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Il 2022 sarà l’anno della fine dei cinema?

Anno 2022, fuga dai cinema. Potrebbe intitolarsi così il film apocalittico sul declino delle sale cinematografiche. La fantascienza ci ha abituato a cupi scenari, ma stavolta, per fortuna, non si sta preconizzando la morte della settima arte. Il cinema è rinato da crisi peggiori della pandemia da coronavirus. E film se ne continueranno a produrre, magari in numero inferiore o destinati alla visione in streaming come già avviene per le serie. Però, coccolato dalle piattaforme, lo spettatore si sta impigrendo e il binomio divano-telecomando batte sempre più spesso la combinazione auto-parcheggio-coda alla biglietteria. A rischiare l’estinzione sono soprattutto certe scomode sale cittadine. O quelle che non riescono a sedurre il pubblico con programmazioni creative e scontate, o con servizi accessori, librerie, ristoranti…

I dati Cinetel del 2021 sono impietosi. Rispetto al triennio 2017-2019, annate da oltre 100 milioni di biglietti venduti, il calo è stato del 71% negli incassi e del 73% nelle presenze. Tuttavia, considerando che nell’anno appena concluso i cinema sono rimasti chiusi per 4 mesi, riaprendo poi con presenze contingentate, non c’è da meravigliarsi. A preoccupare sono soprattutto i numeri di dicembre e gennaio, con le sale a pieno regime. In autunno si era registrata una ripresa, favorita dal ritorno alla capienza al 100%, ma inferiore alle attese. Dopo il rallentamento produttivo dei mesi precedenti e l’uscita diretta nelle piattaforme di molte opere, i cinema avevano riaperto, ma non c’erano i film. Almeno, non i grandi film. Molte aspettative si appuntavano, perciò, sul periodo natalizio. Che invece, con l’arrivo della variante Omicron, sono andate deluse. L’unico a salvarsi è stato Spider-Man: No Way Home che, potendo contare sul pubblico adolescente meno timoroso dei contagi, ha mietuto record in tutto il mondo. Restando nei confini nazionali, se la sono cavata Pio e Amedeo, protagonisti di Belli ciao, prodotto da Fremantle e Vision Distribution, anche loro forti di un target giovane e consolidato. Tutti gli altri titoli, anche se di qualità (da Supereroi di Paolo Genovese a West Side Story diretto da Steven Spielberg, da Illusioni perdute a House of Gucci) hanno dovuto accontentarsi delle briciole. Il fatto poi che ad alimentare il dibattito sui media sia stato Don’t look up, ma solo dopo la programmazione sulla piattaforma streaming, ha fatto sentenziare qualche sacerdote della critica che ormai l’algoritmo sta vincendo.

«Certamente la pandemia ha accelerato di qualche anno un processo in atto», ammette Giampaolo Letta, amministratore delegato di Medusa. «Con il lockdown molti hanno rotto gli indugi, decidendo di abbonarsi alle piattaforme over the top. La comodità del divano si è aggiunta al freno psicologico di dover indossare le mascherine ed esibire il green pass per andare al cinema». Resta da chiedersi se queste nuove abitudini dureranno anche quando la pandemia sarà finita. «Non credo sarà così», è sicuro Paolo Del Brocco, gran capo di Rai Cinema. «L’esperienza di visione che si fa in sala non è riproducibile altrove. Piuttosto, dobbiamo trarre una piccola lezione da questi mesi. Sono andati bene i film che si rivolgono a una fan base, una comunità di appassionati, come Spider-Man o Diabolik. Mentre hanno sofferto parecchio quelli rivolti al pubblico adulto e maturo, il più impaurito, e proprio quello che in prevalenza riempie le sale cittadine. Perciò, anche noi produttori dobbiamo imparare a targettizzare meglio le nostre proposte». Per Massimiliano Orfei, dal maggio scorso amministratore delegato di Vision Distribution, quella in atto è «una crisi transitoria. Nella sua storia il cinema ha superato altre situazioni di pandemia. Un secolo fa, con la spagnola, tutte le sale chiusero e fallirono. Ma poi riaprirono tornando a essere il luogo centrale dello spettacolo cinematografico, un’esperienza non replicabile dalle piattaforme».

Tuttavia, la sensazione che la fetta di consumo domestico tenda a crescere rimane. Il destino delle sale assomiglia a quello delle videoteche e dei distributori di dvd, completamente scomparsi? A quello delle cabine telefoniche che sopravvivono come residuati di un mondo vintage? O a quello delle edicole che si arrendono malinconicamente una alla volta, soprattutto se non riescono a sostenersi con altri servizi che, spesso, da secondari diventano primari? «A differenza delle edicole che devono competere con le edizioni digitali dei giornali, le sale hanno il vantaggio dell’esclusiva», sottolinea Letta. «È un privilegio che gli esercenti devono tenersi stretto, migliorando la qualità dei servizi, dalla grandezza dello schermo al comfort delle poltrone». Con l’esplosione della pandemia la finestra di esclusiva in sala prima del passaggio in tv, si è ridotta a 30 giorni (da 105 che era). Finché l’emergenza sanitaria non sarà superata i produttori potranno scegliere se sfidare il mercato complicato, se preservare qualche titolo aspettando tempi migliori o atterrare direttamente sulle piattaforme. «Si valuta film per film», sintetizza Orfei. «Quel che è certo è che in futuro sale e streaming convivranno e noi produrremo di più, non di meno. Diversificando l’offerta con film più targettizzati, più verticali e sostenuti da campagne di marketing mirate».

Produttori ed esercenti, tutti devono fare lo sforzo di raffinare la proposta e venire incontro al pubblico per farlo alzare dal divano. Qualcuno lo sta facendo da tempo. Il palazzo del cinema dell’Anteo di Milano ha ammortizzato il calo di questi mesi registrando una riduzione di presenze del 50%, sensibilmente inferiore alla media nazionale. «Il pubblico è fatto di tanti pubblici», dettaglia Lionello Cerri, produttore cinematografico, fondatore e amministratore delegato di Anteo Spazio cinema. «Di conseguenza le nostre dieci sale diversificano l’offerta in un ventaglio che comprende le proiezioni al mattino, le visioni per gruppi ristretti, quelle in lingua originale non solo in inglese, le presentazioni e l’arena estiva, oltre alla possibilità di accedere al ristorante e alla libreria. Così si crea fidelizzazione nel pubblico, chi viene qui sa di trovare qualcosa in più. Come imprenditore sono più che mai convinto che il cinema abbia una funzione sociale e culturale pubblica. Sono ottimista per la ripresa, vedremo che cosa succederà a pandemia finita. Intanto posso dire che cinema e teatri sono luoghi sicuri dove non si è mai verificato alcun contagio». Anche Del Brocco sottolinea «la valenza culturale e identitaria del cinema. Le piattaforme tendono a standardizzare il prodotto. Dobbiamo difendere con le unghie e con i denti i diversi modi di raccontare dei vari Paesi». Per questo, aggiunge Letta, «è molto importante che lo Stato, che già ci è venuto incontro in questi mesi con incentivi fiscali alla produzione e alla distribuzione favorendo l’arrivo in sala delle pellicole, proroghi queste norme per tutto il 2022». Per evitare che diventi l’anno della fuga dai cinema.

 

Carmen Llera Moravia, talebana delle sale

Carmen Llera Moravia è «una talebana della sala». Ride: «Sì, può definirmi così. Tutti i giorni, o quasi, vedo un film rigorosamente al cinema. Per me è impensabile vederlo in tv. È come paragonare un concerto di Claudio Abbado al conservatorio con un cd ascoltato a casa». Come ha fatto durante il lockdown? «Ho patito. Ero felice del silenzio che ci avvolgeva, riuscivo ad andare a camminare al mattino presto. Mi mancava il rito pomeridiano di uscire di casa, andare in una delle tante sale di Roma dove ritrovo amici che condividono questa felice abitudine». Ce l’ha da molto? «Da sempre. Ho fatto la tesi di laurea sul rapporto tra cinema e letteratura. Ho conosciuto Alberto Moravia parlando di cinema. Il mio attaccamento ha basi forti. Ho amici registi e attori che mi dicono: ho visto in streaming… Un’aberrazione». E se le sale dovessero chiudere? «Spero di morire prima», conclude ridendo.

 

Panorama, 9 febbraio 2022

 

 

Netflix è bella e comoda, ma il cinema si vede in sala

Ancora due parole su Don’t look up e dintorni, la pellicola Netflix che si avvia molto precocemente a essere il film dell’anno. Finora è tra le più citate nei pensosi editoriali, ma rischia di esserlo a suo discapito. Difficile infatti trovare un’opera altrettanto sfaccettata e interpretabile come quella diretta da Adam McKay, sebbene sia vista come grande metafora del presente: la cometa che annuncia la fine del mondo, come la pandemia in atto decreta la fragilità dei nostri equilibri, l’allarme insistito degli scienziati, come quello che ci pervade quotidianamente, il ritardo della politica, universale e perenne. In realtà, per far combaciare la carta calcante, il mainstream distorce il film. Dopo alcune settimane dall’uscita, è permesso un piccolo spoiler. In Don’t look up fa una pessima figura la politica, bipartisan però: se è vero che la presidente di Meryl Streep è repubblicana, la foto nello Studio ovale che la ritrae abbracciata a Bill Clinton fa intendere che la stolidità è ben condivisa. Bocciata anche l’informazione, descritta in tutta la sua vacuità. E peggio ancora va al mondo della finanza digitale, rappresentato dal guru dei telefonini, una caricatura trinitaria di Steve Jobs, Bill Gates ed Elon Musk. L’unico a salvarsi è l’astronomo di Leonardo DiCaprio. Ma si tratta di uno scienziato sideralmente distante dai virologi positivisti e moraleggianti che pullulano nei nostri talk. Dopo essersi abbandonato alle gioie dell’eros con l’avvenente Cate Blanchett, come ha sottolineato Giorgio Gandola su questo giornale, è uno scienziato che davanti alla fine del mondo incombente, si affida alla preghiera in una scena che sembra citare L’ultima cena. Ce li vedete i nostri Massimo Galli o Andrea Crisanti? Ben venga, dunque, il dibattito: ma, se possibile, rispettando il dato di realtà.

