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«I crimini dei ragazzi? Sono generati dalla noia»

Pedagogista, fondatore di scuole, conoscitore delle problematiche giovanili, Franco Nembrini ha da poco pubblicato Uscimmo a riveder le stelle (Edizioni Ares), una trilogia sulla Divina commedia per ragazzi (scritta con Gianluca Recalcati, illustrazioni di Samuele Gaudio). Ci siamo rivolti a lui per scandagliare le ragioni profonde della violenza che attraversa tragicamente questi nostri tempi. Una violenza apparentemente immotivata di cui sono autori ragazzi e adolescenti.
Professor Nembrini, c’è mai stata un’epoca di violenza quotidiana come quella che constatiamo negli ultimi mesi?
«Credo di no, in dimensioni così ampie, sia sul piano numerico sia come estensione geografica. Credo che non abbiamo mai vissuto un momento così».
In passato la violenza era ideologica.
«Era un fenomeno motivato dall’individuazione di un nemico, per ragioni sbagliate. Non dalla noia e dalla solitudine. Oggi il nemico è la vita, l’esserci, paradossalmente».
In che senso?
«Ripensando alla strage di Paderno Dugnano (un ragazzo di 17 anni ha ucciso i genitori e il fratello ndr), ho l’impressione che viviamo un cambiamento epocale. Da allora nel nostro Paese molti genitori, professori, responsabili di associazioni hanno iniziato a interrogarsi con un un brivido di terrore. Se un papà che non conosco mi chiama per dirmi: “Professor Nembrini io e mia moglie siamo disperati, da quali segni possiamo accorgerci che nostro figlio di 15 anni sta coltivando nei nostri confronti pensieri di morte come quel ragazzo di Paderno Dugnano?”, vuol dire che qualcosa di grave sta succedendo. Vuol dire che si ha la percezione di un Male che può intaccare le radici del rapporto tra gli esseri umani, tra figli e genitori, tra padri e madri e fratelli e sorelle. La paura è sempre stata nemica dell’educazione, figuriamoci questa paura».
Che cosa può voler dire che questi ragazzi uccidono per futili motivi?
«Una ventina d’anni fa fui chiamato a incontrare un ragazzo che, per una sigaretta, aveva ucciso a calci un passante e, dopo qualche anno di galera, ora viveva agli arresti domiciliari. Ero convinto di trovarmi davanti un mostro. Invece, era un ragazzo bravissimo, che frequentava il liceo classico con ottimi voti, figlio di una famiglia per bene. Ascoltandolo mi venne in mente la noia di cui parlava Giacomo Leopardi. A un certo punto, gli ho chiesto: com’è che uno come te compie una violenza del genere? Dopo avermi fissato per un po’ mi disse: volevamo ammazzare il tempo e abbiamo ammazzato il primo che passava. Quindi, il problema non è la violenza, ma uno diventa violento per la tristezza della vita che fa. Nel XXIV canto del Paradiso Dante parla di “questa cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda”. Bisogna essere contenti per essere buoni, non si rimane a lungo contenti se si è tristi».
Poi ci sono le violenze contro i professori a scuola: non si accetta più il principio di autorità?
«È un’altra conseguenza di quello che abbiamo detto. Se insegniamo che il mondo è cattivo, se gli adulti non fanno che lamentarsi, se in famiglia si denigra la scuola e viceversa, dove vogliamo andare? Un ragazzo si sente autorizzato a dire la sua anche con i cazzotti o con un coltello. Non trasmettiamo più speranza ai nostri figli. Sulla scuola è meglio che stia zitto, senza una riforma urgente e radicale non solo non è capace di contrastare questi fenomeni, ma inevitabilmente li produce».
Come mai molti ragazzi, pur vivendo in un relativo benessere, compiono azioni come queste?
«Un benessere non guadagnato nella fatica e nel dolore degenera inevitabilmente in malessere. L’educazione passa attraverso la fatica e l’accettazione anche delle cose che non vanno».
Vale ancora l’analisi che attribuiva le cause alla crisi dei valori o alla mancanza di dialogo fra genitori e figli?
«La crisi dei valori è una motivazione che non mi ha mai convinto. Certo che c’è la crisi, ma ripeterlo serve solo a spostare la responsabilità su un’analisi che non cambia le cose. La crisi è degli adulti che valori non ne hanno perché non li cercano, non perché non ci sono. Se un papà e una mamma passano la vita ad adorare e proteggere il pargolo dal male del mondo non se ne viene fuori. Questi genitori allestiscono crociate contro chiunque lo mette alla prova, a cominciare dai professori per proseguire con i voti».
Colpisce anche l’età di questi ragazzi: li accomunano forse le restrizioni provocate dalla pandemia?
«Indubbiamente, la pandemia ha segnato generazioni che non hanno vissuto per tre anni certe forme di socializzazione. Tuttavia, Alessandro Manzoni diceva che la peste non ha reso più cattivo il mondo, ma ha fatto vedere meglio quel che c’era già».
Oppure il potere catalizzante delle esperienze virtuali?
«C’entrano sicuramente anche queste. Alimentano le peggiori fantasie senza possibilità di paragone con la realtà che, invece, correggerebbe gli eccessi dell’istinto e della fantasia. Anche qui il problema coinvolge gli adulti. Personalmente, proporrei il reato di costituzione delle chat delle mamme della scuola».
Condivide il giudizio dello psicologo americano Jonathan Haidt secondo cui «la generazione ansiosa» è tale perché totalmente assorbita dai social, «un universo alternativo, esaltante, instabile, che crea dipendenza»?
«Sono assolutamente d’accordo. L’analisi delle conseguenze devastanti delle nuove tecnologie è giusta: resta da intendersi sulla terapia».
La partecipazione ipnotica a certi videogame e la passione per i film horror possono precipitare in una sorta di dimensione parallela?
«Contribuiscono a creare la solitudine infernale in cui i ragazzi vivono. Cioè contribuiscono a togliere la responsabilità, che è il modo con cui l’uomo risponde alle sollecitazioni del reale. Se si vive nel virtuale, non si risponde più a niente».
Sempre alla ricerca di scosse adrenaliniche, questi ragazzi non sanno convivere con i momenti di noia e frustrazione e devono cercare vertigini sempre più estreme?
«La diffusione della droga ha questa motivazione. Oggi dobbiamo parlare di nuove dipendenze, per esempio anche dal cellulare. O dalla pornografia».
I lockdown, i social, i videogame hanno in comune l’azzeramento della corporalità, del gioco e della condivisione all’aria aperta.
«Quando parlo di mancanza di rapporto con la realtà intendo esattamente questo».
Come possono aver inciso in questa situazione i nuovi genitori di moda, per esempio i papà amici?
«Il padre amico è un ossimoro linguistico. Un non senso. Il padre è il padre e l’amico è l’amico. In un certo senso, questi ragazzi hanno già troppi amici. Il padre sa dove punta la vita; perciò incoraggia, corregge, perdona, garantisce che la vita possa essere buona. I padri all’inseguimento dei propri figli, che prendono a cazzotti l’allenatore che non l’ha messo in campo, sono l’inizio della fine».
E le mamme spazzaneve?
«Altra tragedia. Impediscono la fatica, lo scontro con la contraddizione, tolgono gli ostacoli in anticipo. Così oggi abbiamo trentenni che sono bambini».
Qual è il ruolo degli adulti nel tentativo di formare questi ragazzi?
«Smetterla di occuparsene. Il segreto dell’educazione è non avere il problema dell’educazione».
Paradosso azzardato?
«Ma che dice una grande verità. I figli imparano da quello che vedono negli adulti. Se vedono la preoccupazione di farne qualcosa di diverso da ciò che sono, si sentono asfissiare. Se invece i genitori vivono una loro certezza del bene della vita e del destino, i figli lo assimilano. Faccio un esempio. Quando ci manca l’aria andiamo in un bosco e stando lì, all’ombra degli alberi, ci ossigeniamo e recuperiamo energie. Il bosco, gli alberi, crescono e fanno il loro, senza imporsi e imporre azioni strane. Noi adulti dobbiamo essere quel bosco, quegli alberi, per i ragazzi. I quali, stando presso di noi, senza che li obblighiamo a essere diversi da quello che sono, crescono e si rigenerano».

