo affiliato, da Giovanni Minoli, il primo a credere in lui fin dai tempi di Mixer, che l’ha ospitato nel suo Faccia a Faccia (anticipato al pomeriggio), a Enrico Mentana pronto a condurre il tg (di domenica solo in occasione di elezioni), per intervistarlo a ridosso del via. Significativo lo scambio di battute: Giletti: «Sono qui per provare ad accendere La7 in tutto il Paese»; Mentana: «Ci proviamo anche con il tuo aiuto». Che Giletti sia sopra le righe è confermato dal monologo: «Quando uno entra in una tempesta spera solo di attraversarla e fare in fretta…». La porta sbattuta dell’ufficio di Orfeo, il film della carriera, il mestiere di «giornalista», scandito e sillabato. La Rai è riuscita a trasformare Giletti in un martire della censura. E «quel volpone di Cairo» (Fiorello nel video d’augurio) non ha perso l’occasione. Bisognerà vedere il rendimento di Non è l’Arena a lungo andare in prima serata. Su Rai 1 Fazio dialoga con Di Maio di legge elettorale, premier avversari, alleanze più o meno impossibili. Niente d’imperdibile o di diverso dal solito copione. Lo zapping si ferma su Italia 1 dove Davide Parenti, complice Alessandro Travaglio, ha ordito uno scherzo diabolico ai danni del padre Marco: «Papà, vado al Grande fratello vip». Grande televisione, vertice di goliardia. Una chicca tra le altre: «Ti danno solo 3000 euro? Ma neanche alla colf! Una cosa offensiva col cognome che porti». Ci sono serate in cui bisogna parlare di tre editori televisivi. Mediaset sarà anche «la feccia d’Italia» (Travaglio), ma con lucida ironia riesce a trasformare il suo reality più trash in un’arma intellettuale contro il suo più acerrimo nemico. La7 sta in riva al fiume a raccogliere e capitalizzare il successo dei fuoriusciti della Rai. La quale, invece, è sempre lì: ferma e immutabile.

La Verità, 14 novembre 2017