Per chiudere, un’ultima considerazione sull’effetto collaterale suscitato dal film dopo lo streaming televisivo e non dopo l’uscita nei cinema. Netflix ormai si usa come un social, è la vittoria definitiva dell’algoritmo, si è scritto, che decreta la fine delle sale cinematografiche. Tuttavia, per ciò che vale, nell’ultimo mese ho visto in sala È stata la mano di Dio, Cry macho, Nowhere special, Supereroi, Illusioni perdute e persino Spider-Man: No Way Home. Mentre Don’t look up l’ho visto nel salotto di casa, ma distrattamente perché stavo chattando su whatsapp. Non è una differenza da poco, la visione domestica dei film li espone a dannose e frequenti interferenze. Nessuna rassegnazione, dunque, all’agonia delle sale. Fosse solo per il gusto di sfuggire all’algoritmo.

 

La Verità, 12 gennaio 2021

Le domande irrisolte di Vitaliano Trevisan

La morte di Vitaliano Trevisan, avvenuta venerdì nella casa di Campodalbero, frazione di Crespadoro (Vicenza), il paesino alle pendici delle Prealpi dove viveva in totale solitudine, è una di quelle situazioni di fronte alle quali bisogna mettere da parte mediazioni, formule e risposte di maniera. Lo richiedono l’inesausta ricerca e la profondità del dolore che hanno impregnato l’esistenza di questo grande autore e drammaturgo, dotato di scrittura e lineamenti spigolosi, smorzati solo dagli occhi color ghiaccio. La penso così: se una persona, che vive in modo radicale il bisogno di un senso, non incontra qualcosa o qualcuno che la sappia abbracciare nella sua totalità, difficilmente scampa alla sofferenza e all’incomprensione. Quando una volta gli chiesi che cosa lo teneva lontano dal suicidio mi rispose: «I farmaci, nel senso ampio del termine».

Considerato uno dei maggiori scrittori italiani dell’ultimo ventennio, Trevisan fu scoperto a fine anni Novanta da Giulio Mozzi che trovò negli scaffali di una libreria il suo Trio senza pianoforte – Oscillazioni, antologia di racconti pubblicata da un piccolo editore vicentino. Fu Mozzi a far uscire da Theoria Un mondo meraviglioso e poi a spedire il manoscritto dei Quindicimila passi – Un resoconto a Einaudi che offrì il primo contratto a quell’autore semisconosciuto. Nella storia di Thomas, omaggio a Bernhard, con la quale Trevisan vinse il premio Lo Straniero e il Campiello Francia, si dispiega la ribellione all’educazione cattolica e al perbenismo della provincia italiana. Sono temi che ritorneranno in Tristissimi giardini (Laterza) e soprattutto nel bellissimo e torrenziale Works, (Einaudi), 660 pagine concluse da una frase con la quale si prende gioco delle formule vigenti: «Tutto ciò che può incriminarmi è frutto d’invenzione». Più che un’autobiografia, Works «è un mémoire centrato sul tema del lavoro» che squaderna i tanti mestieri provati – geometra, cameriere, lattoniere, gelataio in Germania, costruttore di barche a vela, spacciatore di fumo, portiere di notte – prima di consacrarsi interamente alla scrittura per la narrativa, il cinema e il teatro.

Anarchico e allergico a tutte le chiese, Trevisan è stato una smentita vivente delle favole consolatorie che ci raccontiamo quotidianamente sui media. Il Nordest florido e ottimista. La letteratura come impegno civile per riparare gli umani e il mondo. La comunità intellettuale elevata a guida dei ceti medi riflessivi dai salotti tele-editoriali. Sceneggiatore e attore di Primo amore, diretto da Matteo Garrone, autore di Il lavoro rende liberi e Oscillazioni, interpretati a teatro da Toni Servillo, non si lascia bene con entrambi: «Avevano degli ego troppo grandi per me». Meglio va con Andrée Ruth Shammah e Alessandro Haber, che portano in tournée il suo Una notte in Tunisia, e con Roberto Herlitzka e Anna Paiato. Un fatto è certo, Trevisan non opera ipocrite separazioni tra vita e letteratura, tra esistenza e arte.

Gli faranno l’autopsia e si potrebbero avere conferme, come molti temiamo, che la sua fine sia dovuta a un gesto estremo, contraddizione lacerante del nome che portava: «È un nome che deriva dal greco <colui che dà la vita>», mi rivelò, «e mia madre me lo diede perché si era appassionata a un personaggio di un film sull’antica Roma che si chiamava così». Parlando di lui, Ferdinando Camon disse: Trevisan è uno che ha domande troppo acute, troppo alte, per restare in piedi, in equilibrio, su una base piccola e stretta. Nell’incipit di Black Tulips, il romanzo che uscirà postumo da Einaudi, scrive: «… Per difendermi, da me stesso e dal mondo, una delle mie tecniche preferite, quella che mi è sempre venuta naturale e che poi nel tempo ho affinato, arrivando a farne un’arte – arte, detto per inciso, per niente astratta, visto che mi dà da vivere – è trattenere un frammento per sé, e farsi così, per quanto possibile, trasparenti. E vivere o scrivere, che poi, per chi scrive, è lo stesso, è nella trasparenza che mi sono sempre tenuto in equilibrio. No, non sempre; comunque». Equilibrio faticoso, precario, instabile. Equilibrio come sopravvivenza, come non soccombenza. Non certo equilibrio perbenista e conformista, il più lontano da lui.

Sbandate, deragliamenti, ricoveri in psichiatria, rapporti affettivi torbidi e tormentati. Come quello con l’ultima compagna che, non si è capito bene perché, nell’ottobre scorso lo aveva fatto internare con un Aso (Accertamento sanitario obbligatorio) nel reparto psichiatrico di Montecchio Maggiore (Vicenza). Dov’ero andato a trovarlo per poi raccontare su questo giornale il forte disagio e lo stato di prostrazione in cui versava. Fortunatamente, quella reclusione non si era prolungata. Una volta tornato a Crespadoro l’aveva condivisa in un drammatico reportage su Repubblica. E aveva poi ripreso a postare su Facebook malinconici frammenti della sua quotidianità. Non si hanno notizie di lettere o messaggi di addio ritrovati vicino al suo corpo senza vita. Qualcuno però ha ricordato un passaggio del suo Una notte in Tunisia: «Docili, su un fianco come gli animali, è così che si dovrebbe morire, senza lamentarsi, senza darsi troppo pensiero».

 

La Verità, 9 gennaio 2022

 

A parziale integrazione di questo articolo va aggiunto che nella casa di Campodalbero i carabinieri hanno trovato un biglietto d’addio di Vitaliano Trevisan che conferma il gesto volontario: «Sono stanco e non ne posso più. Nessuno deve sentirsi responsabile perché nessuno avrebbe potuto fare nulla».

Il giornalismo fatto a pezzettini dal cinema

Piove, giornalisti ladri. Falsi, corrotti, figli di buona donna, fate voi. Imputare loro la colpa delle sciagure planetarie è uno sport nazionale. Anzi, mondiale. Fuori dalle narrazioni regine del momento – Covid e Quirinale – le domande sulle sorti del bel mestieraccio alimentate da due grandi film, immediatamente elevati a capolavori, stuzzicano le migliori penne del bigoncio. Il primo è Don’t look up, per alcuni addirittura il film dell’anno (il 2021 o il neonato 2022?). Prodotto da Netflix e diretto da Adam McKay, grande regista e vecchia volpe dei media, è ambientato alla vigilia della fine del mondo dopo la scoperta di una cometa gigantesca che sta per abbattersi sul globo terracqueo. L’altro, Illusioni perdute, in sala dal 30 dicembre, è una pellicola firmata da Xavier Giannoli, tratta dall’opera di Honoré de Balzac ambientata nella Francia del primo Ottocento che sembra scritta adesso.

Qui sì, ci si avvicina al capolavoro. C’è tutto, persino più di quello che vediamo nel giornalismo e nell’editoria attuali. Le fake news, per esempio. Simboleggiate dalle anatre, uccelli che vivono nell’acqua, ambigui come notizie un po’ vere e un po’ false. E ci sono pure i social, cui alludono i piccioni viaggiatori, opinioni volatili disancorate dalla realtà. Del resto, «la nostra linea editoriale è semplice. Il giornale prenderà per vero tutto ciò che è probabile», annuncia il patron del foglio d’opposizione liberale. E «nel nome della malafede, del pettegolezzo e degli annunci pubblicitari, io ti battezzo… giornalista». Che si tratti di espressioni originali di Balzac o create dagli sceneggiatori poco importa.