 

Il Timone, gennaio 2025

«La nostra grande bellezza è il cristianesimo»

Un libro di rifondazione cristiana. Un saggio che mette al cospetto della bellezza. Una guida alla scoperta delle fondamenta dell’Europa. È tutto questo Dio abita in Toscana. Viaggio nel cuore cristiano dell’identità occidentale (Rizzoli), oltre 400 pagine che intrecciano storia, storia dell’arte, letteratura, filosofia, storia del cristianesimo, agiografia. L’ha scritto Antonio Socci, giornalista, saggista, conduttore televisivo, direttore del Centro studi per la formazione e l’aggiornamento in giornalismo radiotelevisivo della Rai e firma di prestigio del quotidiano Libero.
Dio abita in Toscana. Viaggio nel cuore cristiano dell’identità occidentale: la prima affermazione sembra un postulato. Suffragato da cosa?
«È una citazione del prologo del vangelo di Giovanni: “Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Non è che si è fatto carne e poi se n’è andato o è evaporato, ma “ha posto la sua tenda in mezzo a noi”».
Il sottotitolo invece abbina la storia della Toscana all’identità occidentale.
«Certo. Perché l’identità occidentale è nata in Europa che, in origine, si chiamava cristianità, e si è allargata oltre Atlantico creando ciò che chiamiamo Occidente. Ma l’Italia è stata la sua culla. E il cuore culturale dell’Italia è la Toscana».
Questo libro hai sempre voluto scriverlo o l’ha sbloccato qualche fatto più recente?
«Ci sono due ragioni. Innanzitutto, ha una genesi antica perché a 18 anni ho aderito in maniera più cosciente al cattolicesimo, incontrandolo al liceo in una forma così affascinante da farmi pensare che quella compagnia fosse il posto più intelligente del mondo. Subito, la prima cosa che colpì me e i miei amici fu che tutto, in Toscana, parlava di ciò che avevamo incontrato, di Cristo, e lo raccontava con una profondità e una bellezza straordinari».
E la seconda ragione?
«È una preghiera, un voto, che ho fatto alla Santissima Annunziata cui è intitolata una basilica di Firenze, alla quale sono legato per molti motivi. Infatti, il libro è dedicato a Lei, patrona del santuario. Ma l’Annunziata è rappresentata dappertutto in Toscana: il 25 marzo, giorno in cui si ricorda l’annuncio a Maria, la venuta di Gesù nel mondo, era l’inizio dell’anno nelle nostre città».
È un libro di apologetica?
«È una dichiarazione d’amore. Un viaggio in cui racconto una civiltà che esaltava tutte le potenzialità umane ed esprimeva una profonda unità del sapere e della vita. Piero della Francesca fu un grandissimo pittore – autore di opere memorabili come la Resurrezione, “la più bella pittura del mondo” secondo Aldous Huxley, la Madonna del parto e la Pala di Brera – in grado di rappresentare, per così dire, l’anima dell’uomo che contempla l’eterno. Ma Piero della Francesca scrisse anche trattati di matematica che risultarono utili ai mercanti dell’epoca e ispirarono frate Luca Pacioli, l’illustre matematico considerato fondatore della ragioneria. E come Piero della Francesca, moltissimi altri, da Michelangelo a Leonardo, sono contemporaneamente, pittori, scultori, ingegneri, poeti, inventori».

Ti sei divertito a mostrare la luce di quel Medioevo che la storiografia ideologizzata considera oscuro e a mostrare che è un tutt’uno con Umanesimo e Rinascimento?

«Mi piace paragonare il mio libro all’armadio delle Cronache di Narnia di Clive Staples Lewis. Vorrei accompagnare la gente in questo viaggio in un mondo sconosciuto, in una terra meravigliosa, che è anche un viaggio nella nostra anima, nella nostra origine e nell’identità vera della nostra civiltà. Insomma, un viaggio del corpo e dell’anima, nel quale anche il vino – la Toscana è terra di ottimi vini – ha a che fare con la bellezza e con la salvezza».
Dalla scoperta della corporalità nelle opere d’arte a Giorgio La Pira, storico sindaco di Firenze, che ripeteva che «i veri materialisti siamo noi cristiani» il passo è breve.
«Ma non è un’operazione intellettuale. Maksim Gor’kij, scrittore sovietico amico di Lenin, si confessava strabiliato dalle meraviglie dell’Italia della Toscana in particolare per tutti questi artisti che hanno cercato di rappresentare il volto di Dio. Le opere di Michelangelo, di Botticelli, di Masaccio e Donatello mostravano, come dice il Vangelo, un’umanità che seguiva Gesù perché aveva bisogno di vederlo, di toccarlo, di farsi guarire nel corpo e nell’anima, sapendo che anche il contatto con il lembo del suo mantello poteva essere salvifico. Questa possibilità di contatto fisico è continuata nei secoli, nei sacramenti, con la presenza dei santi, nella devozione alle reliquie, nei pellegrinaggi e anche con l’arte figurativa. Non a caso il cristianesimo annuncia che nell’eternità vivremo la resurrezione dei corpi».
Dimostra che Dio abita in Toscana anche il talento di tanti geni giovanissimi, da Filippo Brunelleschi a Michelangelo, da Donatello a Pico della Mirandola?
«La Toscana era il centro finanziario del mondo, la terra più ricca d’Europa. Nella Firenze del Trecento, una città che promuoveva la cultura, c’era una quantità elevatissima di bambini che frequentavano le scuole. Ma questo non spiega la schiera di geni che si è concentrata in città di pochi abitanti com’erano quelle dell’epoca, a me pare un dono di grazia».
La stessa che tra Firenze e la Val D’Orcia ha generato un’incredibile densità di santi?
«Una quantità di santi e di mistiche dal Duecento al Cinque e Seicento. Era una società con una passione diffusa per il vero, il bello e il bene. Cosa che, a ben guardare, è anche all’origine dell’immensa produzione di opere d’arte».

Santa Caterina da Siena, popolana e analfabeta, fu proclamata dottore della Chiesa da Paolo VI.

«Una giovane donna, coraggiosa e appassionata, che ha cambiato la storia e che la grazia riempì di sapienza».
Altro segno dell’azione soprannaturale è la Divina commedia, un’opera ciclopica che condensa teologia, filosofia, poesia, Aristotele, Platone, Agostino, Tommaso e incredibilmente è prodotto dell’ingegno di un sol uomo.

«Un uomo esule che andava ramingo, non se ne stava comodo in una villa con una ricca biblioteca. Ha scritto il Poema sacro in condizioni materiali disastrose. Un’opera di cui ancora continuiamo a stupirci 700 anni dopo, un poema “al quale ha posto mano cielo e terra”, come scrive lui stesso».

Tuttavia, oggi Dante lo si tira spesso per la tunica, chi lo vede padre della destra e chi come un migrante ante litteram.

«Da sempre si leggono le interpretazioni più diverse. Dante è così grande che non si può ignorare e affascina, ma sembra che non si voglia accettare il suo invito a seguirlo. Il Poema sacro canta il cammino della salvezza dell’uomo che è Cristo e quello con cui non si vuole fare i conti veramente è proprio questo: il cristianesimo».
Che cosa ti fa dire che a Firenze convergono la filosofia di Atene, la religiosità di Gerusalemme, la fede di Roma?
«Lo spiego nel libro in molte pagine e non posso riassumerlo in tre parole. È una sintesi di civiltà grandiosa e mai più superata».

È l’origine dell’Occidente, che nella narrazione prevalente è attribuita ai diritti umani, alle libertà e al benessere portati dal capitalismo e dalle democrazie.

«Sono tutte cose nate in quei secoli, fra Duecento e Cinquecento. Lo scrive addirittura Friedrich Engels nella prefazione all’edizione italiana del Manifesto del partito comunista. Perfino il Welfare è nato in quel tempo, si vada a vedere cos’era per una città come Siena il Santa Maria della Scala».

