«L’agenda di Draghi mette in mora gli ex comunisti»
Claudio Velardi ha un passato diverso dal presente. È stato uno dei Lothar di Massimo D’Alema (gli altri erano Fabrizio Rondolino, Marco Minniti e Nicola Latorre) che sussurrava all’allora potente premier, mentre negli ultimi tempi si è avvicinato a Matteo Renzi. Napoletano, 66 anni, fondatore ed editore del quotidiano Il Riformista, tiene il blog Buchineri.org, presiede la Fondazione Ottimisti & razionali e insegna comunicazione politica alla Luiss (Libera università internazionale degli studi sociali Guido Carli). Citando Fiorella Mannoia, ha appena pubblicato Come si cambia. Cronache dall’anno zero (Colonnese).
In un suo tweet di qualche giorno fa scriveva che il Pd, «che sarebbe naturaliter più vicino all’agenda Draghi», è invece attraversato da lacerazioni. Perché?
«Penso che Draghi ponga al Pd una scelta drastica: se si riconosce nel piano di lavoro del governo vuol dire che ha un carattere liberal democratico, se gli fa venire il mal di pancia significa che è preso da pulsioni di una sinistra che ha fatto il suo tempo».
La causa delle lacerazioni è la segreteria di Nicola Zingaretti?
«Sì, perché seguiva quelle pulsioni passatiste. Un processo teorizzato da Goffredo Bettini che sosteneva la necessità di far diventare il Pd e i 5 stelle la gamba di sinistra della coalizione. Mentre Renzi e Calenda avrebbero dovuto rappresentare la gamba liberal con cui allearsi».
Il decisionismo e l’operatività di Draghi hanno evidenziato l’inconsistenza del dibattito interno al Pd?
«Draghi ha rovesciato l’agenda Conte, fatta di continue esternazioni che nascondevano l’assenza di decisioni. Il governo Conte è stato il più indecisionista della storia d’Italia, non solo non ha deciso nulla di significativo durante la pandemia, ma neanche prima. Infatti, andava bene ai partiti».
Invece ora?
«L’agenda la fa Draghi e i partiti perdono equilibrio. A cominciare dal Pd, il più innervato nel sistema. Negli ultimi 26 anni ha governato per 17. Si parla del berlusconismo, ma Berlusconi ha governato una legislatura e poco più. Per il resto, il Pd c’è sempre. Per questo è un partito conservatore».
Le ultime esternazioni d’interesse pubblico di esponenti dem riguardano Barbara D’Urso, il direttore d’orchestra Beatrice Venezi e le sardine.
«L’involucro che avvolge la struttura del Pd è fatta di politicamente corretto. Serve a coprire con il belletto il fatto di essere un partito saldamente innestato nel sistema del potere che, intendiamoci, non è di per sé qualcosa di cattivo. Solo che bisogna saperlo gestire, il Pd lo sa fare».
Però la D’Urso, il vocabolario gender…
«Quando va bene si parla di disuguaglianza e di poveri, sebbene il consenso lo si trovi nelle Ztl. Altrimenti si gioca con la D’Urso e le sardine».
Sono fatti casuali o sintomo del distacco dalle emergenze reali?
«Il Pd è insediato nel sistema non nella società. Quello che sta a cuore alla società gli arriva dopo perché non ha le antenne. Si può pensare tutto il male possibile di Matteo Salvini, e personalmente non lo apprezzo, ma gli va riconosciuto che ha battuto il Paese palmo a palmo. Come pure Giorgia Meloni e persino i grillini. Hanno raccolto le domande della società e le hanno trasferite in politica. A mio avviso, commettendo l’errore di non correggerle e di non governarle, come dovrebbe fare la politica».
Il Pd è il partito dell’establishment?
«Dell’establishment diffuso, che comprende le burocrazie statali, locali, gli apparati pubblici, sindacali e delle categorie. La cosa è seria, non sia mai che il Pd sparisse. Berlusconi e il M5s hanno provato a eliminare gli apparati e le burocrazie, ma non ci sono riusciti».
Perché non parla più di lavoro?
«Essendo legato agli apparati non sa che il lavoro è cambiato. Chi si occupa dei rider oggi in Italia? Il Pd è legato a un’idea di lavoro superata che non guarda ai giovani, ma ai protetti, ai garantiti, ai più anziani».
Non parla nemmeno di scuola.
«Se proteggi le corporazioni degli insegnanti, compresi quelli che non vogliono lavorare, non puoi far passare il principio meritocratico. I sindacati vorrebbero estendere a tutti i premi di produttività, questa è la logica… Se sei legato a queste forze non riesci a dare la scossa».
Nominando commissario per l’emergenza il generale Francesco Paolo Figliuolo al posto di Domenico Arcuri Draghi ha messo in mora anche Massimo D’Alema?
«D’Alema è più intelligente della media della classe dirigente del Pd. Il suo limite è che si è fermato alle analisi di trent’anni fa. A volte riesce a rientrare in gioco attraverso qualche persona vicina. Ma le operazioni di potere devono rispondere a un disegno e il suo disegno è sbagliato. Ha detto che l’uomo più impopolare, un uomo del 2%, non poteva eliminare l’uomo più popolare d’Italia. Abbiamo visto com’è andata».
D’Alema, Bettini, Conte: un’intera filiera di potere è finita ai margini?
«Attenzione, Conte appartiene a un’altra filiera. Gli ex comunisti guardano una fotografia seppiata dell’Italia, per questo le loro strategie falliscono. Se un uomo del 2% rovescia l’Italia come un guanto vuol dire che ha il polso della società. Poi non è amato e non sarà votato… ma anche D’Alema non è che abbia i voti».