L’ambizioso tipografo di provincia e aspirante poeta, Lucien Chardon (Benjamin Voisin), arriva nella Parigi del 1821 sulla carrozza della malinconica baronessa, Louise de Bargeton (Cécile de France). L’eterogenea coppia, però, desta subito scandalo e, per non esser scaricata dai salotti che contano, la nobildonna è costretta ad allontanare il giovane amante di umili origini. Per farsi strada da solo e conquistare il proscenio, Chardon impara rapidamente a confezionare recensioni compiacenti, stroncature pilotate, killeraggi su commissione di avversari politici. Così fan tutti. La Ville Lumière è un sottobosco di traffici e tradimenti e ogni cosa ha un prezzo. Editori analfabeti. Capoclacque che mettono all’asta applausi e fischi alle attrici. Scimmie caporedattrici che decidono se stroncare Racine o Stendhal. Nessun travaglio anche per compiere il salto della quaglia – restando in tema – e passare al soldo dei monarchici. La fiera delle vanità usa e getta amplessi, amori e amicizie. I rapporti sono strumentali allo scopo. L’ultimo ostacolo alla consacrazione è il cognome senza quarti di nobiltà. Ma con i giusti uffici si può provvedere…

Meno centrale, ma altrettanto screditata è la categoria nella pellicola di McKay. Dopo l’uscita in sordina nei cinema americani il 10 dicembre, Don’t look up ha scalato le tendenze dei social una volta approdato allo streaming di Netflix. Una cometa grande come l’Everest è in rotta contro la terra, impatto previsto tra 6 mesi e 14 giorni. Ad accorgersene sono una zelante dottoranda (Jennifer Lawrence) e il suo capo, l’impacciato astronomo interpretato da Leonardo DiCaprio. Non c’è un attimo da perdere, avvertiamo immediatamente le massime autorità. Tuttavia, distratta da scandali sessuali ed elezioni di metà mandato, la presidente americana (la solita, superba, Meryl Streep) non li prende sul serio: sapete a quante fini del mondo incombenti ci siamo preparati negli ultimi anni? Non resta che rivolgersi ai media. Ma dopo attenta analisi delle reazioni sul web, anche l’autorevolissimo quotidiano lascia cadere la notizia troppo poco virale. Nel talk di massimo ascolto del mattino, dominato dalla riconciliazione fra un dj e una popstar pseudoecologista, le cose non vanno meglio. L’infotainment dev’essere leggerezza, evasione e ottimismo. Lo studioso dice che l’apocalisse è imminente? Se non fa audience è un allarme fasullo. Alla vacuità di fondo, nel boicottaggio della scienza si aggiunge il complottismo. E i turbamenti dello spaesato astronomo – il quale, per inciso, è l’unico a salvarsi dalla fatuità della politica e dei guru dell’high tech – si placano tra le lenzuola dell’avvenente conduttrice tv (Cate Blanchett).

Giornalisti narcisi, superficiali, vanitosi, immorali, schiavi dell’audience, pronti a vendersi per un pizzico di visibilità. Son passati due secoli, ma gli anchorman di oggi non sembrano molto diversi dai gazzettieri delle Illusioni perdute. A differenza che in Don’t look up, in due anni di pandemia abbiamo visto scienza e politica allearsi con la benedizione dei media. Nei quotidiani e nei talk show giornalisti e virostar cantano in coro, anche letteralmente. C’erano una volta «i cani da guardia del potere». Preistoria spruzzata d’ideologia. Ma ora, la sera, osserviamo posture altere e compiaciute o ascoltiamo toni assertivi di direttori e opinionisti accomodati nei salotti tv come novelli Lucien Chardon che ce l’hanno fatta. Per qualcuno già pluri-contrattualizzato è anche difficile resistere alle tentazioni della società dello spettacolo, cinema o teatro che sia. Chissà cosa ne scriverebbe Balzac.

«C’è stato un momento… nel quale i giornalisti italiani hanno creduto di essere del tutto liberi di informare e di poter offrire al pubblico giornali davvero indipendenti», ha scritto Giampaolo Pansa. «Sulle prime, il potere è stato a guardare, poi ha reagito e, infine, ha vinto. Questo libro è il racconto di quella grande illusione». Era la prefazione di Comprati e venduti (Bompiani, 1977). I giornalisti non sono programmaticamente né corrotti né missionari della verità. Sono uomini che fanno un mestiere come un altro. E a volte sbagliano.

 

La Verità, 4 gennaio 2021

«I nuovi eroi? Una coppia che sfida il tempo»

Paolo Genovese ha molto da raccontare. Supereroi, il suo film ora nelle sale, ben interpretato da Jasmine Trinca e Alessandro Borghi, narra di una coppia che attraversa il tempo e qualche sventura. È un’opera coraggiosa, anche più di quanto lui ammetta: oggi, per stare insieme a lungo, servono i superpoteri.

Il film nasce dal libro omonimo che, a sua volta, da cosa nasce?

«È stata un’evoluzione curiosa perché stavo lavorando a un altro copione e, per paura di perdere questa storia, ho deciso di scriverla. Finora avevo sempre fatto film corali, ma avevo in testa una coppia… Che però non volevo aggiungere alle tante già viste. Così ho trovato la chiave del tempo, una mia ossessione, una costante di tanti film. Come regge una coppia allo scorrere del tempo? In pratica abbiamo girato due film, uno sui primi 10 anni e un altro sui secondi 10, e al montaggio li abbiamo intrecciati».

Uno scrittore che firma le regie dei suoi romanzi sul set indossa una t-shirt con la frase «The book was better». Per l’autore di un libro è facile trasformarlo in film?

«In assoluto non lo è perché il libro scava e racconta di più. Io, da regista, sono abituato a pensare per immagini anche quando scrivo. Perciò le scene mi passano in testa 100 volte. Poi c’è un altro vantaggio: lo scrittore ha solo la parola per dire tutto, sensazioni, odori… Il cinema invece usa tanti linguaggi, recitazione, fotografia, musica. La sceneggiatura è come un manuale di istruzioni».

Un altro sceneggiatore sarebbe stato più spietato con il suo libro?

«Probabilmente sì, l’autore è più affezionato alle sue storie. Io stesso quando adatto l’opera di un altro vado più facilmente di accetta. All’inizio Supereroi durava due ore mezza, abbiamo tagliato mezz’ora di romanzo».

Pensa di essere riuscito a raccontare l’amore senza cadere nel déjà vu?

«Dai fratelli Lumière a oggi, tutto è già stato raccontato. In cucina, pur usando gli ingredienti tradizionali, alla fine conta che ci sia il tuo sapore. Sono sempre critico sui miei lavori, ma credo che il viaggio in vent’anni nella vita di una coppia abbia una sua originalità».

Anna e Marco vengono fuori dalla canzone di Lucio Dalla?

«Me lo sta chiedendo mentre mi trovo davanti alla sua casa a Bologna. Sono venuto qui nell’ora di tempo che mi avanzava, prima di una presentazione… Dalla è uno dei cantautori che prediligo, scegliendo quei nomi volevo rendergli un piccolissimo omaggio».

La frase chiave del film è «una coppia è tale se dura, altrimenti sono due persone che stanno insieme»?

«È una delle frasi che ha colpito di più, vedo che sui social la ripetono. La vita di coppia aggiunge una prospettiva futura al semplice stare insieme».

I suoi supereroi sono tali perché si confrontano con il tempo o, più precisamente, con la durata?

«Sono tali perché decidono di accettare che il tempo scorra e li trasformi. È la prima cosa con la quale una coppia deve fare i conti: accettare la trasformazione della persona con cui vivi da tanti anni, anche in una direzione non voluta».

Possiamo definirlo un film controcorrente nel senso che oggi, per durare, una coppia dev’essere eroica?

«È il motivo per cui il film s’intitola così. Anna e Marco incarnano qualcosa di non ordinario. Per la generazione dei miei genitori la separazione non era socialmente accettata. Ci si sposava e si restava insieme, il divorzio è arrivato nel 1974. Anche la condizione lavorativa delle donne era diversa. Essendo solo mamme, separandosi non avevano la possibilità di essere autonome. Oggi c’è maggiore libertà sociale e psicologica… Una coppia che non funziona si molla. Si deve capire fino a che punto lottare per stare insieme, quanto provare a ricominciare da capo o riguadagnare la propria indipendenza».

Concorda che nei media e nel costume tutto concorra a rapporti brevi, se non fugaci o strumentali?

«Dipende da ciò che dicevamo prima. Essendo la separazione meno imbarazzante la durata media della coppia è inferiore. La fugacità delle storie dipende da questo. Anche il fatto che si facciano meno figli rende più facile separarsi. Oggi fino a trent’anni ci si conosce in prevalenza sui social, che accelerano incredibilmente gli avvicinamenti, ma anche gli allontanamenti».

Il film è un inno alla vita e un elogio dell’amore che accetta la diversità dell’altro: lei ha avuto esempi di questo tipo o è un’invenzione della fantasia?

«Non racconto mai storie autobiografiche perché temo la noia del pubblico. I filmini dei matrimoni divertono solo gli sposi e pochi intimi. Anche se sto con la mia compagna da vent’anni, qui narro situazioni sublimate più che drammi precisi o realmente vissuti. La scrittura della sceneggiatura è stata una sorta di psicanalisi a tre, con Paola Costella e Rolando Ravello, sul concetto di durata nell’amore».

Perché secondo lei oggi è sparita l’ambizione del «per sempre»?

«Non penso sia sparita l’ambizione, penso sia molto difficile da realizzare. E quindi la scelta è non faticare troppo. Tuttavia, non bisogna stare insieme a tutti i costi. Anna e Marco vogliono stare insieme per sempre ma bene, non a tutti i costi. Se non si perpetua quello stare bene, è giusto interrompere».

Il primo step sono persone che stanno insieme, il secondo è la coppia: l’ultimo è la famiglia, una delle istituzioni più in crisi del momento?

«È uno degli step. La famiglia con figli è un’evoluzione, un brusco cambio di marcia. Al centro non siamo più noi due, ma qualcosa che abbiamo creato. La coppia prende una direzione più impegnativa. Però i figli non devono essere la panacea, tipo: siamo in crisi allora facciamo un figlio. Ma il contrario: stiamo bene, allora facciamo un figlio».

L’eroismo avviene nel quotidiano, nella normalità come ebbe a dire una volta Giovanni Paolo II?

«Certo. Una possibile definizione di supereroi è: qualcuno che fa qualcosa per qualcun altro senza aspettarsi nulla in cambio. Nella coppia è fondamentale. L’eroismo è nella quotidianità. L’abbiamo sperimentato ora, durante la pandemia, nella voglia di tanti di aiutare gli altri. Il gesto singolo, una tantum, non basta a costruire qualcosa di durevole nel tempo».

Per lei cosa può essere questo eroico che diventa quotidiano?

«Liberarsi del proprio egoismo, non porre se stessi al centro di tutto. Nel lavoro, nella coppia, negli affetti, in qualunque circostanza».

Le sale sono invase da altri supereroi come Superman, Diabolik… garanzia di buoni incassi perché rivolti ai giovani che vanno di più al cinema. Il suo film è controcorrente anche in questo?