Poi c’è Siena con il duomo che ha ispirato Richard Wagner per il Parsifal che turbò persino Friedrich Nietzsche.
«Il Parsifal fu uno snodo fondamentale per Wagner: a Siena lui portò a compimento quell’opera e rimase folgorato dal Duomo che ritenne la perfetta Sala del Graal. Da lì iniziò la rottura con Nietzsche che considerava troppo cristiano quel capolavoro, di cui peraltro sentiva il fascino».
Che accoglienza ha avuto finora questo libro?
«Sto viaggiando per presentarlo, non solo in Toscana, e vedo che la gente ne rimane affascinata. Nel mondo intellettuale invece non ha avuto quasi riscontro, forse perché i libri non li legge più nessuno. Mi spiace, perché voleva essere un contributo anche rivolto al mondo cattolico, un invito a ritrovare il respiro della bellezza della civiltà cristiana. Ma mi pare che il mondo cattolico oscilli tra la sociologia di quart’ordine ispirata dai media mainstream e un certo intimismo sentimentale. Quando hai dei vescovi che dopo una schieratissima campagna elettorale organizzano Settimane sociali in cui si mettono ancora a parlare di premierato e di autonomia differenziata non si va molto lontano».
Andrai a presentarlo alla Fiera del libro di Francoforte?
«No. Nessuno me lo ha proposto. Evidentemente il mio libro – pubblicato da Rizzoli – non rientra fra le letture di chi si occupa di quell’evento. Ma non è un problema».
Mi risulta che ci sarà uno spazio in cui si parlerà delle radici dell’Europa.
«Bene. Non lo sapevo. Sarei curioso di conoscere com’è composto il panel che affronterà il tema».
Cosa pensi del fatto che i vertici della Chiesa si occupino di riforme dello Stato invece di proclamare l’originalità della pretesa cristiana?
«Ho la sensazione che gli ecclesiastici non siano stupiti e commossi dalla bellezza che risplende nelle cattedrali e nelle nostre chiese. Io vedo un mare di turisti che sono incantati davanti a ciò che scoprono qui da noi, ma nessuno spiega loro che quella bellezza è lo splendore della verità di Cristo. La Chiesa si occupa, appunto, di premierato invece di annunciare la salvezza. Eppure, il turismo di oggi è un pellegrinaggio inconsapevole. Esprime un desiderio di bellezza e di felicità che significa desiderio del volto di Dio. Tomaso Montanari ha scritto che “la ragione profonda per cui ci interessiamo al patrimonio culturale e alla storia dell’arte” risiede “nella sua capacità di separarci dal flusso ininterrotto delle cose che passano, per metterci in contatto con ciò che sta in fondo al nostro cuore”».

Il turismo può essere anche un’occasione di crescita spirituale e umana? 

«Certo. E mi stupisce vedere, in questi giorni, le polemiche contro il cosiddetto overtourism, specialmente quando sono scatenate da chi vuole spalancare le porte all’immigrazione di massa. I turisti vengono da noi, ci portano ricchezza e poi tornano a casa loro. L’immigrazione incontrollata invece…».

 

La Verità, 13 luglio 2024

Dante al cinema ci aiuta a pensare e amare in grande

Dante campione d’incassi al cinema. E chi se l’aspettava? Chi se l’aspettava che il Sommo Poeta sbaragliasse la concorrenza dei filmoni americani e scalasse il botteghino? In pochi, diciamo la verità. Forse nemmeno lui, Pupi Avati, il regista che ha atteso 18 anni per mandare la sua opera nelle sale cinematografiche, azzardava previsioni tanto ottimistiche. Invece, da giovedì scorso, quando ha esordito al sesto posto con 65.000 euro circa, Dante è salito pian piano fino in vetta. Quarto, poi terzo e l’altro ieri, primo, con poco più di 56.000 euro e oltre 10.000 spettatori, in un giorno di partite di Champions League ed eventi vari. L’incasso totale sfiorava il mezzo milione di euro e, va detto, non si tratta certo di una cifra iperbolica. Ma, in tempi di vacche magrissime per i nostri cinema, è un risultato notevole. Prova ne sia il fatto che martedì il film di Avati (prodotto dalla Duea Film con Rai Cinema e MG production e distribuito da 01), interpretato, fra gli altri, da un magnifico Sergio Castellitto nei panni di Giovanni Boccaccio «pellegrino» nei luoghi e nell’animo del Sommo Poeta, si è messo alle spalle cartoon come Dragon Ball Super: Super Hero, blockbuster come Avatar di James Cameron e le altre pellicole italiane, a cominciare dallo sponsorizzatissimo Siccità di Paolo Virzì con Valerio Mastandrea e Silvio Orlando, per proseguire con Il signore delle formiche di Gianni Amelio e Ti mangio il cuore con Elodie.

Ma al di là dei modesti incassi delle nostre produzioni, quello che conta mettere in rilievo perché in controtendenza è il caso Dante. È presto per parlare di fenomeno, perché meno di una settimana di programmazione non basta a far primavera. Bisognerà vedere se funzionerà il passaparola e se i risultati dei primi giorni troveranno conferma anche il prossimo weekend. Ma il segnale va colto. Ricordiamoci che stiamo parlando di Dante Alighieri, gigante della letteratura mondiale, ma anche figura che oltre a suscitare universalmente soggezione, per molti è sinonimo di faticosi pomeriggi sui libri. Finora le poche eccezioni considerate in grado di allungare la vita alle agonizzanti sale cinematografiche erano i film di Supereroi, i blockbuster americani, i sequel di titoli di successo (Top gun) con platee di pubblico molto definite. È lunga la lista di opere prodotte per la fruizione diretta nelle piattaforme. O, se distribuite ottimisticamente nei cinema, resistite in sala pochi giorni prima di cedere il grande schermo a qualche commedia godereccia o a qualche cinepanettone. Invece, con Dante, il sismografo segnala che sul pianeta del pubblico italiano c’è vita.

Come detto, non era nelle previsioni. L’exploit ha spiazzato anche un critico attento come Marco Giusti, firma prestigiosa di Dagospia che quotidianamente ci aggiorna su ogni cosa si muova nel cielo della settima arte. Fin dal primo giorno di uscita ha confessato la sua «sorpresa», poi sconfinata in stupore, per il risultato di Dante. Al contrario, Camillo Langone ha raccontato di essere tornato a vedere un film al cinema dopo tre anni di diserzione dalle sale: «Corra a vederlo chi ama la poesia, le donne, il Medioevo», ha scritto sul Foglio. Ma ogni critico e ogni testata ha le proprie idiosincrasie: «A vedere Pupi Avati non ci voglio andare…», ha ribadito Giusti, chiamando in correità altri autorevoli addetti ai lavori che hanno preferito snobbarlo: «E tutti i festival, a cominciare da Venezia, che hanno fatto finta di niente?». Su questo il critico di Dagospia ha ragione da vendere: il film di Avati non è stato considerato dalla Mostra di Venezia, dove invece sono puntualmente passati Siccità, Il signore delle formiche, Ti mangio il cuore… Così ora è facile ascrivere il successo di Dante al cambio di scenario scaturito dalle urne del 25 settembre e all’avvento dell’Italia «melonsalviniana». Personalmente, non credo c’entri granché. Non credo che per andare a vedere un bel film, quando c’è, serva «la vittoria delle destre». Credo, piuttosto, c’entri il fatto che Dante è, appunto, un bel film, che narra, attraverso gli occhi del suo primo biografo, l’amore di un giovane per una ragazza, il cui sguardo gli ha rapito il cuore, lo ha cambiato e, di conseguenza, ha cambiato la storia della letteratura mondiale. Una storia vera. Fatta di esilio, di debiti e di talento artistico. Un film d’amore, di poesia e di grazia, sebbene con l’odore della peste addosso. Perché amore e poesia non sono qualcosa di etereo e sfuggente. Ma pulsioni carnali, sentimenti passionali e ispiratori, come la storia ha dimostrato.

Intervistato sabato scorso dalla Verità, Pupi Avati aveva detto che Dante è «una cartina al tornasole per vedere se c’è un pubblico per un film culturalmente ambizioso eppure accessibilissimo, distante dalle accademie e dalle sbrodolature della fiction». Il primo responso del botteghino sembra dire che questo pubblico, seppur piccolo, esiste. Che esiste un pezzetto d’Italia ancora ambizioso, disposto a pensare in grande e ad appassionarsi al «per sempre» dell’amore. E che rifiuta di accontentarsi della finzione del gossip, del chiacchiericcio e dei turbamenti delle coppie annoiate e ultramilionarie.

 

La Verità, 6 ottobre 2022

«Io, come Boccaccio, esploro l’animo di Dante»

C’è una scena in Dante di Pupi Avati in cui tutto si ferma. Il poeta è ancora ragazzo e sta seguendo Beatrice per le vie di Firenze, nove anni dopo averla vista la prima volta. Svoltato l’angolo di una chiesa, lei si arresta lasciando sfilare le due monache che l’accompagnano, e rimane sola. Dante la spia sbucando dal muro. Allora lei si volge, lentamente. E gli dice: «Vi saluto». È la scena che irradia tutto il film. È lo sguardo che rapisce per sempre il cuore del Sommo Poeta. Che lo cambia. E, di conseguenza, cambia la storia della letteratura mondiale. Uno sguardo. «In questo periodo, nei miei incontri pubblici», racconta Avati, «chiedo spesso alle donne se non abbiano un po’ di nostalgia per un mondo in cui occorrevano nove anni perché una ragazza si girasse per dare un cenno di assenso al suo corteggiatore». La gratitudine che il regista esprime nei confronti dell’autore della Divina Commedia con questo film può coinvolgere chi andrà a vederlo al cinema.