Conte apparterrà a un’altra filiera, ma si è giovato dei consigli di D’Alema e dell’appoggio di Bettini.
«Conte appartiene a un’altra filiera: non ha l’ideologia ex comunista. Tanto che ha potuto fare il populista duro nel Conte 1 e poi il populista gentile nel Conte 2. Ha le antenne nella società più degli ex comunisti. Anche se ora, fuori da Palazzo Chigi è molto indebolito».
Si rafforzerà candidandosi a Siena?
«Campa cavallo. Draghi ha un’autostrada fino a ottobre, quando ci saranno le amministrative. Certo, deve portare a casa dei risultati, ma i partiti oltre a entrare nei pastoni dei tg non faranno. Se scendi in strada, la gente ti dice: chissenefrega di Salvini e Zingaretti, fate lavorare Draghi».
In un altro suo tweet scrive che «la scelta di domenica riguarda unicamente la piena, totale e incondizionata adesione del Pd all’agenda Draghi». Lei ce l’ha?
«Sì perché sono una persona normale. A un certo punto arriva l’italiano più stimato nel mondo, uno che dà del tu ai capi di Stato e che ha salvato l’euro, certo che gli do fiducia: che problema c’è? Magari tra due mesi mi avrà deluso e cambierò idea».
Draghi ha cambiato i ruoli apicali di gestione della pandemia: ha sbagliato a confermare il ministro Roberto Speranza e la politica delle chiusure?
«La sfida di Draghi si concentra sui vaccini, è una sfida organizzativa, non sanitaria. Ha cambiato i vertici della Polizia, della Protezione civile e il Commissario straordinario: significa che l’impegno è innanzitutto logistico. Sulla parte sanitaria e le chiusure mantiene una continuità che alla fine è secondaria. Gli italiani sanno che per abbassare i contagi bisogna stare un po’ chiusi. Certo, ci vogliono i ristori per le categorie in sofferenza. Ma Draghi guarda oltre, ai provvedimenti per la ripartenza, allo sviluppo quando le vaccinazioni avranno completato il loro corso. Non serve riaprire per qualche settimana e poi essere costretti a richiudere».
Su Letta è molto fiducioso?
«È un liberal democratico, niente a che vedere con gli ex comunisti. Credo che il suo ritorno sia un bene per il Pd e per tutto il sistema».
Quanto resisteranno gli ex renziani?
«Temo che dentro il Pd si stia stringendo un patto che tende a strangolarli in una logica vendicativa. Se accetteranno questa logica, sbaglieranno. Dovrebbero riuscire a resistere provando a incidere con le loro idee. Se usciranno accelereranno la loro fine».
Anche confluendo in Italia viva?
«Se vanno lì non trovano voti. Renzi dovrà aspettare a lungo prima di risalire. Il caravanserraglio del Pd è importante perché, nonostante tutte le crisi, parliamo sempre di consensi su cifre notevoli. Per questo, forse, è stata sbagliata anche la scelta di Renzi di andarsene».
Con Letta segretario la saldatura con il M5s non sarà più ineluttabile?
«Credo di sì. Conte e Letta saranno competitor e si dovranno distinguere. Conte capo dei 5 stelle è la conferma che Zingaretti e Bettini hanno sbagliato i calcoli ed è uno dei motivi principali delle dimissioni di Zingaretti».
Di cosa è sintomo il fatto che 5 degli ultimi 6 segretari (Walter Veltroni, Pierluigi Bersani, Guglielmo Epifani, Matteo Renzi e Maurizio Martina) sono usciti dal Pd o hanno lasciato la politica?
«È accaduto perché il disegno veltroniano del partito a vocazione maggioritaria è fallito. Il bipolarismo è naufragato e alcuni ex segretari hanno creato nuove formazioni, dando vita a una disseminazione pulviscolare della sinistra che è il derivato del clima di rissa permanente che c’è nel Pd».
Degli ex segretari resiste solo Franceschini perché punta al Quirinale?
«Non credo. Franceschini è un dirigente post dc molto laico che gestisce il potere con intelligenza e duttilità».
Franceschini, Letta, Mattarella: si consolida l’asse della vecchia sinistra Dc?
«Che nel Pd le culture Dc siano sopravvissute meglio delle culture ex comuniste è un dato di fatto».
Ha ragione Alberto Asor Rosa quando dice che la connotazione «di sinistra» nelle forze politiche attuali è assente perché hanno smarrito il «rapporto con le classi popolari»?
«Apprezzo Asor Rosa come studioso, ma politicamente non ha mai ragione. Le classi popolari non esistono. Esistono i poveri, i disagiati, gli sfruttati, ma ognuno è un singolo soggetto che ha a che fare con il proprio bisogno. Se si pensa di classificarlo in uno schema si ha una visione ottocentesca. Se fosse così semplice, basterebbe trovarle le classi popolari, per organizzarle. Ma nessuno le trova».
Ha da poco pubblicato Come si cambia. Cronache dall’anno zero, una riflessione sull’anno della pandemia che ha modificato il nostro vivere. Com’è cambiato Claudio Velardi?
«Rifletto molto di più su me stesso e do meno importanza agli aspetti pubblici dell’esistenza. Anche questa è una forma di emancipazione dalla sinistra, la quale tende a pensare che le cose della politica siano più importanti di quelle che riguardano la quotidianità delle persone. Mi curo di più di ciò che conta, la mia salute, la mia famiglia. Di politica mi occupo per diletto, ma sempre di meno».
La Verità, 13 marzo 2021