«Oggi un film italiano è controcorrente per il solo fatto di andare in sala. La tentazione forte per un produttore è scegliere la piattaforma. Con Medusa abbiamo preferito compiere un atto di coraggio. Credo sia uno sforzo necessario se non vogliamo essere ricordati come la generazione che ha fatto chiudere i cinema».

Con l’esplosione dello streaming è sempre più forte la concorrenza tra grande e piccolo schermo?

«Ora più che mai. Fino a 10 anni fa la concorrenza era tra i diversi film in programmazione: si usciva per andare al cinema e poi si sceglieva. Oggi è tra l’enorme offerta fruibile dal divano e andare al cinema. I muscoli delle piattaforme sono molto tonici, perciò siamo in un momento di svolta, quest’anno capiremo che ne sarà della sala cinematografica. Credo che dobbiamo tutti dare qualcosa in più. A cominciare da noi autori: il pubblico ce lo dobbiamo meritare più che mai, convincendolo a regalarci mezza giornata per uscire di casa, cercare parcheggio… Detto questo, non demonizzo le piattaforme».

Supereroi è coprodotto da Amazon Prime.

«Ci andrà alla fine della sua vita in sala. Mentre la piattaforma veleggia da sola, la sala ha bisogno dell’aiuto delle istituzioni oltre che degli autori».

Che cosa intende per aiuto delle istituzioni?

«In qualsiasi settore, dalla musica al cinema al teatro, per avere un pubblico colto serve un’educazione. Il cinema dovrebbe entrare nelle scuole. In un’epoca in cui i ragazzi si nutrono di audiovisivo, penso che potrebbe essere uno strumento didattico complementare alle lezioni tradizionali su tanti capitoli della nostra storia. Un produttore francese mi raccontava che nel suo Paese la passione per il cinema la inculcano a scuola fin da bambini. È qualcosa di imprescindibile, mi diceva, come per voi italiani la cultura del cibo. In Italia non si berrebbe mai un buon vino in un bicchiere di carta o non si mangerebbe la carbonara da un barattolo. Così, da noi si impara presto a guardare i buoni film in sala».

Da spettatore che cosa predilige?

«Sono onnivoro, ma preferisco il cinema italiano, per vedere nuovi autori e nuovi attori. Mi piace provare tutte le emozioni che il cinema offre, dalla risata alla riflessione, dalla fantasia alla paura. Ma più di tutte amo le storie che mi smuovono qualcosa nella pancia, che mi commuovono».

Con È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, Diabolik dei Manetti Bros, il prossimo Belli ciao con Pio e Amedeo il cinema italiano sta rialzando la testa?

«La qualità c’è, ma il momento rimane difficile. Soffre tutta la filiera produttiva. In alcune città si registrano cali del 70% che non permettono alle sale di sopravvivere. Con la pandemia si è radicata l’abitudine di godersi i film a casa con televisori sempre più grandi. Come detto, sarà un anno decisivo. Oltre alle istituzioni e agli autori, anche gli esercenti devono fare la loro parte affinché andare al cinema sia un’esperienza sensoriale appagante, con sale più attrattive, schermi davvero grandi, audio definito, poltrone comode…».

Per finire, in quella canzone Dalla si chiede per conto di Anna e Marco «dov’è la strada per le stelle»: lei ce l’ha una risposta?

«Magari l’avessi. Più che la risposta è importante avere la domanda, perché ci stimola a cercare».

 

 

 

«M’attraggono le vite degli altri, diverse dalla mia»

Regista anomalo, cineasta aristocratico, autore rarefatto che non ama riflettori, flash e passerelle. Uberto Pasolini è un italiano che vive a Londra, fa il produttore cinematografico (Full Monty – Disoccupati organizzati tra gli altri) e dirige un film ogni sei anni. Storie semplici, antiretoriche. Raccontate per sottrazione, come dicono quelli colti. Il suo Nowhere special – Una storia d’amore, elogiato alla Mostra di Venezia nel 2020 e ora nelle sale, narra la vicenda di John, un lavavetri di Belfast con ancora pochi mesi di vita, che cerca una famiglia adottiva per suo figlio Michael di 4 anni. Un film di gesti, sguardi e silenzi.

Chi è Uberto Pasolini?

«Sono un italiano nato a Roma, cresciuto a Milano e che ha finito gli studi in Inghilterra. Dopo tre anni in una banca d’affari ho scelto di dedicarmi al cinema. Ho un unico passaporto italiano, anche se vivo a Londra da 40 anni. Londra permette di restare quello che sei pur facendoti sentire parte di una città cosmopolita».

La generalità completa è Uberto Pasolini dall’Onda: ha origini nobili?

«Siamo una vecchia famiglia di Cotignola, nel ravennate. Ancora agricoltori».

Ma nell’albero genealogico compaiono Luchino Visconti e Carlo Ponti: si direbbe che il cinema ce l’ha nel sangue.

«La connessione con la famiglia Ponti deriva da un antenato di mia bisnonna Maria Ponti, ma non sono discendente di Carlo. Da parte di madre invece, uno dei fratelli di mio nonno era Luchino. Il fratello di mia madre, Eriprando Visconti, era anche lui regista teatrale e cinematografico. Non so se ho il cinema nel sangue, ma se qualcuno dicesse a Luchino che uno dei suoi tanti bisnipoti si occupa di cinema, credo guarderebbe ai miei film con scarso interesse. Non è corretto collegare il mio lavoro al suo, però, certo, quando uscivano i suoi film, andavamo a vederli».

Quali erano i suoi interessi da giovane?

«Il cinema era il più importante, non per ragioni di famiglia ma perché a Milano le ragazze non mi filavano. Perciò trascorrevo i pomeriggi nella Cineteca di San Marco, a un passo dal Parini, il ginnasio che frequentavo».

Com’è arrivato in Gran Bretagna?

«Mi sono iscritto a un collegio internazionale in Galles, dove mi aspettavo che le ragazze di tutto il mondo si interessassero di più a me. Ovviamente non fu così, ma ormai ero lì».

Fu una decisione autonoma e i suoi genitori non obiettarono?

«Una decisione autonoma come lo può essere a 17 anni. Mio padre non era convinto, mia madre avrebbe permesso qualsiasi cosa per favorirmi. Quando il liceo accettò la domanda mi lasciarono andare».

Come mai una persona con un albero genealogico così racconta al cinema storie semplici e marginali?

«Per la curiosità di vite meno privilegiate della mia. La curiosità per l’altro da me, per chi ha difficoltà. Trovo i mondi e le situazioni sociali diverse dalle mie più interessanti della mia».

Cosa non le piace della sua classe sociale?

«Non saprei. La mia classe sociale la conosco, sono spinto dalla curiosità verso ciò che conosco meno».

Dove ha pescato la vicenda del protagonista di Nowhere special – Una storia d’amore?

«Era una notizia di cronaca su un quotidiano inglese».

Com’è diventata un film?

«Ho contattato i servizi sociali competenti del caso. Ma non mi hanno detto niente di più di quello che diceva l’articolo: un padre di 35 anni senza una famiglia propria, un bambino di 4, la madre che li aveva lasciati poche settimane dopo la nascita, condizioni economiche molto limitate perché il padre non aveva un impiego fisso».

Che cosa l’ha colpita di più?

«Il dilemma del padre. Ho tre figli e mi sono chiesto cosa avrei fatto nei suoi panni. Sia a proposito della scelta sul futuro del figlio, sia a riguardo della condivisione con lui della situazione».

Dirgli che sta per morire?

«Forse bisogna dirglielo, forse no. A me piace il viaggio emotivo e psicologico del padre che parte da una certezza per arrivare a un’incertezza, alla difficoltà di prendere una decisione per il futuro del bambino. Qui si concretizza il suo amore».

Nella difficoltà a individuare il posto speciale: è questo il senso del titolo?

«Il senso del titolo è anche più generale. La storia si svolge in un posto che non è necessariamente speciale, con persone non speciali perché potremmo essere tutti noi. E la risposta finale, se c’è, è in un viaggio in un posto neanch’esso speciale».

L’incertezza del padre deriva dalla ricerca della perfezione per il bambino?

«Cerca la perfezione che non c’è e non ci può essere. E finisce per accettare la propria incapacità di scegliere per suo figlio».

Anche se poi sceglie.

«A ben guardare è il bambino a farlo. Le tante famiglie adottive che ho incontrato prima e dopo il film mi hanno dato letture molto diverse tra loro. Non c’è un unico modo di capire la storia, non sono un autore che vuol dare un messaggio. Ho tentato di fare una specie di documentario, raccontando alcune settimane del rapporto d’amore tra un padre e suo figlio. E lasciando allo spettatore cogliere ciò che vuole di questo rapporto, negli eventi in cui si imbatte».

È stato difficile raccontare questa storia senza cadere nel sentimentalismo?

«Quando ho pensato che il fatto di cronaca potesse diventare un film ho avuto chiaro che l’unico modo di raccontarlo era usare un linguaggio il meno drammatico possibile. Evitare forme di sentimentalismo e lacrime facili, scegliendo una recitazione asciutta e un uso della musica e della macchina fotografica sobri. Preferisco lavorare sotto le righe».

È favorevole all’adozione da parte di persone singole?

«Sì. In Inghilterra c’è da tanti anni e da quello che so funziona bene. Ho avuto molti incontri con persone che lavorano nel campo dell’adozione, che stavano adottando o avevano adottato. In tante famiglie con un genitore ho visto risultati simili a quelle con due genitori. Anzi, in alcuni casi c’è più stabilità perché non c’è rischio di separazione. So che la legislazione italiana ancora non lo permette. Ma la grande differenza tra il numero di bambini che hanno bisogno di essere adottati e il numero di famiglie disposte a farlo si ridurrebbe di molto se si permettesse alle famiglie monogenitoriali di adottare».

Ritiene che l’adozione possa essere un’alternativa alla fecondazione eterologa e alla pratica dell’utero in affitto?