Chi è Dante Alighieri per Pupi Avati?

«È il livello più alto della poesia e della sacralità. Della poesia per la dismisura che ha dispiegato già quando realizzò il prosimetro nella Vita nova. Un componimento al quale si accinse all’indomani della morte di Beatrice, ripromettendosi di scrivere un’opera imperniata su una donna, dicendone “ciò che non fu mai detto di alcuna”. La Vita nova, alla quale nelle scuole nemmeno si accennava, è la password per accedere al mondo dantesco».

E rispetto alla sacralità?

«Ho sempre considerato la Commedia un libro sacro che racconta il cammino di un essere umano che cerca Dio malgrado tutto vi si opponga. Anche la Chiesa stessa, quella dei papi Bonifacio VIII e Giovanni XXII. Dante trova Dio alla fine di vent’anni di accattonaggio, di ospitalità, di un’infinità di debiti lasciati a Firenze, con una condanna a morte che pende su di sé e sui suoi figli».

Lo trova al termine della Commedia o del suo cammino personale?

«I due percorsi coincidono. Alla fine della Commedia nel canto XXXIII del Paradiso pronuncia quella frase “Ed io ch’alfine di tutt’i disii…”. Cioè, liberatomi da tutti i ricatti e le tentazioni del mondo, raggiungo “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Il fatto che questa chiusura della sua opera coincida con la sua morte fa sì che non si possa immaginare un oltre».

L’opera coincide con la vita anche in altre parti?

«Totalmente. Nell’Inferno si dedica a chiudere i conti con quel mondo che gli è stato ostile. Poi, via via, si libera di questo astio, riferito anche a rapporti personali».

Oggi si direbbe che si toglie dei sassolini dalle scarpe.

«Mette all’Inferno persone ancora vive. Per questo dico che l’opera letteraria e il cammino personale s’intrecciano in modo autobiografico, fino a elevarsi attraverso la mediazione di Beatrice per arrivare a Dio».

Perché ci sono voluti 18 anni per realizzare questo film?

«Perché ancora oggi, come dice Giovanni Boccaccio della Firenze dell’epoca, c’è chi vorrebbe veder bruciate le sue ossa. Credo che Dante non sia così amato; nei suoi riguardi si vive un senso d’inadeguatezza, trasmesso anche dalla scuola. Il mio romanzo (L’alta fantasia, Solferino, ndr) e ora il film servono a superare questa distanza, facendolo scendere dal piedistallo. Non sono convinto che tutte le manifestazioni del 2021 per i 700 anni dalla morte ce lo abbiano avvicinato».

Perché lo ha voluto così tanto?

«Per riconoscenza. Quando sento recitare “Guido, i’ vorrei che tu Lapo ed io fossimo presi per incantamento” rivedo il mio Bar Margherita, avverto il sentimento nei riguardi dell’amore e dell’amicizia che hanno reso magica la mia giovinezza. Ecco perché alla fine Boccaccio dice alla figlia, suor Beatrice: “Lo vedo sempre ragazzo”».

È più l’opera di un temerario, di un sognatore o di una persona caparbia?

«È una cartina di tornasole per vedere se c’è un pubblico per un film culturalmente ambizioso eppure accessibilissimo, distante dalle accademie e dalle sbrodolature della fiction. È un film il più sintetico e il più emozionante possibile sulla prima e più grande storia d’amore della letteratura. Non a caso Boccaccio dice che nello sguardo fra Dante e Beatrice c’è tutta l’emozione del mondo».

Il momento in cui si guardano per la prima volta sembra un tempo sospeso.

«Sul set non riuscivo a dire stop e la troupe si chiedeva perché non lo dicessi. Dante ha aspettato nove anni quello sguardo. La potenza della storia è proprio nello sguardo di lei, una Beatrice consapevole di essere Beatrice».

È lei che prende l’iniziativa.

«Lui riceve quello sguardo, lei si volta e gli dice: “Vi saluto”. Anche dopo il suo matrimonio è lei a suggerirgli il sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare”, i dantisti non si sono scandalizzati di questa ipotesi».

Perché la sua chiave d’accesso a Dante è Giovanni Boccaccio?

«Perché, per quanto l’abbia studiato per più di vent’anni, non avrei mai potuto affrontare di petto una figura della sua levatura. Anche nei confronti del mondo accademico avevo bisogno di una mediazione. Boccaccio è quello che lo ha più amato: ha copiato tre volte sia la Divina commedia che la Vita nova. Il suo Trattatello in laude di Dante è la prima biografia. Quando ho scoperto che, dopo la sua morte in esilio, incaricato dalla Compagnia di Orsanmichele, Boccaccio va a Ravenna per portare alla figlia dieci fiorini d’oro come risarcimento simbolico, ho capito di avere in mano uno straordinario pretesto narrativo per raccontare la sua vita. Così, in fin dei conti, Boccaccio sono io».

Ha trasferito a Sergio Castellitto tutta la sua passione.

«Quello che dice, “È il padre di tutte le mie gioie”, è la mia gratitudine».

Suor Beatrice ha lo stesso nome dell’amata.

«Si chiamava Antonia, ma quando sono scappati da Firenze e l’ha oblata in quel monastero, il padre le ha suggerito di prendere quel nome».

Boccaccio che compie un pellegrinaggio nei luoghi e nell’animo di Dante aveva già capito la grandezza letteraria del suo maestro?

«Boccaccio è, a sua volta, un grande letterato. È il primo esegeta dell’opera dantesca. Il padre l’aveva mandato a Napoli presso la Corte Angioina dove, attraverso Cino da Pistoia, aveva appreso i fondamenti del Dolce Stil Novo. Poi Boccaccio manda una copia della Commedia a Francesco Petrarca che l’apprezza con qualche riserva, essendo un po’ invidioso di Dante».

Cosa sta a indicare la frase riferita a Dante e ripetuta due volte: «Sapeva i nomi di tutte le stelle»?

«Che era onnisciente e aveva una conoscenza superiore. Visto da qui appare come un essere eccezionale. Se guardiamo all’albero genealogico degli Alighieri arrivando a Cacciaguida e ai Fontana di Valdipado, nessuno dei suoi avi aveva manifestato qualche talento nei riguardi dell’arte o della letteratura. Erano usurai, commercianti, soldati, persone legate alle concretezze. Quindi è anche un mistero come questo ragazzino abbia improvvisamente manifestato una sensibilità così straordinaria. In un certo senso, questo lo avvicina a Wolfgang Amadeus Mozart».

C’è grande ammirazione in lei per i poeti?

«Certo, anche per quelli del presente che si esprimono per un’urgenza personale. Il poeta non scrive confidando di trasformare la sua proposta in un bestseller o per andare ai talk show o sui red carpet».

Traspare anche un amore per i vicoli, le chiese, le torri medievali.

«Esiste un’Italia straordinaria e impervia, quasi irraggiungibile da una troupe corposa come la nostra. Ma è valsa la pena superare alcune difficoltà logistiche per valorizzare un Medioevo segreto e nascosto soprattutto in certe regioni come l’Umbria. In questo momento il cinema italiano è incentrato nella contemporaneità e riflette poco sulla nostra storia. Sia al cinema che nella serialità si esaltano personaggi irrisolti quando non compiaciutamente negativi e contesti nei quali domina il male».

Prevale un immaginario nichilista?

«Fortemente diseducativo perché si corre il rischio dell’emulazione. Qui ho proposto uno dei modelli più alti della nostra storia, l’italiano più celebre e tradotto nel mondo».

Anche in questo film coinvolge attori eterogenei e dimenticati dal cinema prevalente come Enrico Lo Verso, Leopoldo Mastelloni, Enrico Beruschi…

«È da sempre una prerogativa del nostro cinema. Qui si nota di più perché è un cast di 64 personaggi».

Che cosa può dire un film così al nostro presente?

«Per quanto ci inducano a comportamenti che aumentano le distanze tra le persone anche con i social, in questo film ripropongo la qualità dell’essere umano nella sua sensibilità più elevata. Mentre oggi tutto è bruciato in un attimo, questo film parla del “per sempre”, la locuzione verbale che più mi piace, invece totalmente uscita dal nostro linguaggio. Nessun autore ha più il coraggio di scrivere “per sempre”, nemmeno nelle canzoni d’amore».

Che risposta si aspetta dalle sale a un film ambientato nel Medioevo, intriso di letteratura, sacralità e amore?

«Purtroppo oggi le sale sono una realtà molto sullo sfondo e questo è un dolore enorme. È ovvio dire che un film così, come quasi tutti, in sala ha un impatto totalmente diverso. Credo, inoltre, che ci permetterà di verificare se quando parliamo di cultura lo facciamo perché la riteniamo davvero necessaria, o se lo facciamo solo per accusare i partiti di non averla a cuore. Confido nel fatto che dopo due anni di pandemia esista un pubblico più desideroso di contenuti. E che perciò possiamo tornare a essere più ambiziosi».

Sperava che fosse scelto per rappresentare l’Italia nella corsa agli Oscar?

«Al di là della sua qualità e del fatto che non racconta l’Italia di oggi, pensavo potesse avvantaggiarsi del fatto che è imperniato sull’italiano più noto nel mondo. Invece, nel rispetto delle scelte della commissione, prendo atto che il mio pensiero non è condiviso».

È soddisfatto dell’esito delle elezioni?

«Non me lo chieda, ho già dato».

Da grande cineasta che cosa si sente di chiedere al governo che s’insedierà nelle prossime settimane?

«Un grande ministro dei Beni culturali. Ci manca da molto tempo una persona appassionata, competente e colta. Ultimamente abbiamo concesso priorità alle strategie della politica, a causa delle quali le esigenze di chi opera nei diversi campi della cultura sono rimaste disattese».

 

La Verità, 1 ottobre 2022

«La lettura per dovere salverà i nostri ragazzi»

W la scuola. A un certo punto del suo Contro Pinocchio (Einaudi), titolo da pamphlet più che da memoir, al culmine di una serie di ricordi e citazioni mandate a memoria, Aurelio Picca annota: «Non stiamo a scuola. Abbasso la sguola. W la scuola». Scritto così, con la doppia vu, come si faceva da ragazzini mezzo secolo fa (di solito la vu era rovesciata). E infatti «scuola» sembra rimbalzare da un’altra era. Anacronistica, lontana. Una cosa con i banchi affiancati. La lavagna. La maestra con la messa in piega. Preistoria, in tempi di Dad e Whatsapp. «Oggi la scuola non esiste più, è tutta burocrazia», sbotta Picca dalla sua casa tra gli ulivi sopra Velletri. E nel tono della voce, nell’incalzare del pensiero si avverte tutta la sua carica nervosa, corporale.

Parlavamo della scuola.

«È un grande parcheggio, un tempo di attesa. Chi ci va per imparare? Nessuno. Si va per relazionarsi…».

O per postare i video su TikTok.

«Appunto. Quando ho insegnato, per qualche anno, li facevo leggere e scrivere, leggere e scrivere… Li facevo imparare a memoria i canti di Dante. Adesso arrivano alle superiori che leggono scorrendo le parole con l’indice».

E lei vorrebbe far leggere Cuore di Edmondo De Amicis?

«No, voglio che imparino l’italiano. Che capiscano che cos’è una comunità, una memoria comune, un’appartenenza a una storia. Tanto per cominciare, tornerei a una solo maestra».

Partita persa.

«Probabile. Ma servono insegnanti che sappiano anche loro leggere e scrivere e insegnino la nostra letteratura, non quella americana tradotta. Alessandro Manzoni è modernissimo. Bisogna tornare alla lettura per dovere, che non vuol dire imposta, ma seriamente motivata. In officina se devi usare il tornio devi imparare come si fa. Se vuoi capire chi siamo noi italiani, devi passare dalla letteratura che ce lo dice».

Non Pinocchio, come dice il titolo del libro.

«Si sa come sono i titoli, servono a catalizzare. Più che contro Pinocchio è un libro contro tutti».

Non ci facciamo mancare niente.

«Contro la globalizzazione che ha preso un bel colpo dalla pandemia. Contro il Novecento inteso come secolo breve, che invece non è ancora finito. Contro gli italiani che pensano ancora all’Italia dei borghi e dei souvenir, non certo all’Italia del silenzio e della visione che ho visto da ragazzino».

Pinocchio non le piace perché è un burattino senz’anima?

«Intanto devo dire che ho letto la prima versione nella quale non diventa mai bambino. Lo attacco perché non sta nella realtà, non si fa male a giocare, non c’è la carne. Infatti, non ci dicono di che legno è: faggio, rovere, castagno? Sembra una storia virtuale. Con il legno vero da ragazzini ci facevamo le spade…».

Pinocchio ha ispirato trattati di teologia, di pedagogia, di filosofia perché ha la doppia natura: contestarlo vuol dire privarsi di un pezzo di storia.

«Tutto è partito da una riflessione su cosa far leggere a scuola. Rispetto all’ignoranza dei ragazzi di oggi che non conoscono la storia e la geografia e viaggiano sul computer, Pinocchio non dà risposte. Così, all’inizio abbiamo pensato a un saggetto polemico».

Che poi è diventato un memoir sull’infanzia.

«Faccio la spola tra le memorie letterarie e quelle reali del protagonista. Non è che non veda la metafisica di Pinocchio. Dice persino “Babbo mio vieni a salvarmi”… Solo che non sta nella realtà. Le botteghe dei falegnami non ci sono più, oggi neanche un adulto sa la differenza tra un faggio e un frassino».

Lei preferisce Cuore e I ragazzi della via Paal.

«Cuore è stato scritto a fine Ottocento e ha l’entusiasmo della patria giovane, dell’Italia finalmente unita. Tutta la vita si svolge nell’aula scolastica, dove ci sono i mestieri, gli artigiani, la manualità, le classi sociali. Nei Ragazzi della via Paal invece tutto accade nel campetto, il posto dello scontro con la banda dell’Orto botanico. Che per Ernesto Nemecsek diverrà la sua tomba. Qui la patria è da costruire, è una visione sul futuro che riguarda i ragazzi, ma pure i grandi».

Lei parla dei mestieri, del fabbro e del falegname, ma oggi siamo nell’era digitale.

«Per questo è un libro contro la globalizzazione. Chi si fa i mobili dal falegname? Si va all’Ikea. Non è solo il problema delle merci, dei prodotti, ma pure delle persone. La globalizzazione è standard, interscambio che annulla le differenze, cultura gender avanzata. Non vuole la famiglia, ma single che consumano, che si buttano nella movida, che viaggiano e fanno tutto online».

Dopo il Covid, la guerra in Ucraina ha sancito un altro stop.

«Il Covid ha decretato la caduta della prima globalizzazione, la guerra è il funerale definitivo».

Scrive: «La Russia è il cuore più grande del mondo. Non a caso è il Paese che ragiona in maniera superiore agli altri con il cuore e la vita che vi scorre». Se la legge qualche autore di liste di proscrizione le dispone un Tso d’urgenza.

«’Sti cazzi, dicono a Roma. Se fosse ancora vivo Carl Gustav Jung direbbe che gli americani non possiedono un inconscio collettivo, perché ce l’avevano gli indiani che non ci sono più. L’inconscio collettivo ce l’ha l’Europa cristiana, l’Europa dei miti. Quello più potente ce l’ha la Germania e ha le sue radici in Wotan, il dio della guerra. L’inconscio della Russia si fonda nella cristianità e nella spiritualità, nell’eterna pulsione dei barbari».

Tutto questo per dire cosa?

«Che in questa guerra conta, sì, la struttura, cioè l’economia. Ma contano pure le antropologie e le diverse idee di futuro. Non voglio parlare di guerre di religione, ma mi sembra che si affaccino delle questioni che riguardano il come si deve vivere. Del resto la questione della Russia e dell’Asia viene da lontano».

Lontanissimo.

«Con Giustiniano, Bisanzio era la seconda Roma. Già allora si voleva creare un mondo eurasiatico includendo la Russia. Per alcuni Mosca è la terza Roma. Nella modernità l’unico che ha avuto l’idea di inglobarla e ha parlato di Eurasia è stato Charles De Gaulle che era tutt’altro che atlantista. Voglio dire che non possiamo respingere la Russia, relegarla nell’Oriente».

Finché però c’è uno come Vladimir Putin che invade un Paese sovrano è un’operazione che risulta difficile.

«Putin e la Russia sono due cose diverse. Né noi possiamo risolvere il problema giustiziando Putin perché, a prescindere da lui, la Russia resterà una presenza imprescindibile a tutti i livelli. Hanno fatto fuori gli zar ed è arrivata l’Unione sovietica, è caduta l’Unione sovietica ed è arrivato Putin. La Russia è un’entità culturale complessa con cui fare i conti. Che in qualche modo ci fa da specchio, come noi europei facciamo da specchio alla Russia. In questo confronto reciproco emergono le rispettive contraddizioni».

Nel frattempo, nelle università e nei teatri si cancellano gli scrittori, gli artisti e le opere russe.