«L’adozione è sempre un’alternativa. Le ragioni che portano all’adozione sono varie e a volte diverse anche all’interno della stessa coppia. Ciò che conta è che si faccia per amore. Ma, come non mi sento di giudicare le ragioni che portano all’adozione non lo faccio per chi arriva alla genitorialità con la fecondazione artificiale, a causa di una situazione medica o, con l’utero in affitto, a causa di una condizione sociale. Essendo fortunato come padre di tre figlie, non sono la persona giusta per giudicare».

Condivide l’espressione di Charles Peguy secondo cui il più grande avventuriero del mondo, il più coraggioso, è il padre di famiglia?

«Non la condivido».

Neanche pensando al lavavetri di Belfast?

«Invece di cercarsi un’altra donna, è stato coraggioso a educare suo figlio da solo. In questa scelta c’è il suo essere speciale. Tantissime madri lo sono. Posso dire che l’essere genitore è il mestiere più difficile tra quelli che ho fatto, banchiere, produttore, regista».

Quali sono i suoi punti di riferimento cinematografici o artistici?

«Il neorealismo italiano e la commedia italiana anni Cinquanta e Sessanta, Mario Monicelli in particolare. Poi i grandi autori internazionali. Più recentemente mi sono avvicinato al cinema di Yasujiro Ozu, che sa essere profondo e universale mantenendo un linguaggio sobrio».

Anche Still life, la vicenda del funzionario comunale che cerca i parenti delle persone morte in solitudine, è tratto una storia vera?

«È derivato dalla lettura di un’intervista a una impiegata del comune londinese di Westminster che raccontava il suo mestiere. Era un film su un mestiere che nasce dalla solitudine di questa nostra società contemporanea».

Come sceglie le sue storie?

«Ho poca immaginazione e mi capita, tre volte in 12 anni, di leggere qualcosa in un quotidiano che poi diventa un film. Sono le storie che trovano me. Non leggo i quotidiani per aggirare la mia carenza d’immaginazione, però succede».

Cosa significa che in entrambi questi film ricorra il confronto con la morte?

«È una situazione sia casuale che marginale. Il primo film è sulla solitudine raccontata da una persona che si occupa di chi muore solo. L’ultimo è la storia di un amore che si prepara a una separazione, non tanto alla morte. Sarebbe stato lo stesso se il padre fosse stato condannato a 30 anni di galera».

Il suo primo lavoro nel cinema è stato nella troupe di Urla del silenzio?

«Esperienza bellissima, ero l’ultimo degli assistenti alla regia. Al mio primo lavoro ho visto il cinema al suo massimo in termini di ambizione, qualità e avventura».

Un grande film, rarissimamente riproposto.

«Io ho continuato a lavorare con il suo produttore, David Puttnam, per altri 10 anni».

Dopo il successo di Full Monty – Disoccupati organizzati ha diretto tre film, uno ogni sei anni. Che rapporto ha con la regia?

«Non sono un regista di professione, ma un artigiano del cinema. Per caso, tre volte, mi sono trovato a fare anche la regia di sceneggiature che avevo scritto. In Inghilterra il lavoro di produttore permette di avere un coinvolgimento e un’influenza sull’opera. Tutti i film che ho realizzato come produttore sono nati con me e non dall’idea di altri registi».

La Brexit la spinge a tornare in Italia?

«Non tanto la Brexit quanto l’età. Le figlie sono grandi e hanno la loro vita. E io più invecchio più mi mancano le radici».

La pandemia ha complicato ulteriormente la situazione?

«Non particolarmente. Spero, come tutti, che questa tristissima pagina si chiuda il più presto possibile. Il governo inglese non si è dimostrato all’altezza della situazione, mentre il governo italiano e soprattutto gli italiani si sono rivelati seri nel confrontarsi con questa crisi».

Ci può anticipare la prossima storia?

«Lavoro in contemporanea su molte idee, non so quale sarà la prima a spiccare il volo. È un’incertezza stimolante anche non sapere se sarà una produzione o una regia. Sarà una sorpresa del 2022».

 

La Verità, 24 dicembre 2021

 

«Litigo con quelli che amo. Anche con Dio, ma…»

Travolgente, istintivo, spudorato. Privo d’inibizioni e remore. Uno che non distingue tra vita e arte e dice sempre quello che gli passa per la testa. Pronto a rivelare vizi e debolezze. È Alessandro Haber: 120 film e oltre 50 opere teatrali. Nato a Bologna nel 1947, da padre ebreo rumeno e madre cattolica. Per Pupi Avati è «il migliore attore italiano in circolazione». Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini), scritto con Mirko Capozzoli, è la sua autobiografia pubblicata da Baldini+Castoldi. Un flusso di coscienza di 430 pagine intrise di sfuriate, sesso, notti di poker, tradimenti. Tutto improntato alla sincerità più totale. A volte, pure troppa.

Stefano Bonaga la definisce «un uomo evento» che mette in scena sé stesso, Alessio Boni «il cinghiale». Lei come si definisce?

«Tutt’e due insieme: un cinghiale evento. Sì, ho un po’ l’indole del gorilla e mi piace mangiare con le mani. Tra l’uomo e l’artista privilegio l’artista, perché davanti alla macchina da presa sono me stesso».

Ama più le donne o il mestiere di attore?

«Per me recitare, anche se non amo questo verbo, è come fare l’amore. Le donne venivano dopo il lavoro e si sentivano trascurate. Anche per questo mi hanno mollato. Giustamente».

Quante sono state le potenziali donne della sua vita se non avesse avuto in testa il cinema?

«Ne ho avute tante, ma quasi sempre capivo se erano storie che potevano durare o no. Lo capivo dalla dolcezza, dalle forme, dallo sguardo… Se provo un sentimento lo manifesto, può essere un gioco, una fantasia… Dopo un po’ di anni con la stessa, la passione declina. Avrei voluto imitare mio padre e mia madre che sono stati insieme tutta la vita e hanno visto crescere le rughe dell’altro. Invece ho tradito».

E lo è stato. Per lei è peggio esser traditi da una donna o il telefono che non squilla?

«Se il telefono non squilla vuol dire che non lavoro e non raggiungo quelle piccole felicità che mi fanno stare bene. Allora vado in crisi anche con le persone che mi stanno vicino. Se devo scegliere, preferisco il tradimento di una donna».

Da giovane amava il mestiere anche più della politica e delle manifestazioni?

«Nel Sessantotto avevo 21 anni e i miei sogni cominciavano a concretizzarsi. Partecipando alle manifestazioni temevo di essere coinvolto in qualche disordine e di rovinarmi la faccia. Tifavo per il Sessantotto e la sinistra, certo; come si tifa per una squadra di calcio. Ero concentrato a cercare i registi, i ruoli, a telefonare…».

Scrive che il lavoro lo ha salvato: da cosa?

«Potevo fare la fine di Gigi Baggini, l’attore fallito interpretato da Ugo Tognazzi in Io la conoscevo bene. Se non avessi avuto talento non so la mia mente e il mio corpo come avrebbero reagito».

L’ambizione di essere Marlon Brando si capisce, ma Gigi Baggini?

«Era un fallito che elemosinava una parte, una figura che mi ha devastato. Sperando di essere ingaggiato si esibisce in un tip tap che soddisfa solo il cinismo dei presenti. È stato un monito, perciò l’ho citato in tre film. Anche nella serie di Carlo Verdone il mio cameo è lui».

Con il suo talento avrebbe potuto avere ancora più successo: cosa l’ha frenata?

«Forse il mio carattere, se fossi stato uno che conta fino a dieci… Se fossi nato dieci anni prima, magari i mostri del cinema sarebbero stati cinque (I 4 riconosciuti erano Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi ndr). Però ho avuto le mie soddisfazioni. A teatro reinvento i personaggi, anche i critici riconoscono che il mio Zio Vanja ha qualcosa di unico».

In La cena delle beffe diretta da Carmelo Bene si fece dare 70 ceffoni veri.

«Sfido qualsiasi attore a prenderli. Tornaquinci era un personaggio che non volevo fare. Il copione prevedeva che dovevo prendere una sberla, io proposi di farmene dare 70. Bene approvò: “Grande Haber, geniale”. Divenne una delle scene di culto. Quello che me le dava diceva che gli faceva male la mano. Capisce? Lui a me. Io non le sentivo perché quando sei sul palco non senti niente. Alla fine delle repliche avevo un callo sul viso».

Chi era Carmelo Bene?

«Un artista, un poeta unico. O l’amavi o ti stava sul cazzo. Era di un altro pianeta. Un trascinatore, anche un uomo fragile, con tutti i suoi difetti, in questo ci assomigliamo. A me la perfezione mi fa cagare».

Qual è l’episodio che ricorda con più piacere?

«Quello che avvenne sul set de Il conformista di Bernardo Bertolucci, con Stefania Sandrelli e Jean-Louis Trintignant. Il primo giorno di prove fu rinviato perché morì la bambina di 10 mesi di Trintignant. Due giorni dopo iniziammo a girare. Io ero un cieco ubriacone di idee socialiste e dovevo raccontare una barzelletta sul Duce, prima di essere malmenato da un fascista. Trintignant assisteva, assorto nei suoi pensieri. Allo stop di Bertolucci scoppiò l’applauso e mentre le comparse si complimentavano sentii battermi sulla spalla: “Merci, vous êtes vraiment un grand acteur” (Grazie, lei è davvero un grande attore ndr). Con quello che stava passando in quel momento, Trintignant si era congratulato con un attore sconosciuto».

Poi però quella scena…

«Fu tagliata al montaggio per esigenze di produzione. M’incazzai a morte. Bertolucci era molto imbarazzato: “Ti sono debitore”, mi disse».

La ripagò?

«Mai. Anni dopo, quando lo rividi, gli ricordai la promessa. “Mi fai dei ricatti?”, si arrabbiò. Non ci siamo salutati per un po’, poi abbiamo fatto pace. Forse non c’erano i ruoli… Abitavamo vicino, negli ultimi anni lo vedevo in carrozzella e con me era sempre gentile. E poi va bene così anche questo scontro-incontro. Quando ti capita di mandare affanculo Bertolucci?».