«È una bestemmia solo porre il problema».

Mentre lei decanta un passato innocente e carnale, la cancel culture vuole setacciarlo con il perbenismo patinato.

«Stiamo assistendo a un’operazione di cinismo culturale che vuole costruire l’uomo post-umano. Il cyborg, il gender. Meno è cosciente di sé e più l’uomo del Terzo millennio è preda della manipolazione e del controllo».

E recide il suo essere creatura.

«Anche il suo mistero, la sua unicità. Siamo esseri uno diverso dall’altro. Invece si vuol rendere tutto uguale e insapore, uniformando gusti e desideri. Basta guardare la pubblicità, gli ammiccamenti, la convergenza sugli stessi gadget. È la distruzione del sacro, dove creatura e natura si incontrano rispettando le diversità. Siamo a un passo dall’apocalisse, dalla fine dell’umanità».

Spariscono anche l’affettività e il sesso?

«Siamo nel post-pornografico. Si parla di sesso perché non si fa più. La prima cosa che ti mandano sono le foto nude, non si ha più il coraggio dell’incontro. Oppure è solo narcisistico, una pulsione drogata, performativa, sbrigativa. Anche il sesso richiede tempo».

Chi sono i «ragazzi-futuro»?

«Prima o poi, defunta la globalizzazione e visti gli effetti del post-umano, qualcuno, una minoranza, comincerà ad avere a noia l’iPhone e il virtuale e inizierà ad avere una visione».

Scrive che Franti è l’antesignano di Billy Boy di Arancia meccanica: il bullismo di oggi non è nuovo?

«C’è sempre stato. Ma si era allenati a combattere da soli perciò non lo si diceva in casa. Era un rito d’iniziazione, una sorta di apprendistato. Caso mai oggi è aumentata la perversione, la serialità della violenza».

Cosa cercano le baby gang che stuprano in gruppo, agiscono come cosche, si radunano con i social per picchiarsi?

«Esprimono un’impotenza. Una volta ci si batteva uno a uno, corpo a corpo. Adesso in gruppo perché da soli manca il coraggio. Il gruppo copre un’inadeguatezza. Si va in palestra, ci si costruisce una forza utile ad alzare pesi, ma inutile nel quotidiano».

Il sesso virtuale, la pubblicità standard, le palestre, la movida…

«Tutto si uniforma e appiattisce. Anche il turismo e la ricerca della bellezza diminuiscono la possibilità di scelta. Tutti in fila al museo, alla mostra gettonata. La fruizione è schiacciata sull’attualismo e sulle esperienze della maggioranza. Si leggono libri come si guardano i format e si guardano le serie come si leggono i libri. I talenti che portano vera creatività non servono alla cultura globale perché tutti devono somigliare a tutti».

Con la guerra in Ucraina si parla molto di bambini mentre se ne fanno sempre meno.

«È indiscutibile che la morte dei bambini sia la tragedia assoluta. Ma in questo parlarne vedo ipocrisia e cinismo, perché poi nelle relazioni quotidiane, il primo obiettivo è che i bambini non disturbino gli adulti. C’è ancora qualche madre che la mattina prepara al figlio lo spuntino da consumare a scuola? Quello era un gesto rivoluzionario; si fa prima a comprare la merendina industriale».

Le parole salvifiche del libro sono innocenza e patria: dove le rintraccia nella realtà?

«Nella scelta dei rapporti. Nel dire no a questa ondata che travolge l’umano. È una scelta che si paga con la solitudine. Che però, a volte, aiuta a leggere i fatti. Sebbene io pensi che ci sono uomini che nascono con la grazia e la conservano per sempre e altri no, lo sguardo dell’innocenza non spetta più a noi adulti. Forse l’innocenza sta nella libertà di mostrare la propria fragilità. Il che vuol dire anche esser disposti a donarsi. Al contrario del mondo globale che vuole prendere. E mostra solo forza, giovinezza, perfezione».

 

La Verità, 7 maggio 2022

 

 

«Ora il pensiero unico vuole spianare la storia»

Il politicamente corretto ha ucciso il buonsenso. E adesso si prepara a spianare anche la storia e l’arte. È il succo dell’allarme contenuto in Una pernacchia vi seppellirà. Contro il politicamente corretto (Castelvecchi editore), un agile libriccino scritto da Massimo Arcangeli, linguista, collaboratore dell’Istituto della Enciclopedia italiana e della Società Dante Alighieri. Arcangeli è anche curatore di saggi sul linguaggio dei politici (Il Renziario e Il Salvinario, prossimamente Il Berlusconario) e ideatore e organizzatore del Festival della lingua italiana che si tiene a Siena. Nel prossimo, dall’1 al 5 aprile 2020, verrà premiato con lo Zucchino d’oro chi, nell’ultimo anno, si è «distinto nell’applicare, contro il più elementare buonsenso, le regole imposte da una correttezza politica cieca e retroattiva». Il nome del vincitore sarà annunciato dopodomani, 26 novembre.

Professore, può anticiparcelo?

«Purtroppo no perché i nostri cinque giurati stanno ancora valutando. Se vuole, le posso dire il mio candidato preferito».

Prego.

«È il regista Leo Muscato che, per dare un segnale contro i femminicidi, ha capovolto il finale della Carmen di Bizet. Nel libretto originale l’eroina muore pugnalata da Don José, nell’edizione di Muscato, andata in scena al Maggio musicale fiorentino, è lei che uccide lui. Solo che per due volte la pistola vendicatrice si è inceppata. E la vittima, trasformata in carnefice, non è riuscita a sparare, scatenando il riso del pubblico».

Per la beffa dell’intoppo, oltre che per il danno della licenza artistica?

«Esatto. Ma l’episodio è significativo oltre il suo lato comico».

Perché?

«Per la retroattività. La retroattività di queste censure introduce un salto qualitativo. Per proteggere una qualche minoranza, si annulla la distanza tra il presente e un’epoca passata. Si depurano opere di sette o otto secoli fa in base a standard attuali».

Altri esempi?

«C’è solo da scegliere. Ero a Bruxelles quando un’associazione culturale, consulente dell’Onu, propose di non leggere più nelle scuole il XXVIII canto della Divina commedia perché considerato anti islamico in quanto Maometto, divisore della cristianità, è rappresentato squartato in due per la pena del contrappasso, con le viscere penzolanti. In Francia, un organismo che si prefigge d’instaurare l’uguaglianza tra uomini e donne, ha proposto di sostituire l’ultima parola del motto francese fraternité con solidarité o adelphité. Poi c’è il mondo della pubblicità: sulla scia di un autore ha riscritto in chiave parodica le fiabe classiche, sull’altare del buonismo lo spot della Brondi ha fatto andare d’amore e d’accordo Cappuccetto rosso e il lupo. Ad Ascoli Piceno alcune scuole medie hanno declinato l’invito per l’anteprima di Così fan tutte di Mozart perché considerato inadatto a un pubblico di adolescenti. In materia di sesso, la lista è ricca di casi comici».

Tipo?

«La censura operata da Facebook della Sirenetta di Copenaghen per i suoi seni troppo sexy. O, per lo stesso motivo, la celebre Fontana delle tette di Treviso».

La città di Treviso è piuttosto bersagliata da Facebook.

«Nel 2018 il social ha rifiutato le inserzioni della storica concessionaria d’auto Negro, intimandole di rimuovere l’offesa. Ma era il nome di famiglia».

Colpa dell’algoritmo?

«Gli ingegneri di Facebook avevano promesso che avrebbero trovato una soluzione, ma siamo ancora in attesa. Con la tecnica si possono fare miracoli. Almeno creare un algoritmo in grado di distinguere tra un’offesa e un marchio commerciale».

I codici di certi sacerdoti del perbenismo sono più gravi della rigidità di un algoritmo?

«Li metto sullo stesso piano. Non possiamo attribuire a un algoritmo la responsabilità di una regia che non ha previsto la differenza tra il David di Michelangelo e qualcuno che fa dell’esibizionismo. Distinguere è faticoso, l’omologazione di massa preferisce uniformare».

Il conformismo non ha un’origine culturale?

«Certo. Se a un certo punto si decide che padre e madre non vanno più bene e si decide di usare genitore 1 e genitore 2, oppure matria al posto di patria, sono scelte che personalmente non condivido. A quel punto, però, scatta il confronto, si dissente e si controbatte. Ma se si applica il politicamente corretto al Mercante di Venezia di William Shakespeare perché contiene espressioni anti ebraiche e si decide di non rappresentarlo a teatro o non studiarlo nelle università, qui siamo nel campo della pura imbecillità».