Perché secondo lei alcuni registi che la elogiavano non l’hanno chiamata?

«Con Mario Monicelli ho fatto cinque film, ma avrei potuto farne otto se non fossi stato impegnato a teatro. Con Pupi Avati ne ho fatti otto, ma avrebbero potuto essere undici».

Nanni Moretti?

«È vero, nonostante le promesse con lui ho fatto solo Sogni d’oro. Io lo adoro Nanni, mi fa tenerezza. Adesso il carattere si è addolcito. All’epoca gli piaceva che la corte lo ossequiasse. Quando giocavamo a pallone voleva fare il regista anche lì, ma se era il caso, io lo mandavo affanculo. È venuto a vedermi a teatro e qualcosa mi aspettavo… A volte è come per il ristorante sotto casa: non ci vai proprio perché è lì e ti scapicolli dall’altra parte della città, ma magari si mangia meglio lì sotto».

Pupi Avati invece la prese subito per Regalo di Natale.

«Andai nel suo ufficio: “Sono anni che mi fai complimenti, dimostrami che ti piaccio sul serio”. Telefonò al fratello e mi disse: “Sei nel prossimo film”. Non finirò mai di ringraziarlo».

Adesso è quasi un suo attore feticcio.

«Coglie la musicalità e le sfumature, valorizza gli attori. È uno dei più grandi in Italia e forse in Europa. Anche lui ha fatto qualche film meno riuscito, come tutti. Non ha ottenuto tutto quello che meritava perché non fa parte della sinistra cinematografica e gliel’hanno fatta pagare. Io non guardo gli schieramenti, rispetto il talento. Le emozioni non sono di destra o di sinistra».

Chi è il più grande con cui ha lavorato?

«Ci pensavo oggi. Voglio regalare il libro ad Avati e riflettevo sulla dedica. Vorrei metterlo con Monicelli e Nanny Loi. Devo trovare una poetica che racconti…».

Questa trinità?

«Esatto. Ognuno ha la propria personalità, ma io li vedo insieme. Straordinariamente intelligenti anche se narrativamente diversi però accomunati dalla stessa sensibilità».

Qual è stato il suo più grande errore?

«Quando dissi di no a Vittorio De Sica. Che idiota. Quando mi chiamò per Il giardino dei Finzi-Contini dissi che conoscevo a memoria il libro ed ero perfetto per interpretare il protagonista. Ma siccome Giorgio Bassani l’aveva chiamato Celestino per gli occhi azzurri, io non ero adatto. De Sica mi propose di fare Bruno Lattes, ma io m’impuntai e rifiutai. Salvo pentirmene presto, ben prima che il film vincesse l’Oscar».

Perché quando le offrono una parte le capita di chiederne un’altra?

«È successo con Moretti per Sogni d’oro. Rifiutai la sua proposta, gli chiesi d’interpretare lo sceneggiatore sfigato e lui accettò. Ho sempre guardato ai ruoli non ai soldi. Stamattina il direttore artistico del Quirino di Roma mi ha offerto di fare l’avvocato di Testimone d’accusa, il giallo di Agatha Christie. Nel film di Billy Wilder lo fa Charles Laughton. Ma è un personaggio che non evolve. Io prediligo figure più complesse. Così gli ho detto di no, lui mi ha dato ragione. A volte produttori e registi se ne approfittano perché sono un drogato di teatro e dopo un po’ vado in astinenza. Hanno ragione».

Il suo più grande amico nel cinema?

«Giovanni Veronesi. Poi Alessandro Capitani e Nicola Guaglianone. Quelli storici sono Pietro Valsecchi, Massimo Ghini, Rocco Papaleo e Giuliana De Sio. Ennio Fantastichini, Flavio Bucci e Monica Scattini li ho persi».

Cosa vuol dire che «Dio è il mio protagonista»?

«Non sappiamo se c’è o no. Questo mistero ti turba perché non sei sicuro che ci sia. Probabilmente sì, basta guardarsi attorno, la natura… Quando qualche volta lo bestemmio è per stimolare l’idea che ci dev’essere. Non è così stupido da offendersi. Io litigo con le persone alle quali voglio bene non con gli sconosciuti. È un’entità che non vedi, ma speri che ci sia».

Tornando al mestiere, non ama la dizione, la recitazione con il diaframma… C’è il metodo Haber?

«Non lo so. Il perbenismo della dizione non mi convince, un piccolo difetto dimostra che sei vero, credibile. Se non riscrivo i personaggi faccio una lettura. Anthony Hopkins ha vinto l’Oscar come migliore attore per l’interpretazione di The Father – Nulla è come sembra. È un’opera proposta ovunque. Io l’ho fatto per tre anni a teatro e Florian Zeller, l’autore del libro, mi ha detto che la mia interpretazione contiene sfumature che lui stesso non immaginava».

Perché, invece, nella vita vera è difficile fare il padre?

«A teatro lo so fare, nella realtà i critici mi stroncherebbero. Di solito i figli hanno soggezione del padre, mia figlia Celeste no. Se alzo la voce mi ribatte e io m’incazzo come una furia, ma dopo un minuto mi sciolgo come un marron glacé. Forse va bene così».

 

La Verità, 13 novembre 2021

La serie di Verdone, prodotto corale con solista

Autobiografica («al 35%», dice lui), autoironica, comica e malincomica, insomma, una bella serie tv. È Vita da Carlo, 10 episodi di mezz’ora dal 5 novembre su Amazon Prime Video. Carlo Verdone l’ha scritta (con Nicola Guaglianone, Menotti e Pasquale Plastino), diretta (con Arnaldo Catinari) e interpretata. E anche il cast scelto è un bell’esempio di collaborazione e coralità: Max Tortora (che interpreta sé stesso), Monica Guerritore (l’ex moglie), Caterina De Angelis (la figlia), Antonio Bannò (il suo fidanzato), Andrea Pennacchi (Signoretti, presidente della regione Lazio), Anita Caprioli (una farmacista affascinata da Verdone), Maria Paiato (la domestica), Giada Benedetti (la segretaria). Perdonerete il lungo elenco, ma è per dare rilievo al super cast coinvolto dalla produzione Filmauro. Perché, come da tempo si va dicendo, la migliore serialità non ha nulla da invidiare al cinema. Vita da Carlo lo conferma e ribadisce a cominciare dalle scelte degli attori, per proseguire con la qualità della sceneggiatura e le scenografie, la splendida casa del protagonista, la meravigliosa terrazza con vista sulla città ripresa negli scorci meno visti.

All’uscita da una farmacia, davanti all’incidente di un motociclista causa buca del fondo stradale, Verdone si lancia in uno sfogo su Roma poco amata dalla politica e la politica, vista la viralità dell’invettiva, lo arruola immediatamente. Alle prossime elezioni sarà lui il candidato sindaco del partito guidato dal presidente della regione Signoretti. Ovviamente, è solo il pretesto narrativo di una storia che si beve come un sorso d’acqua di montagna, ma si snoda tra incubi, notti insonni e ipocondrie varie, per lo scoramento del povero Carlo.

Assediato dai fan ai quali non riesce a negare un selfie, acclamato dai sostenitori che lo vedono già insediato al Campidoglio, incapace di misurare la propria generosità, Verdone passa dal confortare un’ammiratrice malata di tumore al dissuadere un attore deluso dalla volontà di suicidarsi buttandosi dal Colosseo. Il vero rovello che però lo assilla è la difficoltà a liberarsi dei personaggi dei primi film (Furio, Mimmo, Ivano…), continuamente richiesti dai fan e dal produttore (Stefano Ambrogi), per svoltare finalmente nel cinema d’autore (con relativa, godibile, presa in giro dello stesso). Insomma, una commedia in cui si ride spesso e qualche volta ci si commuove. E alla quale aggiungono freschezza gli imprevedibili camei di Roberto D’Agostino, Antonello Venditti, Alessandro Haber, Rocco Papaleo, Morgan, Paolo Calabresi e Massimo Ferrero.

 

La Verità, 9 ottobre 2021

«Farò la terza dose, ma il pass non mi convince»

Sergio Castellitto non si allinea. Anzi, si potrebbe dire che si ribella. Al pensiero unico, al gne gne salottiero, al chiacchiericcio dei talk show. Per questo, ascoltarlo qualche sera fa motivare il suo «pensiero altro» davanti a Giovanni Floris ha suscitato curiosità e voglia di approfondire. Lunedì lo vedremo su Rai 1, protagonista di Crazy for football, film-tv tratto dalla storia vera di una squadra di calcetto composta da persone con problemi psichiatrici che punta  a partecipare al campionato del mondo della sua categoria. Castellitto sarà Saverio Lulli, un medico visionario e generoso.

Forse troppo?

«La generosità non è mai troppa. Il suo contrario sarebbe la misura, la capacità di essere strategici? Da psichiatra ci caschi per forza, l’emotività ha i suoi diritti. E anche se gli psichiatri cercano di mantenere la giusta distanza, alla fine credo che le relazioni umane, con i loro conflitti, siano la benzina che ci tiene vivi. Parliamo molto della violenza esteriore, ma tendiamo a sottovalutare quella che investe la nostra interiorità».

Perché ha creduto in questo film-tv?

«Il mondo della psiche è importante nel mio mestiere. Gli attori lavorano molto sul “materiale emotivo”, mi sto autocitando. È un mondo che ho sempre frequentato fin da Il grande cocomero di Francesca Archibugi e poi nelle tre stagioni di In Treatment per Sky».

Poi c’è il calcio.

«Uno sport che è un gioco. Ma è anche una metafora, con due squadre, quasi due eserciti che si affrontano per prevalere e che offre la possibilità di raccontare la solitudine. Questi due gruppi di ragazzi trovano nel gioco una possibilità quasi terapeutica di mescolare le loro solitudini e di comprendere meglio la propria individualità. Infine, mi piaceva che al centro ci fosse non uomo perfetto, ma un padre e marito imperfetto. Spesso sono le nostre imperfezioni a renderci speciali. Perché dovremmo cominciare a chiederci cosa voglia dire essere normali e cosa non esserlo».

C’è bisogno di storie costruttive dopo quello che abbiamo passato e stiamo passando?

«C’è bisogno di dimenticare. Ma anche di impreziosire ciò che ci è accaduto, per esempio attraverso l’attività di noi artisti. Dobbiamo essere disposti a raccontare l’intimità di questa immane tragedia. Non ho mai creduto che saremo stati migliori. Rispetto a cosa? Purtroppo il dibattito politico mi dà la sensazione che i rancori e gli odi siano tornati a essere materia da prima serata».

Perché nonostante la riapertura al 100% le sale cinematografiche non si riempiono?

«C’è una sorta di ginnastica riabilitativa che ognuno di noi deve fare. Abbiamo voglia di riprendere i riti della socialità, il cinema, i concerti, il ristorante. Ma dopo due anni di isolamento e solitudine, una certa titubanza è comprensibile e legittima. I media non in crisi sono l’oggetto che tutti abbiamo in salotto e i social. Sono i totem moderni, la Chiesa, il Parlamento, l’opinionismo».

Il pubblico stenta a ritrovare l’abitudine di andare al cinema?

«Tutto ciò che ci costringeva a fare il gesto attivo di andare in un posto, che implicava la decisione di partecipare non è più automatico. Dobbiamo ricominciare. L’unico vantaggio è che vincerà la qualità. I rami secchi saranno tagliati e prevarrà ciò che ha davvero un senso. Sono ottimista senza essere superficiale».

Tra i media che sono cresciuti durante la pandemia ci sono anche i libri, protagonisti del suo Il materiale emotivo: quanto dobbiamo esserne contenti?

«Sì, dobbiamo essere contenti. Pur sapendo che i libri li abbiamo comprati soprattutto su Amazon. In Italia si pubblica una quantità esorbitante di libri rispetto a quanto si legge. Ma la letteratura non è un fatto di quantità perché nasce dentro la solitudine di un artista. Lo vedo con mia moglie, Margaret Mazzantini. Costruire un mondo, raccontare una storia e metterci la propria visione del mondo è un gesto a suo modo titanico».

Le rifaccio la domanda che le fa Yolande nel film: cosa vuol dire che l’attualità uccide?

«E io rispondo come il mio personaggio: “L’attualità ci folgora, ci rende più fragili”. Lui è circondato da amici. Sono i personaggi dei romanzi di Dostoevskij, di Simenon, Don Chisciotte… La sera davanti ai fatti terrificanti che ci raccontano i telegiornali continuiamo a mangiare, indifferenti. Ma se leggiamo in un romanzo di un gatto che muore magari ci commuoviamo. L’attualità ci anestetizza, offrendoci anche l’alibi di essere informati. Io vorrei capire di più di come l’informazione accende e spegne le notizie».

Cosa intende dire?

«Faccio un esempio. Ci siamo tutti fermati davanti a quel bambino lanciato per essere salvato oltre il muro dell’aeroporto di Kabul, ma una settimana dopo nessuno si è più chiesto che fine abbia fatto. Romanticamente, sogno un’informazione che mi dica dov’è finito, se ha trovato una famiglia, se un giorno potrà studiare a Oxford o tornerà a Kabul».

Non si fida molto dei media, mi pare.

«Ora stiamo assistendo al G20, un appuntamento importante e necessario. Ma ho la sensazione che questa rappresentazione somigli alle vecchie parate militari, quando ce ne stavamo dietro le transenne a veder passare i bersaglieri. Come osservava Luigi Pirandello: vedo tante maschere e pochi volti».

Che cosa le ha lasciato l’esperienza di malato di Covid?

«Il sentimento più presente è stata la solitudine. La sensazione di essere caduto nel mistero che questa malattia è stata ed è ancora».

Una solitudine dovuta al fatto che i suoi famigliari non potevano avvicinarla?

«Una solitudine interiore. Ogni malattia in qualche modo consente il riaccendersi di un colloquio con sé stessi. Ascolti il tuo corpo, riguardi al tuo passato, improvvisamente ti trovi su un baratro. Non ne parlato prima perché non mi piaceva un certo esibizionismo della malattia. Quando ne esci tendi a rimuoverla, ma una cicatrice, un senso di fragilità rimane».

La convince l’intransigenza con cui vengono indicate alcune regole di protezione?

«Non mi convince perché nel dibattito in corso, se non ti schieri completamente da una parte, diventi il nemico e sei etichettato come barbaro. Con chi la pensa diversamente da me, preferisco praticare il confronto anziché il conflitto. Lo dico con il green pass in tasca, voglio capire perché resiste questa minoranza. In questi anni si è insistito giustamente sull’accoglienza delle minoranze. Tra coloro che non si allineano ci sono intellettuali, filosofi, una persona che stimo come Carlo Freccero. Non si può accettare che sia assaltata la sede della Cgil, ma nemmeno che si sparino gli idranti contro i portuali di Trieste».

Si è scritto e parlato molto più del primo fatto che del secondo.

«Su questo ci vorrebbe un libro più che un’intervista. La narrazione è decisiva. Un giorno qualcuno potrà stabilire se tutto è nato dal pangolino o da qualcos’altro. Ma di questo non si parla».

E non solo di questo.

«Non ci si interroga sul fatto che un 50% di elettori non è andato a votare perché non si sente rappresentato. Ci sono degli establishment che si combattono. Se si continua fare buoni contro cattivi non si va da nessuna parte».

Anche perché i buoni sono sempre gli stessi.

«È pleonastico dire che siamo contro la violenza. O che gli immigrati vanno salvati. Un problema da risolvere è anche l’ipocrisia dell’Europa. L’uomo si è sempre spostato verso la ricchezza. Ma dobbiamo avere gli strumenti per aiutare davvero chi soffre, sia civilmente che sul piano morale».

I fautori del Green pass intransigente dicono che è garanzia di libertà.

«Io credo che nelle sue modalità conservi delle contraddizioni. Se salgo su un autobus o nel metro non mi viene chiesto niente, ma senza green pass non posso andare a lavorare».

Perché negli altri Paesi europei c’è un’applicazione più tollerante?

«Forse sono meno impauriti di noi. Oppure hanno maggiore capacità di imporre regole di altro tipo. In Italia probabilmente serve a selezionare chi accetta le regole e chi no. Le persone che non si vogliono vaccinare, e che per fortuna non sono la maggioranza, continueranno a non farlo. Una democrazia forte dovrebbe saper gestire anche le minoranze dissidenti. Al limite, imponendo l’obbligo vaccinale».

Che sarebbe incostituzionale.

«Certo, è un paradosso. Io le regole le rispetto, ma questo non m’impedisce di ragionare. Davvero c’è stata la corsa alle vaccinazioni a causa dell’obbligo del green pass? Il governo dia le sue indicazioni e si vada avanti, senza criminalizzare nessuno».

La situazione è così esasperata perché il virus è diventato terreno di scontro ideologico?

«È diventato solo questo. Mentre la verità si raggiunge attraverso il confronto».

Rischiamo di fare del vaccino una nuova religione?

«Lo è già. Lo dico mentre attendo la terza dose».

Però andando al cinema è più contento di avere vicino altri spettatori certificati?

«Relativamente. Un vaccinato può essere contagioso o no? Nessuno è immune nel senso che è totalmente intoccabile. Nelle sale la gente entra con le mascherine e non parla».

Ci stiamo riavvicinando alla normalità?

«Non so definire la normalità. Se si toglie la carne dell’informazione intorno al Covid non so bene cosa ci rimane. Trovo più terapeutico vedere un bel film, leggere un bel libro o ascoltare una bella musica piuttosto che assistere all’ennesimo talk show. Lo dico senza altezzosità. I talk show sono diventati dei casting: si chiama quella giornalista perché sappiamo che litigherà con l’altro ospite e via di questo passo».

Ci si allontana dai media perché sono in gran parte allineati al politicamente corretto?

«Il danno peggiore ci viene dalla cancel culture. Trovo nefasta l’idea di cancellare la storia e l’arte. Oggi Fellini sarebbe censurato a ogni inquadratura. Questo fanatismo ucciderà la creatività. Tutti dovranno allinearsi perché tutti hanno bisogno di denaro. E il denaro te lo dà l’algoritmo. Così lo scrittore non sarà più uno scrittore ma un trascrittore, un pennivendolo. I danni di tutto questo ancora non li immaginiamo».

Dipinge uno scenario cupo.

«Raccapricciante. Ho un figlio di 15 anni che è ancora sanamente eversivo in quello che dice e pensa. A 30 anni dovrà fare i conti con questa cultura. Per fortuna lo abbiamo educato alla libertà e a far girare le idee».

 

La Verità, 31 0tt0bre 2021

«Violenza da condannare, non uso “femminicidio”»

Cominciamo?

«Cominciamo. Però vorrei fare una premessa».

Prego.

«Siccome trattiamo argomenti sui quali le strumentalizzazioni e le mistificazioni si sprecano, voglio dire che parlo da donna occidentale, cresciuta in una famiglia in cui non c’è mai stata alcuna differenza tra uomini e donne. Una famiglia che mi ha inculcato l’idea che lo studio era la strada per l’autonomia. Sono una persona fortunata. Non ho mai sofferto mancanze di libertà o forme di violenza. In collegio dalle suore ho appreso una disciplina positiva. Sono arrivata in Italia a 24 anni con un contratto con l’università di Palermo, imparando presto cosa vuol dire muoversi da sola nel mondo».