La quale è a sua volta la propaggine estrema della dittatura del politicamente corretto?

«O del pensiero unico. Si sa che qualcuno vuole imporlo, ma ciò che più mi preoccupa è l’omologazione generalizzata, l’assenza di resistenza al conformismo. Ancor più quando è retroattivo. Nelle scuole vedo molti insegnanti disarmati di fronte a questa deriva. La accettano supinamente. Invece, è proprio nell’istruzione che deve iniziare un’educazione critica, partendo dal linguaggio. Pensiamo ai dizionari: poniamo di accettare di espungere la parola negro perché ritenuta offensiva. Ma se la togliamo anche dai testi del Settecento o dell’Ottocento operiamo una mistificazione, falsifichiamo la nostra cultura, nascondiamo la verità a chi verrà dopo di noi».

C’è una corrente di pensiero che identifica il politicamente corretto con il bon ton e un maggior uso di mondo.

«Siamo ben oltre, l’espressione giusta è massificazione culturale. Se leggere a scuola il canto di Maometto di Dante o brani del Mercante di Venezia o postare sui social il quadro di Paolo e Francesca nudi di Ary Scheffer crea problemi si finisce per rinunciare. Ma così si perde, accettando una grande privazione perché, poco alla volta, quei canti e quelle immagini smetteranno di circolare. Lascio a lei valutare la gravità di questo impoverimento».

La portavoce delle levatrici inglesi ha dovuto dimettersi per aver detto che i figli li partoriscono le donne. La sua associazione l’ha sconfessata perché con quell’affermazione ha discriminato la comunità Lgbt e perché in Gran Bretagna, in questi casi, al posto di lady si usa il termine menstruator. Siamo alla creazione della seconda lingua di orwelliana memoria?

«È così. La lingua diventa uniforme perché trasmette il pensiero unico. Pensiamo di difendere le minoranze, in realtà le omologhiamo con un linguaggio neutro, asettico. Qualcuno, per fortuna, comincia a reagire».

Chi?

«In America da qualche anno molti gay hanno preso a definirsi orgogliosamente froci. Rifiutano l’edulcorazione del termine gay e rivendicano la loro identità trasformando l’offesa nell’orgoglio della differenza».

La seconda lingua preconizzata da Orwell finge di proteggere le differenze mentre le conforma?

«Uno degli esempi più lampanti è l’handicap. Chi ha vissuto con un disabile sa che vuole essere chiamato sordo o cieco. Dagli anni Settanta in poi, di eufemismo in eufemismo e staccandosi progressivamente dal reale, si è passati da portatori di handicap a diversamente abili, a differentemente abili, a ipovedenti, ipoudenti… Oggi una guida all’inclusione scolastica s’intitola La speciale normalità».

Per non dire anziani si dice diversamente giovani: siamo tutti diversamente qualcosa?

«Diversamente alto, diversamente magro… Nano è spregiativo, grasso anche, così ci sono le modelle curvy, ingentilito dall’inglese. Dobbiamo essere tutti belli, giovani e prestanti. Eliminando la parola che contraddice lo stato di grazia, ci illudiamo di viverlo».

Di che cosa è figlio il «cieco moralismo mortale» che tratteggia nel suo pamphlet?

«Della cultura di sinistra. Da quando alla fine degli anni Ottanta nelle università americane sono stati inventati gli speech codes, i regolamenti che disciplinavano i comportamenti verbali nei campus, la sinistra puritana e bigotta ha esteso questi codici al linguaggio universale. Facendoli diventare un nuovo catechismo acritico e intransigente. Siamo arrivati all’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo… In Europa abbiamo ereditato in modo aproblematico gli aspetti peggiori di questa ideologia».

Che cosa pensa dell’ultima lezione di superiorità di Corrado Augias?

«Mi spiace che si sia espresso in quel modo perché è un amico. Ma non posso condividere quel linguaggio in perfetto sinistrese che esprime un manicheismo nel quale destra è sinonimo di istintualità e volgarità culturale e sinistra di intelligenza, profondità e impegno. Proprio in un momento in cui queste categorie stanno cadendo».

Lei ha scritto Il Renziario: qual è la principale innovazione nel linguaggio di Matteo Renzi?

«Renzi è il più obamiano dei nostri politici. Barack Obama ha portato i social network nella vita politica, Renzi li ha resi una finestra sul quotidiano».

E, parlando del Salvinario, qual è la novità della comunicazione di Matteo Salvini?

«Se nella Seconda repubblica i cittadini hanno cominciato a immedesimarsi nei politici, ora sono i politici che giocano a fare i cittadini comuni. Quando Salvini si mostra in boxer in spiaggia o si fa ritrarre sulla copertina di un settimanale a torso nudo con la cravatta dice agli italiani “sono uno di voi”. Se paragoniamo questi messaggi a ciò che fanno i leader della sinistra vediamo la differenza abissale».

Qual è l’argine critico alla melassa del pensiero unico?

«È la ricerca delle sfumature tra parole, concetti, pensieri diversi. Il linguaggio del politicamente corretto e del pensiero unico è uniformante. Al contrario, il pensiero critico favorisce le differenze e le specificazioni».

Come bisognerebbe fare nel caso della commissione Segre?

«Se servisse a circoscrivere l’antisemitismo nuovamente montante, soprattutto nel Nordeuropa, la commissione sarebbe utile. E può esserlo anche come sensibilizzazione contro l’intolleranza. Ma se si trasforma in un contenitore che fa di tutta l’erba un fascio per mettere la museruola al dissenso, allora non mi trova concorde. Tanto più considerando che, in materia di antisemitismo e razzismo, esiste già un ricco corredo legislativo al quale ricorrere».

 

La Verità, 24 novembre 2019

 

«Vorrei raccontare su Rai 1 il Medioevo di Dante»

Frati sodomiti e maneggioni neanche fossimo nel presente. Il nome della rosa è di sicuro un grande romanzo, un classico dell’intrigo, una saga gotica a tinte gialle; non a caso Umberto Eco ha attinto da Arthur Conan Doyle e dal suo Sherlock Holmes, cui Guglielmo da Baskerville deve svariate somiglianze (oltre alla citazione del Mastino dei Baskerville). Bene, grande opera: ma sempre un Medioevo cupo, peccaminoso, perverso. In una parola, oscurantista, come lo tratteggiano certi stereotipi storiografici. Sembra sia impossibile raccontare l’Età di mezzo com’era: pur con tutte le sue violenze, ma anche un’epoca di religiosità e misticismo profondi, e fiorente di arti, lettere e architettura.

Anche un regista come Pupi Avati rifiuta l’identificazione pedissequa tra Medioevo e oscurantismo. Magnificat, un film del 1993, gli è valso la conquista di tre premi di medievistica: il Jacques Le Goff, intestato all’eminente storico francese, il premio Cecco d’Ascoli e il premio di archeologia medievale intitolato a Riccardo Francovich. «In quel film, ambientato durante la settimana santa del 926 in un’abbazia dell’Appenino tosco emiliano raccontavo un Medioevo diverso da come lo si vede di solito. C’erano le violenze e le atrocità più tremende – io stesso rappresentavo lo squartamento di una donna – ma non tutto era male, peccato e perversione. Era un film in cui, attraverso i protagonisti, raccontavo un clima, delle tradizioni, una cultura nella quale prevaleva la sacralità della vita». Anche I cavalieri che fecero l’impresa, ambientato nel tredicesimo secolo, evidenzia uno sguardo diverso su quell’epoca… «Era la storia di cinque cavalieri che vanno alla ricerca della Sindone – che per noi rappresenta ciò che è il Gral per il mondo sassone – e la riportano in Occidente».

Una storiografia di parte identifica il Medioevo con «i secoli bui» e ora anche la visione della serie tratta dal libro di Eco lo riproduce acriticamente. Avati confessa di non aver visto i primi episodi: «Ma non ho dubbi che la qualità sia notevole», premette. «Più che altro mi lascia perplesso l’idea del remake di un’opera che si è già imposta nel tempo sia a livello letterario che cinematografico. Riproporla ora nasconde l’ambizione di aggiornarla e rinfrescarla. Da autore ritengo sia un atteggiamento vagamente parassitario, che risponde a calcoli di marketing e di indici di ascolto. Questa considerazione vale per qualsiasi remake di opere prestigiose, un po’ come se volessi rifare 8 e ½… E vale anche per la televisione che si fa acquistando format in Spagna o in Gran Bretagna, un’implicita ammissione che noi italiani abbiamo esaurito la vena creativa. Io non credo sia così».

Avati non condivide invece l’obiezione secondo la quale conviene dare priorità alle storie contemporanee e alla tv del presente: «Anche la storia può trasmettere contenuti validi per l’oggi, la tv didattica aveva i suoi pregi», sottolinea il regista. A patto che, nell’intento di attualizzare a tutti i costi un’epoca lontana, si forzino espressioni e situazioni, come quando in un ammonimento di Guglielmo da Baskerville («Mentre noi sogniamo mondi migliori, governanti ciechi guidano popoli ciechi verso l’abisso») molti hanno visto una lezione per l’Italia governata da Lega e Cinque stelle. «Oggi ci scandalizziamo per la violenza di quei monasteri e delle crociate. Ma se pensiamo alle decapitazioni in diretta dell’Isis, forse potremmo essere meno baldanzosi», osserva Avati. «Nei miei film ho tentato di raccontare il Medioevo per come era: un’epoca pervasa dalla sacralità del tempo e del lavoro, dominata dalla presenza di un Dio che non si manifestava, ma era perennemente atteso. Si viveva con la percezione che tutti sarebbero stati risarciti, nell’aldilà. C’era la condivisione della morte, la promessa di un dialogo, di un rapporto che continuava con i cari scomparsi. Questo tipo di immaginazione, questa relazione trascendente, è durata con la nostra civiltà contadina fino al Dopoguerra. Oggi si è completamente persa, l’immaginazione delle nuove generazioni è tutta definita dalle banche dati di Cupertino e dai guru della Silicon Valley. Oggi non credo che Dante Alighieri riuscirebbe a scrivere La Divina Commedia».

A proposito di Dante, di vena creativa e d’immaginazione, Avati coltiva da molto tempo l’idea di portare al cinema e in televisione la vita del Sommo poeta, detto per inciso, coevo di Guglielmo da Baskerville. Nel 2021 ricorrerà il settimo centenario della morte di Dante. «Nella sua opera abbiamo la visione completa dell’universo medievale», sottolinea il cineasta. «Il sommo bene, il Paradiso, compensa l’opera e la creazione del diavolo di cui oggi, eccetto me, non parla più nessuno, preti e genitori compresi». Tornando a Dante, già nel 2001 Avati ricevette l’incoraggiamento da Giancarlo Leone e Stefano Munafò di Rai Cinema e Rai Fiction, di preparare un film sull’autore della Commedia. La fonte scelta dal regista è Il Trattatello in laude di Dante la prima biografia del Poeta scritta da Giovanni Boccaccio. «Nel 1350, 29 anni dopo la morte di Dante, Boccaccio, che era un dantista e aveva già copiato tre volte La Divina Commedia, ebbe l’incarico da una congregazione di Firenze di portare dieci fiorini a suor Beatrice, figlia del Poeta, monaca a Santo Stefano degli Ulivi di Ravenna. Una volta giunto lì», si appassiona Avati, «con l’aiuto della figlia, Boccaccio incontra Piero Giardini, amico del Poeta, e apprende molte informazioni sulla sua vita, dalla data di nascita al luogo dove si trovano gli ultimi 13 canti del Paradiso, l’abitazione del suo esilio a Ravenna. Ne scaturì il famoso Trattatello al quale dobbiamo molto di ciò che sappiamo oggi su Dante».

Al progetto di Avati, un film per il cinema e una miniserie per la Rai, hanno già dato il patrocinio il Ministero dei Beni e le attività culturali, l’Accademia della Crusca con un suo comitato scientifico, e il comune di Ravenna, con il sindaco Michele De Pascale. «Sono sicuro che quando si avvicinerà la ricorrenza del 2021 gli appetiti delle grandi società di produzione si sveglieranno», prevede il regista. «Nella mia sceneggiatura sono protagonisti due dei tre fondatori, con Francesco Petrarca, della lingua italiana. Mi auguro che, vicino alle biografie di Mia Martini e Giorgio Armani, si trovi spazio anche per Dante Alighieri, l’italiano più noto nel mondo. E che a decidere le assegnazioni non siano solo la potenza di fuoco e la forza contrattuale dei soggetti in campo, ma anche la passione, l’originalità della storia e la cura artigianale nel realizzarla».

La Verità, 8 marzo 2019

«Oggi a scuola i ragazzi sono gli ultimi»

Il suo aneddoto sulla pelle dell’orso siberiano mostrata agli alunni sbalorditi e alle loro mamme in fregola protezionista ha fatto il boom di visualizzazioni ed è arrivato su Radio Deejay e Radio 24. Franco Nembrini è un insegnante, un educatore che ne ha viste tante, preside della scuola media La Traccia di Calcinate, nella bergamasca, dov’è nato 62 anni fa a Trescore Balneario, quarto di 10 figli. È una presenza fissa di Tv2000, l’emittente della Conferenza episcopale italiana, dove, dopo le serate sulla Divina commedia e Pinocchio, ora dialoga sulla «bellezza dell’educare» con Francesca Mancini nel programma Siamo noi. Da una decina d’anni non guarda la televisione perché è sempre in giro a parlare di Dante e di educazione. A causa della restless legs syndrome, la sindrome delle gambe senza riposo, dorme un’ora per notte perché, da disteso, patisce forti dolori. È la persona giusta da interrogare sul bullismo nelle classi e non solo.

Dunque: gemellata a un liceo della Siberia, alla scuola di Calcinate arriva la pelle di un orso gigantesco. Nembrini decide di mostrarla ai ragazzini, stesa su enorme tavolone ma, mancando poco all’uscita, ci sono già le mamme davanti al cancello. I bambini sono catalizzati e il preside sta per parlare quando piomba la direttrice: le mamme non vogliono si dica che l’orso è stato ammazzato, altrimenti avvertono il Wwf e gli ambientalisti. A quel punto, Nembrini s’inventa la storia che, siccome in Siberia fa un freddo cane, l’orso è morto di polmonite. Finita la scena, convoca i professori e ordina che la mattina seguente chiedano agli alunni com’è morto l’orso. Risposta unanime, senza eccezioni: è stato ammazzato.

L’aneddoto suggerisce due domande. La prima: quanto il perbenismo è nemico di un sano rapporto con la realtà?

«Quando raccontai la prima volta la storia dell’orso siberiano volevo dire proprio questo. L’eccesso di protezione e di buonismo che vuole evitare ai ragazzi la conoscenza del dolore e della morte mina il rapporto con la realtà. In una classe una bambina chiedeva continuamente alla maestra quando il nonno sarebbe tornato dal suo viaggio. Dai e dai, la maestra convoca i genitori: non ce la siamo sentita di dirle che è morto, per non provocarle dolore. Ecco, è il modo giusto per crescere i ragazzi dentro una bolla irreale, senza malattie e sofferenze. Facendone persone fragili e incapaci di fronteggiare il sacrificio».

La seconda domanda. Le madri davanti alla scuola istruiscono gli insegnanti e i padri a bordo campo istruiscono gli allenatori: chi sono i genitori del Terzo millennio?

«È una questione di orizzonte: se non hai il mondo intero davanti, il bambino diventa, lui, il tuo mondo, e tu diventi contemporaneamente il suo maestro, il suo allenatore, il suo psicologo, il suo amico. Se un genitore sa di avere un compito nella vita, non ha tempo di stare addosso a suo figlio. Questo appiccicamento è massimo con i figli unici. Mio padre e mia madre con 10 figli non hanno mai pensato di rompere le scatole a maestri, professori, allenatori. Mia madre andava a messa tutte le mattine alle 5. Una volta tornò in lacrime perché il prete aveva parlato dell’alluvione del Polesine. Ci svegliò, ci fece dire il rosario e ci invitò a cercare nel nostro cassetto il vestito più bello da regalare ai bambini del Polesine. Pur senza essere mai uscita da Trescore Balneario, aveva davanti il mondo».

Sembra una scena da Albero degli zoccoli, del bergamasco Ermanno Olmi.

«È vero che sono circostanze diverse e non ripetibili, ma i valori fondamentali della vita di cui oggi abbiamo bisogno, lì si vedono con chiarezza».

Un tempo se un professore dava una nota sul diario a casa arrivava la seconda razione. Perché oggi i genitori sono diventati sindacalisti dei figli?

«Per il motivo di cui sopra: difendi tuo figlio da chiunque lo critichi. Se ho il mio scopo nella vita, lascio che faccia il suo sport in pace; se invece da lui dipende anche la mia felicità, non tollererò che lo tengano in panchina. La nostra generazione, che ha provato a cambiare il mondo senza riuscirci, ora riversa sui ragazzi le sue frustrazioni e i suoi istinti di rivalsa».

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