L’accento franco-spagnolo, che le deriva dalle origini pirenaiche, spezia di sensualità la voce di Carmen Llera Moravia, scrittrice, autrice, giornalista, vedova di Alberto Moravia, conosciuto a Sabaudia, in occasione di un’intervista su Luis Buñuel. Il loro legame è durato un decennio, dal 1986 fino alla morte di lui, avvenuta nel settembre 1990, sono stati sposati. Nel maggio scorso, Bompiani ha ripubblicato Diario dell’assenza, il libro più intimo di Carmen Llera. Qualche giorno fa, invece, lei ha scritto a Dagospia una lettera di solidarietà a Barbara Palombelli: «Dire che ha giustificato con le sue parole i femminicidi è falso». Per questa intervista non ha posto condizioni, non ha chiesto riletture, non ha fatto le bizze.

Pur di difendere Barbara Palombelli è uscita dal suo guscio?

«Non sto in un guscio, chi vive a Roma m’incontra di continuo, anche se non faccio vita mondana. Non frequento i social, non vado in televisione, Barbara è un’amica. Non avevo visto Forum, guardo appena un tg al giorno, anzi due, uno italiano e uno internazionale. Ma avevo letto gli articoli di Michela Murgia e Selvaggia Lucarelli… Ho scritto, senza dirglielo, perché ho trovato ingiusto che l’abbiano accusata d’indulgenza verso i femminicidi. La sua vita dimostra quanto sia sensibile nei confronti delle persone che subiscono violenze».

Come sono le sue giornate?

«Fin da piccola ho imparato una certa disciplina. Vado a letto alle 21, non esco a cena, se m’invitano ci vediamo a colazione. Mi alzo alle 5 ed esco alle 6 e mezza. Cammino molto, compro i giornali, leggo, mi occupo della Fondazione Moravia, i miei libri sono l’ultimo pensiero. Ogni pomeriggio, vedo un film rigorosamente al cinema».

Ha detto che conduce una vita frugale come i monaci: dobbiamo crederle?

«Diciamo che sono una persona disciplinata. Ho una casa minimalista, con le poche cose che piacciono a me, e tanti spazi liberi perché sono claustrofobica. Forse posso risultare frugale agli occhi degli altri. Detesto i tavolini all’aperto, con persone che mangiano, bevono e urlano a tutte le ore. Roma non ha più un centimetro libero».

Ha detto che la ricerca dei piaceri della carne la annoia: dobbiamo credere anche a questo?

«Non ho mai cercato i piaceri della carne. Se succede, succede. Disapprovo le dipendenze, sia dalle persone che dagli oggetti. Non bevo, non fumo, non mi sono mai drogata. Sono un po’ rigida nei confronti di chi ha delle dipendenze. Le mie sono dai libri, dal cinema e dall’aria aperta. Poi ho molti amici scrittori, registi, persone comuni».

Che frequenta in salotti diurni.

«M’invitano specialmente a colazione. Con Enrico Mentana e Luca Barbareschi facciamo lunghe chiacchierate…».

Cinema, letteratura e niente tv?

«Mi annoia. I talk show non li ho mai guardati, non per questo sono fuori dall’informazione».

Le serie, parenti strette del cinema?

«Non fanno per me perché sono impaziente. Meglio una storia che inizia e finisce in due ore. Amo il rito del cinema, la sala, il grande schermo, le bustine di Haribo, le caramelle gommose. Per questo i bambini vengono volentieri con me. La tv non mi diverte e preferisco dedicarmi a ciò che lo fa».

Per esempio?

«Viaggiare, anche se da un anno e mezzo non mi muovo. Prima della pandemia vivevo tra Roma e Parigi, ora no. M’impegna molto e anche mi gratifica la fondazione. Domenica saranno 31 anni che è mancato Alberto: non è facile gestire i diritti e le traduzioni delle sue opere».

Una persona di buon senso come può immaginare che la Palombelli volesse giustificare i femminicidi?

«Sembra che sui social, che conosco poco, alcune persone vivano in attesa di cogliere qualcuno in fallo, per scagliarsi contro di loro. Poi c’è il conformismo di quelli che si mettono sempre dalla parte giusta».

Se l’argomento è sensibile bisogna usare parole molto controllate?

«Non c’è comportamento esasperante che giustifichi la morte di qualcuno».

Come giudica il fatto che gli attacchi più feroci siano arrivati da donne?

«Ringraziamo la solidarietà femminile. Personalmente, non divido il mondo in uomini e donne né in categorie sessuali».

Si trova in splendida solitudine?

«Per me esistono persone più o meno sensibili e più o meno intelligenti. Moravia diceva: “Mia moglie è molto dura, non è sentimentale”. Sì, in Italia vedo molto sentimentalismo. Ma non sono dura, uso la ragione per interpretare la vita. Non mi sono mai trovata in un mondo nel quale essere donna è un handicap. Anche in Sicilia, a Palermo, dove ha avuto inizio la mia vita da adulta, ho trovato gentilezza e dolcezza».

Dopo la riprovazione della Lucarelli e della Murgia è arrivata quella di Lilli Gruber.

«È vero, ci sono i carnefici e le vittime, come dice lei. Ci sono anche le situazioni tragiche delle donne afghane, del Medio oriente, dello Yemen… Ma una donna occidentale ha gli strumenti per difendersi prima di diventare vittima. Nelle coppie, in famiglia. Se sto con una persona che mi tira i capelli, dopo mezz’ora me ne vado. Si può trovare aiuto in sé stessi e anche da fuori».

Servono più donne in politica?

«Ho declinato più volte l’invito a candidarmi al Parlamento europeo. È un problema mio perché non ho predisposizione per i compromessi e in politica sono necessari. Non è questione di destra o sinistra, voglio essere libera di esprimere quello che penso in ogni momento. Per questo non ho mai preso tessere di partito. Anche le quote rosa… Quel segretario non ha messo donne in lista… Luoghi comuni. Suggerirei di scegliere persone competenti, prescindendo dal genere».

Appena si affacciano, Maria Elena Boschi e Giorgia Meloni sono maltrattate.

«Vengono massacrate per l’abbigliamento o perché hanno un chilo di troppo».

Come giudica il fatto che non ci sia ancora la parità nelle professioni?

«Forse non sono la persona più adatta per parlare di questi temi perché sono molto fortunata. Però mi risulta che ci siano anche donne, non solo uomini, che esercitano violenze su altre donne, nelle università, nel mondo dello spettacolo…».

Nella narrazione corrente le donne appaiono immacolate?

«In Francia si dice intouchables. Io non uso nemmeno la parola femminicidio. Certo, le donne sono più fragili. Ma la violenza è tutta da condannare, anche quella sugli uomini o sulle vittime della pedofilia, di cui si parla meno».

Lei che rapporto ha con le donne?

«Molto complice. La bambina del mio portiere viene al cinema con me. Sono felice amica di Lia Levi che presto compirà 90 anni. Non sono competitiva. Con Dacia Maraini mantengo un eccellente rapporto. Lei è una femminista io no, ma per tutto ciò che riguarda Alberto andiamo totalmente d’accordo».

Come ha vissuto la stagione del metoo?

«Perché, è finita? Continuo a sentire persone che raccontano di esser state violentate 30 o 40 anni fa. Forse sono una delle poche a cui non è capitato. Non dico molestata: c’è differenza. Alcuni anni fa, tra le rovine di Palmira, scappai da un pastore che m’insidiava. Quella sarebbe stata violenza. Non lo è quando qualcuno che m’invita nella sua stanza d’albergo mi apre la porta in accappatoio. Se entri conosci rischi e pericoli. Sbaglierò, ma le rivelazioni 20 o 30 anni dopo mi convincono poco. Nei rapporti tra adulti, con il regista o il produttore, credo ci sia sempre la possibilità di difendersi e negarsi».

Per il pensiero mainstream anche il principe azzurro che bacia Biancaneve è un molestatore.

«Stupidaggini».

Come cambierà la letteratura quando si dovrà sostituire il genere maschile e femminile con l’asterisco?

«La prego, è una forma di conformismo che mi preoccupa molto».

Dovremo cambiare le tastiere per introdurre i caratteri schwa?

«Io non cambio niente».

Il femminismo…

«Che io non ho vissuto».

… con la festa delle donne e il tempo delle donne si è trasformato in donnismo?

«Forse ho un animo maschile, ma detesto le mimose e non festeggio l’8 marzo».

Che cosa pensa dell’ideologia gender?

«Non ho certezze. Se avessi un figlio fluido non so come reagirei».

Fosse in Parlamento voterebbe in favore del ddl Zan?

«Forse sì, ma vorrei documentarmi meglio».

Ultimo libro letto?

«Blu cobalto di Céline Menghi, una psicanalista lacaniana».

Ultimo film amato?

«Supernova con Stanley Tucci e Colin Firth, due attori giganteschi che affrontano temi importanti come l’Alzheimer e l’eutanasia, una soluzione che, da persona razionale, mi trova favorevole. Anche Qui rido io di Mario Martone mi è piaciuto».

Il suo rifiuto di social e televisione è critica della contemporaneità?

«Non è una critica, ma disinteresse. Intrattengo rapporti con persone che scelgo io e sono molte, anche all’estero. Non posso avere rapporti veri con il mondo intero».

Che cosa le ha lasciato il collegio di suore dove ha trascorso l’adolescenza?

«Un senso di ordine che mi è servito a vivere da sola. Penso che la famiglia italiana sia troppo protettiva e non sia un bene rimanere a lungo in casa con i genitori. Ho visto La mala educacion di Pedro Almodóvar e so che esistono perversioni e pedofilia. A me non è capitato, per questo dico che sono stata fortunata. Uno dei miei ricordi del collegio è che quando ci passava davanti il Tour de France uscivo in strada a tifare Poulidor, il mio eroe».

Che cosa le manca di più di Alberto Moravia?

«La sua intelligenza, il suo non conformismo e la complicità che c’era tra noi».

Cosa direbbe del politicamente corretto?

«Non parlo per altri».

C’è qualcosa o qualcuno che le trasmette speranza?

«Sono totalmente fatalista. Il futuro non so cosa sia. Vivo il presente, senza speranza».

Ma non si sta bene.

«È così. Ho vissuto e vivo intensamente, ma l’umanità generalizzata e la globalizzazione non mi piacciono. Che devo farci?».

 

La Verità, 25 settembre 2021